Problemi dell’economia statunitense
Dalla metà del 2007 e, con crescente intensità, per tutto il 2008 e la prima metà del 2009, la più forte ed evoluta economia del mondo è entrata in una crisi recessiva. Iniziata nel comparto finanziario a causa delle insolvenze nel segmento dei cosiddetti subprime mortgages (mutui concessi per l’acquisto di beni immobili a fronte di limitate garanzie personali), propagatasi rapidamente e con un ‘effetto domino’ all’intero mondo della finanza e, da questo, al complesso delle attività produttive, la crisi ha provocato milioni di disoccupati, il fallimento di numerose aziende, comprese multinazionali di grandissime dimensioni, una sfiducia generalizzata e una drammatica caduta del PIL. Nel quarto trimestre del 2008, il PIL diminuiva del 6,3% in ragione d’anno rispetto al terzo trimestre. Nell’insieme del 2008, il suo tasso di crescita è stato del +1,1%, quindi nettamente inferiore a quello del 2007 (+2%), anno in cui aveva già significativamente rallentato rispetto al 2006 (+2,8%). Nell’aprile del 2009 il Fondo monetario internazionale (FMI) prevedeva una riduzione del PIL (−2,8%) nell’anno in corso e una sua stabilizzazione nel 2010. Oltre al mondo finanziario, fra i settori che più di altri hanno risentito della caduta della domanda va segnalato in primo luogo quello automobilistico, le cui principali imprese (localizzate nella regione dei Grandi laghi), insieme alle loro collegate europee, si sono trovate sull’orlo di un fallimento che soltanto il robusto intervento statale sembra avere al momento scongiurato.
Nel 2008, il reddito complessivamente prodotto dagli Stati Uniti si è attestato su circa 14.335 miliardi di dollari, corrispondenti a circa 47.000 dollari pro capite, essendo la popolazione residente pari a circa 305 milioni di persone. Dal 2000 al 2008, la popolazione è aumentata mediamente di poco meno dell’1% all’anno, e il PIL pro capite a prezzi costanti dell’1,2% circa. La struttura produttiva del Paese rispecchia la tipica distribuzione di un’economia all’apice dello sviluppo: l’agricoltura (circa 2 milioni di addetti) contribuisce alla formazione del PIL per circa l’1%; l’industria (circa 20 milioni di addetti) per circa il 20%; il settore terziario per la restante quota. Per far funzionare questo imponente apparato produttivo, gli Stati Uniti importano prodotti energetici per un valore, ai prezzi del 2008, pari a circa il 3% del PIL.
Il 20 gennaio 2009 Barack Obama si è insediato come 44° presidente degli Stati Uniti. Obama è entrato nella pienezza delle sue funzioni nella fase più acuta della recessione, apprestandosi a fronteggiare questa situazione con un background culturale e politico significativamente diverso da quello del suo predecessore, George W. Bush. L’evento è destinato a rappresentare nella storia recente di questo grande Paese una linea di confine, dato che comporterà una diversa strategia economica per far fronte alla gravissima recessione. I primi mesi dell’amministrazione Obama hanno fatto registrare significativi interventi di politica economica. In particolare, sono stati approvati un pacchetto di interventi, per un ammontare complessivo di 787 miliardi di dollari (prevalentemente concentrati nel biennio 2009-10), destinato a stimolare il sistema economico, e un articolato piano di misure a sostegno del sistema finanziario, volto a rafforzare il patrimonio delle banche e a rilevare dai loro bilanci i cosiddetti titoli tossici (titoli divenuti di difficile valutazione e pertanto di fatto invendibili sul mercato) in possesso del settore finanziario. Gli interventi volti a rafforzare le condizioni patrimoniali del sistema bancario si aggiungono ai rilevanti provvedimenti aventi la stessa finalità approvati negli ultimi mesi del 2008 dall’amministrazione Bush.
Questo saggio analizza alcuni importanti fenomeni che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’economia statunitense nei primi anni del 21° sec.: l’elevata dinamica della produttività del lavoro, il declino del saggio di risparmio e il simultaneo accrescersi della ricchezza netta delle famiglie, l’emergere di uno squilibrio esterno storicamente elevato.
Da un punto di vista cronologico, l’analisi non è rigorosamente ristretta ai primi anni del 21° sec., ma comprende anche l’ultimo quinquennio del 20°. I processi economici prima richiamati, infatti, si sono avviati tutti, pressoché simultaneamente, attorno al 1995, e la loro configurazione si è sviluppata nel decennio successivo, per cui un’appropriata descrizione interpretativa della loro evoluzione richiede un confronto tra i due periodi prima citati.
La crisi finanziaria e la recessione da essa innescata non sono oggetto di analisi in questo saggio. Tuttavia, esse saranno brevemente richiamate nel paragrafo conclusivo, soprattutto per analizzare se impongano o meno una riformulazione dei giudizi sull’evoluzione dell’economia statunitense negli ultimi anni.
Benché le tematiche affrontate abbiano prevalentemente carattere strutturale, una loro appropriata discussione richiede che si abbia consapevolezza delle condizioni cicliche che hanno caratterizzato gli anni in questione. Ricorrendo alla cronologia dei cicli economici elaborata dal BCDC (Business Cycle Dating Committee) dell’istituto di ricerca statunitense NBER (National Bureau of Economic Research), l’orizzonte temporale analizzato include la seconda metà del ciclo espansivo degli anni Novanta, estesosi dal primo trimestre del 1991 al primo trimestre del 2001, una breve recessione, compresa tra il primo e il quarto trimestre del 2001, e una nuova espansione, che ha avuto inizio nel quarto trimestre del 2001 ed è terminata nel quarto trimestre del 2007.
Nei successivi tre paragrafi si analizzeranno nell’ordine: a) la dinamica della produttività del lavoro, focalizzando l’attenzione sull’influenza esercitata dalla digitalizzazione del processo produttivo, ovvero dallo sviluppo e dalla diffusione della tecnologia digitale (computer, software, impianti di comunicazione); b) il declino del saggio di risparmio e il simultaneo accrescersi della ricchezza netta delle famiglie, discutendo i meccanismi attraverso i quali l’evoluzione della ricchezza nel suo complesso, e di differenti componenti della stessa, può influire sull’andamento del saggio di risparmio; c) l’emergere di un elevato squilibrio nei conti con l’estero, esaminando i fattori che hanno contenuto l’aumento dell’indebitamento netto con l’estero e riportando un’interpretazione sull’origine dello squilibrio. Nel paragrafo conclusivo si valuterà se sia possibile fornire una lettura integrata dei fenomeni economici prima discussi.
La dinamica della produttività del lavoro
L’accelerazione della produttività del lavoro
La produttività del lavoro nel settore delle imprese private non agricole – che costituisce la misurazione più rilevante della produttività, sia perché il valore aggiunto del settore rappresenta poco meno dell’80% del PIL statunitense, sia perché per questo aggregato sono disponibili rilevazioni accurate relative al numero di ore lavorate, che non sono invece disponibili per il complesso dell’economia – ha registrato, secondo i dati del BLS (Bureau of Labor Statistics), un tasso di crescita medio annuo del 2,5% circa sia nel periodo 1995-2000 sia in quello 2000-2007 (v. tab.). In questi periodi la produttività ha quindi marcato una netta accelerazione, dopo che per oltre vent’anni, tra il 1973 e il 1995, aveva mantenuto un ritmo di crescita molto più contenuto, pari in media d’anno all’1,44%.
La strategia d’indagine generalmente adottata per valutare le origini dell’accelerazione della produttività è basata su esercizi di contabilità della crescita. Questi presuppongono che il processo di produzione possa essere rappresentato attraverso una funzione di produzione (usualmente una funzione Cobb-Douglas con rendimenti di scala costanti) che definisce la relazione esistente tra il prodotto e i fattori di produzione nel seguente modo:
dove Yt rappresenta il prodotto, At la produttività totale dei fattori, KICT,t e KNICT,t rispettivamente il capitale digitale e il capitale diverso da quello digitale, Ht un indice aggregato del fattore lavoro elaborato ponderando le ore lavorate da diverse categorie di lavoratori, differenziate per livello di istruzione, esperienza lavorativa e sesso (α, β e 1−α−β rappresentano le elasticità del prodotto rispetto ai fattori della produzione). La dinamica del fattore lavoro risente sia del tasso di crescita delle ore lavorate sia dell’evoluzione nel tempo della disaggregazione delle ore lavorate tra le diverse categorie di lavoratori; questo secondo aspetto in particolare coglie la dinamica della qualità del lavoro.
Il ruolo della tecnologia digitale
La disaggregazione del fattore capitale in due componenti – capitale digitale e capitale non digitale – fornisce un primo utile approccio per studiare gli effetti della digitalizzazione sull’accelerazione della produttività del lavoro, definita dal rapporto tra il prodotto e le ore lavorate. Nell’ambito di questo approccio, l’impatto della digitalizzazione è valutato in termini piuttosto restrittivi, poiché si considera solo l’effetto riconducibile all’accrescimento del capitale digitale disponibile per ogni unità lavorativa.
Dai dati del BLS emerge che il citato innalzamento del tasso di crescita della produttività del lavoro tra il periodo 1973-1995 e quello 1995-2000 è riconducibile per quasi 0,5 punti percentuali a un più elevato contributo alla crescita della produttività proveniente dall’accumulazione di capitale digitale, portatosi da 0,45 a 0,92 punti percentuali (v. tab.). Nel periodo 2000-2007 tale contributo è tornato ad attestarsi intorno a 0,5 punti percentuali.
Gran parte dell’accelerazione della produttività nei due periodi proviene da un più alto tasso di crescita della produttività totale dei fattori: si è passati dallo 0,4% circa nel periodo 1973-1995 all’1,1% circa in quello 1995-2000, sino ad arrivare quasi all’1,4% in quello 2000-2007. L’accumulazione di capitale non digitale insieme all’evoluzione della qualità del lavoro lungo tutto il periodo considerato hanno continuato a offrire contributi poco discosti da quelli registrati nel periodo 1973-1995, non contribuendo quindi all’accelerazione della produttività.
Oltre a fornire una prima valutazione dell’impatto della digitalizzazione, queste prime stime pongono in evidenza il ruolo preponderante giocato dalla dinamica della produttività totale dei fattori. Questa coglie quegli incrementi della produttività del lavoro che non sono riconducibili né all’accrescimento del capitale disponibile per ogni unità lavorativa né al miglioramento della qualità del lavoro; essa rileva, per es., quei guadagni di efficienza che possono risultare da una riorganizzazione dei processi produttivi. In un certo qual modo essa rappresenta una misura di ‘ignoranza’, perché aggrega gli effetti sulla produttività del lavoro di qualunque fenomeno diverso dall’accumulazione di capitale e dal miglioramento della qualità del lavoro. Essa risente inoltre di eventuali errori di misurazione del capitale o della qualità del lavoro. Per es., una sottovalutazione del tasso di crescita del capitale digitale, a parità di altre condizioni, si rifletterebbe in una erroneamente più elevata stima del tasso di crescita della produttività totale dei fattori.
Secondo un approccio condivisibile, recentemente riproposto da Stephen D. Oliner, Daniel E. Sichel e Kevin J. Stiroh (2007), l’impatto della digitalizzazione sulla crescita della produttività non è tuttavia circoscrivibile a quello esercitato attraverso l’accumulazione di capitale digitale. In questo schema, il più elevato tasso di crescita della produttività totale dei fattori viene a essere ricondotto a guadagni di efficienza proprio nell’ambito dei processi produttivi mirati a produrre capitale digitale. Più formalmente, l’economia è disaggregata in cinque settori. I primi tre settori – hardware, software e tecnologia della comunicazione – sono coinvolti nella produzione di beni capitali digitali ‘finali’, che rientrano nel computo del valore aggiunto dell’economia. Un quarto settore – semiconduttori – è dedito alla produzione di un bene digitale ‘intermedio’, utilizzato esclusivamente quale fattore di produzione dagli altri settori, e non rientra quindi nel computo del valore aggiunto dell’economia. Un quinto produce tutti i beni ‘finali’ diversi da quelli digitali. Diventa così possibile disaggregare il tasso di crescita della produttività totale dei fattori per il complesso delle imprese private non agricole nei tassi di crescita della produttività totale dei fattori in ciascuno dei cinque settori.
Dalle stime riportate da Oliner, Sichel e Stiroh emerge che l’accelerazione della produttività totale dei fattori nel complesso del settore delle imprese private non agricole è in parte riconducibile a una più elevata dinamica di tale produttività proprio nei settori dediti alla produzione di capitale digitale. Il contributo di questi settori alla crescita della produttività totale dei fattori nel complesso del settore delle imprese private non agricole si innalza da 0,28 punti percentuali nel periodo 1973-1995 a 0,75 punti in quello 1995-2000, per poi flettere a 0,51 punti in quello 2000-2006 (v. tab.). Aggregando l’impatto riconducibile all’accumulazione di capitale digitale e quello riconducibile ai guadagni di efficienza nei settori dediti alla produzione di capitale digitale, il ruolo svolto dalla tecnologia digitale nel promuovere l’accelerazione della produttività emerge quindi in maniera sicuramente più marcata.
Peraltro, anche nell’ambito di questo schema interpretativo, un ruolo rilevante a sostegno dell’accelerazione della produttività è giocato anche da settori estranei al processo di produzione di capitale digitale. Il contributo offerto da questi settori alla crescita della produttività totale dei fattori s’innalza da 0,15 punti percentuali nel periodo tra il 1973 e il 1995 a 0,36 punti in quello 1995-2000, per poi raggiungere 1,17 punti in quello tra il 2000 e il 2006.
È tuttavia possibile che l’impatto dello sviluppo e della diffusione della tecnologia digitale nel promuovere l’accelerazione della produttività del lavoro finora discusso costituisca ancora una stima per difetto. Tale ipotesi si fonda sulla classificazione della tecnologia digitale quale general purpose technology (GPT). Questa può essere definita come una tecnologia che: a) nel momento in cui emerge è caratterizzata da un forte potenziale evolutivo; b) nel corso del tempo registra un’ampia diffusione, essendo progressivamente utilizzata da un numero elevato di settori; c) richiede investimenti in capitale complementare che, incorporando lo sviluppo di tecnologie complementari alla stessa GPT, consentono di cogliere appieno i guadagni di efficienza collegati all’adozione della GPT. Secondo il giudizio di numerosi economisti, la tecnologia digitale può essere considerata una GPT.
Nell’ambito di questo contesto interpretativo, un filone di ricerca ricorre all’introduzione del concetto di capitale intangibile, rappresentativo di tutte quelle forme di acquisizione di capitale complementare al capitale digitale non prese in considerazione dalle metodologie classiche di rilevazione del prodotto. Investimenti in capitale intangibile complementare all’acquisizione di tecnologia digitale possono, per es., essere considerati l’acquisizione di conoscenze organizzative e l’acquisizione da parte dei lavoratori delle competenze informatiche necessarie per ottenere un efficiente utilizzo del capitale digitale.
Oliner, Sichel e Stiroh, oltre a disaggregare il tasso di crescita della produttività totale dei fattori nell’ambito di un tradizionale esercizio di contabilità della produttività del lavoro – da cui emergono i risultati già discussi, riportati nella tabella –, conducono anche un esercizio di contabilità della produttività nell’ambito di questo schema alternativo, centrato sull’introduzione del capitale intangibile. Nelle loro stime, l’introduzione del capitale intangibile comporta una revisione delle stime di crescita della produttività, in rialzo per il periodo 1995-2000 e in ribasso per quello 2000-2006. L’impatto sulla dinamica della produttività del lavoro, dello sviluppo e della diffusione della tecnologia digitale, che viene contabilizzato tenendo conto degli effetti connessi all’accumulazione di capitale digitale e di capitale intangibile e dei guadagni di efficienza nei settori dediti alla produzione di capitale digitale e di capitale intangibile, viene accresciuto. Il contributo dell’accelerazione della produttività totale dei fattori nei settori dediti alla produzione di beni diversi dal capitale digitale risulta, di riflesso, ridimensionato.
Evidenza empirica a sostegno dell’ipotesi che la tecnologia digitale abbia effettivamente svolto un ruolo da GPT è stata peraltro prodotta in alcuni lavori. Susanto Basu, John G. Fernald, Nicholas Oulton e Sylaja Srinivasan (2003) hanno documentato una correlazione positiva tra il tasso di crescita in un dato periodo della produttività totale dei fattori a livello settoriale – misurata secondo le tecniche tradizionali prima esposte, ovvero ignorando il ruolo potenzialmente svolto dal capitale intangibile – e il ritmo di accumulazione in periodi precedenti del capitale digitale; da questo studio emerge che parte dell’accelerazione della produttività totale dei fattori in settori diversi da quelli dediti alla produzione di capitale digitale deriva dalla digitalizzazione degli stessi settori.
L’arbitrarietà richiesta per formulare stime sull’accumulazione del capitale intangibile suggerisce un giudizio prudente nel valutare questi ultimi esercizi di contabilità della produttività; analoga cautela appare opportuna nel valutare lo studio empirico prima richiamato, anche perché il periodo considerato si arresta al 2000. Nel suo complesso, è ragionevole concludere che lo sviluppo e la diffusione della tecnologia digitale hanno giocato un ruolo dominante, ma non esaustivo, nel processo di accelerazione della produttività del lavoro occorso tra il 1995 e il 2007.
L’evoluzione del potenziale di crescita
L’accelerazione della produttività del lavoro, avviatasi nella seconda metà degli anni Novanta, ha indotto una revisione al rialzo delle stime del potenziale di crescita dell’economia, ovvero del tasso di crescita dell’attività economica coerente con un elevato e stabile grado di utilizzo dei fattori produttivi. Nel gennaio 2002 questo, nelle stime del CBO (Congressional Budget Office), era stato innalzato al 3,1% (da valori inferiori al 2,5% sul finire degli anni Novanta); tale valutazione si fondava su una stima del tasso di crescita potenziale della produttività del lavoro nel settore delle imprese private non agricole pari al 2,2%. Negli anni successivi al 2002, nonostante le stime relative a tale tasso siano rimaste pressoché immutate, attorno al 2,3% (un livello inferiore al 2,49% registrato tra il 2000 e il 2007, ma ancora significativamente più alto dell’1,44% che aveva caratterizzato il periodo precedente l’accelerazione della produttività), le stime del potenziale di crescita sono state corrette al ribasso, fino al 2,6% nel gennaio 2008. La revisione al ribasso è il riflesso del ridimensionamento del tasso di crescita potenziale delle ore lavorate – diminuito dall’1,2% nel gennaio 2002 allo 0,7% nel gennaio 2008– scaturito in parte dall’inattesa flessione del tasso di partecipazione alla forza lavoro tra il 2000 e il 2007 che è sceso dal 67,1 al 66,0%. Un secondo elemento di moderazione del tasso citato dovrebbe inoltre emergere a partire dal 2009, quando, in seguito alle dinamiche demografiche in atto, sicuramente s’innalzerà l’incidenza sulla popolazione complessiva delle persone di età superiore ai 54 anni, tipicamente caratterizzate da un più basso tasso di partecipazione alla forza lavoro.
Il declino del saggio di risparmio e l’incremento della ricchezza delle famiglie
L’evoluzione della ricchezza e del saggio di risparmio
Nella seconda metà degli anni Novanta, parallelamente all’accelerazione della produttività e alla percezione di un innalzamento del potenziale di crescita dell’economia, si avviava un consistente incremento della ricchezza netta delle famiglie, definita dalla somma di ricchezza finanziaria, ricchezza reale e beni di consumo durevoli al netto dell’indebitamento (principalmente mutui ipotecari e credito al consumo). La ricchezza netta, misurata in rapporto al reddito disponibile, si elevava da 470 punti percentuali alla fine del 1994 sino a un picco di 615 punti alla fine del 1999 (fig. 1). Dopo un triennio di calo, in cui gran parte del forte rialzo registrato nel precedente quinquennio veniva riassorbito, essa ha ripreso a crescere a ritmi sostenuti, portandosi da circa 510 punti percentuali all’inizio del 2003 sino a circa 630 punti alla fine del 2006, per poi iniziare a flettere nel 2007. Sia nell’ultimo quinquennio del 20° sec. sia nei primi anni del 21°, la ricchezza netta delle famiglie si è quindi mediamente collocata su valori storicamente elevati (tra il 1952 e il 1994 essa aveva raramente raggiunto, e mai significativamente ecceduto, i 500 punti percentuali di reddito disponibile).
L’evoluzione della ricchezza netta delle famiglie nel decennio considerato è pressoché esclusivamente riconducibile agli effetti di rivalutazione della ricchezza esistente, ovvero agli effetti esercitati sul patrimonio delle famiglie dalla variazione dei prezzi delle attività (finanziarie e reali) detenute. Ha invece perso rilevanza l’accumulazione di nuove attività (o la riduzione di passività esistenti) riconducibile all’attività di risparmio delle famiglie. In particolare il saggio di risparmio, nella misurazione più tradizionale (che non equipara la spesa per beni durevoli a una forma di acquisizione di ricchezza), è sceso in media d’anno dal 4,8% nel 1994 sino al 2,4% nel 1999; dopo essersi attestato attorno al 2,0% tra il 2000 e il 2004, nel triennio successivo ha invece ripreso a flettere, collocandosi su valori di poco superiori allo zero per cento.
Se nella seconda metà degli anni Novanta l’accrescimento della ricchezza netta era principalmente guidato dai rialzi delle quotazioni azionarie, che traevano la loro origine dall’innalzamento del potenziale di crescita dell’economia statunitense, ma che risentivano anche di un eccesso di ottimismo sulle potenzialità dei settori più direttamente coinvolti nello sviluppo delle nuove tecnologie, nei primi anni del 21° secolo un’influenza crescente sull’andamento della ricchezza netta è stata indubbiamente esercitata dall’aumento dei prezzi degli immobili.
Più in dettaglio, il patrimonio azionario delle famiglie – nella misurazione più appropriata, che tiene conto delle azioni detenute direttamente e di quelle detenute indirettamente, attraverso la partecipazione a fondi di investimento o a fondi pensione–, dopo essersi innalzato tra la fine del 1994 e la fine del 1999 da circa 110 a 250 punti percentuali di reddito disponibile, nel triennio successivo ha registrato un significativo ridimensionamento, flettendo sino a 135 punti alla fine del 2002; dal 2003 ha poi ripreso a crescere e, alla fine del 2007, si è attestato attorno a 200 punti (fig. 2). Il patrimonio immobiliare delle famiglie, mantenutosi stabile nel periodo compreso tra il 1994 e il 1998 poco al di sotto dei 150 punti percentuali, ha registrato una consistente crescita nei primi anni del 21° secolo, sino a raggiungere un picco di 230 punti alla fine del 2005; nel biennio successivo ha invece registrato un calo di circa 30 punti.
Si è contemporaneamente registrato un notevole incremento del tasso di indebitamento delle famiglie, passato dai 98 punti dell’inizio del 2000 ai 138 della fine del 2007. L’incremento è pressoché interamente riconducibile alla componente mutui ipotecari, la cui consistenza, in rapporto al reddito disponibile, si è elevata da 64 a 101 punti percentuali.
Ricchezza e miglioramento delle condizioni di accesso al credito
L’esistenza di un nesso di causalità tra l’evoluzione della ricchezza netta delle famiglie e il declino del saggio di risparmio – ovvero la rilevazione di un impatto della dinamica della ricchezza su quella dei consumi, per un dato livello del reddito disponibile – è stata oggetto di approfondite analisi econometriche. Queste ultime hanno di frequente puntato a distinguere gli effetti sui consumi di variazioni della ricchezza azionaria da quelli di variazioni della ricchezza immobiliare.
Alcuni studi econometrici ricorrono all’utilizzo di dati aggregati, ovvero di serie storiche che misurano le variabili rilevanti (ossia consumi, reddito reale disponibile, ricchezza finanziaria e ricchezza immobiliare) a livello dell’intera economia. Gli economisti Morris A. Davis e Michael G. Palumbo (2001), nell’ambito di questo filone, stimano che esista una relazione lineare tra consumi e reddito reale disponibile al netto dei redditi da capitale, redditi da capitale, ricchezza azionaria e ricchezza non azionaria, quest’ultima inclusiva anche della ricchezza immobiliare.
Nelle loro stime, un incremento della ricchezza azionaria, misurata in rapporto al reddito reale disponibile, pari a 1 punto percentuale, induce in equilibrio una riduzione del saggio di risparmio pari a 0,057 punti; un analogo incremento della ricchezza non azionaria induce una riduzione del saggio di risparmio più consistente, pari a 0,08 punti.
Nel 2005, Karl E. Case, John M. Quigley e Robert J. Shiller hanno condotto un’analoga indagine econometrica, misurando le variabili di interesse (ossia consumi, reddito reale, ricchezza azionaria e ricchezza immobiliare) non a livello dell’intera economia, bensì a livello dei singoli Stati che compongono la federazione statunitense. Le loro stime confermano l’esistenza di una significativa influenza della ricchezza sui consumi e la maggiore sensibilità dei consumi in risposta a variazioni della ricchezza immobiliare rispetto a variazioni della ricchezza azionaria; di fatto, in alcune delle stime da essi riportate, le variazioni della ricchezza azionaria non esercitano alcuna influenza sui consumi.
L’analisi econometrica, inclusiva anche di altri studi condotti a livello microeconomico, ovvero ricorrendo a campioni composti da famiglie, ha offerto un riscontro empirico generalmente favorevole all’esistenza di un nesso di causalità tra l’incremento della ricchezza delle famiglie e il declino del saggio di risparmio. Il riscontro di un più rilevante impatto della ricchezza immobiliare appare inoltre coerente con l’evoluzione del saggio di risparmio che si è configurata tra la fine del 1999 e il 2002, quando a fronte di un ridimensionamento della ricchezza complessiva, guidato dal consistente calo della componente azionaria, si registrava una stabilizzazione, ma non una ripresa del saggio di risparmio.
Il riscontro econometrico di un impatto della ricchezza, e principalmente della ricchezza immobiliare, sulla dinamica dei consumi – e di riflesso sul saggio di risparmio – può essere razionalizzato ri-correndo ad almeno due approcci tra di loro nettamente distinti.
Un primo approccio inquadra il comportamento dei consumatori nell’ambito della classica teoria del ciclo vitale. In questo contesto, incrementi inattesi della ricchezza generano la riformulazione dei piani di spesa dei consumatori, inducendo un aumento dei consumi dovuto all’incremento delle risorse percepite come disponibili lungo il ciclo vitale. Le reazioni dei consumi in risposta a tali variazioni della ricchezza sono usualmente denominate effetti ricchezza. Secondo questa interpretazione, l’emergere di un effetto ricchezza più significativo per la ricchezza immobiliare può essere razionalizzato ipotizzando che gli incrementi dei prezzi degli immobili siano percepiti come meno esposti a un rischio di reversibilità rispetto ai rialzi delle quotazioni azionarie. Un secondo approccio focalizza l’attenzione sull’utilizzo della ricchezza immobiliare, da parte delle famiglie, quale strumento di garanzia per l’acquisizione di risorse liquide destinate al finanziamento delle scelte di consumo. In questo contesto, il riscontro econometrico di un impatto positivo della ricchezza immobiliare sui consumi segnala l’emergere di un miglioramento delle condizioni di accesso al credito per le famiglie, che può configurarsi in un ampliamento della capacità di indebitamento ma anche in una riduzione del costo del finanziamento, a seguito dell’attenuazione, guidata dall’incremento del valore della garanzia, del classico problema di asimmetria informativa tra il prestatore e il prenditore di fondi. Questo canale di influenza delle variazioni della ricchezza immobiliare sulle scelte di consumo è particolarmente rilevante per le famiglie a reddito medio-basso, che possono avere maggiori difficoltà nel finanziare le proprie scelte di consumo interamente sulla base dei flussi di reddito a loro disposizione.
È problematico distinguere chiaramente, ricorrendo all’analisi econometrica che utilizza dati macroeconomici, gli effetti ricchezza dal miglioramento delle condizioni di accesso al credito. Questi due elementi possono peraltro coesistere. Una delle interpretazioni – ma non l’unica – dell’evidenza econometrica, che tende ad assegnare un più forte impatto sui consumi all’evoluzione della ricchezza immobiliare, può essere fondata proprio sul coesistere delle due classi di effetti.
Lo squilibrio esterno
L’evoluzione del disavanzo di conto corrente e della posizione netta sull’estero
L’ampliamento del disavanzo di conto corrente è stato senza ombra di dubbio uno dei fenomeni che hanno maggiormente caratterizzato l’economia statunitense nei primi anni del 21° secolo.
La rilevanza del fenomeno deriva in primo luogo dalla dimensione raggiunta dallo squilibrio esterno. Questo, dopo essersi ampliato da 1,5 punti percentuali di PIL nel 1995 sino a 4,3 nel 2000 e aver registrato un modesto ridimensionamento nel 2001 – l’anno della recessione –, ha raggiunto i 6,2 punti nel 2006 per poi nuovamente ridursi a 5,3 punti nel 2007 (fig. 3). Per confronto, si consideri che nel periodo 1960-1995 il disavanzo esterno non era mai andato oltre il 3,4% del PIL. La non riconducibilità del disavanzo esterno alle condizioni cicliche dell’economia ha sicuramente contribuito a innalzare l’interesse, e la preoccupazione, per il fenomeno.
Nonostante il protrarsi di un forte squilibrio dei conti con l’estero, la posizione netta sull’estero (PNE) statunitense, definita dalla differenza tra lo stock di attività estere detenute da residenti negli Stati Uniti (d’ora in avanti ‘attività estere’) e lo stock di attività statunitensi detenute da residenti all’estero (d’ora in avanti ‘passività estere’), ha registrato un deterioramento molto più contenuto. Negativa alla fine del 1999 per 724 miliardi di dollari (pari al 7,8% del PIL) – nella misurazione che valuta gli investimenti diretti esteri al costo corrente, ovvero ricorrendo nella valutazione degli impianti e dei macchinari detenuti dalle società estere controllate da investitori statunitensi (e dalle società statunitensi controllate da investitori esteri) al costo corrente dei macchinari –, la PNE si ragguagliava a circa −2440 miliardi di dollari (pari al 17,6% del PIL) alla fine del 2007. Tra la fine del 1999 e la fine del 2007, quindi, il deterioramento della PNE è stato pari a circa 1700 miliardi di dollari. Nello stesso periodo il disavanzo cumulato delle partite correnti è stato prossimo a 4700 miliardi di dollari. Il relativamente limitato deterioramento della PNE, che ha contenuto le preoccupazioni associate agli ampi disavanzi delle partite correnti, è dovuto agli effetti di rivalutazione che hanno interessato nel periodo in questione le attività e le passività estere. La PNE alla fine del periodo t è pari alla somma della PNE alla fine del periodo t−1, degli afflussi netti di capitale dall’estero (FFN) nel corso del periodo t (rilevati da un valore negativo di FFNt), che costituiscono il finanziamento del disavanzo esterno nello stesso periodo, e degli effetti di rivalutazione delle attività e passività estere riconducibili a variazioni dei prezzi delle stesse attività e passività (RIVALPt), a variazioni del tasso di cambio (RIVALEXt) e a una categoria residuale di effetti di rivalutazione (RIVALOTHt)
PNEt=PNEt−1+FFNt+RIVALPt+
+RIVALEXt+RIVALOTHt
Assumendo quale valore iniziale la PNE effettivamente registrata alla fine del 1999, il finanziamento dei disavanzi delle partite correnti tra il 2000 e il 2007, in assenza di effetti di rivalutazione, avrebbe portato la PNE a raggiungere un valore negativo pari al 39,6% del PIL alla fine del 2007 (fig. 4).
Gli effetti di rivalutazione connessi a differenti andamenti dei prezzi delle attività e passività estere hanno contribuito a ridurre per circa 9 punti percentuali di PIL il deterioramento della PNE intercorso tra la fine del 1999 e la fine del 2007. All’origine di questi rilevanti effetti di rivalutazione si pone la diversa composizione degli stock di attività e passività estere. Tra le passività prevale il debito obbligazionario, generalmente soggetto a rivalutazioni poco rilevanti; tra le attività, invece, prevalgono la componente azionaria e gli investimenti diretti esteri, potenzialmente soggetti a più consistenti fenomeni di rivalutazione. Vi ha inoltre contribuito il contenuto rialzo nel periodo considerato delle quotazioni azionarie negli Stati Uniti, nel confronto con i rialzi delle quotazioni nelle economie estere su cui si distribuisce il portafoglio azionario statunitense.
Gli effetti di rivalutazione connessi all’andamento del cambio del dollaro hanno giocato un ruolo meno rilevante nel contenimento del deterioramento della PNE, contribuendo per circa 5 punti percentuali di PIL. Questi effetti di rivalutazione derivano dalla diversa composizione valutaria delle attività e delle passività estere. Essendo una quota rilevante delle attività estere denominata in valute diverse dal dollaro, mentre le passività sono pressoché interamente denominate in dollari, deprezzamenti della valuta statunitense – quali quelli che sono occorsi tra il 2002 e il 2004, e nel 2006-07 – generano effetti di rivalutazione positivi sulla PNE.
La categoria residuale degli effetti di rivalutazione, che può di fatto essere considerata una misura dell’errore – ovvero della non perfetta conciliabilità delle misurazioni delle variabili di stock (PNE) con le variabili di flusso, pur tenendo conto degli effetti di rivalutazione stimati –, ha contributo per circa 7,5 punti percentuali di PIL al contenimento del deterioramento della PNE tra il 1999 e il 2007.
Per inciso, si noti come, per una data diversità nella composizione dello stock di attività e passività estere, la dimensione degli effetti di rivalutazione viene a essere magnificata dalla dimensione dello stock delle attività e delle passività. La somma degli stock di attività e passività estere in rapporto al PIL – una misura quantitativa frequentemente adottata per stimare il grado di apertura finanziaria di un Paese – tra la fine del 1999 e la fine del 2007 per gli Stati Uniti si è innalzata da 137 a 273 punti percentuali.
Nonostante l’emergere nel corso degli ultimi anni di una PNE ampiamente negativa, il saldo dei redditi da capitale, che misura la differenza tra i redditi da capitale in entrata, derivanti dalle attività estere, e i redditi da capitale in uscita, derivanti dalle passività estere, ha mantenuto un segno positivo. Tra il 2000 e il 2007 esso ha continuato a collocarsi stabilmente tra un minimo di 0,3 e un massimo di 0,6 punti percentuali di PIL (fig. 3).
Il permanere di un saldo positivo dei redditi da capitale, a fronte di una PNE ampiamente negativa, equivale al riscontro di un più elevato tasso di rendimento – qui inteso come rapporto tra i redditi e le consistenze, ignorando quindi gli effetti di rivalutazione – delle attività rispetto alle passività estere. Tale differenza di rendimento può essere in parte ricondotta alla diversa composizione delle attività e delle passività estere, ovvero al già richiamato prevalere degli investimenti diretti esteri (IDE) e del portafoglio azionario tra le attività, e del portafoglio obbligazionario tra le passività – essendo gli IDE e il portafoglio azionario tipicamente caratterizzati da un più alto tasso di rendimento. Un ruolo non secondario è stato svolto anche dal divario esistente tra il rendimento degli IDE detenuti da residenti statunitensi (d’ora in avanti, IDE all’attivo) e il rendimento degli IDE negli Stati Uniti detenuti da residenti all’estero (d’ora in avanti, IDE al passivo), che tra il 2000 e il 2007 è stato in media pari a 5,5 punti percentuali.
Le analisi empiriche, discusse da Alexandra Heath (2007), non hanno sinora offerto spiegazioni plausibili per la differenza di rendimento degli IDE. Assumendo che il rendimento di un IDE sia crescente nel tempo, poiché nelle fasi iniziali si sostengono dei costi di installazione e di avviamento dell’attività produttiva, alcuni studi hanno ipotizzato che la differente età degli IDE – dovuta al fatto che gli stock di IDE all’attivo sono riconducibili a flussi di investimento generalmente antecedenti ai flussi di investimento che hanno originato gli stock di IDE al passivo – possa contribuire a spiegare la differenza di rendimento. Tuttavia, il mancato restringersi della differenza di rendimento tra gli IDE all’attivo e gli IDE al passivo nel corso dell’ultimo decennio, nonostante il diminuire del divario di età, non depone sicuramente a favore di questa ipotesi.
L’esistenza di un più elevato ‘rischio Paese’ per gli IDE all’attivo – definito ponderando i rischi Paese relativi a ciascuna economia in cui gli IDE stessi sono localizzati – potrebbe spiegare parte della differenza di rendimento. Dubbi su questa interpretazione derivano tuttavia dalla mancanza di una chiara correlazione tra le differenze di rendimento bilaterali degli IDE (per es., la differenza di rendimento tra gli IDE in Giappone detenuti da residenti statunitensi e gli IDE negli Stati Uniti detenuti da residenti in Giappone) e il singolo rischio Paese (nell’esempio, quello relativo al Giappone).
Un ruolo potenzialmente rilevante – ma difficilmente quantificabile – potrebbe essere attribuito alla relativamente elevata pressione fiscale sui profitti societari negli Stati Uniti. Questa genererebbe un incentivo per le società estere che detengono IDE negli Stati Uniti a trasferire, attraverso transazioni all’interno del gruppo contabilizzate a prezzi che non riflettono i valori di mercato, la formazione dei profitti dalle società statunitensi controllate ad altre società estere facenti parte dello stesso gruppo. In questo schema interpretativo, la differenza di rendimento degli IDE rifletterebbe una non corretta rilevazione dei redditi da capitale.
L’interpretazione dello squilibrio esterno statunitense: il global saving glut
Una delle interpretazioni più autorevoli riguardo al persistente disavanzo del conto corrente statunitense negli anni successivi al 1995 è stata proposta da Ben S. Bernanke (2005). Questa interpretazione tralascia l’approccio più tradizionale all’analisi dello squilibrio esterno – quello che indaga sulle cause del disavanzo commerciale, focalizzando l’attenzione su fattori specifici sottostanti l’andamento delle importazioni e delle esportazioni, quali eventuali cali della domanda mondiale per quei prodotti di cui il Paese è esportatore – per adottare un approccio centrato sull’identità contabile che definisce la relazione tra il saldo finanziario netto del settore privato (SFNtpriv), il saldo finanziario netto del settore pubblico (SFNtpubl) e gli afflussi netti di capitali dall’estero (FFNt)
Da questa identità contabile emerge che gli afflussi netti di capitale dall’estero costituiscono la contropartita necessaria per finanziare eventuali saldi finanziari netti negativi del settore privato e del settore pubblico, quali possono derivare da investimenti eccedenti il risparmio.
Nell’interpretazione fornita da Bernanke, le economie asiatiche emergenti, a partire dagli ultimi anni Novanta – ovvero immediatamente dopo le crisi finanziarie che interessarono diverse di queste economie tra il 1996 e il 1998 –, hanno adottato la scelta strategica di divenire esportatrici nette di capitale. A strategie analoghe sono ricorse economie emergenti latinoamericane. Implementando nello stesso momento politiche che hanno generato un eccesso di formazione del risparmio rispetto all’attività di investimento a livello nazionale, hanno quindi dato origine a un glob;al saving glut, ovvero a dei flussi di capitale potenzialmente disponibili per il finanziamento di eventuali disavanzi esterni delle economie avanzate. Altri rilevanti flussi di capitale potenzialmente disponibili allo stesso scopo si sono formati nei primi anni del 21° sec. nei Paesi esportatori di petrolio, in seguito al consistente rialzo dei prezzi del greggio.
Secondo Bernanke, l’indirizzarsi di questi potenziali flussi di capitale dalle economie emergenti e dai Paesi esportatori di petrolio verso gli Stati Uniti – più che verso altre economie avanzate, a causa di un più elevato livello di innovazione finanziaria e dello status del dollaro quale valuta di riserva internazionale – ha di per sé contribuito ad ampliare il disavanzo esterno statunitense, attraverso due differenti meccanismi di trasmissione. Nella seconda metà degli anni Novanta questi afflussi di capitale hanno aiutato l’apprezzamento del dollaro e la rapida crescita delle quotazioni azionarie statunitensi, incidendo quindi indirettamente sul deterioramento del saldo finanziario netto del settore privato, attraverso eventuali effetti ricchezza, già discussi in precedenza (v. il paragrafo Ricchezza e miglioramento delle condizioni di accesso al credito). Nei primi anni del 21° sec. tali afflussi di capitale, riversandosi prevalentemente nell’acquisizione di obbligazioni statunitensi, hanno contribuito a mantenere straordinariamente bassi i tassi di interesse a lungo termine, influenzando quindi in maniera indiretta il rialzo dei prezzi degli immobili – nella misura in cui questo può essere spiegato dall’andamento dei tassi di interesse reale a lungo termine –, e hanno di conseguenza contribuito anche al deterioramento del saldo finanziario netto del settore privato, attraverso gli effetti ricchezza e gli effetti riconducibili al miglioramento delle condizioni di accesso al credito già discussi precedentemente.
L’interpretazione di Bernanke ha indotto anche una rivalutazione dell’influenza sullo squilibrio esterno statunitense del deterioramento del saldo finanziario netto del settore pubblico, che, positivo per 1,3 punti percentuali di PIL nel 2000, era divenuto negativo, sino a toccare un minimo di −4,4 punti nel 2004. In assenza di un global saving glut, l’impatto del peggioramento del saldo finanziario netto del settore pubblico sullo squilibrio esterno sarebbe stato verosimilmente più contenuto, poiché esso avrebbe indotto un rialzo dei tassi di interesse a lungo termine, innescando, attraverso una più contenuta crescita degli investimenti e dei consumi privati, un miglioramento del saldo finanziario netto del settore privato.
Un discorso a parte meritano le ragioni della scelta delle economie emergenti di divenire esportatrici nette di capitale. L’accumulazione di un consistente stock di riserve valutarie associato all’emergere di ampi avanzi delle partite correnti negli anni immediatamente successivi alle crisi finanziarie poteva essere interpretata come il naturale ricorso alla costruzione di un meccanismo di salvaguardia dal rischio di future analoghe crisi finanziarie. La persistenza degli ampi avanzi delle partite correnti e del processo di accumulazione delle riserve valutarie ha tuttavia stimolato differenti interpretazioni. Secondo una di esse – che nella sua formulazione più articolata è stata proposta da Michael P. Dooley, David Folkerts-Landau e Peter Garber (2003) –, la scelta di diverse economie emergenti, in particolare di quelle asiatiche, di divenire esportatrici nette di capitali rifletterebbe una strategia di sviluppo economico centrata sulla crescita delle esportazioni, perseguita anche attraverso il mantenimento di tassi di cambio particolarmente competitivi.
Conclusioni
La ricerca di un’interpretazione unitaria
La crescita dell’economia statunitense nei primi anni del 21° sec. si è poggiata su un rilevante elemento di forza: il persistere di un’elevata dinamica della produttività del lavoro, riconducibile in modo particolare allo sviluppo e alla diffusione della tecnologia digitale. Lo sviluppo economico si è accompagnato a un consistente ampliamento del disavanzo delle partite correnti, a un forte incremento della ricchezza netta delle famiglie e a una simultanea flessione del loro saggio di risparmio.
Nella seconda metà degli anni Novanta lo sviluppo di dinamiche analoghe si prestava a un’interpretazione unitaria centrata sull’accelerazione della produttività del lavoro. In questa interpretazione, era l’innalzamento della dinamica della produttività e, di riflesso, la revisione al rialzo del potenziale di crescita dell’economia a dare origine all’accrescimento della ricchezza netta delle famiglie, principalmente attraverso un forte rialzo delle quotazioni azionarie. Ed era lo stesso innalzamento del potenziale di crescita dell’economia, generando afflussi di capitali dall’estero, prevalentemente IDE e investimenti azionari che puntavano a cogliere le opportunità di rendimento a esso collegate, a esercitare un’influenza rilevante sull’ampliamento del disavanzo esterno. In questo contesto, l’emergere di un global saving glut dopo le crisi finanziarie verificatesi nelle economie asiatiche emergenti nel biennio 1997-98, può avere contribuito a rafforzare l’afflusso di capitali esteri.
Un’interpretazione unitaria centrata sull’accelerazione della produttività del lavoro è invece difficilmente proponibile per i primi anni del 21° secolo. L’inaspettato declino del tasso di partecipazione alla forza lavoro negli stessi anni ha determinato un ridimensionamento del potenziale di crescita dell’economia; gli afflussi di capitale dall’estero si sono principalmente indirizzati verso l’acquisto di obbligazioni; il rialzo della ricchezza netta delle famiglie è stato guidato dal forte incremento dei prezzi degli immobili. In questi anni il global saving glut ha probabilmente acquisito un ruolo preponderante nel processo di ampliamento dello squilibrio esterno, contribuendo indirettamente al rialzo dei prezzi degli immobili. La crescita della produttività del lavoro in questo contesto ha cessato di esercitare un’influenza determinante sull’evoluzione della ricchezza netta, così come sulla formazione dello squilibrio esterno.
Bolle speculative e crisi finanziaria
La flessione dei prezzi degli immobili che ha avuto inizio nel giugno 2006 ha indotto una riconsiderazione dell’elevata crescita che aveva invece contraddistinto tali prezzi tra il 1998 e il 2006. Parte di questo rialzo viene ormai chiaramente attribuita al progressivo formarsi di una bolla speculativa sul mercato immobiliare.
Ciò consente di caratterizzare la crescita dell’economia statunitense tra il 1995 e il 2007 come un processo che poggia su un rilevante elemento di robustezza, la forte crescita della produttività del lavoro, ma che risente anche del formarsi di rilevanti assets mispricings: una bolla speculativa sul mercato azionario, principalmente sui titoli del comparto tecnologico, negli ultimi anni del ciclo espansivo conclusosi nel 2001, e una bolla speculativa sul mercato immobiliare negli anni più recenti.
Lo sgonfiarsi della bolla speculativa sul mercato immobiliare ha generato conseguenze finanziarie ben più rilevanti nel confronto con la caduta dei prezzi dei titoli azionari del comparto tecnologico. Di fatto, al declino dei prezzi immobiliari avviatosi nella seconda metà del 2006 hanno fatto seguito rilevanti turbolenze finanziarie nell’agosto 2007, che, pur tra fasi alterne, si sono protratte per circa un anno, per poi degenerare nel settembre 2008 in una grave crisi finanziaria. Uno dei momenti cruciali di questa crisi è stato l’emergere dell’incapacità di Fannie Mae e Freddie Mac, le due principali agenzie federali (government sponsored enterprises) specializzate nell’attività di garanzia e cartolarizzazione dei mutui ipotecari, di procedere a una propria ricapitalizzazione; a fronte di questa incapacità, il governo statunitense è stato obbligato all’adozione di un provvedimento di salvataggio e di un contestuale provvedimento di amministrazione controllata (conservatorship) nei confronti delle due agenzie. Le condizioni finanziarie delle due agenzie, che hanno tipicamente operato acquisendo dagli intermediari finanziari dei mutui ipotecari che soddisfacevano elevati standard prudenziali, per poi procedere alla loro aggregazione (pooling) e cartolarizzazione attraverso l’emissione di un unico titolo (un mortgage backed security) da esse garantito, si erano deteriorate notevolmente, a partire dall’avvio delle turbolenze finanziarie, per il sopravvenire di insolvenze sui mutui da esse garantite (prime mortgages), ma soprattutto a causa della presenza nel loro portafoglio di subprime mortgage backed securities, ovvero di titoli risultanti da un’analoga attività di aggregazione e cartolarizzazione, svolta da altri attori del mercato finanziario, la quale aveva per oggetto mutui ipotecari che soddisfacevano standard prudenziali molto meno rigorosi (i subprime mort;gages a cui si accennava sopra). Un secondo momento cruciale della crisi è stata la liquidazione di un’importante banca di investimento (Lehman Brothers), che ha innescato un notevole aggravarsi della crisi di fiducia sui mercati interbancari. A fronte di questi e altri eventi, la Federal reserve è intervenuta innalzando enormemente l’offerta di liquidità, rendendosi dunque di fatto controparte di ogni potenziale richiesta in tal senso – purché opportunamente garantita – da parte del sistema bancario.
L’esperienza statunitense alla luce della crisi finanziaria
La crisi finanziaria non è stata l’oggetto principale dell’analisi condotta in questo saggio, ma la sua rilevanza del tutto straordinaria rende necessaria una rivalutazione dell’evoluzione dell’economia statunitense dei primi anni del nuovo secolo basata su due interrogativi. Tale evoluzione – nei suoi tratti essenziali descritti in questo saggio – è stata condizionata profondamente dalla bolla speculativa sul mercato immobiliare? Il formarsi della bolla sul mercato immobiliare è riconducibile a errori dei policy makers?
Benché un’appropriata risposta al primo quesito necessiti di una prospettiva storica, ovvero di un distacco temporale dagli eventi, attualmente non disponibile, è ragionevole argomentare, anche alla luce dei risultati empirici riportati nel paragrafo Il declino del saggio di risparmio e l’incremento della ricchezza delle famiglie, che la bolla speculativa sul mercato immobiliare ha contribuito direttamente al declino del saggio di risparmio e, indirettamente, all’ampliamento del disavanzo esterno. Verosimilmente non è però stata la causa prima del persistente ampio disavanzo esterno che, nell’interpretazione di questo saggio, rimane la facilità del suo finanziamento grazie al global saving glut.
Con riferimento al secondo quesito, l’emergere nel corso di poco più di un decennio di due bolle speculative – quella sui titoli azionari del comparto tecnologico e quella immobiliare – ha generato un dibattito sui potenziali meccanismi che possono essere attivati per prevenire il formarsi delle stesse bolle. Una corrente di pensiero nell’ambito di questo dibattito propone che il contenimento di bolle speculative divenga uno degli obiettivi della politica monetaria, ovvero che l’evoluzione dei prezzi delle attività reali e finanziarie non sia presa in considerazione dalle banche centrali esclusivamente per i suoi effetti sull’inflazione e sull’attività economica. Le obiezioni mosse a questa proposta sono tuttavia numerose. L’ipotesi che le banche centrali godano di un vantaggio informativo che consenta loro di percepire l’emergere di bolle speculative prima del mercato non ha sinora trovato ampio riscontro. Inoltre, anche assumendo che le banche centrali siano in grado di identificare l’emergere di una bolla speculativa prima del mercato, l’efficacia degli strumenti di politica monetaria, quali i tassi di interesse, nel contenere la bolla viene giudicata incerta (Mishkin 2007).
La stabilità delle aspettative di inflazione e il permanere su livelli storicamente bassi della volatilità della crescita economica – sia nella misurazione che ricorre alla deviazione standard su un orizzonte decennale dei tassi di crescita trimestrali, sia nella più sofisticata misurazione che rimpiazza i tassi di crescita con gli output gaps (gli scostamenti tra il prodotto effettivo e il prodotto potenziale) – confermano peraltro che gli obiettivi finali della politica monetaria nel periodo considerato sono stati raggiunti (fig. 5).
Un consenso preliminare si sta invece formando attorno all’interpretazione che riconduce l’origine della crisi a insufficienze nella regolamentazione di alcune parti del complesso sistema finanziario statunitense (Bernanke 2008).
Bibliografia
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Webgrafia
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B.S. Bernanke, Financial regulation and financial stability, speech at the Federal deposit insurance corporation’s forum on Mortgage lending for low and moderate income households, Arlington (Va.), July 8, 2008, http://www.federalreserve.gov/ newsevents/speech/bernanke20080708a.htm.
Tutte le pagine web s’intendono visitate per l’ultima volta il 16 giugno 2009.