Problemi sociali nelle aree metropolitane
Città osservabile e società urbana
La città, qualunque città, è un oggetto ambiguo o, se preferiamo, costituito da più fenomeni che, pur interagendo, si collocano su piani diversi: indipendentemente dalla definizione di città che si vuole adottare (tema che esula dai compiti di questo saggio) ogni insediamento umano è costituito da due entità. Possiamo chiamarli strati o ambiti di realtà, piani o addirittura ontologie, sta di fatto che uno di questi ambiti è facile da descrivere, perché comprende la città che vediamo, la città fisica, un oggetto sempre imponente e imponentesi, anche quando non è di dimensioni grandissime. Potremmo chiamare questa entità la città visibile o, meglio, la città osservabile per evitare confusioni con un’ipotetica città invisibile, che c’è, ma ci è nascosta, come i cortili delle città proibite. La città osservabile è fatta di costruito, edifici e strutture, ma anche di persone fisiche e di animali, e di tutti gli oggetti che vi si collocano, oltre al substrato orografico che la contiene e che in alcuni casi ne viene potentemente plasmato: si pensi, per esempio, alle dighe di Amsterdam, New Orleans o Venezia, oppure alla maglia viaria di San Francisco gettata ortogonalmente e, si direbbe, prepotentemente, sulle elevazioni del luogo. La città osservabile può essere molto grande e complessa, tanto da strappare l’universale ammirazione, ma non costituisce un problema teorico: ecco «la Città è là», come diceva l’abitante del contado indicando Bisanzio al viandante, istinpòlin (eis ten polin) da cui il nome di Istanbul. Ma dietro (davanti, sotto, sopra, all’interno, forse attorno, insomma strettamente interconnessa con) questa città ne esiste un’altra che non è osservabile con alcun tipo di lunghezza d’onda fisica, ma che produce, nel senso letterale di ‘causa’, ‘fa’, ‘costruisce’, la città visibile. È la società urbana, con tutte le sue caratteristiche, demografiche, economiche, politiche e culturali, senza le quali la città non sarebbe così com’è, anzi non sarebbe affatto, perché la città non è un fatto naturale, una montagna di pietra su cui la ‘muffa umana’ si distende, adattandosi, ma un artefatto, prodotto a seguito di determinati processi sociali, non sempre trasparenti e non sempre ricostruibili nel percorso intenzione-realizzazione, ma in ogni caso esistenti. «Ogni città – usa dire chi ama la retorica – ha un’anima», possiede cioè certe caratteristiche che sono percepibili come uniche e originali, e che la distinguono dalle altre città. Tutti noi ci siamo prima o poi esercitati, da comuni osservatori o da esperti urbanologi, nel cercare di ricostruire i protocolli di scambio che legano le pietre allo spirito, la città osservabile alla società che l’ha prodotta, domandandoci quale intelligenza collettiva abbia costruito quel particolare palazzo o edificio sacro, quell’intricato insieme di edifici, vie e piazze, particolarmente quando ci troviamo di fronte alle affascinanti tracce di civiltà urbane scomparse.
L’archeologia, la storia dell’arte e dell’architettura, e le altre scienze sociali che si occupano del passato dei luoghi, in questi ultimi secoli hanno enormemente contribuito alla conoscenza delle origini e dell’evoluzione del fenomeno urbano. Unitamente alle scienze funzionali della città, cioè geografia, economia, sociologia e simili, che ci illuminano sui vincoli materiali, entro cui ci si deve muovere per costruire una città, le varie discipline urbanologiche ci hanno permesso di accumulare una mole crescente di dati sul rapporto tra l’artefice e l’artefatto. Si sono fatti e si continuano a commettere molti errori, soprattutto quando si procede moralisticamente o ideologicamente, perché la materia è scivolosa. Infatti i numerosi tentativi di legare l’indole dei popoli alle caratteristiche fisiche del territorio di insediamento hanno prodotto grandi quantità di luoghi comuni, ma poche certezze scientifiche. Invece la letteratura ci offre numerosi ed egregi esempi di studi che dimostrano in modo convincente come le attraenti facciate che gremiscono le sponde dei canali delle città olandesi, con case alte e strette, derivassero da esigenze economiche, e in genere l’ornato delle residenze e dei municipi delle città medievali fosse l’espressione del senso di una città pubblica, che non ritroviamo nelle medine delle città arabe, dove il fasto è tutto rivolto all’interno, oppure come l’impianto delle città romane derivasse da modelli militari o le avenidas madrilene dalle esigenze imperiali e così via (M. Romano, L’estetica della città europea. Forme e immagini, 1993; Romano 2004, 2008).
Esiste poi un ulteriore livello di complessità, perché, se la città è il prodotto della società urbana (e quella città è il prodotto di quella società urbana), è anche vera la relazione inversa, cioè che la città rappresenta il contesto in cui si sviluppa o si muove un certo tipo di società. Confrontiamo mentalmente il tipo di interazione sociale che possiamo osservare in un quartiere di ‘bassi’ come il Pallonetto di Santa Lucia a Napoli o il souk di Marrakech, da un lato, e le edge cities di Los Angeles, del cantone di Basilea o anche della più familiare Brianza, dall’altro. Non serve aggiungere altro, anche perché questo è un punto specifico del discorso sulle periferie e quindi sarà necessario approfondirlo. Qui basterà notare che, mentre sui protocolli di trasformazione da società a città abbiamo molte conoscenze, sul processo inverso – che tipo di città fisica provoca un certo tipo di relazioni sociali – ne abbiamo poche e, spesso, condizionate da atteggiamenti ideologici.
Il futuro è nella memoria
Le città europee sono caratterizzate dalla loro lunga storia, la quale fa sì che, con rare eccezioni, esse si siano sviluppate attorno a un nucleo originario, spesso di età plurimillenaria (che oggi conveniamo di chiamare appunto centro storico), tramite una serie di accrezioni successive. Questo nucleo originario è caratterizzato sociologicamente dalla circostanza di contenere le aree ‘sacre’ (hallowed) della città, cioè quelle sottratte al mercato: la cattedrale e le altre chiese con i loro sagrati, la casa della città o municipio, e altre zone pubbliche come il brolo, a suo tempo la rocca difensiva e oppressiva, il castello o la reggia. Queste funzioni pubbliche sono ‘sacre’ (alcune anche con una sacralità religiosa) semplicemente perché non possono essere vendute e sono sottratte al mercato. Non perché non abbiano valore, ma perché non si possono vendere. Questa sacralità ha agito nella storia da giroscopio, procurando una stabilità dovuta alla presenza centripeta delle classi dominanti, non tanto perché nel centro non ci fossero anche i poveri (anzi, nella città tradizionale le classi popolari convivevano strettamente con i patrizi), ma perché le classi dominanti si stabilivano in centro, con le loro abitudini e pratiche sociali e le loro istituzioni collettive. Così l’immigrazione da inurbamento, soprattutto nelle varie ondate di intensa urbanizzazione e industrializzazione, si è aggiunta a strati, dando vita alle ‘periferie’ e a quei cerchi successivi che caratterizzano appunto le città europee: dai medievali faubourgs e neuburgs o newburies, ai Corpi santi di Milano, fino alle barriere operaie e alle cinture rosse (ceintures rouges) delle periferie o banlieues operaie della fine dell’Ottocento. Queste ultime sono poi quelle che hanno lasciato la loro impronta nella memoria e nella toponomastica collettiva: quando si parla di problemi delle periferie si pensa subito alle ‘sterminate banlieues parigine’, alle periferie operaie di Milano, Genova e Torino e così via. A Parigi, in particolare, dove questa immagine è stata forgiata, si passò dalla banlieue tradizionale alla ‘cintura nera’, una zona teoricamente sottratta all’edificazione per ragioni militari attorno alle mura di fortificazioni di Thiers, in cui però si sviluppò un insediamento spontaneo e tollerato di poveri, transeunti, piccoli criminali (detti apaches) e decine di migliaia di collettori di immondizia, i famosi biffins, che (prima che il prefetto Eugène Poubelle imponesse nel 1884 le igieniche pattumiere in stagno) ogni mattina, prima del sorgere del sole, dilagavano silenziosamente nei cortili delle case parigine trasportando nei loro insediamenti fuori porta ogni tipo di immondizia, che veniva riciclata minuziosamente. Il successivo sviluppo industriale, in parte per espulsione dall’interno, ma soprattutto dall’esterno, determinò un insediamento di artigiani e operai che si trasformò nelle ceintures rouges soprattutto a partire dal momento in cui, dopo la Prima guerra mondiale, il potere militare trasferì al Comune di Parigi la fascia di rispetto al di fuori delle mura, divenute obsolete: una corona di 34 chilometri per 400 metri.
Nell’urbanizzazione nordamericana, al contrario, le città sono nate attorno a nuclei funzionali come porti, incroci di strade e stazioni ferroviarie. La marginalità sociale non ha coinciso automaticamente con la marginalità spaziale (riferita a luoghi periferici di un nucleo originario): a volte per essere marginali bastava semplicemente essere on the wrong side of the tracks, ma il punto fondamentale è che, in quelle città, tutto il territorio è sottoposto ai meccanismi capitalistici della rendita, quindi anche nella zona centrale è tutto sempre ‘in vendita’. Anzi è proprio nelle zone centrali, in cui, per ragioni bene esplorate da economisti e geografi della central place theory, gli effetti della rendita sono più energetici, che si creano (e si distruggono) continuamente zone di marginalità sociale. Il visitatore è sempre colpito dalle evidenze di questa pressoché totale asacralità dei suoli nelle città statunitensi, che fa sì che il vecchio si affianchi con disinvoltura al nuovo. I meccanismi di distribuzione della popolazione sono strettamente economici, e le aree centrali vengono spesso lasciate degradare (anche con l’immissione strumentale di famiglie di popolazioni marginali come afroamericani o caribici) per far scendere i prezzi, come nel caso del cosiddetto blockbusting. In ogni caso, come intuito dagli studiosi della Scuola di Chicago, le parti centrali delle città degli Stati Uniti offrivano tutte le condizioni di nicchia per l’insediamento delle nuove popolazioni, soprattutto di immigrati, dando vita così a quel ‘mosaico’ sociale che, ancora oggi, caratterizza quelle realtà urbane: il ghetto ebraico, Little Italy, Chinatown, la Yorkville dei tedeschi o, più di recente, i ghetti neri e latinoamericani. È lì che troviamo i problemi delle periferie urbane, periferie intese in senso sociologico e non spaziale, che vengono definiti inner city problems.
Nelle vere periferie in senso spaziale o geometrico, si sono invece trasferite le classi medie, con un processo iniziato negli anni Venti, ma portato a compimento dopo la Seconda guerra mondiale, e oggi stabilizzato, ma non necessariamente in modo definitivo. I motivi per cui le classi medie americane si sono trasferite nei sobborghi sono molti, e non si può qui ricostruire l’intero processo che ha effettivamente creato una nuova forma urbana che dà la sua impronta all’urbanizzazione del 21° secolo (Beauregard 2006). La suburbanizzazione ha comunque innescato un processo di filtering down, cioè di passaggio di edilizia in buone condizioni a classi sociali disagiate, e, paradossalmente, ha contribuito al miglioramento delle condizioni abitative delle classi meno abbienti rimaste nel centro della città, riducendo la segregazione dei ghetti. Il risultato è la classica morfologia sociale delle città americane, che è stata sovente assimilata a una ciambella o doughnut, con le classi sociali più elevate all’esterno e i poveri all’interno.
In entrambi i casi l’organizzazione spaziale del territorio agisce come una rete visibile su cui, in corrispondenza dei grandi flussi di mobilità umana, si impigliano differenti popolazioni, caratterizzate da diversità di reddito, provenienza sociale o geografica, età, organizzazione materiale e così via. In queste correnti, le decisioni individuali non sono assenti, ma la razionalità individuale si colloca all’interno di contesti plasmati da processi collettivi. Si tratta di quelle dinamiche che il sociologo Émile Durkheim, parlando proprio del movimento dal villaggio alla città, definisce una corrente d’opinione, una spinta collettiva, e il rapporto tra le decisioni individuali e i vincoli di contesto può essere compreso con il concetto di ‘strutturazione’ elaborato dal sociologo Anthony Giddens. Città nordamericane e città europee creano campi opposti e offrono immagini esattamente speculari: nelle città europee le popolazioni via via sopravvenute, in genere le più povere, si aggregano in strati successivi attorno ai nuclei storici, mentre nell’urbanizzazione americana le periferie sono per così dire nutrite dal centro, per ‘fuga’ all’esterno delle classi medie, e l’immagine popolare è quella, citata, della ciambella. Nelle grandi metropoli del sottosviluppo le periferie urbane si sono sviluppate per accrezione, in un certo senso secondo il modello europeo, ma con due profonde differenze: la debolezza del nucleo storico (spesso di origine coloniale o premoderna), con scarsa o nulla infrastrutturazione urbana nell’area esterna che copre a volte estensioni gigantesche; e l’estrema miseria delle popolazioni che si addensano nelle aree periferiche, favelas, shanty towns o bidonvilles. Anche le città italiane, per periodi relativamente brevi durante le fasi acute dell’inurbamento postbellico, hanno sperimentato fenomeni simili su scala assai ridotta, con le borgate romane o le coree milanesi, ma la differenza è appunto la scala dimensionale e il livello sociale che, nelle regioni meno sviluppate del mondo, rendono il fenomeno strutturale e gigantesco. Tuttavia, occorre aggiungere che i fattori strutturali che esamineremo più a fondo fanno sì che, un po’ ovunque, ma soprattutto nelle aree maggiormente sviluppate, il 21° sec. sia caratterizzato da un modello di urbanizzazione che si sovrappone ai diversi modelli esistenti, e che in Europa, soprattutto, è entrato in conflitto con il modello tradizionale di urbanizzazione, la cui difesa ha rappresentato un cruccio particolare per Jacques Delors negli ultimi anni della sua presidenza alla Commissione europea (v. la sua introduzione a En quête d’Europe. La ville: les carrefours de la science et de la culture, 1994).
Ora siamo in grado di affrontare con una migliore strumentazione concettuale l’analisi dei problemi delle periferie urbane e delle aree metropolitane, minimizzando il rischio di procedere alle generalizzazioni erronee, di cui questa letteratura in particolare è alquanto ricca. Questa strumentazione ora ci serve per capire come la periferia (spaziale) non coincida sempre con la marginalità sociale, e come oggi sia le città europee sia quelle nordamericane si stiano risolvendo in una grande e a volte indistinta area periferica. Questa nuova realtà che caratterizza gli insediamenti urbani del 21° sec., altrove ho suggerito di chiamarla meta-città (Via col vento. Materialità e informazione nella meta-città, in La città nell’era della conoscenza e dell’innovazione, a cura di G. Amato, R. Varaldo, M. Lazzerani, 2006): cioè una forma urbana che va ‘al di là’ sia della forma tradizionale di città con il suo contado o hinterland sia delle delimitazioni amministrative esistenti che, riflettendo quasi dovunque il semis urbain, cioè l’insediamento urbano tradizionale, non riescono a cartografare correttamente (e quindi neppure a governare nel modo appropriato) questi nuovi territori metropolitani.
Per semplificare, tenendo presenti le specificità morfologiche già esaminate, possiamo classificare i problemi delle periferie metropolitane in tre grandi gruppi di disagi sociali: problemi sistemici derivanti dalla morfologia dominante dell’urbanizzazione; problemi legati ai cicli demografici; problemi sociali in senso proprio, marginalità, disordine, criminalità, segregazione. Si deve tener conto, tuttavia, che questa è una catalogazione di comodo, utile a raggruppare il materiale disponibile, e non dedotta da uno schema teorico, anche se può aiutarci a costruirne uno.
Problemi sistemici
Le grandi periferie
Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale universale, ma, mentre il movimento delle popolazioni sulla superficie del pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie umana, non c’è dubbio che oggi sia la città, e in particolare la città basata sul trasporto individuale, a costituire l’ambiente fisico e culturale in cui il sistema di mobilità si è sviluppato in massimo grado. Parlando di un ‘sistema di mobilità’ ci riferiamo non solo al suo aspetto tecnologico, veicoli e infrastrutture – l’hardware, per così dire – ma anche alle sue componenti economiche, culturali e sociali – il software. Questo punto è stato sottolineato da numerosi autori, ma in modo particolarmente cogente da Alain Gras (2003) con il suo concetto di macrosystème. Sfortunatamente l’idea non è entrata nella pratica corrente delle decisioni politiche: gli aspetti sociali e culturali, e perfino quelli economici, sono spesso trattati come variabili residue, riunite sotto l’unica voce (vagamente definita) di domanda di mobilità, trascurando l’aspetto complementare dell’accessibilità, un valore dominante e altamente considerato nelle organizzazioni sociali contemporanee.
La cultura della mobilità è interconnessa alla diffusione delle ICT (Information and Communication Technologies). Contrariamente a molte anticipazioni pubblicizzate decenni addietro con grande risonanza, la diffusione degli strumenti d’informazione utilizzabili ‘da casa’, non ha ricondotto le città a un playback tecnologico della rivoluzione industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di ‘cottages elettronici per telelavoratori’ e quindi uccidendo le città, come è stato detto da alcuni. Le nostre case si sono trasformate in piattaforme per una miriade di macchine ICT ma, contemporaneamente, paradosso non ancora ben compreso, le città continuano a estendersi e i sistemi di trasporto sono sottoposti a pressioni crescenti, malgrado (o piuttosto in concomitanza con) la diffusione delle reti di informazione. L’analisi di ciò che accade nelle grandi aree metropolitane urbane e nel mondo può aiutare a chiarire tale paradosso.
Sempre più città, sempre più grandi
A partire dall’inizio del 21° sec., le aree urbane ospitano la maggioranza della popolazione di questo pianeta e, in molti Paesi, la maggior parte vive non nelle città, ma nelle loro immediate vicinanze (D. Pumain, F. Godard, Données urbaines, 1996); in Francia, per es., a partire dal 2002 il 51% della popolazione totale vive nel periurbain (Guilluy, Noyé 2004). Ma questo territorio continua a venire considerato come un accessorio residuale della vera città; nella vulgata corrente prevale ancora la visione ottocentesca della contrapposizione tra città e campagna, anche se questa distinzione è oggi fittizia e si basa su concezioni obsolete, benché tuttora ampiamente diffuse nell’opinione pubblica. Il geografo svedese Staffan Helmfrid nota che «gli abitanti delle città pretenderebbero di trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con sé stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro» (Nuvolati 2007, p. 7), e accusano gli agricoltori di contaminare questa natura con le loro pratiche sempre più meccanizzate, dipendenti dall’impiego di prodotti chimici e distruttive del tessuto rurale tradizionale. Ma è proprio la crescita impetuosa delle città ad aver cambiato quella che ci si ostina ancora a chiamare campagna. In duecento anni, con un ritmo progressivamente accelerato, l’urbanizzazione ha invertito i termini del rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana, portandolo dal 90% (dominante in 58 dei 60 secoli che marcano l’insediamento agricolo europeo) al 10%, e anche meno, dell’attuale popolazione rurale in questo continente, imponendo una produttività agricola sempre più intensiva che, a sua volta, conduce alla devastazione dell’insediamento rurale tradizionale.
Il processo che, nell’ultima parte del secolo scorso, in Italia è stato malauguratamente interpretato come fuga verso le campagne da una cultura impreparata a cogliere le novità, altro non è che un aspetto della crescita metropolitana, che continua indisturbata anche negli ultimi anni. Se si fa una semplice analisi della crescita della popolazione a livello comunale nel decennio che termina nel 2001 (con il primo censimento del nuovo secolo), si vedrà facilmente che (per la quasi totalità, salvo quelli in aree con una specifica vocazione turistica) crescono solo i Comuni adiacenti alle aree metropolitane consolidate al censimento precedente: l’Italia metropolitana cresce e si amplia, e la campagna residuale si spopola sempre più.
Suburbia, sviluppo ed energia
I costi energetici e ambientali di questa dinamica sociale sono enormi, e non meno lo sono i disagi sociali. Questo processo non è solo il risultato di trasformazioni locali, ma, come spiega Robert A. Beauregard sintetizzando il pensiero di molti autori, «questo nuovo tipo di urbanizzazione ha comportato una devastante perdita di residenti nelle città industriali, una perdita che si è accompagnata a un’ampia serie di mali sociali, economici e politici. A ciò ha corrisposto un’ondata di popolazione dalle vecchie città ai nuovi sobborghi dormitorio in rapida crescita e, poco dopo, a una parallela crescita delle città negli stati meridionali e occidentali. Non sorprende quindi che risultati di questi cambiamenti siano stati l’ampliamento e la moltiplicazione delle aree metropolitane. Questi effetti della rottura nel processo di urbanizzazione hanno fissato numerosi cambiamenti sociali del ‘secolo breve americano’ e hanno gettato le basi per una corrispondente mutazione dell’identità del Paese» (2006, p. 19). Anche in Europa, secondo le evidenze di un’ormai consolidata tradizione di ricerca, l’espansione metropolitana ha distrutto l’essenza dei maggiori centri abitati, che hanno perso grandi quantità di popolazione, particolarmente di popolazione attiva e di coppie giovani con figli, con effetti fortemente e visibilmente negativi sui modi canonici di partecipazione civica. Beauregard sostiene anche che l’interruzione di un secolare processo di concentrazione urbana ha trasformato la «crescita da redistributiva in parassitica» (p. 19). Il cambiamento ha cioè spostato l’accento dalla produzione ai consumi e dalla manifattura ai servizi, causando sia una trasformazione della struttura delle differenze sociali con un iniziale passaggio di gran parte della classe operaia dei settori oligopolistici e sindacalizzati nella classe media sia una contemporanea delocalizzazione delle residenze, che vengono separate dai luoghi di produzione grazie al fenomeno del pendolarismo, con ulteriore riduzione dello spazio pubblico.
Spazio pubblico e vita privata
Non tutte le forme urbane hanno il medesimo interesse per lo spazio pubblico; in alcuni casi lo spazio pubblico può essere un’estensione o un complemento di quello privato, ma in altri casi può anche essere il suo contrario. La città europea medievale ha introdotto nella civiltà urbana un concetto molto importante, cioè la responsabilità collettiva dei cittadini-proprietari per la bellezza delle vie e delle piazze, come ci ricorda Marco Romano, che ha rilanciato il concetto weberiano di ‘città occidentale’ (L’estetica della città europea. Forme e immagini, 1993; Romano 2004, 2008). Ma in altri casi lo spazio pubblico è considerato come residuo irrilevante della sfera della vita privata e non degno di attenzione. Le ‘città senza comunità civiche’ rappresentano un tipo descritto efficacemente da Yanis Pyrgiotis, diffuso specialmente tra le città del Sud europeo, dove l’abbellimento delle abitazioni rivolto ‘agli stranieri’, cioè alle persone esterne al nucleo familiare, è considerato uno spreco di soldi, in quanto manca l’interesse per ‘l’occhio pubblico’ e la sua relativa coscienza (R. Sennett, The conscience of the eye, 1990; trad. it. 1992). La mancanza di occhio pubblico e l’esclusione generalizzata degli altri in un indistinto ‘non-privato/non-pubblico’ è probabilmente l’eredità di un modo antico di concepire l’urbano, in cui lo spazio pubblico non esisteva, perché la città era il risultato di una storia di aggregazioni di abitazioni private divise dalle religioni familiari che governavano la prepoliticizzazione degli individui. La diffusione del periurbano contribuisce a indebolire la città pubblica e a frammentarla in una serie di entità private, fortemente introiettate e poco interessate allo spazio comune.
Dal pozzo al rubinetto
Un suggerimento di William J. Mitchell ci aiuta a capire meglio quanto sta avvenendo. Negli insediamenti tradizionali, egli afferma in E-topia. ‘Urban life, Jim-but not as we know it’ (1999), le persone usavano recarsi al pozzo del paese per prendere l’acqua, ma questa attività rappresentava anche un’importante occasione quotidiana per incontrarsi, scambiare informazioni e per assolvere tutta una serie di altre funzioni pubbliche. Oggigiorno l’acquedotto permette a tutti noi di aprire il rubinetto e avere l’acqua direttamente in casa, con grande risparmio in termini di tempo e di fatica, anche se a discapito del mantenimento dei contatti sociali. Mitchell sostiene che il rubinetto in casa cancella le relazioni sociali che si creavano intorno al pozzo, ma ciò è solo parzialmente vero: infatti se si cancellano alcune relazioni faccia a faccia (Gemeinschaft, o comunità, secondo la terminologia del sociologo Ferdinand Tönnies), contemporaneamente tra ciascun utilizzatore di rubinetto e le sorgenti dell’acqua si interpone un complesso sistema di relazioni sociali, costituito da chi ha ideato l’acquedotto, l’ha progettato, ha raccolto i capitali per la sua realizzazione, ha ottenuto i permessi da qualcuno che li ha rilasciati, mentre qualcun altro l’ha costruito, lo gestisce, raccoglie i denari per l’uso, lo ripara, lo amplia e così via. In altre parole, tra il pozzo e noi si frappone una complessa struttura di divisione del lavoro che, molto semplicemente, caratterizza la società moderna (Gesellschaft, o società), definendone anche il sistema di diseguaglianze. E (aggiungiamo per sottolineare il nesso con il nostro argomento specifico) dando vita a un confuso complesso di inquietudini e problemi connessi ai rischi derivanti da una elevata divisione del lavoro (U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, 1986; trad. it. 2000). Più o meno la stessa dinamica si è sviluppata attorno all’informazione. Nella città tradizionale la ‘piazza’ costituiva il luogo d’incontro per lo scambio di merci e informazioni e, se qualcuno proveniente dal ‘palazzo’ (per usare la contrapposizione guicciardiniana) voleva comunicare un messaggio, inviava in ‘piazza’ un araldo con il compito di diffondere la notizia. Lo stesso valeva per chiunque avesse denaro a sufficienza per servirsi di un araldo. Oggi ci basta il rubinetto di qualunque dei molti ‘strumenti’ che gestiscono le informazioni (di cui la televisione è il più rilevante) per ‘ricevere il mondo in casa’.
Il fenomeno della ‘recessione dei confini’, cioè dell’ampliamento dei margini del territorio delle aree urbanizzate, terre ‘sconfinate’ (M. Sernini, Terre sconfinate. Città, limiti, localismo, 1996), è dunque il prodotto di due traiettorie tecnologiche, quella della mobilità fisica e quella dell’informazione. Il risultato di questa comoda, ma esiziale, accoppiata è un’area immensa (il periurbano o sprawl) a bassa densità (basterà dire che la densità delle aree metropolitane degli Stati Uniti è inferiore alla densità totale dell’Italia), che consuma una quantità enorme di energia, produce una quantità straordinaria di inquinamento e una quantità insopportabile di mobilità e congestione, perché dove c’è bassa densità non si possono organizzare trasporti collettivi.
Problemi legati al ciclo demografico
I problemi legati ai cicli demografici sono, oltre a quello ambientale, essenzialmente due: lo squilibrio demografico tra centro e aree periurbane indotto dalla morfologia metropolitana, e le aree segregate derivanti dai flussi migratori. A causa dei meccanismi in atto la distribuzione per età crea un forte, e attualmente crescente, squilibrio tra centro e periferie metropolitane. Nei nuclei urbani si concentrano in misura più che proporzionale le fasce di popolazione anziana, sia quella benestante, che trova una serie di servizi, a cominciare da quelli medici, sanitari e di assistenza, sia quella più povera, che si trova come imprigionata nei grandi complessi di edilizia pubblica nelle periferie del nucleo tradizionale ora sopravanzate dallo sprawl. Le popolazioni più giovani o, meglio, le famiglie della popolazione attiva con figli, sono invece distribuite nel periurbano, ma gran parte del loisir quotidiano degli adulti è assorbito dagli spostamenti giornalieri e sottratto perciò alla socialità, mentre i giovani e, soprattutto, gli adolescenti vivono una socialità metropolitana delocalizzata (disembedded), che è all’origine di molti disagi e tensioni sociali, soprattutto quando il ciclo demografico si incontra (o scontra) e si combina con quello migratorio.
Contrariamente alle pessimistiche aspettative degli ultimi decenni del secolo scorso, la cosiddetta esplosione demografica non ha avuto luogo; non, in ogni caso, nelle proporzioni temute e previste da un modello meccanico di crescita esponenziale lineare. Tuttavia il disagio ambientale rimane al centro delle preoccupazioni urbane, anche se la questione demografica ha assunto aspetti diversi da quelli recentemente preconizzati. La popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma con un notevole rallentamento del tasso di incremento, che è risultato fortunatamente molto al di sotto della previsione esponenziale lineare di 12 miliardi nel 2015. Si potrebbe dedurne che anche la crescita urbana la quale, come abbiamo visto, si accompagna alla crescita demografica totale, registri un rallentamento (UN-HABITAT 2004).
Tuttavia, il mutamento della quantità totale della popolazione non sempre mantiene invariati i rapporti tra le sue diverse componenti, e sussiste il fondato timore che un effetto indiretto della diminuzione del tasso di popolazione (in sé un fattore positivo per l’ambiente) possa essere invece un aumento dello sviluppo incontrollato delle città. «‘Una fine della pressione esercitata dalla crescita di popolazione nelle aree rurali potrebbe essere favorevole alla salvaguardia dell’ambiente – ha affermato Joel Cohen, il direttore del Laboratory of populations della Columbia University e della Rockefeller University –. Tuttavia ciò si verificherà solo se le persone che vivono nelle città comprenderanno che è nel loro interesse preservare bacini idrografici, terreni agricoli e aree allo stato naturale’. Sul versante negativo, alcuni vantaggi dell’urbanizzazione potrebbero essere controbilanciati da una diminuzione dei componenti per famiglia. Ciò significa più famiglie, maggiore dispersione insediativa urbana e suburbana e un uso meno efficiente delle risorse» (Revkin 2004, p. 12). Abbiamo già visto che ciò si è verificato soprattutto nelle città nordamericane che sono le più dipendenti dall’automobile.
Ma il vero problema è che questo modello si sta estendendo in tutto il mondo, soprattutto in quelle che oggi, nel linguaggio tecnico delle organizzazioni internazionali, vengono chiamate MUR (Mega Urban Regions), e in particolare nelle regioni asiatiche dove si trovano alcune delle maggiori conurbazioni del mondo. Certo, i Paesi ricchi sono all’origine di gran parte dei comportamenti consumistici e del relativo inquinamento, ma le grandi città dei Paesi più poveri, che crescono a ritmi incalzanti, producono un tasso enorme e crescente di inquinamento a livello mondiale. Nei primi mesi del 1999 venne scoperta una nuvola di smog, grande quanto tutti gli Stati Uniti, che si estendeva per tutto l’Oceano Indiano, dalla Thailandia alla costa africana (W.K. Stevens, Haze over Indian Ocean casts a cloud on climates, «International herald tribune», June 11, 1999, pp. 1-4), con conseguenze a livello quasi planetario. Più di recente, particelle inquinanti di origine asiatica sono state intercettate dalle centraline di rilevamento dell’aria di Londra. Il danno ambientale generato da uno sviluppo fondato sull’industria automobilistica non è solo il prodotto dell’urbanizzazione nelle regioni maggiormente sviluppate. La superficie urbanizzata, che oggi copre il 2% dell’intera superficie del pianeta, lascia un’impronta marcata sulla Terra: per il cibo necessario a sfamare la popolazione urbana e per la legna indispensabile alle sue attività, Londra richiede un’area 58 volte superiore a quella coperta dal suo territorio municipale. L’area urbana mondiale produceva alla fine del 20° sec. il 78% delle attività che generano carbonio (principalmente dovute all’attività umana), il 76% dell’uso industriale di legname e il 60% delle riserve d’acqua negli acquedotti (M. O’Meara, Urban growth is harmful to our planet’s health, «International herald tribune», June 22, 1999, p. 9).
Resta il fatto che, in generale, sono ancora le città delle regioni più sviluppate che contribuiscono maggiormente ad alterare in modo crescente i complessi equilibri che intercorrono tra la specie umana, il territorio e le sue risorse. Ed è fuori di dubbio che il sistema urbano europeo, essendo uno dei più estesi e articolati, meriterebbe un’attenzione particolare (che per ragioni di spazio in questa sede gli si può solo in parte dedicare), soprattutto per ricordare che anch’esso, forse il più antico e continuativo insediamento cittadino (semis urbain) del mondo, sta subendo, sotto la pressione delle dinamiche prima citate, una trasformazione simile a quella che ha investito la metropolizzazione nordamericana. Questa fase è caratterizzata dunque da una massiccia individualizzazione e privatizzazione dei mezzi di trasporto e da un generale aumento della mobilità, sia all’interno dei ‘sistemi urbani quotidiani’ sia tra di loro, in modo che l’era dell’automobile e del jet si fondino sinergicamente e la diffusione di modelli di vita urbana generi la creazione di regioni urbane integrate con la loro crescente interconnessione. Il disagio ambientale è diventato uno dei punti centrali delle discussioni sulle periferie metropolitane (Ville éphémère, ville durable, 2008; Lefèvre, Sabard 2009), ma non sempre la passione ambientalistica corrisponde a visioni organiche del problema, cedendo non di rado a posizioni ideologiche, che si traducono anche in iniziative estemporanee, come quella che si propone di rinverdire le città piantando un certo numero di alberi, e trascura il fatto che un albero in città va irrigato, dev’essere mantenuto, sporca, provoca allergie e richiede trattamenti antiparassitari e zanzarifughi, tutte cose che non giovano al bilancio ambientale complessivo. Il vero problema ambientale delle metropoli contemporanee non è il ferro dei grattacieli, ma il cemento delle villette e l’asfalto delle strade che le collegano.
Invecchiamento e segregazione
Il nostro apparato culturale non è molto attrezzato a cogliere i cambiamenti: la situazione attuale la possiamo osservare, ma il futuro ce lo dobbiamo ‘immaginare’, e non sempre questo sforzo di immaginazione è ricompensato da ciò che realmente accadrà. Per nostra fortuna, i fenomeni demografici sono relativamente più prevedibili: data una certa composizione per età della popolazione in una certa area, se è noto il tasso di fertilità di questa popolazione in quel dato periodo è possibile prevedere con una buona approssimazione come essa sarà dopo una generazione. Tuttavia queste previsioni sono facilmente scompigliate se in quel medesimo luogo intervengono forti flussi migratori, con nuove popolazioni in entrata e spostamenti da un’area all’altra. La società urbana è dinamica, e si muove come un grande mare percorso dalle invisibili maree delle successioni generazionali e dalle ondate della mobilità sociale e spaziale; passando tra le strutture fisse della città, porzioni della società in movimento s’impigliano in reti economiche e giuridiche, e si solidificano in aree di segregazione, che a loro volta subiscono evoluzioni interne, in buona parte dovute a fenomeni come l’invecchiamento. Mutamenti di difficile previsione al momento della creazione degli insediamenti che, nel migliore dei casi, erano basati sulle caratteristiche della popolazione originaria. È ciò che è avvenuto in molti dei grandi complessi di edilizia sovvenzionata, i grands ensembles, di edilizia pubblica o popolare – public o council housing nel mondo anglosassone, o HLM (Habitation à Loyer Modéré, in precedenza HBM, Habitation à Bon Marché) – dove i sistemi di assegnazione degli alloggi hanno contribuito a stabilizzare consistenti porzioni di popolazione che poi, con il passare degli anni, sono invecchiate, finendo per dipendere fortemente dall’ambiente a economia protetta. Il meccanismo è semplice: all’inizio i grandi complessi di edilizia popolare venivano costruiti in risposta alle spinte demografiche dell’inurbamento che, nel secondo dopoguerra, in molte aree e in determinati periodi, è stato assai impetuoso; si doveva quindi costruire in fretta e a costi bassi. Combinandosi con alcune filosofie abitative derivanti da concetti ottocenteschi (per es., il ‘falansterio’ di Charles Fourier, ripreso dalla Carta d’Atene del 1933), che assumevano, alquanto ideologicamente, che la densità e la massa critica producessero alta intensità di relazioni sociali, la tecnologia e l’organizzazione industriale di alcuni grandi studi di architettura e ingegneria permisero exploit costruttivi da record: 400 metri di facciata continua a Haut-du-Lièvre a Nancy, 18.500 alloggi a Aulnay-Sevran, 975 alloggi nella banlieue di Nantes per un edificio con un solo ascensore per 4000 abitanti. In Italia, Corviale a Roma, il quartiere Zen a Palermo, le Vele a Napoli (ora abbattute), le Dighe a Genova, sono diventati ben presto l’immagine di una periferia disumana caratterizzata da un forte degrado sociale. In realtà questa rappresentazione è molto parziale: per migliaia di famiglie tali abitazioni hanno comunque rappresentato un miglioramento delle condizioni di vita e, spesso, la realizzazione di un importante avanzamento sociale (Stébé 1999, 20073, p. 32). Tuttavia la dinamica demografica agisce in modo da trasformare un’opportunità (la casa) in una costrizione, a causa di meccanismi che modificano le condizioni originarie. Quasi dovunque le priorità di politica pubblica favoriscono l’insediamento di coppie giovani con figli e di popolazione a basso reddito; con un ciclo di due o tre decenni, in genere i figli si sposano e si spostano, mentre i genitori invecchiano nei luoghi di origine e talvolta le famiglie si riducono via via a nuclei di persone sole e anziane, e frattanto lo spazio lasciato libero viene progressivamente occupato in modo interstiziale da nuove popolazioni, spesso di origine etnicamente diversa. Le abitazioni, spesso di qualità relativa, sono soggette a degrado, ma le persone che vi abitano sono vincolate perché la loro sopravvivenza dipende dalla disponibilità di un alloggio a basso costo. Molto spesso, in queste operazioni di edilizia pubblica si sono mescolate grandi speculazioni con assunti sociologici ideologizzati da costruttori e politici ed errate immagini popolari che attribuiscono all’architettura la capacità taumaturgica di creare ‘società felici’ o, al contrario, la responsabilità dei mali sociali.
L’architettura è in realtà solo una componente di un processo complesso di segregazione progressiva, in cui le caratteristiche fisiche e architettoniche si combinano con i criteri legali ed economici di assegnazione degli alloggi, i particolari destini occupazionali e i cicli di vita degli abitanti, i mutamenti nel tempo e i rapporti con le altre aree del periurbano, ma, soprattutto, con la presenza o meno di servizi collettivi. Le ricerche più accreditate concordano nell’osservare come, una volta costruiti, questi quartieri sono ‘abbandonati’ a loro stessi (La città abbandonata, 2007). L’architettura c’entra fino a un certo punto e, per quante responsabilità possano avere gli architetti e i developers (per es., la scarsa qualità e la standardizzazione degli edifici), i meccanismi che determinano la segregazione sono economici, sociologici, culturali.
Le molte osservazioni critiche che i ricercatori hanno accumulato sui meccanismi segregativi sono state in parte recepite dai politici. In Francia si è passati dalle ZUP (Zones à Urbaniser en Priorité, 195 in tutta la Francia per un totale di 2,2 milioni di alloggi), in cui si costruiva con grande rapidità per far fronte alla domanda di alloggi, alle ZAC (Zones d’Aménagement Concerté), in cui l’edilizia sovvenzionata deve trovare accordi con la comunità locale; ora si comincia a introdurre il concetto di social housing, i cui interventi vengono inseriti nel contesto sociale e non solo urbanistico, e mediante i quali si favoriscono azioni di partenariato e di reti. In conclusione, è possibile dire che molti disagi sociali sono dovuti all’interazione reciproca tra ambiente fisico manipolato dall’uomo e caratteristiche sociologiche, e che non è facile eliminare le tendenze segregative: la segregazione può essere aiutata o contrastata da una forma architettonica o da un’altra, ma è soprattutto un prodotto di dinamiche eminentemente sociali. La tendenza delle politiche dell’abitazione sembra andare nel senso di una sempre maggiore integrazione tra politiche sociali in senso stretto e interventi architettonici e urbanistici.
Problemi sociali
L’anomia metropolitana
Il principale problema sociale della nuova forma urbana deriva, come si è già accennato, non tanto dall’emarginazione sociale in senso tradizionale, caratteristica delle grandi periferie industriali del secolo precedente, ma da quella che potremmo chiamare l’anomia metropolitana: anomia che non si collega necessariamente con l’emarginazione sociale e la povertà, ma, in modo apparentemente paradossale, si accompagna alla diffusione dell’agio e del benessere e alle corrispondenti trasformazioni nel modo dell’abitare e del consumare. Una vasta letteratura ci ha illuminato sulla trasformazione dell’economia e dei luoghi della produzione da un modello fordista a uno che si è convenuto chiamare postfordista. Questo processo e le sue conseguenze spaziali sono ben compresi e sono ora patrimonio di comune conoscenza; va solo ricordato che vari aspetti di questa mutazione, quali la decentralizzazione produttiva e organizzativa just-in-time e il generale passaggio da produzione manifatturiera a economie di servizio, contribuiscono ad aumentare il bisogno di accessibilità e mobilità. Ma, mentre le grandi periferie urbane del 19° e del 20° sec. erano collegate alla nascita delle fabbriche, allo sviluppo di una vasta popolazione di inurbati e alla sua trasformazione in soggetto politico di classe mediante l’opera di partiti e organizzazioni operaie, i disagi sociali delle periferie metropolitane non sono da collegarsi specificamente ai luoghi di produzione, ma si possono invece cogliere meglio nelle abitazioni, in cui ha avuto luogo un ciclo analogo a quello fordista-postfordista delle fabbriche.
Il lavoro domestico nelle abitazioni richiede, non meno di quello in fabbrica, una data quantità di forza lavoro – anche se questo importante aspetto della vita quotidiana viene sovente dato per scontato – e questa forza lavoro si avvale anch’essa di macchine. Via via che, a seguito del generale aumento del tenore di vita, le abitazioni si ampliano, per la grande massa di persone che non possono contare su un aiuto umano retribuito anche il lavoro domestico si serve in misura crescente di ‘macchine per la casa’ che, in un primo momento, esattamente come per la fabbrica fordista, erano costituite da apparecchi time and labour saving, che sostituivano cioè il lavoro umano e facevano risparmiare tempo e fatica. Le macchine di questo tipo – dalla stufa in ghisa al microonde – hanno liberato una rilevante quantità di lavoro, soprattutto femminile, per altre attività, compreso il secondo lavoro in fabbrica o in ufficio, ma sempre con una stretta relazione tra tali macchine per la casa e lo spazio pubblico.
La casa postfordista
Tuttavia, la produzione dell’insieme di questa famiglia di macchine trova un limite, perché il tempo che può essere risparmiato giornalmente è limitato; contemporaneamente i produttori di apparecchi per la casa hanno scoperto una straordinaria opportunità offerta dal tempo risparmiato grazie alle macchine time-saving, così si è creato un mercato gigantesco, e in crescita, per le macchine time-consuming, cioè che utilizzano il tempo reso disponibile dall’organizzazione fordista del lavoro domestico. I congegni e gli apparecchi si moltiplicano: la radio, la macchina fotografica, la cinepresa 8 mm, l’hi-fi, il mangianastri, in seguito il videoregistratore e il lettore DVD e, ultimamente, la vasca per l’idromassaggio e una miriade di dispositivi per la stanza da bagno e le cure fisiche e, infine, il personal computer e Internet, ma soprattutto la televisione, la più vorace divoratrice di tempo. Gli effetti di tali sviluppi sugli spazi pubblici sono di grande portata. La televisione è stata presentata dagli operatori dei mass media come una finestra aperta sul mondo, mentre, in realtà, si tratta piuttosto di un occhio aperto su di noi: un occhio molto potente, attraverso il quale La strada entra nella casa, come Umberto Boccioni anticipava, con una brillante premonizione, già nel 1911 nel titolo di un suo quadro: una sonda del mondo introdotta nel cuore delle nostre vite familiari da élites senza scrupoli. L’agorà è stata trasferita all’interno della casa, e il tempo libero, che prima includeva anche la vita pubblica, è conseguentemente eroso da questa nuova occupazione che, per l’abitante medio delle nazioni sviluppate, occupa circa 3 ore al giorno (4 in Italia). Come nel rapporto tra pozzo e rubinetto, le macchine time-consuming sostituiscono il contatto diretto con una tecnostruttura ancora più complessa, attraverso la quale l’agorà viene lentamente risucchiata all’interno della casa, con conseguenti profonde trasformazioni che si ripercuotono sul processo politico; e la televisione continua a essere il principale surrogato contemporaneo dell’agorà.
I cambiamenti investono anche la forma fisica della città. Un numero crescente di macchine ci permette di risparmiare fatica e tempo; quest’ultimo viene poi consumato in attività d’intrattenimento: le case diventano sempre più attraenti e vi trascorriamo sempre più tempo. Le macchine, tuttavia, richiedono anche più spazio: pensiamo al numero di prese elettriche necessarie oggigiorno in una stanza. Aumenta quindi la necessità di cercare appartamenti più grandi. E, a causa della struttura della rendita e dei relativi valori, aumenta la pressione per cercare una casa in periferia, così che il risparmio sull’immobile possa controbilanciare i costi di spostamento. Il risultato è che la superficie urbana cresce più rapidamente della popolazione: per es., una città di 100.000 ab. non ha una superficie doppia rispetto a una città di 50.000, ma due o tre volte maggiore. Ciò è dovuto alle pressioni centrifughe che contribuiscono fortemente alla creazione di una vasta area a bassa densità di popolazione, con le residenze, i collegamenti e i relativi servizi. Contemporaneamente, le automobili private diventano il luogo dove trascorriamo una sempre maggiore parte della nostra giornata, e sempre più rivestono il ruolo di prolungamento dello spazio privato domestico: le vogliamo confortevoli e, oggi, possibilmente connesse (radio, cellulari, GPS), cose queste che ovviamente consumano sempre più energia, inquinando e distruggendo l’agorà fisica. Il garage diventa una parte importante della nostra dimora, e la ‘cittadinanza’ di insediamenti fisicamente densi dà origine a un diverso tipo di morfologia urbana, con diverse regole di partecipazione.
La privatizzazione della comunità
Il processo di privatizzazione del territorio delle aree metropolitane ha raggiunto punte molto elevate negli Stati Uniti, con la diffusione delle comunità recintate (gated communities) e, più in generale, con una serie di forme di residential associations che vanno dagli accordi per regolare alcuni comportamenti al fine di mantenere livelli comuni di decoro e valore immobiliare, a una più ampia aspirazione di sostituire una comunità basata sui valori civici dei partecipanti al potere statale degli enti locali. Nonostante la grande diffusione di queste associazioni, che coprono approssimativamente il 40% del territorio statunitense (Ghettos américains, banlieues françaises, 2006; Moroni 2007), vi sono molti dubbi sulla loro genuina capacità di rappresentare una reale comunità civica, anche perché in larga misura sono gli stessi proprietari o i developers a stabilirne le regole. Su questo punto Clayton P. Gillette, uno studioso della Law school della New York university, ha fornito un’ampia rassegna delle caratteristiche delle residential communities, esprimendo riserve sulla loro effettiva capacità di realizzare valori civici, pur non negando la loro funzione di rappresentare un legittimo diritto dei partecipanti ad associarsi con persone reciprocamente scelte (Courts, covenants, and communities, «The university of Chicago law review», 1994, 4, pp. 1375-441). È certo che l’ideologia della comunità che si autorganizza, determinando quindi la propria composizione e, ovviamente, le relative esclusioni, è un’antica tradizione degli Stati Uniti, dove il peso dello Stato razionalizzatore del territorio uscito dal processo di modernizzazione europeo è molto inferiore, e dove, d’altro lato, la disponibilità di territorio non inserito in una circoscrizione municipale (unincorporated land) è molto ampia, e permette quindi l’insediamento di associazioni private che riescono a imporre rapporti giuridici pattizi molto forti in aree (in genere counties, contee) in cui la forza del dominio amministrativo è tenue. Le motivazioni all’origine di tali associazioni residenziali sono varie, ma su tutte domina il desiderio di assicurare sicurezza ai propri associati. Com’è noto, le abitazioni suburbane americane hanno attratto grandi masse appartenenti alla classe media che cercavano di sfuggire ai rischi delle inner cities, adottando uno stile di vita più libero. Ma poi le inquietudini dell’anomia metropolitana si sono diffuse anche nei suburbia: Tom Wolfe, l’acuto critico dei costumi della middle class americana, spiega che ci si può difendere da un ambiente ostile anche con armature abbellite dai praticelli di fronte a casa (lawns) che costituiscono il paesaggio artificiale favorito dei sobborghi americani dell’happy worker (The pump house gang, 1968): Wolfe li chiama home moat, il fossato difensivo della casa (Diamantini, Martinotti 2009, p. 21). Tali inquietudini si diffondono dovunque e, nonostante i tassi di criminalità siano dovunque in diminuzione, sobillate da politici e opinionisti, si trasformano in ansia e a volte paura. In Italia, la vasta ‘villettopoli’ che ricopre un’enorme parte del Paese ha dato luogo a un’iconografia (resa familiare da numerose immagini televisive) diversa da quella americana: invece del praticello-fossato, le case del periurbano sono circondate da mura, e la paratia contro l’invasore è il cancelletto con il citofono. L’occhio spesso non va oltre questo invalicabile ostacolo, neppure quel potentissimo occhio che è la camera televisiva. Nella tradizione dell’Europa del Nord, le case del villaggio avevano grandi finestre a vetrate perché il pastore puritano girando la sera potesse accertarsi che le ‘pecorelle del suo gregge’ non commettessero turpitudini come bere o peggio; la comunità (Gemeinschaft) era presente fin dentro la casa e la tipologia architettonica del vetro si è trasformata nella picture window suburbana. Nella tradizione dell’Europa meridionale prevale ancora la struttura delle abitazioni della polis antica, poi ripresa dalla abitazioni medievali o dalle costruzioni arabe: le mura della casa sono cieche e i giardini all’interno. La comunità è assente, e il prete viene a sapere mediante la confessione e non spiando nelle case dei parrocchiani. La concezione degli spazi pubblici è diversa, così la difesa contro l’insicurezza si traduce in una proposta come quella delle ronde, che in un certo senso risponde alle funzioni delle gated communities statunitensi.
Lezioni dal caso delle banlieues parigine
«Tra la fine di ottobre e la metà di novembre del 2005, un’ondata di sommosse ha scosso oltre cento città della Francia. Scoppiate nel dipartimento della Seine-Saint-Denis a causa della morte di due adolescenti che si credevano inseguiti dalla polizia, si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese. A meno di sei mesi da quegli eventi, una parte della gioventù francese si è mobilitata, nell’ambito di un movimento di grande ampiezza» (Lagrange, Oberti 2006; trad. it. 2006, p. 1). Non è qui il caso, anche per ragioni di spazio, di rifare la cronaca di questi eventi che ebbero risonanza mondiale. Conviene invece concentrarsi sulle spiegazioni di questi avvenimenti che, come sempre avviene nei casi estremi, se da un lato derivano da cause idiosincratiche, dall’altro permettono di osservare dinamiche che altrimenti rimarrebbero celate.
Le sommosse hanno accompagnato tutta la storia delle città: da quelle per il pane alle jacqueries medievali e ai pogrom antisemiti in Europa e Medio Oriente, o, al contrario, alle rivolte di minoranze come quelle dei ghetti americani o alle sommosse interetniche inglesi degli anni Settanta e Ottanta, o ancora alla rivolta circoscritta, ma non per questo meno significativa, degli extracomunitari a Castel Volturno nel 2008. Ma le rivolte avvenute nelle periferie parigine nel 2005 esprimono caratteristiche particolari, che hanno subito stimolato la domanda se si sia trattato di un fenomeno destinato a ripetersi altrove o di un avvenimento limitato al territorio francese. Non è stata data una risposta univoca a questa domanda, ma dagli studi (H. Rey, La peur des banlieues, 1996; S. Body-Gendrot, Les villes face à l’insécurité, 1998; Stébé 1999, 20073; Lançon, Buchoud 2003; Donzelot 2006) emerge un consenso abbastanza ampio sulla peculiarità della banlieue parigina, su cui vale la pena di soffermarsi brevemente. Nella regione urbana intorno a Parigi si sono sovrapposte molte attività di sviluppo urbanistico e molti interventi sociali successivi. La teoria del welfare prevalente negli ultimi decenni è stata quella della mixité, si è cercato cioè di favorire la mescolanza di diversi gruppi etnici e sociali per produrre integrazione. Ma, come fanno notare Hugues Lagrange e Marco Oberti (2006), che hanno svolto una delle più significative ricerche sulle émeutes metropolitane, questa integrazione nella società francese non c’è stata. I giovani, soprattutto quelli di origine nordafricana, si sono sentiti imprigionati in una mixité sans mobilité, cioè in una multiculturalità che non portava da nessuna parte. La società francese, nel suo complesso, non offriva strumenti d’integrazione e, in ultima analisi, è stato questo il vero problema dei giovani, soprattutto immigrati di seconda generazione. Come avviene un po’ in tutta Europa, essi sono ammessi soltanto ad alcuni livelli della società contemporanea, per es. l’educazione di base e la sicurezza sociale, ma non riescono ad accedere alla pienezza dei diritti civili ed economici necessari per essere davvero uguali agli altri.
Le prospettive
Non è facile delineare con un minimo di fondatezza delle prospettive per l’evoluzione del disagio sociale nelle grandi aree metropolitane del mondo; innanzitutto perché, come abbiamo visto, la varietà delle situazioni locali è molto grande, e poi perché in questo momento è difficile prevedere l’andamento di alcune macrovariabili come il costo dell’energia da un lato e i grandi flussi di popolazione dall’altro. Tuttavia possiamo cercare di isolare alcune tendenze. La prima riguarda la mobilità: da qualunque punto di vista si consideri la questione, la mobilità privata individuale sembra destinata a essere limitata e sostituita dalla mobilità con mezzi di trasporto a basso costo energetico (Wiel 2002). La seconda riguarda l’uso del territorio e, più in generale, il rapporto tra la collocazione spaziale delle varie attività, non solo le abitazioni, ma i luoghi di produzione e distribuzione, le infrastrutture, i luoghi di intrattenimento, cioè tutti quegli spazi che Melvin M. Webber, molto tempo prima che il termine venisse volgarizzato, definì non-place urban realm (The urban place and the non-place urban realm, in Explorations into urban structure, ed. M.M. Webber, 1964, pp. 79-153; trad. it. 1968).
In conclusione, se siamo convinti che la città in cui viviamo – la città sconfinata a bassa densità di popolazione, che si allarga consumando tempo ed energia – sia l’unica possibile, tendiamo a dimenticare la fattibilità di modelli alternativi. Questi ultimi esistono e sono attuabili, se si decide di affrontare seriamente il problema dell’erosione incontrollata del suolo periurbano trovando le soluzioni urbanistiche e di organizzazione dei trasporti che permettano una ricollettivizzazione della mobilità con un passo decisivo verso il risparmio energetico. In questo particolare periodo, il crollo del prezzo del petrolio dovuto alla crisi economica mondiale non deve far dimenticare che il principale fattore che ha configurato l’attuale morfologia urbana, cioè il prezzo dei consumi energetici, è da considerarsi un fenomeno che appartiene a un ciclo industriale in chiusura (Casiroli 2008). Purtroppo i recenti indirizzi legislativi (sostenuti anche da una comprensibilmente emotiva reazione al catastrofico evento sismico verificatosi in Italia nella primavera del 2009) sembrano puntare a una nuova spinta verso lo sviluppo del periurbano, da alcuni considerato la lebbra erosiva del territorio italiano. Questo porta il discorso sul tema della cosiddetta ridensificazione, di cui si comincia oggi a parlare anche in Italia, l’idea cioè che le politiche di pianificazione urbana dovrebbero puntare a creare le condizioni per favorire processi di concentrazione piuttosto che di dispersione della popolazione sul territorio. Le aree metropolitane non sono un atollo irto di accrezioni, secondo una bella immagine di Giorgio Bocca, ma rappresentano la città contemporanea, grande, molto articolata e con una ricchezza disordinata che riflette la complessità della società contemporanea (S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia, 1993). Senza un intervento consistente sui fattori che determinano lo sprawl e senza un’accelerazione delle politiche abitative che, come abbiamo visto, prendono sempre più coscienza dei fattori economici, sociali e culturali, il disordine attuale continuerà a produrre costi ambientali, economici e sociali giganteschi e superflui.
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