Abstract
Il processo di divorzio su domanda unilaterale si articola in due fasi. La prima di esse ha luogo davanti al presidente del tribunale che, dopo avere ascoltato i coniugi, tenta la loro conciliazione: se questa fallisce il presidente stesso pronuncia con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione e trattazione dinanzi a questo. La fase del giudizio davanti al giudice istruttore segue sostanzialmente le regole del processo ordinario di cognizione, concludendosi con un provvedimento avente forma di sentenza e soggetto ai normali mezzi di impugnazione. Il secondo tipo di processo di divorzio, ossia su domanda congiunta, diverge notevolmente da quello su domanda unilaterale, vuoi perché ha luogo per intero davanti al tribunale come organo collegiale (senza distinzione tra la fase presidenziale e quella dinanzi al giudice istruttore), vuoi perché si svolge in forme camerali, pur concludendosi con una sentenza.
La disciplina processuale del divorzio è contenuta quasi completamente nell’art. 4 l. 1.12.1970, n. 898 (l. div.), ma anche in altre norme di questo provvedimento legislativo (v., per es., art. 5, co. 1 e 5, e art. 6, co. 10). Tali regole non sono tuttavia autosufficienti, nel senso che da un lato pretendono di essere integrate con le disposizioni generali del c.p.c., dall’altro richiedono ampi raccordi con il giudizio ordinario di cognizione regolato nel II libro del codice di rito. In particolare, per quanto concerne il divorzio su domanda unilaterale, quest’ultima esigenza deriva dalla struttura del procedimento in esame che, dopo una prima fase connotata da marcati elementi di specialità, ne prevede una seconda che, salvo alcune deviazioni, si svolge secondo la disciplina del giudizio ordinario. Ancora, il regime processuale del divorzio è completato da alcune norme specifiche contenute nel c.c., per esempio dall’art. 155 sexies in tema di poteri istruttori del giudice (applicabile al divorzio ex art. 4, co. 2, l. 8.2.2006, n. 54), nonché, quanto ai profili transnazionali, da leggi speciali e normative comunitarie (in particolare, per la giurisdizione statuale in materia di divorzio, v. l’art. 32 l. 31.5.1995, n. 218, e, per l’ambito comunitario, l’art. 3 del Reg. (CE) 27.11.2003, n. 2201/2003 (cd. Bruxelles Due bis). Una precisazione: la pressoché totale comunanza di disciplina processuale tra divorzio su domanda unilaterale e separazione giudiziale, nell’epoca compresa tra il 1987 e la riforma del 2005/2006, e la quasi identità di regime per il periodo successivo, consentirà di richiamare fungibilmente la dottrina e la giurisprudenza formatesi, nelle predette epoche, con riferimento ai due giudizi (salvo le differenze che, se del caso, si segnaleranno).
La dottrina nettamente maggioritaria ritiene oggi che il processo di divorzio abbia natura contenziosa, configurando precisamente un’ipotesi di azione costituiva necessaria. Pare dunque ormai superata la tesi che ascriveva tale processo alla volontaria giurisdizione, così com’è decisamente minoritario l’altro (discutibile) orientamento secondo il quale solo la fase del giudizio che ha luogo davanti all’istruttore sarebbe contenziosa, mentre quella presidenziale avrebbe carattere “amministrativo” o “volontario” (sull’argomento v. per tutti, Vullo, E., Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, I, Bologna, 2011, 9 ss.).
2. La competenza
Il processo di divorzio appartiene alla competenza per materia del tribunale (cfr. art. 4, co. 1, l. div. e art. 9, co. 2, c.p.c.); quest’ultimo, poiché si tratta di controversia in cui è obbligatorio l’intervento del p.m. (v. infra sub § 3), giudica in composizione collegiale ai sensi dell’art. 50 bis, n. 1, c.p.c.
La competenza per territorio è soggetta a regole diverse nel caso di divorzio promosso su domanda unilaterale e in quello di divorzio su ricorso congiunto.
Quanto alla prima ipotesi, oggi l’art. 4, co. 1, l. div. – dopo che la Consulta ne ha dichiarato la parziale incostituzionalità, eliminando il riferimento all’ultima residenza comune dei coniugi (C. cost., 23.5.2008, n. 169, in Fam. dir., 2008, 669, con nota di F. Tommaseo; in Riv. dir. proc., 2009, 488, con nota di L. Salvaneschi; in Foro it., 2008, I, 2081, con nota di C.M. Cea; in Guida dir., 2008, fasc. 25, 42, con nota di M. Fiorini) – individua innanzitutto due fori esclusivi e concorrenti a scelta dell’attore, stabilendo che la domanda si propone davanti al tribunale del luogo dove il coniuge convenuto ha la residenza o il domicilio; se il coniuge convenuto è irreperibile o ha la residenza all’estero, si applicano i fori sussidiari, anch’essi concorrenti ed esclusivi, della residenza o del domicilio del ricorrente; infine, se entrambi i coniugi hanno la residenza all’estero, oppure qualora il coniuge convenuto sia irreperibile e il ricorrente sia residente all’estero, la competenza spetta a qualunque tribunale della Repubblica.
Come accennato, si tratta di fori esclusivi e inderogabili: in particolare, il regime di inderogabilità ex art. 28 c.p.c. è dovuto alla necessaria partecipazione al giudizio del p.m. (v. infra, § 5) (Cass., 4.2.1981, n. 751, in Dir. eccl., 1981, II, 590).
Relativamente al divorzio su domanda congiunta, lo stesso art. 4, co. 1, l. div. stabilisce che la competenza per territorio appartenga al giudice del luogo di residenza o di domicilio «dell’uno o dell’altro coniuge». Dunque, la legge prevede quattro fori concorrenti a scelta delle parti, per i quali vale ancora la regola dell’inderogabilità, nel senso che tali criteri non sono suscettibili di un accordo di proroga (v. per tutti, Saletti, A.-Vanz, M.C., Procedimento e sentenza di divorzio, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, continuato da G. Bonilini, II ed., Famiglia e matrimonio, I, 2, Torino, 2007, 709; contra, isolatamente, Cipriani, F., in Cipriani, F.-Quadri, E., La nuova legge sul divorzio, II, Napoli, 1988, 327 s.). Se nessuno dei coniugi ha residenza o domicilio in Italia, si ritiene che la domanda possa essere proposta innanzi a qualsiasi tribunale della Repubblica (Magnone Cavatorta, S., Divorzio: II) Disciplina processuale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1999, 3).
L’incompetenza del giudice adito, sia per materia sia per territorio, è soggetta alla disciplina dell’art. 38, co. 1, 3 e 4, c.p.c. (in argomento, v. diffusamente Vullo, E., op. cit., 37 s.).
3. La legittimazione a proporre la domanda di divorzio. La partecipazione al giudizio del p.m. e l’intervento dei terzi
La legittimazione ad agire in materia di divorzio (e di separazione) spetta ai coniugi, i quali, secondo l’opinione prevalente (pur contraddetta da alcune remote pronunce giurisprudenziali), non possono avvalersi di un rappresentante processuale.
Un problema assai dibattuto riguarda l’applicabilità delle norme sulla rappresentanza legale degli interdetti per infermità di mente ai procedimenti di separazione e di divorzio (v. Vullo, E., op. cit., 42 ss.). Sulla questione si è peraltro espressa in tempi abbastanza recenti la suprema Corte, la quale ha statuito che, in mancanza di una specifica disposizione di legge che contempli il relativo potere, il tutore dell’interdetto per infermità di mente non potrebbe proporre domanda per lo stesso, ma tale legittimazione spetterebbe a un curatore speciale nominato dal presidente del tribunale su istanza del tutore, e ciò argomentando dall’art. 4, co. 5, l. div., che prevede questa nomina quando sia il convenuto in causa di divorzio a essere «malato di mente o legalmente incapace» (Cass., 21.7.2000, n. 9582, in Giust. civ., 2000, I, 3145; ivi, 2001, I, 2751, con nota di G. Cicchitelli; in Dir. fam., 2001, 1404, con nota di G. Grazioso).
Se dunque la legittimazione attiva del tutore è tema tradizionalmente controverso, di contro la legge ammette per tabulas che il coniuge interdetto per infermità di mente sia convenuto nel giudizio di divorzio, prevedendo che in questo caso il presidente gli nomini un curatore speciale (cfr., art. 4, co. 5, l. div.).
Riguardo ai minori emancipati e agli inabilitati, taluno sostiene che essi potrebbero promuovere autonomamente l’azione de qua o resistervi, mentre altri reputano necessaria l’assistenza di un curatore. Quanto poi all’interdetto legale, lo si ritiene certamente legittimato a proporre una domanda di separazione o di divorzio (e ad essere convenuto nei rispettivi giudizi).
Ancora, i problemi appena illustrati rilevano pure con riferimento all’amministrazione di sostegno: in particolare, ci si è chiesti se il beneficiario possa validamente proporre domanda di divorzio, nonché, nell’ipotesi di risposta negativa, se sia configurabile una sostituzione, nell’esercizio di tale diritto, da parte dell’amministratore di sostegno. Al riguardo, si è affermato che il predetto beneficiario dovrebbe conservare la facoltà di assumere tale iniziativa, salvo il caso in cui il giudice tutelare - accertato che le condizioni della persona interessata siano tali da impedire il mantenimento di una capacità di gestione in ordine a tale rapporto - inibisca espressamente (con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno) al beneficiario stesso la proposizione della domanda di divorzio. Al verificarsi di tale ipotesi, mentre vi è chi ammette che il giudice tutelare possa prevedere, in ordine alla causa di divorzio, la legittimazione ad agire dell’amministratore di sostegno, altri invece lo negano fermamente (per riferimenti, v. Vullo, E., op. cit., 48 s., secondo il quale, peraltro, legittimato a proporre la domanda di divorzio dovrebbe essere un curatore speciale, la cui nomina potrà essere chiesta dall’amministratore di sostegno).Il p.m. interviene obbligatoriamente nel processo di divorzio: lo stabilisce l’art. 5, co. 1, l. div., ribadendo quanto già previsto, per le cause matrimoniali in generale, dall’art. 70, co. 1, n. 2, c.p.c. La quasi totalità della dottrina considera obbligatorio tale intervento anche nel procedimento di divorzio su domanda congiunta (ex multis, Tommaseo, F., in Bonilini, G.-Tommaseo, F., Lo scioglimento del matrimoni, III ed., Milano, 2010, 744 s.; contra, Trabucchi, A., Un nuovo divorzio. Il contenuto e il senso della riforma, in Riv. dir. civ., 1987, II, 128). Mentre è pacifico che il p.m. sia tenuto a partecipare alla fase del giudizio che si svolge davanti al giudice istruttore, è invece controverso se l’intervento debba già esplicarsi nell’udienza presidenziale (v. Vullo, op. cit., 52 s.).
Relativamente all’intervento in causa di terzi nel processo di divorzio (e di separazione), l’orientamento tradizionale lo riteneva tendenzialmente inammissibile riguardo alla domanda principale sullo status, in considerazione della natura personalissima dell’azione; tuttavia parte della dottrina e della giurisprudenza di merito lo reputava legittimo limitatamente alle domande accessorie o connesse, ovvero in ordine alle decisioni sulla prole o sugli assetti patrimoniali, che non interferiscano con il diritto personalissimo al divorzio (v. sul punto Vullo, E., op. cit., 53 ss.). Tuttavia oggi la questione va rimeditata alla luce delle novità introdotte dalla legge sull’affidamento condiviso del 2006. Vari studiosi ritengono infatti che tale normativa avrebbe ampliato il novero dei soggetti legittimati a intervenire nei processi della crisi matrimoniale: precisamente si afferma, non senza contrasti, che il nuovo art. 155 quinquies c.c., prevedendo il diritto dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente a percepire un assegno periodico di mantenimento (assegno che il giudice può disporre «valutate le circostanze»), avrebbe legittimato con certezza l’intervento di costoro nei predetti giudizi. Intervento che, in base alle richieste avanzate e alla concreta situazione processuale, sarà principale o adesivo dipendente, oppure, secondo altri, sempre e soltanto adesivo autonomo (id est litisconsortile), anche se per alcuni i figli maggiorenni non indipendenti economicamente sarebbero addirittura litisconsorti necessari. Ancora, mentre la suprema Corte ha considerato inammissibile, pure nel nuovo quadro normativo, l’intervento dei nonni «anche quando lamentano che malgrado sia stato disposto l’affidamento condiviso la nuora impedisca loro di mantenere rapporti con i piccoli», parte della dottrina ed alcuni giudici di merito, argomentando sulla base dell’art. 155, co. 1, c.c., sembrano riconoscere la possibilità dell’intervento adesivo dipendente, per es., dei nonni stessi e degli zii (su questi temi , v. Vullo, E., op. cit., 56 ss. e Id., Inammissibile l’intervento degli ascendenti nei giudizi di separazione e di divorzio, in Fam. dir., 2012, 349 ss.).
4. Il ricorso introduttivo
Iniziando con l'esaminare il processo di divorzio su domanda unilaterale, esso si introduce con ricorso che deve contenere «l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto» sui quali la domanda è fondata, nonché l’indicazione dei figli legittimi, legittimati o adottati da entrambi i coniugi durante il matrimonio (cfr. art. 4, co. 2 e 5, l. div.).
Nonostante la norma speciale richieda solo tali requisiti, la dottrina prevalente ritiene che il ricorso de quo sia comunque soggetto all’onere di minima completezza funzionale previsto per ogni atto di parte dall’art. 125 c.p.c. e che pertanto debba contenere anche l’indicazione del giudice adito, delle parti (Tommaseo, F., op. cit., 340 ss.) e dell’oggetto della domanda (Vullo, E., I procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, cit., 62); inoltre, poiché anche nel processo di divorzio vige il principio generale dell’onere del patrocinio ex art. 82 c.p.c., tale atto va sottoscritto da un difensore munito di procura (Vullo, E., op. loc. ultt. citt., a cui si rinvia anche per le indicazioni della dottrina dissenziente). Infine, il ricorso dovrà pure menzionare il codice fiscale delle parti e dei difensori (cfr. artt. 125, 163, co. 3, n. 3, c.p.c.), nonché indicare il luogo dove il matrimonio è stato concluso, affinché il cancelliere possa adempiere all’obbligo di comunicazione previsto all’art. 4, co. 3, l. div. (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 714).
Ai sensi dell’art. 4, co. 6, l. div., al ricorso (e, per il convenuto, alla prima memoria difensiva) sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi rispettivamente presentate (sui vari problemi interpretativi posti da questa formula normativa v. Vullo, E., op. ult. cit., 68 ss.).
Sempre con l’atto introduttivo del giudizio il ricorrente potrà anche formulare domande accessorie (per es., sull’affidamento e il mantenimento dei figli, l’assegnazione della casa coniugale, la misura e la modalità dell’assegno divorzile), fermo restando, tuttavia, che in questo momento del processo non matura alcuna preclusione e che quindi le stesse richieste potranno essere validamente proposte per la prima volta anche con la memoria integrativa di cui all’art. 4, co. 10, l. div. (Tommaseo, F., op. cit., 345 s.).
5. Il deposito del ricorso, il decreto di fissazione dell’udienza e le difese del convenuto
Dal co. 5 dell’art. 4 l. div. si desume con chiarezza che il ricorso introduttivo del giudizio va depositato nella cancelleria del giudice adito. Secondo l’opinione nettamente maggioritaria con tale adempimento il ricorrente deve ritenersi costituito in giudizio e l’iscrizione a ruolo della causa avviene d’ufficio, senza bisogno che sia presentata l’apposita nota (per riferimenti v. Vullo, E., op. ult. cit., 79 ss.).
Il deposito del ricorso determina la pendenza della causa e da tale momento si producono tutti gli altri effetti processuali conseguenti alla proposizione della domanda (per es., la perpetuatio iurisdictionis ex art. 5 c.p.c.). Quanto invece agli effetti sostanziali della domanda (tuttavia difficilmente prospettabili nei processi della crisi coniugale: Salvaneschi, L., I procedimenti di separazione e divorzio dopo la novella del processo civile, in Riv. dir. proc., 1996, 36), alcuni li collegano al deposito del ricorso, altri propendono per verificare, di volta in volta, se siano da ricondurre alla proposizione della domanda o alla conoscenza che ne abbia la controparte, mentre per altri ancora si produrrebbero solamente con la notifica del ricorso e del relativo decreto (per indicazioni, v. Vullo, E., op. ult. cit., 86).
Ai sensi dell’art. 4, co. 3, l. div., il cancelliere deve comunicare il ricorso al cancelliere del luogo dove il matrimonio fu trascritto per l’annotazione in calce all’atto.
Una volta che il ricorrente ha depositato l’atto introduttivo del giudizio, il presidente del tribunale, nei cinque giorni successivi, fissa la data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti a sé, udienza che avrà luogo entro novanta giorni dal deposito del ricorso; entrambi questi termini, come tutti quelli imposti al giudice, sono da ritenere non perentori. Con lo stesso decreto il presidente stabilisce il termine (ancora non perentorio) entro il quale il ricorso e il decreto devono essere notificati all’altro coniuge, nonché il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria difensiva e documenti (sul punto v. Vullo, E., op. cit., 96 ss.).
Con riferimento alle eventuali omissioni in cui possono incorrere il presidente o il coniuge ricorrente in questa fase del giudizio, si sostiene che non si avrebbe nullità del ricorso, sia nel caso di decreto privo della data dell’udienza presidenziale, sia qualora il ricorrente non abbia rispettato il termine entro il quale notificare al coniuge convenuto la domanda introduttiva del giudizio e il ricorso: in queste ipotesi, infatti, si ha una nullità della vocatio in ius, a cui consegue l’attivazione del meccanismo di sanatoria previsto dall’art. 164 c.p.c. con efficacia ex tunc (Magnone Cavatorta, S., op. cit., 5). In proposito, la suprema Corte ha statuito, anche se riguardo all’identica fase introduttiva del giudizio di appello, che il mancato rispetto da parte del ricorrente del termine per notificare alla controparte il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza si risolve in una nullità sanabile, comportando solo, in mancanza di costituzione del convenuto, la fissazione da parte del giudice di una nuova udienza e la rinnovazione della notifica (con l’indicazione di un termine questa volta perentorio) ex art. 291 c.p.c. (cfr. Cass., 22.2.2006, n. 3837, in Giur. it., 2006, 2339, con nota di I. Lombardini, in caso di omessa notifica; sulla possibilità, però, che questo indirizzo possa cambiare sulla scia della più recente giurisprudenza relativa all’analoga fase introduttiva del processo del lavoro, v. Vullo, E., op. ult. cit., 91 ss.).
Come detto, con lo stesso decreto il presidente fissa il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria difensiva e documenti. Secondo la tesi preferibile, tale memoria non deve necessariamente essere di costituzione. Dunque in questa fase del giudizio il convenuto può assumere, a sua scelta, uno dei seguenti atteggiamenti: 1) rinunciare a qualunque attività difensiva, e pertanto non depositare alcuna memoria; 2) depositare una memoria difensiva, senza però costituirsi in giudizio (in questo caso la memoria sarà sottoscritta personalmente dalla parte); 3) costituirsi in giudizio con il ministero di un procuratore, ma senza incorrere in alcuna preclusione (preclusioni che matureranno solo con il deposito della memoria ex art. 4, co. 10, l. div.: v. infra, § 10) (v. per riferimenti, anche difformi, Vullo, E., op. cit., 97 s.).Nel silenzio della legge, il termine assegnato al coniuge convenuto per l’eventuale deposito di memoria difensiva e documenti è da considerare ordinatorio. Con la precisazione tuttavia che, secondo l’opinione preferibile, l’inosservanza di un termine ordinatorio non prorogato prima della scadenza ai sensi dell’art. 154 c.p.c., e lasciato inutilmente scadere, avrebbe gli stessi effetti preclusivi del termine perentorio, comportando dunque la nullità dell’atto: con la conseguenza che, in caso di mancato rispetto del termine de quo (lo si ripete, non prorogato), il convenuto potrà svolgere all’udienza presidenziale esclusivamente difese orali (diff. altri studiosi per i quali invece al convenuto sarebbe consentito presentarsi direttamente all’udienza presidenziale e, in quella sede, depositare memoria difensiva e documenti: v. spec. Campus, M., in Codice ipertestuale di separazione e divorzio, a cura di G. Bonilini, A. Chizzini e M. Confortini, II ed., 271). Qualora il presidente ometta di fissare tale termine, ciò non dovrebbe precludere al convenuto di produrre scritti difensivi e documenti; in tal caso, il convenuto stesso potrà chiedere al presidente un breve rinvio dell’udienza al fine di predisporre una difesa scritta (Doronzo, A., La riforma del processo civile, a cura di F. Cipriani e G. Monteleone, Padova, 2007, 563).
Sempre con il decreto di fissazione dell’udienza il presidente può nominare al convenuto malato di mente o legalmente incapace un curatore speciale (art. 4, co. 5, l. div.), e ancora disporre l’audizione dei figli ultradodicenni (v. infra, § 8) e invitare il ricorrente a integrare la documentazione prodotta (Tommaseo, F., in Commentario breve al diritto della famiglia, a cura di A. Zaccaria, II ed., Padova, 2011, 1625).
6. L’udienza presidenziale: la comparizione personale delle parti e l’assistenza del difensore
Entrambe le parti hanno l’onere di comparire danti al presidente personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, e con l’assistenza di un difensore (art. 4, co. 7, l. div.).
Se la mancata comparizione delle parti è dovuta a gravi e comprovati motivi – e l’impedimento, pur grave, ha carattere solo momentaneo – si ritiene che il presidente possa, (o, per alcuni, debba) rinviare l’udienza ad altra data (v., anche per riferimenti, Vullo, E., op. ult. cit., 114 s.).
La legge disciplina separatamente l’ipotesi di mancata comparizione (non giustificata) in udienza del ricorrente e del convenuto. Nel primo caso l’art. 4, co. 4, l. div. equipara tale fattispecie alla rinuncia alla domanda di divorzio, stabilendo che quest’ultima resti priva di effetto: la rinuncia alla domanda di divorzio è da inquadrare come mera “rinuncia agli atti”, i cui effetti si risolvono esclusivamente nell’estinzione del giudizio in corso, consentendo l’eventuale riproposizione di una nuova domanda, anche per gli stessi fatti posti a fondamento della prima (diff., Tommaseo, F., op. ult. cit., 1626). Qualora sia il convenuto a non comparire all’udienza, la stessa norma stabilisce invece che il presidente possa fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata. Alcuni studiosi reputano che l’esercizio di tale potere abbia natura discrezionale, mentre altri affermano, con varietà di sfumature, che il rinvio sarebbe ammissibile solo per situazioni di oggettivo e giustificato impedimento.
L’art. 4. l. div. non regola invece espressamente l’ipotesi che entrambe le parti siano assenti ingiustificate all’udienza: in questo caso è da ritenere che si determini l’improcedibilità del giudizio, senza alcuna possibilità di riassunzione, salva restando l’eventuale riproposizione di una nuova domanda di divorzio (anche) per gli stessi fatti posti a fondamento della prima (Vullo, E., op. ult. cit., 119 s.).
7. L’udienza presidenziale: il tentativo di conciliazione
All’udienza il presidente tenta la conciliazione dei coniugi, sentendoli prima separatamente e poi congiuntamente (art. 4, co. 7, l. div.). Secondo una risalente decisione di legittimità l’inosservanza di questo ordine di audizione determinerebbe la nullità del tentativo (Cass., 28.9.1976, n. 3169, in Foro it., 1977, I, 900; contra, Tommaseo, F., in Bonilini, G.-Tommaseo, F., Lo scioglimento del matrimonio, cit., 379, nt. 163).
La suprema Corte ha recentemente affermato che il tentativo di conciliazione può essere omesso «ove il giudice raggiunga il logico convincimento della sua inutilità» (v. spec. Cass., 16.11.2005, n. 23070, in Fam. pers. e succ., 2007, 119, con nota di F.R. Fantetti; in senso sostanzialmente conforme, Cass., 23.7.2010, n. 17336, in Il Civilista, 2011, fasc. 5, 40, con nota di Vecchio). Dato atto di questo orientamento, occorre però ricordare che per la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza più risalente l’omissione del tentativo di conciliazione (salvo nei casi prima ricordati) comporterebbe la nullità del procedimento, anche in virtù del disposto degli artt. 1 e 2 l. div., per i quali tale incombenza è considerata premessa della pronuncia di scioglimento del matrimonio o della cessazione dei suoi effetti civili (v. per indicazioni, Vullo, E., op. ult. cit., 125 ss.).
8. I provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole: natura, contenuto, fonti del condimento del giudice, stabilità, comunicazione e notificazione
Se il tentativo di conciliazione fallisce o quando il convenuto non compare (v. supra, § 6), il presidente, sentiti i coniugi e i loro difensori, pronuncia, anche d’ufficio, un’ordinanza con la quale dà i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione e trattazione dinnanzi a questo (assegnando altresì alle parti i termini di cui si parlerà infra, § 10). Tra la data dell’ordinanza (o quella della sua notificazione al convenuto non comparso) e l’udienza davanti al giudice istruttore devono decorrere i termini di cui all’art. 163 bis. c.p.c. ridotti a metà (art. 4, co. 9, l. div.).
La natura dei provvedimenti presidenziali nell’interesse dei coniugi e della prole è stata sempre controversa. Tuttavia oggi, e in particolare dopo le riforme del codice di rito del 2005/2006, il carattere cautelare di tali misure pare difficilmente contestabile: una tesi contrastata, ma condivisa da molti studiosi, da vari giudici di merito e, in passato, anche dalla Cassazione (per riferimenti, v. Vullo, E., op. ult. cit., 139 ss. e 132, nt. 4).
Il contenuto di tali provvedimenti si modella sulle concrete esigenze di tutela e può riguardare, per esempio: l’affidamento della prole, stabilendo altresì se del caso i diritti del coniuge non affidatario e la misura in cui egli è tenuto a contribuire al loro mantenimento; l’autorizzazione dei coniugi a vivere separati, salvo che non lo fossero già; i rapporti patrimoniali tra i coniugi, fissando la misura degli eventuali assegni e provvedendo sul diritto di abitazione nella casa familiare (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 728).
L’art. 4, co. 8, conferisce al presidente il potere di pronunciare «anche d’ufficio» i provvedimenti interinali nell’interesse dei coniugi e della prole. La dottrina interpreta in senso restrittivo questa regola, reputandola operante solo per i provvedimenti assunti nell’interesse dei figli minori: in tal caso il presidente assume le misure che valuta più opportune, senza essere vincolato dalla domanda delle parti o da un loro eventuale accordo. Diversamente, l’ordine provvisorio di corresponsione di un assegno di mantenimento a favore dell’altro coniuge, in tanto può essere pronunciato, in quanto la parte l’abbia chiesto con gli atti introduttivi del processo (Tommaseo, F., op. ult. cit., 393; diff., Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 728 s.).
Per assumere i provvedimenti interinali, il presidente del tribunale può formare il proprio convincimento su una pluralità di elementi: gli atti introduttivi del giudizio e le dichiarazioni rese dalle parti in occasione del tentativo di conciliazione; le dichiarazioni dei difensori; l’assunzione di sommarie informazioni; l’audizione dei figli minori (v. infra); la dichiarazione personale dei redditi dei coniugi (che questi devono allegare con il ricorso e la prima memoria difensiva, ex art. 4, co. 6, l. div.), nonché ogni altra documentazione relativa ai loro redditi e al patrimonio personale e comune, che i coniugi hanno l’onere di presentare in udienza (cfr. art. 5, co. 9., l. div.) (Tommaseo, F., op. ult. cit., 394).
Nell’attuale quadro normativo si ritiene che già nella fase presidenziale, il giudice, oltre a raccogliere sommarie informazioni, possa assumere veri e propri mezzi di prova, ai fini della valutazione (sommaria) necessaria per la pronuncia dei provvedimenti interinali (v. e, per riferimenti, Vullo, E., op. ult. cit., 151 s.).
Tra le fonti di convincimento del giudice riveste particolare rilievo l’audizione dei figli minori, regolata dall’art. 155 sexies, co. 1, c.c., secondo cui, «prima dell’emanazione, anche in via provvisoria» dei provvedimenti relativi alla prole, il giudice «dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Per la netta maggioranza degli studiosi tale norma si applica a tutte le fasi del procedimento de quo e, dunque, anche a quella presidenziale: ergo, dovrebbe considerarsi ormai implicitamente abrogato l’art. 4, co. 8, l. div., ove si prevede che i figli minori debbano essere ascoltati, solo «qualora il presidente lo ritenga strettamente necessario, anche in relazione alla loro età».
L’art. 4, co. 8, l. div. definisce «temporanei» i provvedimenti presidenziali nell’interesse della prole e dei coniugi: da un lato, infatti, sono sempre modificabili e revocabili dal giudice istruttore in corso di causa (v. infra, § 9); dall’altro, perdono efficacia al sopravvenire della sentenza di divorzio. Ai sensi dell’art. 189 disp. att. c.p.c., richiamato dall’art. 4, co. 8, l. div., tali misure conservano efficacia anche in caso di estinzione del processo in cui sono assunte.
L’ordinanza presidenziale si considera conosciuta dalle parti comparse all’udienza, ma deve essere comunicata e notificata, rispettivamente al p.m. e al convenuto non comparso o comparso senza l’assistenza del difensore in un termine perentorio fissato dal presidente; quanto al primo di tali soggetti, la comunicazione non è espressamente prevista, ma la si reputa doverosa per consentire l’intervento (necessario) di questo organo imposto dall’art. 5 l. div. (Tommaseo, F., Commentario breve al diritto della famiglia, cit. 1628). L’ordinanza che il presidente si sia riservato di pronunciare fuori udienza va comunicata alle parti comparse (art. 176 c.p.c.) (Tommaseo, F., op. loc. ultt. citt.).
9. I provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole: impugnabilità e revocabilità
L’art. 708, ult. co., c.p.c. (relativo ai giudizio di separazione, ma applicabile anche a quello di divorzio, ex art. 4, co. 2, l. n. 54/2006) prevede che contro i provvedimenti nell’interesse dei coniugi e della prole assunti l’ordinanza presidenziale sia proponibile reclamo alla corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio; secondo la stessa norma, il reclamo va proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento.
Poiché l’art. 708, co. 4, c.p.c. si riferisce solo all’ordinanza presidenziale e non a quella con cui il giudice istruttore l’abbia successivamente revocata o modificata, ci si è chiesti se il reclamo sia proponibile anche nei confronti di questo provvedimento, o di quello con cui lo stesso giudice istruttore abbia modificato o revocato il provvedimento della corte d’appello che si è “sostituito” a quello del presidente. Al riguardo sono state prospettate tre soluzioni: la prima privilegia la lettera della nuova norma, escludendo pertanto la reclamabilità del provvedimento di revoca o di modifica del giudice istruttore (v. spec. Trib. Napoli, ord. 13.10.2009, in Fam. dir., 2010, 579, con nota di A. Villecco); la seconda muove dall’assunto che non esiste alcuna ragionevole giustificazione per discriminare, in punto di impugnabilità, l’ordinanza presidenziale da quella del giudice istruttore, con la conseguenza che un’interpretazione costituzionalmente orientata impone di estendere il reclamo previsto dall’ult. co. dell’art. 708 c.p.c. anche al provvedimento con cui il giudice istruttore revoca o modifica l’ordinanza presidenziale (per tutti, Trib. Genova, ord. 2.5.2006, in Foro it., 2006, I, 2213, con nota di C.M. Cea); la terza è quella che – volendo perseguire il duplice obiettivo di rispettare la lettera della norma e di evitare, nel contempo, una lacuna di tutela nei confronti dell’ordinanza del giudice istruttore – opta per la reclamabilità anche di quest’ultima, ma non ai sensi dell’art. 708 c.p.c., bensì dell’art. 669 terdecies c.p.c. (tra le altre, App. Bari, ord. 29.8.2007, in Foro it., 2008, I, 3334; quanto alla dottrina relativa a tutte le opinioni ricordate, v., per riferimenti, Vullo, E., op. ult. cit., 172 ss.).
Ai sensi dell’art. 4, co. 8, l. div., l’ordinanza presidenziale può essere revocata o modificata dal giudice istruttore con propria ordinanza, la quale è a sua volta revocabile o modificabile dall’istruttore stesso, anche d’ufficio (almeno per i provvedimenti nell’interesse della prole: Tommaseo, F., in Bonilini, G.-Tommaseo F., Lo scioglimento del matrimonio, III ed., cit., 412 ss., spec. nt. 265). Secondo l’opinione preferibile la modifica o la revoca non sono mai subordinate al ricorrere di nuove circostanze, ma possono essere disposte anche solo in ragione di un diverso apprezzamento delle condizioni e dei presupposti che ne hanno giustificato l’assunzione. Tuttavia molti ritengono che, qualora l’ordinanza sia stata oggetto di reclamo, il relativo provvedimento potrebbe essere successivamente modificato e revocato dal giudice istruttore solo in caso di mutamento di circostanze per fatti sopravvenuti, oppure per fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente alla conclusione del procedimento di reclamo (ex multis, Tommaseo, F., op. ult. cit., 418; App. Genova, decr. 10.11.2006, cit., spec. 594; contra, Salvaneschi, L., op. ult. cit.., 1289; diff. Vullo, E., op. ult. cit., 196 s.). Esiste poi un altro orientamento (non condivisibile) secondo cui l’ordinanza presidenziale, anche non reclamata, sarebbe oggi esclusivamente revocabile e modificabile dal giudice istruttore ai sensi dell’art. 669 decies c.p.c., ossia sulla base dei soli elementi sopravvenuti o di quelli preesistenti, ma incolpevolmente ignorati al momento della decisione da revocarsi o modificarsi (per riferimenti, v. Vullo, E., op. ult. cit., 200 s.). In generale, sul complesso problema dei rapporti e del coordinamento tra il giudizio di reclamo e l’istanza di modifica o revoca, v. Vullo, E., op. ult. cit., 187 ss.).
10. La memoria integrativa del ricorrente e la costituzione del convenuto
Il presidente del tribunale, con la stessa ordinanza con cui assume i provvedimenti interinali e fissa l’udienza davanti al giudice istruttore, assegna un termine al ricorrente per il deposito in cancelleria di una memoria integrativa avente il contenuto di cui all’art. 163, co. 3, nn. 2-6, c.p.c., nonché un altro termine al convenuto per la costituzione in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167, co. 1-2, c.p.c., per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio (art. 4, co. 10, l. div.).
Con la memoria integrativa il ricorrente può proporre anche nuove domande accessorie, che non abbia già formulato nel ricorso introduttivo (precisamente le domande consentite alle parti nel giudizio di divorzio: assegnazione della casa familiare, assegno postdivorzile, modalità di affidamento e mantenimento dei figli) (ex multis, Tommaseo, F., op. ult. cit., 345). Qualora il convenuto non si sia ancora costituito al momento del deposito della memoria integrativa, si afferma che sarà onere del ricorrente notificare personalmente alla controparte la memoria stessa, applicandosi la disciplina prevista all’art. 292, co. 1, c.p.c. per il processo contumaciale in generale (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 734); il convenuto già costituito, invece, potrà esercitare tutte le difese relative alla pretesa accessoria nel corso della prima udienza davanti all’istruttore, vuoi anche avvalendosi della memoria di cui all’art. 183 c.p.c. (Vullo, E., op. ult. cit., 72 ss.).
Quanto al coniuge convenuto, il coordinamento sistematico tra il quinto e il decimo comma dell’art. 4 l. div. da un lato esclude l’onere di costituirsi all’udienza presidenziale, dall’altro collega la tempestività di tale adempimento, con il conseguente maturare delle preclusioni a carico del convenuto stesso, a un termine fissato dal presidente a conclusione dell’udienza che si svolge dinanzi a lui; termine che, essendo previsto a pena di decadenza, è da ritenere perentorio, e che, come detto, è stabilito con la medesima ordinanza con cui il capo dell’ufficio assume i provvedimenti interinali. Il convenuto che non si costituisce entro questo termine decade dal potere di compiere le attività difensive previste dall’art. 167 c.p.c.: eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio, domande riconvenzionali, chiamata in causa di un terzo. Detto ciò, il convenuto ha comunque facoltà di costituirsi già nella fase presidenziale (o prima di essa, e cioè una volta che gli è stato notificato il ricorso): l’esercizio di tale facoltà non comporta alcuna decadenza a suo carico ed egli potrà liberamente compiere tutte le attività difensive previste dall’art. 167 c.p.c. entro il termine che il presidente del tribunale sarà comunque tenuto ad assegnargli con l’ordinanza di cui all’art. 4, co. 10, l. div. (sui possibili comportamenti difensivi del convenuto al quale sono stati notificati l’atto introduttivo del giudizio e il decreto presidenziale, v. supra, § 5). Pertanto, il convenuto già costituito durante la fase presidenziale, potrà decidere (ancora nell’esercizio di una mera facoltà) se depositare una memoria (non più “di costituzione”, ma “integrativa”), valutando se ricorra o no l’esigenza di completare le proprie difese o di replicare a quanto affermato dall’attore con la sua memoria integrativa.
11. La fase di trattazione e l’istruzione probatoria
La trattazione della causa davanti al giudice istruttore si svolge secondo le regole del processo ordinario di cognizione: coerentemente l’art. 4, co. 11, l. div. disciplina la prima udienza di comparizione e trattazione davanti all’istruttore, limitandosi a compiere un rinvio formale agli artt. 180 e 183 (salvo il co. 3), e 184 c.p.c.
Se dunque nel giudizio di divorzio la trattazione della causa non mostra rilevanti peculiarità rispetto al processo comune, altrettanto può dirsi per l’istruzione in senso stretto, salvo i «maggiori poteri ufficiosi del giudice in materia di ammissione e ricerca delle prove», poteri che oggi «risultano ulteriormente ribaditi nella … legge sull’affidamento condiviso» (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 737). In particolare, il giudice può disporre le indagini tributarie e patrimoniali previste all’art. 5, co. 9., l. div., ma soprattutto (e più in generale) ha il potere, come stabilisce l’art. 6, co. 9., l. div., di assumere d’ufficio tutte le prove che ritiene necessarie per la pronuncia dei provvedimenti, anche questi ufficiosi, relativi all’affidamento dei figli e all’esercizio della loro potestà (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. loc. ultt. citt.).
12. La decisione della causa e la sentenza non definitiva di divorzio
Anche la fase decisoria del processo di divorzio è regolata dalle norme ordinarie (art. 275 ss. c.p.c.), salvo riguardo all’efficacia esecutiva dei capi patrimoniali e alla pronuncia del divorzio con sentenza non definitiva. Iniziando da quest’ultima, l’art. 4, co. 12, l. div. stabilisce che, se il giudizio deve continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale pronuncia sentenza non definitiva sullo scioglimento o sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, precisandosi che contro tale sentenza, in deroga all’art. 340 c.p.c, «è ammesso solo appello immediato». La dottrina prevalente interpreta la norma estensivamente, affermando dunque che la sentenza parziale di divorzio può essere pronunciata «tutte le volte che il processo debba proseguire per l’ulteriore trattazione ed istruzione di una delle domande accessorie» (Graziosi, A., Divorzio: II) Disciplina processuale, in Enc. giur., Roma, 2007, 9; contra, Cipriani, F., in Cipriani, F.-Quadri, E., La nuova legge sul divorzio, cit., 309; Dogliotti, M., Separazione e divorzio, II ed., Torino, 1995, 194).
L’art. 4, co. 13, l. div. prevede che quando vi sia stata sentenza non definitiva di divorzio, il tribunale, qualora disponga la somministrazione dell’assegno, può decidere che tale obbligo produca effetti fin dal momento della domanda. Tale precetto attribuisce al giudice un potere discrezionale (da ultimo, Cass. 24.1.2011, n. 1613, ove si afferma la necessità di un’adeguata motivazione; contra, Tommaseo, F., op. ult. cit., 453), svincolato dalla domanda di parte e dunque esercitabile anche d’ufficio (per tutti, Cass., 10.12.2010, n. 24991, in Giust. civ., 2011, I, 1748). Nonostante il tenore letterale della norma, un consolidato orientamento giurisprudenziale vuole che la regola della determinazione retroattiva dell’assegno postmatrimoniale operi anche nel caso in cui il divorzio sia stato pronunciato con sentenza definitiva (spec. Cass., 20.11.2007, n. 25010, in Foro it., 2008, I, 1487).
L’art. 4, co. 14, l. div. prevede che la sentenza di divorzio pronunciata in primo grado sia provvisoriamente esecutiva per la parte relativa «ai provvedimenti di natura economica», una disposizione che assume ormai un valore meramente ricognitivo di quanto dispone, in via generale, l’art. 282 c.p.c.: in forza di quest’ultima norma non vi è dubbio che oggi tutte le statuizioni contenute nella sentenza di divorzio, salvo quella sullo status, siano immediatamente esecutive (una regola che vale non solo per i capi a contenuto patrimoniale, ma anche per quelli relativi all’affidamento dei figli e all’assegnazione della casa coniugale: Tommaseo, F., op. ult. cit., 457 ss.).
Riguardo al momento in cui si producono gli effetti del capo della sentenza che sancisce lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili l’orientamento prevalente distingue gli effetti tra le parti da quelli nei confronti dei terzi: i primi si producono con il passaggio in giudicato della sentenza, gli altri dal momento in cui sono compiute le formalità pubblicitarie prescritte dall’art. 10 l. div., (v., per tutti, Tommaseo, F., op. ult. cit., 1075 ss.; Cass., 4.8.1992, n. 9244; contra, App. Roma, 17.3.1973, in Dir. eccl., 1975, II, 46, con nota di E. Bernardini).
13. Le impugnazioni
La sentenza di divorzio è soggetta ai normali mezzi di impugnazione, sia per il capo che pronuncia lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili, sia per quelli relativi alle domande accessorie.
L’art. 5, co. 5, l. div., stabilisce che la sentenza di divorzio sia impugnabile «da ciascuna delle parti». Nonostante la formula normativa possa prestarsi a equivoci, la maggioranza degli studiosi ritiene che tale sentenza sia impugnabile solo dal coniuge soccombente (e dal p.m., nei limiti che si spiegheranno), in conformità con le regole generali (per tutti, Tommaseo, F., in Tommaseo, F.-Bonilini, G., Lo scioglimento del matrimonio, cit., 753 s.; contra, nel senso che il potere di impugnare spetterebbe a entrambi i coniugi a prescindere dal requisito della soccombenza, Salvaneschi, L., L’interesse ad impugnare, Milano, 1990, 237 ss.; Montesano, L., Le impugnazioni dei coniugi contro la sentenza di divorzio su domanda congiunta, in Riv. dir. proc., 1999, 15 s.; Mandrioli, C., Diritto processuale civile, XXI ed., III, Torino, 2011, 138).
Quanto al p.m., lo stesso comma dispone che egli possa impugnare la sentenza di divorzio (sia su domanda unilaterale che su ricorso congiunto: Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 753 s.), ma limitatamente ai capi che contengono statuizioni relative agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci. Prevale un’interpretazione estensiva di questo precetto (spec., Danovi, F., Riconoscimento delle sentenze straniere di divorzio e intervento necessario del p.m., in Riv. dir. proc., 2004, 533 s.), secondo cui il potere di impugnare di tale organo investirebbe non solo le disposizioni sull’amministrazione dei beni rientranti nel patrimonio dei figli (così, invece, Grassi, L., La legge sul divorzio, Napoli, 1971, 263 s.), ma anche quelle sull’assegno di mantenimento (Satta, S.-Punzi, C., Diritto processuale civile, XIII ed., Padova, 2000, 1003 s.), e, per alcuni, quelle sull’affidamento, che incidano però sugli interessi patrimoniali della prole (Tommaseo, F., op. ult. cit., 757 s.).Relativamente al giudizio di gravame, la legge si limita a prevedere che «l’appello [sia] deciso in camera di consiglio» (art. 4, co. 15, l. div.): un precetto che la suprema Corte ha sempre interpretato nel senso che le forme del procedimento in camera di consiglio si applicano a tutte le fasi del giudizio d’appello e non soltanto a quella di decisione (ex multis, Cass., 13.10.2011, n. 21161, in Guida dir., 2011, fasc. 47, 74; questo orientamento ha trovato l’implicito avallo della Consulta: C. Cost., 22.12.1989, n. 573 e C. Cost., 14.12.1989, n. 543, entrambe in Riv. dir. proc., 1990, 1187, con nota di L. Salvaneschi; contra, peraltro, la dottrina maggioritaria per la quale solo la fase decisoria dell’appello si svolgerebbe senza che abbia luogo la discussione in pubblica udienza, mentre, per il resto, il giudizio dovrebbe seguire le regole ordinarie previste dagli artt. 339 ss. c.p.c.: per riferimenti, Vullo, E., op. ult. cit., 284 s., nt. 9).
L’asserita soggezione dell’appello al rito camerale comporta che l’atto introduttivo sia il ricorso e non la citazione (tra le tante, Cass., 13.10.2011, n. 21161, cit.) e che i termini per impugnare siano rispettati con il deposito del ricorso in cancelleria (Cass., 11.11.2009, n. 23907). Se il gravame è introdotto per errore con citazione, l’atto di impugnazione è ugualmente valido, qualora la citazione stessa sia stata depositata nella cancelleria del giudice adito entro i termini perentori per impugnare (ex multis, Cass., 13.10.2011, n. 21161, cit.); questi ultimi sono quelli ordinari previsti per le impugnazioni civili, e cioè il termine breve di trenta giorni e il termine lungo di sei mesi, rispettivamente ex art. 325 e art. 327 c.p.c. (Cass., 15.1.2003, n. 507).
Ai sensi dell’art. 9, co. 1, l. div., qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in camera di consiglio e, per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del pubblico ministero, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli artt. 5 e 6 della stessa l. div.
14. Il procedimento di divorzio su domanda congiunta
La legge permette ai coniugi che siano d’accordo non solo nel volere lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili, ma anche sulle condizioni riguardanti i figli e i rapporti economici e non patrimoniali tra loro, di proporre domanda congiunta di divorzio (cfr. art. 4, co. 16, l. div.). Con la proposizione della relativa istanza, si instaura un processo che diverge notevolmente da quello contenzioso, vuoi perché ha luogo per intero davanti al tribunale come organo collegiale (senza distinzione tra la fase presidenziale e quella dinanzi al giudice istruttore), vuoi perché si svolge in forme camerali, pur concludendosi con una sentenza. La dottrina pressoché unanime ammette il ricorso congiunto anche fuori dai casi di legittimazione bilaterale a domandare il divorzio (v. per tutti, Tommaseo, F., op. ult. cit., 474 s.; contra, spec. Finocchiaro, A., in Finocchiaro, A.-Finocchiaro, M., Diritto di famiglia, III, Milano, 1988, 342).
Della competenza, per materia e per territorio, si è già detto supra, § 2, al quale pertanto si rinvia il lettore.
La domanda congiunta si propone con ricorso che deve contenere i requisiti previsti dall’art. 4, co. 2, l. div., nonché, in generale, dall’art. 125 c.p.c. Con tale atto le parti hanno l’onere di indicare in modo compiuto «le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici», pur ritenendosi che queste condizioni possano essere enunciate anche successivamente, all’udienza davanti al collegio (Tommaseo, F., op. ult. cit., 476; diff., Cipriani, F., op. ult. cit., 325). Mentre alcuni ritengono che la richiesta congiunta di divorzio debba essere proposta dai coniugi per le medesime e comuni ragioni (Mandrioli, C., op. cit., 140), altri sembrano ammettere che essa possa fondarsi su presupposti diversi, assumendo rilievo la sola comunanza del risultato perseguito dalle parti (Tommaseo, F., op. ult. cit., 475, nt. 417). Secondo la S.C. anche nel giudizio de quo sussiste l'onere del patrocino ex art. 82 c.p.c. (Cass., 7.12.2011, n. 26365, in Il Civilista, 2012, 2, 14).
È opinione diffusa che i coniugi possano stare in giudizio con il ministero del medesimo difensore (Cipriani, F., op. ult. cit., 329; Tommaseo, F., op. ult. cit., 475 s.).
Il ricorso va depositato in cancelleria e, in virtù delle regole comuni ai procedimenti camerali, comunicato a cura dell’ufficio al p.m., interveniente necessario nel giudizio (v. supra, § 3).
Il processo de quo si svolge tendenzialmente in un’unica udienza a cui le parti hanno l’onere di comparire personalmente (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 740); è dubbio se in questa sede si debba tentare la conciliazione dei coniugi, come avviene nel divorzio contenzioso (affermativamente, v. spec. Tommaseo, F., op. ult. cit., 478 ss.; contra, Finocchiaro, A., Necessità della comparizione delle parti ed ammissibilità della rappresentanza volontaria nella domanda congiunta di divorzio, in Giust. civ., 1988, I, 1855; Basilico, G., Qualche osservazione in tema di divorzio su domanda congiunta, in Riv. dir. civ., 1991, II, 255; Trib. Imperia, 4.3.1995, in Fam. dir., 1995, 473, con nota di W. Riedweg).
Il tribunale, deve accertare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda (Cipriani, F., op. ult. cit., 335), non potendo limitarsi a prendere atto delle allegazioni concordemente compiute delle parti (Tommaseo, F., op. ult. cit., 477 ss., spec. 479 s.). In particolare, il collegio deve fondare tale accertamento sui mezzi di prova che le parti hanno l’onere di offrire (ex art. 2697 c.c.: Barbiera, L., Il divorzio dopo la seconda riforma, Bologna, 1988, 87) e che potranno consistere in prove documentali, ma anche costituende (diff., su quest’ultimo punto, forse Cass., 14.10.1995, n. 10763, in Fam. dir., 1996, 136, con nota di F. Tommaseo; Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 512, con nota di F. Cipriani); il tribunale può esercitare altresì iniziative istruttorie ufficiose, come per esempio disporre una consulenza tecnica oppure, stante la struttura camerale del giudizio, assumere informazioni ai sensi dell’art. 738, co. 3, c.p.c. (Tommaseo, F., op. ult. cit., 480 s., nt. 431; in giurisprudenza, in quest’ordine di idee, v. spec. Trib. Napoli, 2.5.1997, in Fam. dir., 1997, 451, con nota di F. Tommaseo; diff., Trib. Napoli, 7.6.1996, in Foro nap., 1996, 50; Trib. Napoli, 15.3.1988, in Giur. it., 1989, I, 2, 54, con nota di F. Cipriani).
Se le condizioni relative ai figli contrastano con il loro interesse, l’art. 4, co. 16, l. div. prevede che il tribunale disponga la conversione del rito da camerale a contenzioso e il processo continua nelle forme indicate dal co. 8 della stessa norma. In caso di conversione del rito, vi è chi sostiene la possibilità che il tribunale dichiari il divorzio con sentenza non definitiva, con la prosecuzione del processo per le condizione relative alla prole (così, Cipriani, F., op. ult. cit., 340; contra, Tommaseo, F., op. ult. cit., 483).
Quanto agli accordi di natura patrimoniale (che non riguardino i figli), taluno ritiene che non possano mai essere disattesi dal giudice (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 742), mentre per altri tale regola conoscerebbe un’eccezione relativamente alle clausole di adeguamento automatico dell’assegno e della corresponsione dell’assegno una tantum di cui all’art. 5, co. 7-8, l. div. (Tommaseo, F., op. ult. cit., 481 s.).
Un’altra questione dibattuta è cosa avvenga qualora, nel corso del giudizio, una dei coniugi revochi il consenso al divorzio o non sia più d’accordo sulle condizioni patrimoniali o relative ai figli. Secondo la suprema Corte la rinuncia di una delle parti – salvo che la domanda congiunta non sia dovuta ad errore, violenza o dolo – sarebbe inammissibile (Cass., 8.7.1998, n. 6664, in Giust. civ., 1999, I, 819, con nota di A. Finocchiaro; conf., da ultimo, Trib. Catania, 12.1.2010, n. 110, in Dir. giust., 2010); diversamente per alcune decisioni di merito la revoca unilaterale del consenso comporterebbe la declaratoria di inammissibilità della domanda di divorzio (spec. Trib. Napoli, 15.3.1988, cit.), o l’archiviazione del procedimento (Trib. Potenza, 23.7.1999, in Dir. fam., 1999, 1264, con nota di R. Conte), o la declaratoria di improcedibilità (App. Bari, 10.10.1996, in Foro it., 1990, I, 3000). Quanto alla dottrina, prevale l’opinione che il tribunale dovrebbe comunque decidere sul merito, con la prosecuzione del processo nelle forme camerali (v. per tutti, Tommaseo, F., op. ult. cit., 483 s.) oppure previa conversione del rito (Finocchiaro, A., in Finocchiaro, A.-Finocchiaro, M., Diritto di famiglia, cit., 350), ma non mancano autori per i quali la domanda di divorzio dovrebbe essere dichiarata improponibile (Dogliotti, M., op. ult. cit., 176) o improcedibile (Saletti, A.-Vanz, M.C., op. cit., 743), o respinta (Santosuosso, F., Il matrimonio, IV ed., Torino, 2007, 646), o chi, invece, considera senz’altro preclusa la revoca del consenso (Basilico, G., op. cit., 258).
Il processo di divorzio su domanda congiunta si chiude con una sentenza, la cui efficacia è analoga a quella pronunciata nel divorzio contenzioso. Dunque, anche per essa vale la regola della provvisoria esecutorietà delle statuizioni diverse da quella sullo status (Tommaseo, F., op. ult. cit., 484); quest’ultimo capo di sentenza, invece, produce effetti dal passaggio in giudicato (v. supra, § 12 e infra nel testo). La sentenza di divorzio è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e l’esercizio dell’azione diretta esecutiva di cui all’art. 8, co. 4, l. div. (Tommaseo, F., op. loc. ultt. citt.).
Nel caso di rigetto (totale o parziale) della domanda, la sentenza è certamente impugnabile con appello (ex multis, Tommaseo, F., op. ult. cit., 756, nel testo e a nt. 37; contra, Goldoni, U., Separazione e divorzio, Padova, 1991, 101; Dogliotti, M., op. loc. ultt. citt., per i quali il rimedio esperibile sarebbe il reclamo camerale alla corte d’appello entro dieci giorni dalla comunicazione della sentenza). Secondo la dottrina il gravame potrebbe proporsi anche nella forma del ricorso congiunto (spec. Tommaseo, F., op. loc. ultt. citt.), salvo che la domanda fosse fondata su una delle cause a legittimazione unilaterale, ipotesi in cui solo il coniuge legittimato può introdurre l’impugnazione (Carpi, F.-Graziosi, A., Procedimenti in tema di famiglia, Dig. civ., XIV, Torino, 1997, 545). La corte d’appello decide in camera di consiglio con sentenza ricorribile in cassazione (Cass., 14.10.1995, n. 10763, cit.; Graziosi, A., op. cit., 10 s.).
Quanto invece all’ipotesi di sentenza di accoglimento, si afferma che, mancando il requisito della soccombenza, entrambi i coniugi sarebbero privi di legittimazione ad impugnare (Tommaseo, F., op. ult. cit., 755 s.; diff., Di Iasi, C.-Picaroni, E., Procedimenti di separazione e di divorzio, in Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello, in Tratt. dir. fam. Zatti, II ed., I, 2, Milano, 2011, 1937). Detto ciò, ritengo peraltro preferibile la tesi (minoritaria) per cui, anche in tale ipotesi, la sentenza de qua non nascerebbe assistita dall’autorità di cosa giudicata (Tommaseo, F., op. ult. cit., 756, il quale osserva al riguardo che contro tale provvedimento sarebbe comunque esperibile il regolamento di competenza; Cass., 19.6.1996, n. 5664, in Foro it., 1996, I, 2729; contra, spec. Cipriani, F., op. ult. cit., 342 ss.; Trib. Bari, 9.7.1987, in Foro it., 1987, I, 2494).
Fonti normative
L. 1.12.1970, n. 898; art. 708, co. 4, c.p.c.; art. 155 sexies c.c.; art. 32 l. 31.5.1995, n. 218; art. 3 Reg. (CE) 27.11.2003, n. 2201/2003.
Bibliografia essenziale
Cipriani, F., in Cipriani, F.-Quadri, E., La nuova legge sul divorzio, II, Presupposti. Profili personali e processuali, Napoli, 1988; Di Iasi, C.-Picaroni, E., Procedimenti di separazione e di divorzio, in Ferrando, G.-Fortino, M.-Ruscello, F., a cura di, Famiglia e matrimonio, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II ed., I, 2, Milano, 2011, 1861 ss.; Finocchiaro, A., in Finocchiaro, A.-Finocchiaro, M., Diritto di famiglia, III, Il divorzio, Milano, 1988; Graziosi, A., Divorzio: II) Disciplina processuale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2007; Lupoi, M.A., Procedimento di separazione e divorzio, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, 956 ss.; Magnone Cavatorta, S., voce Divorzio: II) Disciplina processuale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1999; Saletti, A.-Vanz, M.C., Procedimento e sentenza di divorzio, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, continuato da G. Bonilini, II ed., I, t. 2, Famiglia e matrimonio, Torino, 2007, 699 s.; Tommaseo, F., in Bonilini, G.-Tommaseo, F., Lo scioglimento del matrimonio, III ed., Milano, 2010; Vullo, E., Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, I, Bologna, 2011.