Abstract
Si esamina la struttura del procedimento di sorveglianza ‒ come disciplinato dagli artt. 678 e 666 c.p.p., approvato con d. P.R. 22.9.1988, n. 447 ‒ applicabile, con eccezioni, per tutte le materie rientranti nella competenza del tribunale di sorveglianza e per alcune, specifiche, di competenza del magistrato di sorveglianza.
Il termine “sorveglianza” indica il compito di vigilare, controllare, garantire il rispetto delle norme che disciplinano il regolare svolgimento di una certa attività. Riferito al rapporto detentivo, richiama l'esigenza di assicurare alla persona in vincoli la sottoposizione alla giusta pena, senza soprusi o privilegi. A questa originaria attività, nel tempo, ne sono state aggregate altre, correlate, che raccolte in una unica disciplina sono attribuite ad una magistratura specializzata, organizzata su due livelli: il magistrato di sorveglianza e il tribunale di sorveglianza. Gli uffici del magistrato ‒ costituiti nelle sedi elencate in una tabella allegata alla l. 26.7.1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà ‒ vigilano e controllano l'esecuzione delle pene detentive. Secondo l’originaria previsione, applicano e danno esecuzione alle misure di sicurezza; decidono sulla concessione di un limitato numero di misure alternative; gestiscono l’esecuzione delle sanzioni sostitutive; svolgono attività ausiliarie a quelle del tribunale. I tribunali ‒ posti in ciascun distretto e sezione distaccata di corte d'appello, composti da un presidente, dai magistrati di sorveglianza in servizio sul territorio e da un certo numero di esperti, nominati dal CSM, su proposta del presidente ‒ hanno competenza propria, di primo grado, e di secondo grado, come giudice di impugnazione avverso le decisioni del magistrato. In primo grado, procedono, in via principale, al costante adeguamento delle pene detentive ai principi costituzionali della finalità rieducativa e dell’umanizzazione del trattamento (art. 27, co. 3, Cost.), secondo un disegno che vuole che la pena in espiazione, sia, in primo luogo, sempre compatibile con il rispetto dovuto alla persona umana, al limite cedendo alle esigenze di quest’ultima, e, in secondo luogo, che si svolga secondo modalità risocializzanti, che importino per il condannato il diritto a che il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo (C. cost., 27.6.1974, n. 204), per consentire il riacquisto proporzionale di quote di libertà.
In conseguenza degli obblighi nascenti per l'amministrazione di predisporre i mezzi idonei per garantire la realizzazione di tali fini, la citata l. n. 354/1975 istituì, accanto al già esistente giudice monocratico, il giudice collegiale, prevedendo uno specifico procedimento di sorveglianza, di natura giurisdizionale, in quanto le decisioni da adottare, per il fatto stesso di essere destinate ad intervenire su provvedimenti determinanti restrizioni nella libertà delle persone, e, quindi, di natura giurisdizionale, non potevano che essere assunte con le medesime garanzie.
Regolato in un’unica disposizione, dall’art. 71 della l. n. 354/1975, successivamente, in un intero capo, il II bis del titolo II, dalla l. 12.1.1977, n. 1, il procedimento di sorveglianza è attualmente disciplinato dal vigente codice di procedura penale che, uniformandosi ai canoni dettati dai punti 96, 98, e 101 della legge delega 16.2.1987, n. 81, prevede al titolo III del libro X un articolato rito che attua i principi di difesa, contraddittorio e impugnazione, che qualificano la fase di cognizione.
Il tribunale ed il magistrato di sorveglianza possono procedere a richiesta dell'ufficio del pubblico ministero, dell'interessato, del difensore, d’ufficio (art. 666 c.p.p.). Questa previsione generale è integrata dall’art. 57 ord. penit., il quale dispone che il trattamento ed i benefici, di cui agli artt. 47, 50, 52, 53, 54 ord. penit., possono essere richiesti dal condannato o dall'internato, dai loro prossimi congiunti, proposti dal consiglio di disciplina. Infine, l’art. 76 d.P.R. 30.6.2000, n. 230, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, attribuisce al direttore dell’istituto penitenziario il potere di premiare i detenuti e gli internati meritevoli, con la proposta di concessione dei benefici indicati negli artt. 47, 47 ter, 50, 52, 53 e 54 ord. penit. e 94 del d.P.R. 9.10.1990, n. 309.
L’interessato è legittimato alla richiesta, anche se interdetto o inabilitato, in quanto l’indisponibilità del diritto di libertà, che costituisce l'oggetto di qualunque procedimento penale, non consente il ricorso a forme di integrazione della volontà. Nelle ipotesi in cui è ritenuta necessaria la presenza di un interessato pienamente capace, come avviene nel processo di cognizione, è prevista la sospensione del procedimento fino al momento in cui la capacità viene riacquistata. Questa necessità non è ritenuta nel procedimento di sorveglianza nel quale vige il principio che chi deve subire la pena o la misura di sicurezza è abilitato ai relativi procedimenti. Pertanto, legittimato all'azione è l’interessato, anche se interdetto o inabilitato, ed il suo difensore che deve essere nominato per il nuovo processo perché non c'è prorogatio di investitura dalla fase della cognizione a quella di esecuzione (art. 655, co. 5, c.p.p.) e, neppure, da quest’ultima a quella di sorveglianza (Cass. pen., 2.12.2008, n. 47530).
Il riconoscimento del diritto all’azione, comprensivo del potere di designare un difensore di fiducia, ai prossimi congiunti (così come indicati nell'art. 307, co. 4, c.p.), si giustifica con il fine di favorire la realizzazione dei principi costituzionali in materia, anche in caso d’inazione dell’interessato, mentre l’estensione della legittimazione al consiglio di disciplina e al direttore dell’istituto di pena tende a stimolare e gratificare i comportamenti coerenti con le finalità rieducative ed a reprimere quelli contrari.
La legittimazione del pubblico ministero si giustifica, invece, come manifestazione del potere-dovere di esercizio dell'azione penale, nella fase, al fine di perseguire una esatta e corretta esecuzione delle decisioni. A quest’ultimo motivo si deve, anche, la mancata vigenza del principio ne procedat iudex ex officio per cui è riconosciuto al giudice il potere di procedere d'ufficio in ordine a tutte le materie di competenza, con il connesso obbligo di informativa o di sollecito, a carico di ciascun magistrato di sorveglianza, per l’attivazione del meccanismo relativo ai provvedimenti di competenza dell'organo collegiale.
L'azione promossa da persona diversa non è però idonea a condizionare i diritti dell’interessato sui rapporti dei quale è titolare. Se oggetto del procedimento è l’ammissione ad una misura alternativa non si può prescindere dai principi che regolano la materia. L'esecuzione di una pena privativa della libertà importa la sottoposizione del soggetto ad un obbligo di non fare, di subire, ad un pati che non importa prestazioni attive. Di contro, le misure alternative prevedono la sua sottoposizione ad una serie di restrizioni, alcune delle quali si possono sostanziare in obblighi di fare, la cui esecuzione non può prescindere dalla sua adesione, il che importa il riconoscimento, a suo favore, del diritto di valutare e scegliere la soluzione che ritiene più favorevole. Il potere del giudice, come degli altri legittimati, di farsi promotori dell’azione per l’applicazione di una misura alternativa è, pertanto, condizionato all’adesione di chi è chiamato a subirla. I legittimati diversi dall’interessato sono titolari di un diritto del quale non hanno la disponibilità.
Il tribunale procede secondo il rito proprio della sorveglianza nelle materie di competenza, dispone il co. 1 dell’art. 678 c.p.p., lasciando così intendere che questa disciplina sia onnicomprensiva di tutte le materie che a quel giudice fanno capo; eppure ad introdurre una prima, importante eccezione alla regola è lo stesso codice che all’art. 236, co. 2, disp. att., fa salve le disposizioni processuali della l. 26.7.1975, n. 354, diverse di quelle contenute nel capo II bis del titolo II, limitandosi, in tal modo, a sostituire il solo procedimento di sorveglianza, disciplinato dall’ordinamento penitenziario, dall’analogo titolo, salvando le procedure diverse. Per quanto riguarda, invece, la competenza del magistrato, lo stesso primo comma dell’art. 678 c.p.p. richiama all’osservanza del procedimento di sorveglianza limitatamente a specifici gruppi di materie.
I canoni per l’individuazione del giudice territorialmente competente sono dettati dall’art. 677 c.p.p. La competenza spetta al tribunale o al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto di prevenzione o di pena in cui l’interessato è detenuto o internato, all'atto in cui viene promosso il giudizio, ovvero, se libero, del luogo nel quale ha residenza o domicilio. Il criterio del locus custodiae (da riferirsi al luogo di carcerazione, ma anche a quello di esecuzione delle misure alternative) consente di affidare la competenza al giudice in possesso di una personale conoscenza del condannato e che, quindi, è in più agevoli condizioni per seguirne il percorso espiativo e per esercitare i poteri connessi, come la concessione dei permessi e delle autorizzazioni, ma anche quello di avviare, ex officio, gli eventuali procedimenti. A considerazioni non diverse deve essere ispirato il criterio per l’attribuzione della competenza secondo il canone del locus domicilii. Le informazioni sulle condizioni socio-familiari, le abitudini di vita, le frequentazioni, i comportamenti del soggetto, utili per pervenire ad un’attendibile prognosi sulle capacità rieducative, sono più tempestivamente reperibili nel luogo di abituale dimora, ma anche di più attendibile interpretazione. Solamente nel caso in cui sia impossibile ricorrere a queste regole, come nel caso di soggetto residente all’estero, è consentito rinunciare a questi vantaggi e ricorrere a canoni sussidiari, formali che attribuiscono la competenza al giudice del luogo in cui fu pronunciata la sentenza di condanna, di proscioglimento o di non luogo a procedere, in ipotesi di più titoli, al giudice del luogo nel quale fu pronunciato quello divenuto irrevocabile per ultimo. Criteri particolari per determinare la competenza territoriale, sono previsti in specifiche ipotesi, dall’art. 656, co. 6, c.p.p., dall’art. 41 bis, co. 2 sexies, dall’art. 47, co. 4, dall’art. 47 quinquies, co. 3, dall’art. 51 ter ord. penit., dagli artt. 30, co. 2, e 40, co. 1, c.p.p. minori, dagli artt. 62, co. 1, 66 co. 2, e 107 co. 1, della l. 24.11.1981, n. 689; dall’art. 5, co. 2, l. 3.7.1989, n. 257; dagli artt. 91, co. 4, e 93 co. 2, t.u. n. 309/90; dall’art. 16 nonies d.l. 15.1.1991, n. 8, conv. in. l. 15.3.1991, n. 82, dalla l. 13.2.2001, n. 45. La competenza, determinata all’avvio del procedimento, resta immutata nel tempo, anche, se nel corso di esso muta il luogo di esecuzione o sopravvengono nuovi titoli relativi a pronunce di giudici rientranti in diversi distretti di corte di appello (Cass. pen., 17.12.2004, n. 198); l’incompetenza può essere dedotta o rilevata entro la fase di controllo della costituzione delle parti nel relativo giudizio (Cass. pen., 2.12.2008, n. 47528).
L’atto d’avvio del procedimento non prevede formalità. Può essere formulato per iscritto, ma anche oralmente, purché contenga i contenuti minimi, necessari, come: l’indicazione delle generalità dell’instante e del destinatario del provvedimento, del petitum, la sottoscrizione, se proposto con richiesta scritta. Non sussiste a carico del richiedente un onere probatorio, ma solo di allegazione (Cass. pen., 22.9.2010, n. 34987). In specifici casi sono imposti taluni requisiti la cui mancanza importa l’inammissibilità della domanda. L’art. 677, co. 2 bis, c.p.p. pone a carico del condannato non detenuto, anche quando l’istanza è promossa dal difensore di fiducia, l’obbligo di dichiarare o eleggere il domicilio, non anche di comunicarne gli eventuali mutamenti (Cass. pen., 13.11.2012, n. 48337); gli artt. 90 e 94 t.u. d.P.R. n. 309/90 richiedono che alla richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena o dell’affidamento terapeutico sia allegata la relativa documentazione.
La domanda, da chiunque proposta (C. cost., 19.6.1995, n. 267), non importa l’obbligo di dare inizio al procedimento. Il magistrato o il presidente del collegio, quando la richiesta appaia manifestamente infondata, ovvero costituisca la mera riproposizione di altra basata sui medesimi elementi, già rigettata, sentito il magistrato del pubblico ministero, la dichiara inammissibile con decreto motivato. Questa fase non è giurisdizionale, conseguentemente non è richiesta l’osservanza delle garanzie di assistenza e di difesa, la nomina di un difensore o di un curatore provvisorio all'infermo di mente che ne sia sprovvisto. Il decreto di inammissibilità può, pertanto, essere emesso nei confronti di persona non sentita, o priva di difensore. Se un difensore risulta nominato la notifica spetta anche ad esso. La parte ed il difensore possono proporre ricorso per cassazione, mentre il pubblico ministero, che non ha diritto alla comunicazione del decreto, non è legittimato a proporre impugnazione, anche se l’azione è stata da lui promossa.
L'emissione dell'avviso di fissazione dell'udienza segna l'inizio del procedimento; la sua notifica funge da contestazione; deve contenere, a pena di nullità, l'indicazione di luogo, giorno e ora di comparizione e il thema decidendi, unico elemento di merito richiesto a tutela del diritto di difesa. L' art. 666, co. 3, c.p.p. prescrive l'obbligo, a pena di nullità, di notifica all’interessato e al difensore, di comunicazione al pubblico ministero. Lo stesso articolo, al co.8, dispone che sia notificato anche al tutore dell'interessato infermo di mente o a un curatore provvisorio nominato dal giudice, al quale competono gli stessi diritti dell'incapace nel momento in cui si costituisce il contraddittorio e nella fase successiva. Il loro intervento costituisce una integrazione della capacità a perseguire fini processuali predeterminati, magari dallo stesso incapace, che è l’unico ad avere il potere di vanificarli con dichiarazione contraria. Il rito è quello della camera di consiglio, secondo lo schema tipico disegnato dall'art. 127 c.p.p. che, a parere della corte di legittimità (Cass. pen., 15.3.2011, n.16302), non è in contrasto al diritto ad una pubblica udienza (art. 6, co. 1, CEDU), difformemente a quanto riconosciuto per il procedimento di prevenzione (C. cost., 12.3.2010, n. 93). La struttura è imperniata sui principi del contraddittorio, della terzietà del giudice, dell’obbligo della motivazione, del controllo di legittimità del provvedimento.
Il tribunale è composto da un collegio di quattro membri: il presidente, un magistrato di sorveglianza, due esperti. Uno dei due togati deve essere il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è posto il condannato o l'internato in ordine alla cui posizione si deve provvedere. All’udienza è richiesta la necessaria partecipazione del difensore e del pubblico ministero; il loro mancato intervento importa una nullità assoluta, rilevabile d’ufficio, ai sensi degli artt. 178, co. 1, lett. b) e 179 c.p.p. L'interessato compare personalmente, se ne fa richiesta. Se è detenuto in luogo diverso è sentito dal magistrato di sorveglianza del luogo ove si trova. La scelta restrittiva, giustificata dal fine di non compromettere le esigenze organizzative e di sicurezza (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, art.147), può, di fatto, importare l’assenza dal processo dell’unica parte veramente interessata, potendosi risolvere il sentire, da parte di un giudice diverso da quello competente, in una mera formalità tra persone che poco o nulla sanno di un processo da definire in base a prove, ancora da acquisire, considerazione questa, alla quale poco toglie l’obbligo di dare comunicazione dell’audizione al difensore, a pena di nullità (Cass. pen., 13.7.2012, n. 37022). Non del tutto diverse sono le perplessità che suscita la disciplina della partecipazione all’udienza del detenuto a distanza che, prevista in via temporanea è stata inserita a regime nel sistema processuale con la l. 23.12.2002, n. 279, e ribadita dal co. 2 septies dell’art. 41 bis introdotto dalla l. 15.7.2009, n. 94. La scelta del legislatore di differenziare, sul piano processuale, il trattamento dei soggetti sottoposti al regime sospensivo ex art. 41 bis, facendo prevalere le esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica sull’esercizio del diritto a presenziare, è stata ritenuta legittima (C. cost., 22.7.1999, n. 342).
Le funzioni di pubblico ministero sono esercitate, davanti al tribunale, dal procuratore generale presso la corte di appello, davanti al magistrato di sorveglianza, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale della sede dell'ufficio.
Il procedimento prevede la sola fase del giudizio, nel corso della quale l'assunzione della prova in contraddittorio assolve anche alla funzione di contestazione. L'interessato ed il difensore hanno tempo fino a cinque giorni prima dell'udienza per depositare memorie, prospettare difese, per sollecitare l'ufficio a richiedere atti e documenti che ritengono possano essere acquisiti, facoltà, questa, priva di conseguenze sul piano giurisdizionale. L'istruzione è riservata all'udienza; non esiste una fase processuale antecedente nella quale è consentito procedere ad atti istruttori. In previsione dell’udienza il giudice deve acquisire la documentazione relativa all'osservazione della personalità; può chiedere i documenti e le informazioni di cui ha bisogno. Prima dell’udienza non vi sono acquisizioni, il giudice può, in funzione della riduzione dei tempi del procedimento, anche su sollecitazioni di parte, richiedere documenti ed informazioni che, nel rispetto del contraddittorio, potranno, eventualmente, essere acquisiti in udienza.
Quando si procede nei confronti di persona sottoposta ad osservazione scientifica della personalità (art. 678, co. 2, c.p.p.) il giudice acquisisce la relativa documentazione e può fare ricorso alla consulenza dei tecnici del trattamento. Al di fuori di questa specifica ipotesi, può ricorrere all’acquisizione dei documenti e delle informazioni, come previsto per il procedimento di esecuzione, ed infine, alle prove proprie del procedimento di cognizione (art. 666, co. 5, c.p.p.). Trattasi di un sistema probatorio strutturato su tre livelli: il primo, ex officio, che fa riserva del mezzo probatorio e dei soggetti di rilevazione, i tecnici del trattamento, con esclusività e tipicità dell’uno e degli altri e che esclude il ricorso ai mezzi di prova ordinaria ove si debba accertare quell'aspetto; il secondo, mutuato dal procedimento di esecuzione, fatto di documenti e informazioni, prevalentemente riferito a verità storicizzate; il terzo, risultante dal rinvio alle prove del procedimento cognitivo, ad oggetto prevalente fattuale, condizionato, però, dalla specificità del procedimento, che genera l’impossibilità di anticipare l’articolazione delle prove, di citare i testi, ma consente la possibilità di far ricorso alla perizia criminologica o psicologica che, pur se disciplinata tra le prove del processo di cognizione (art. 220, co. 2, c.p.p,), in sostanza, è ammissibile nel processo di esecuzione, meglio, in quello di sorveglianza.
La prova tipica è costituita dalla documentazione relativa all'osservazione scientifica della personalità, condotta su persona detenuta o internata, la cui ammissione è fuori dai canoni, perchè deve essere acquisita per volontà del legislatore che si è pronunciato per la sua rilevanza ed ammissibilità. Alla consulenza dei tecnici del trattamento il giudice può ricorrere, come ad un successivo mezzo di controllo sui risultati del trattamento quali emergono dalla documentazione. I tecnici, operatori penitenziari, sono chiamati a rendere non dichiarazioni in ordine a fatti di cui hanno avuto conoscenza per ragioni del loro ufficio, ma spiegazioni e chiarimenti sull'attività svolta e documentata. La loro non è testimonianza, né consulenza tecnica, per cui non sono tenuti a rendere la dichiarazione di assunzione di responsabilità (artt. 497, co. 2, e 226 c.p.p.).
Il giudice può chiedere (art. 666, co. 5, c.p.p.) alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui ha bisogno e, se occorre, assumere prove in udienza nel rispetto del contraddittorio. Al termine “informazioni” va attribuito il valore di un'attività che investe aspetti probatori fattuali, rivolti all’acquisizione di notizie utili. L'oggetto può variare dai precedenti giudiziari e penali, all'accertamento di fatti specifici risultanti da investigazioni, raccolta di notizie, in relazione a situazioni di stato civile, anagrafe, famiglia, salute, lavoro, osservanza o inosservanza di prescrizioni, comunque, idonee a definire la personalità del soggetto. Possono essere rese sotto forma di testimonianza o di comunicazione scritta, della quale il giudice, anche d'ufficio (art. 511, co. 1, c.p.p.), valuterà l’acquisibilità disponendone, eventualmente, la lettura per parti che saranno le sole acquisite ed utilizzabili ai fini della decisione. Tra le informazioni ve ne sono talune, definite obbligatorie, la cui acquisizione è voluta dal legislatore e dalle quali non si può prescindere, come quelle da richiedere al Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, al Questore, alla Commissione centrale per la definizione ed applicazione dello speciale programma di protezione, ai centri di servizio sociale, oppure, da rendere, da parte del procuratore nazionale o distrettuale antimafia.
Accanto alle perizie medico legali, alle quali il giudice può ricorrere per accertare le condizioni fisiche e psichiatriche del soggetto, un posto particolare occupa la perizia criminologica che consente di valutare le cause di pericolosità sociale indipendenti da quelle patologiche, in ragione di tendenze, fattori criminogeni, qualità delle relazioni intercorrenti tra soggetto, famiglia, società. Trattasi di indagine che non procede alla classificazione del soggetto secondo parametri di sanità fisica, ma della interpretazione della personalità al di fuori di ogni prefigurato schema.
L’avvio d’ufficio del procedimento non altera le ordinarie regole che disciplinano il diritto alla prova. Il giudice, anche quando è il promotore dell’azione, non può interferire sulla sua ammissione come titolare di un diritto autonomo, ma solo in maniera supplementare e sostitutiva dell'impulso di parte, secondo il canone generale dell’art. 507 c.p.p.
Il giudice decide con ordinanza emessa in camera di consiglio. Per il tribunale, composto da un collegio di un numero pari di giudici, una norma particolare dispone che in caso di parità di voto, prevale quello del presidente. A questa scelta, anche se non da tutti condivisa perché contrastante con il principio sancito dall’art. 527, ultimo periodo, c.p.p., che in caso di parità di voto riconosce prevalenza alla soluzione più favorevole all’interessato, non può negarsi una sua razionalità. L’esecuzione delle misure alternative, principale materia oggetto del procedimento di sorveglianza, richiede la collaborazione del condannato; per questo, la soluzione più favorevole non sempre è quella che tale può definirsi in astratto, ma quella da lui giudicata tale per cui, nell’impossibilità di rimettersi ad un suo interpello, non sempre possibile e tempestivo, si giustifica l’attribuzione di una maggiore rilevanza al parere del presidente, presumibilmente, il più esperto, quello che ha una maggiore ed approfondita conoscenza dei problemi, anche ambientali, connessi all’esecuzione sul territorio.
L’ordinanza decisoria, immediatamente esecutiva, a meno di disposizione diversa del giudice (art. 666, co. 7, c.p.p), è impugnabile per cassazione dal magistrato del pubblico ministero, dall’interessato e dal difensore, nonché dal tutore e dal curatore, anche provvisorio dell’internato. Avverso l’ordinanza con la quale il tribunale di sorveglianza decide sul reclamo in materia di carcere duro, sono legittimati a proporre impugnazione, anche, il procuratore nazionale antimafia ed il procuratore titolare delle indagini preliminari, ovvero, quello presso il giudice che procede. Il ricorso è ammesso per soli motivi di legittimità, a meno che non si tratti, di decisioni in tema di misure di sicurezza, avverso le quali è consentito il riesame di merito. La Corte decide in camera di consiglio (art. 666, co. 6, c.p.p), senza intervento dei difensori. Il contraddittorio è limitato alla forma scritta; le parti possono presentare motivi nuovi, fino a quindici giorni prima dell’udienza (art. 611, co. 1, c.p.p), e memorie alle quali la controparte può replicare fino a cinque giorni prima della data fissata per la trattazione. La Corte può dichiarare inammissibile, rigettare, accogliere il ricorso; se decide su impugnazione proposta dall’interessato o dal suo difensore, nell’inerzia del pubblico ministero, è vincolata al divieto di reformatio in peius.
L’annullamento dell’ordinanza concessiva di una misura alternativa comporta la cessazione dell’esecuzione e l’emissione di un nuovo ordine di carcerazione, nel quale il pubblico ministero deve tener conto del periodo di tempo nel quale la pena è stata eseguita nella forma alternativa. In ipotesi di sentenza di annullamento dell’ordinanza (art. 543, co. 1, c.p.p.), gli atti sono restituiti al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato. Esaurito l’iter processuale, alla decisione si applicano le regole che disciplinano la definitività del titolo. Nel caso che nei confronti del medesimo soggetto risultino emessi più provvedimenti concernenti l’applicazione o la revoca di uno stesso beneficio (più provvedimenti di liberazione anticipata relative alla stessa detenzione, più revoche della stessa decisione con effetti diversi) si ricorre alla regola sancita dall’art. 669 c.p.p. che comporta l’esecuzione del provvedimento più favorevole. Il principio del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.), operante per il procedimento di cognizione, si applica anche alle ordinanze emesse dalla magistratura di sorveglianza (Cass. pen., 14.10.2008, n. 44849), perciò, una nuova domanda è ammissibile solamente se fondata su elementi diversi da quelli posti a base di quella rigettata (art. 666, co. 2, c.p.p.). Con riferimento a questo problema, va ricordato un indirizzo, seguito da alcuni giudici di merito che, con l’apposizione alle ordinanze di rigetto della liberazione anticipata della clausola allo “stato degli atti”, intendevano impedire la formazione del giudicato per consentire un nuovo giudizio, magari di segno contrario, per l’intervento di nuovi elementi di giudizio da valutare unitamente a quelli esaminati. La corte di legittimità ha escluso tale possibilità con la motivazione che è precluso al giudice il potere di modificare gli effetti propri dei provvedimenti, per cui l’apposta clausola va giudicata tamquam non esset (Cass. pen., 16.5.1988, n. 1400).
La molteplicità delle competenze assegnate alla magistratura di sorveglianza, la progressiva attrazione in ambito giurisdizionale di attività già ritenute di natura amministrativa, la non adeguabilità del modello processuale tipico alle particolari esigenze hanno favorito il fiorire di una serie di procedimenti particolari che si sono venuti ad aggiungere a quelli, diversi dal rito ordinario, già fatti salvi dall’art. 236, co. 2, disp. att. c.p.p. Tra questi particolare rilevanza rivestono quelli proponibili mediante reclamo che consentono, secondo regole diverse, ma prossime, di sottoporre a controllo giurisdizionale provvedimenti emessi, senza formalità, dalle autorità amministrative o giudiziarie, che prevedono il ricorso ad un contraddittorio eventuale e posticipato (art. 14 ter, 30 bis, 69 bis ord. penit.), che per la loro duttilità applicativa, hanno indotto alcuni studiosi ad auspicarne l’adozione come modello processuale, generale. Seguono talune forme di “opposizione”, avverso provvedimenti del magistrato e del tribunale (artt. 16, d.lgs. 25.7.1998, n. 286, modificato dalla l. 30.7.2002, n. 189, e 84 e 170, d. P.R. 30.5.2002 n. 115), nonché, due procedure de plano utilizzabili da entrambi i giudici (art. 678, co. 1, c.p.p., art. 15 l. 30.7.1990, n. 217).
Artt. 677 e ss. c.p.p.; art. 666 c.p.p.; artt. 236, 240 disp. att.; l. 26.7.1975, n. 354, e succ. mod., Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà; d.P.R. 30.6.2000, n. 230 Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà; d.P.R. 9.10.1990, n. 309, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza; Titolo VIII, Capo II, Disposizioni processuali e di esecuzione, artt. 87 e ss.
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