Cognitivi, processi
Il termine 'cognitivo', benché derivato originariamente dal latino, è stato importato nella letteratura scientifica italiana dalla lingua inglese (cognitive, cognition), ed è forse il segno più visibile dell'influenza che la psicologia statunitense ha avuto su quella italiana nella seconda metà del nostro secolo. L'espressione 'psicologia cognitiva', introdotta per la prima volta da Ulric Neisser (v., 1967), tende ad avere nell'uso un significato ambiguo, indicando due cose distinte. Da un lato 'cognitivo' indica una particolare classe di fenomeni mentali, e cioè quelli di tipo intellettivo e razionale (o almeno raziomorfo) di contro a quelli emotivi, motivazionali (o psicodinamici) o relativi all'interazione sociale. In questo senso la 'psicologia cognitiva' è un settore della psicologia accanto ad altri, e più precisamente quel settore che studia la percezione, il linguaggio e il pensiero. Dall'altro, 'cognitivo' designa un orientamento teorico, una certa concezione della mente e del modo appropriato di studiarla, che si contrappone ad altri orientamenti. In questo secondo senso la 'psicologia cognitiva' non studia alcuni fenomeni mentali piuttosto che altri, ma studia tutti i fenomeni della mente in un certo modo. Questo modo è definito primariamente dal fatto che la mente viene concepita come un sistema di elaborazione dell'informazione. Di conseguenza i modelli teorici delle capacità o attività mentali, ad esempio della capacità di comprensione del linguaggio, prendono la forma di diagrammi di flusso dell'informazione, nei quali viene specificato in che modo l'informazione è rappresentata all'interno della mente e quali operazioni trasformano questa informazione attraverso i passi che portano dall'informazione in ingresso (input) a quella in uscita (output). La psicologia cognitiva, intesa in questo secondo senso di un orientamento teorico generale della psicologia (per distinguere questo secondo senso Domenico Parisi e Cristiano Castelfranchi hanno proposto di chiamarla 'psicologia cognitivista'), è emersa storicamente in contrapposizione alla psicologia comportamentista (o behaviorista) che aveva dominato in specie la psicologia statunitense nei decenni precedenti.
La psicologia comportamentista era caratterizzata da una rigida limitazione nei concetti che potevano essere legittimamente usati e che erano ristretti a entità direttamente osservabili e quantificabili: gli stimoli fisici che giungono agli organi di senso e le risposte motorie emesse dall'organismo in reazione a questi stimoli. Ogni complessità del comportamento doveva essere ridotta ad associazioni tra questi stimoli e queste risposte, mentre il riferimento a entità mentali non direttamente osservabili, come scopi, immagini, significati, pensieri, o alla stessa mente, era bandito. La psicologia cognitiva, reintroducendo questi concetti mentalistici e tornando a una concezione in cui il comportamento non è l'oggetto di studio della psicologia, ma è solo la strada attraverso la quale accedere alla mente, si ricollega alla psicologia europea dei primi decenni del secolo. Tuttavia, diversamente da questa psicologia, il cognitivismo tiene chiaramente separato il concetto di mente da quello di coscienza, considerando che soltanto una piccola parte di ciò che è mentale è anche cosciente - e ciò in buona misura sotto l'influenza della teoria linguistica di Noam Chomsky, che negli ultimi decenni è andata scoprendo e studiando una competenza linguistica concepita come un'entità mentale tanto complessa quanto inaccessibile alla coscienza. Ma ciò che contraddistingue la psicologia cognitiva da tutte le scuole psicologiche precedenti e ne fa il più importante orientamento teorico della psicologia della seconda metà del secolo è il fatto, già notato, di concepire la mente come sistema di elaborazione dell'informazione, con tutte le conseguenze che questa concezione ha sul modo di costruire i modelli teorici dei diversi fenomeni psicologici e di sottoporli a verifica empirica. Questa concezione della mente è sorta sotto l'influenza diretta di due sviluppi scientifici e tecnologici - del resto in parte connessi tra loro - che si sono verificati fuori della psicologia: da un lato, l'emergere dell'informatica, intesa come scienza dell'informazione e della sua elaborazione e come tecnologia dei calcolatori, e dall'altro il rapido affermarsi della linguistica generativo-trasformazionale a opera di Chomsky. L'influenza dell'informatica e della tecnologia dei calcolatori è evidente nella stessa definizione della psicologia cognitiva che abbiamo presentato sopra. La mente è concepita come un sistema che, al pari di un calcolatore elettronico, elabora informazione.
Un modello teorico di una qualche capacità mentale è costruito come un diagramma che descrive il flusso dell'informazione nel sistema, analogamente a uno schema a blocchi che descrive il funzionamento di un calcolatore. Le operazioni che trasformano l'informazione da uno stadio all'altro del processo di elaborazione mentale sono analoghe a quelle che il calcolatore compie eseguendo le istruzioni del suo programma. I concetti usati e i modelli teorici tendono a essere formali, cioè definiti in modo esplicito, dettagliato, e senza lasciare spazio all'intuizione, così come un programma di calcolatore è scritto in un linguaggio formale (linguaggio di programmazione) che deve poter essere 'compreso' da una macchina. Gli esperimenti di laboratorio che sono rivolti a verificare empiricamente le predizioni di questi modelli ricercano una corrispondenza tra le rappresentazioni dell'informazione e le operazioni che vengono postulate nei modelli da una parte, e dall'altra specifici aspetti del comportamento dei 'soggetti' sperimentali, quali il tempo necessario a fare qualcosa o gli errori che si compiono nel farla. L'influenza di Chomsky sulla psicologia cognitiva è forse più delimitata ma altrettanto importante. Questa influenza in parte converge con quella dell'informatica, in quanto la linguistica chomskiana è una linguistica formale, cioè rivolta a costruire essa stessa modelli della competenza linguistica espliciti e privi di appelli all'intuizione - e questo non deve sorprendere in quanto Chomsky ha avuto un ruolo significativo nell'avvio stesso dell'informatica negli Stati Uniti. Ma l'influenza chomskiana sulla psicologia cognitiva non si ferma qui. Si è già accennato alla separazione del concetto di mente dal concetto di coscienza, che è così importante nella psicologia cognitiva e che è esemplificata nel modo più convincente dalla competenza linguistica, una complessa entità mentale di cui non abbiamo diretta coscienza. Inoltre, con le sue esplicite prese di posizione a favore di basi innate specie-specifiche delle capacità linguistiche, Chomsky ha contribuito a riaccendere l'interesse della psicologia per le componenti universali, biologiche e naturali della mente umana, così trascurate da tutte le scienze umane e sociali nella prima metà del secolo.
Infine, e più in generale, la concezione chomskiana della competenza linguistica come una entità mentale, abbandonando l'antipsicologismo della precedente linguistica strutturalistica, ha riavvicinato la linguistica alla psicologia e ha permesso di vedere le analisi e le teorie linguistiche come strettamente integrate con le ricerche della psicolinguistica, forse il settore di punta della psicologia cognitiva. Anche se il termine 'cognitivo' significa le due cose distinte che abbiamo chiarito all'inizio, la psicologia a orientamento cognitivo (o, come si dice anche, di 'elaborazione dell'informazione' - information processing psychology: v. Lindsay e Norman, 1977²) si è occupata prevalentemente dei fenomeni mentali di tipo cognitivo, cioè del linguaggio, della percezione, della rappresentazione e dell'uso delle conoscenze, del ragionamento. Gli altri settori della psicologia (la psicologia dello sviluppo, la psicologia sociale, la psicologia dinamica) hanno sentito soltanto indirettamente l'influenza del nuovo orientamento. Almeno nei settori in cui è stata principalmente applicata, la psicologia cognitiva ha prodotto negli ultimi trent'anni notevoli risultati, sia in termini di conoscenze empiriche accumulate sia, soprattutto, dal punto di vista dei modelli teorici che ha proposto. Inoltre l'approccio cognitivista (o almeno alcune sue componenti) ha superato in taluni casi i confini disciplinari della stessa psicologia, e si è potuto parlare di neuropsicologia cognitiva, di antropologia cognitiva, di sociologia cognitiva, e così via. Nelle scienze sociali, come l'antropologia e la sociologia, il cognitivismo ha significato mettere l'accento sulle rappresentazioni mentali, sull'organizzazione dei sistemi semantico-lessicali, sulla costruzione mentale della realtà, quali mediatori tra il comportamento degli individui e le strutture sociali. In effetti l'approccio cognitivo allo studio della mente, cioè un approccio che vede la mente come un sistema che elabora informazione, si è affermato negli ultimi decenni ben al di là della psicologia cognitiva e anche delle tradizionali scienze dell'uomo e della società. Per introdurre questo punto è necessario rivolgere la nostra attenzione al problema dei metodi empirici di ricerca.
Dal punto di vista dei metodi empirici di ricerca, la psicologia cognitiva non ha molto innovato. Il metodo principale è rimasto quello sperimentale, mediante il quale si osservano e si quantificano i comportamenti di 'soggetti' sperimentali in condizioni controllate ('di laboratorio') per determinare gli effetti di variabili opportunamente manipolate. Questo metodo era già stato usato, in analogia con le scienze naturali, da molte scuole psicologiche del passato, dalla psicologia della Gestalt al comportamentismo. E va anche detto che il metodo sperimentale, per quanto indiscussi siano i suoi successi quando è applicato nelle scienze naturali, nell'applicazione allo studio della mente e del comportamento dell'uomo presenta alcuni vantaggi, ma anche seri limiti (v. Parisi, 1978). La psicologia cognitiva quindi non ha esteso anche al piano del metodo l'influenza che ha ricevuto dall'informatica. Dal punto di vista metodologico l'informatica è fortemente innovativa, in quanto introduce un vero e proprio nuovo paradigma, quello della simulazione dei fenomeni che si vogliono studiare, in luogo della loro diretta osservazione o sperimentazione, che rimane il paradigma metodologico tradizionale della scienza. Con il metodo simulativo l'obiettivo è di riprodurre in un sistema artificiale i fenomeni che interessano, cioè - trattandosi dell'informatica - di programmare opportunamente un calcolatore in maniera tale che, eseguendo il programma, esso si comporti nello stesso modo in cui si comportano i fenomeni che si vogliono studiare e capire. Nel programma è incorporata una teoria o modello dei fenomeni, e il successo della simulazione costituisce una verifica del fatto che la teoria incorporata nel programma coglie i meccanismi essenziali sottostanti ai fenomeni. Usando il nuovo paradigma della simulazione, l'informatica è stata applicata allo studio e alla riproduzione su macchine di molti aspetti del funzionamento mentale e dell'intelligenza, cioè proprio di quei fenomeni sui quali si è concentrata la psicologia cognitiva. È nata così una nuova disciplina, l'intelligenza artificiale, che negli ultimi vent'anni ha prodotto interessanti modelli computazionali di capacità quali il riconoscimento visivo di oggetti, la loro manipolazione intelligente, l'uso del linguaggio, il ragionamento, la soluzione dei problemi, la pianificazione delle azioni (v. Rich, 1983; v. Haugeland, 1985).
L'intelligenza artificiale, tuttavia, è una disciplina un po' sui generis, a metà strada tra una scienza, rivolta alla conoscenza di quel particolare aspetto della realtà che è l'intelligenza, e una tecnologia, rivolta alla costruzione di macchine intelligenti che aiutino nella soddisfazione di bisogni e abbiano applicazioni pratiche. Questa duplice natura fa sì che le macchine intelligenti - che peraltro allo stato attuale riescono a riprodurre una frazione minima dell'intelligenza dell'uomo - spesso siano rivolte più a offrire le prestazioni per così dire esterne dell'intelligenza che a simulare da vicino le caratteristiche specifiche dell'intelligenza umana e il modo in cui la mente arriva a produrre prestazioni intelligenti. In ogni caso gli ultimi decenni hanno visto due discipline, e non più una soltanto, occuparsi dei fenomeni mentali - o almeno di quelli che hanno a che fare con l'intelligenza - usando entrambe un approccio cognitivo, cioè un approccio in cui la mente è concepita come un sistema di elaborazione dell'informazione: da un lato la psicologia cognitiva e dall'altro l'intelligenza artificiale. Le differenze tra queste due discipline sono, come si è detto, in primo luogo una differenza di metodo (tradizionalmente sperimentale in psicologia, di simulazione su calcolatore in intelligenza artificiale), in secondo luogo una differenza per così dire epistemologica (una scienza pura la psicologia, una scienza e nello stesso tempo una tecnologia l'intelligenza artificiale). Non vi è quindi da sorprendersi del fatto che siano stati avviati dei tentativi per instaurare una comunicazione sistematica tra le due discipline e possibilmente una collaborazione interdisciplinare. Questi tentativi hanno dato luogo a un'impresa interdisciplinare che ha preso il nome di 'scienza cognitiva'. La scienza cognitiva si è affermata negli ultimi anni soprattutto negli Stati Uniti, dove esistono riviste, associazioni scientifiche, convegni e programmi di ricerca che usano questa etichetta. La spinta all'emergere della scienza cognitiva è facilmente comprensibile se si considera che sia la psicologia cognitiva che l'intelligenza artificiale hanno qualcosa da chiedere all'altra disciplina. La psicologia cognitiva trova nell'intelligenza artificiale un'attuazione più coerente e radicale della sua concezione della mente come sistema di elaborazione dell'informazione. Se la mente è un tale sistema, può essere inevitabile trarre la conseguenza che essa vada studiata con metodologie effettivamente computazionali, cioè che utilizzano i concetti e gli strumenti della scienza dell'informazione, l'informatica, per costruire teorie/modelli traducibili in programmi di calcolatore. Da parte sua, l'intelligenza artificiale, anche quando come tecnologia non è direttamente interessata a studiare la mente e l'intelligenza naturale dell'uomo, non può non trovare utile e ricco di suggerimenti conoscere da vicino come funziona questa intelligenza, quale esempio già realizzato in natura delle macchine che vuole costruire. D'altro canto, la scienza cognitiva è un'impresa interdisciplinare che va anche al di là della psicologia e dell'intelligenza artificiale, dato che, come si è accennato, la concezione della mente come elaborazione dell'informazione si è affermata negli ultimi decenni, in una forma o nell'altra e in misura maggiore o minore, un po' in tutte le discipline che hanno per oggetto la mente e la società. Pertanto, sotto l'etichetta di scienza cognitiva è facile trovare oggi non solo ricerche e analisi di psicologia e di intelligenza artificiale, ma anche di linguistica (si ricordi quanto si è detto sul ruolo di Chomsky nell'emergere del punto di vista cognitivo), di filosofia (che nelle sue versioni logico-linguistiche di origine anglosassone ha partecipato a pieno titolo all'evolversi del cognitivismo), di antropologia, di sociologia e di scienza dell'educazione.
Tuttavia tra le discipline che hanno comunicato e collaborato fino a oggi tra loro all'interno della scienza cognitiva permangono differenze troppo grandi perché quest'ultima possa emergere come una vera e propria nuova disciplina e non più soltanto come un'etichetta per un sistema di scambio e di influenze reciproche, del resto molto utile, tra discipline diverse. La comune concezione della mente come elaborazione dell'informazione è sufficiente per rendere possibile lo scambio e l'interesse reciproco, ma non per fondare un'integrazione più intima, sul tipo di quella che si instaura tra le scienze della natura quando emergono discipline-ponte quali la chimica-fisica, la bio-chimica, la bio-fisica. In effetti, l'integrazione tra le diverse scienze della natura è resa possibile dall'esistenza di paradigmi comuni molto forti, quali il metodo sperimentale, l'analisi quantitativa dei fenomeni, il riduzionismo tra un livello e l'altro (per esempio: fisico, chimico, biologico) dei fenomeni della natura. Invece all'interno della scienza cognitiva, accanto a una concezione - condivisa talvolta un po' genericamente - della mente come elaborazione dell'informazione, sono rimaste finora sostanziali differenze nei metodi di ricerca (il metodo sperimentale in psicologia e quello simulativo in intelligenza artificiale), che sottendono differenze concettuali e di obiettivi, e inoltre è rimasta sostanzialmente irrisolta la questione del rapporto con le neuroscienze, cioè con le scienze che, usando l'approccio delle scienze naturali, studiano il cervello nelle sue caratteristiche fisiche. Del primo punto abbiamo già parlato. Sul secondo sarà bene intrattenerci brevemente per la sua importanza intrinseca, e perché ci consentirà poi di passare a descrivere un importante mutamento che sta avvenendo oggi all'interno della scienza cognitiva.
Tra le discipline che vengono menzionate come appartenenti alla scienza cognitiva, accade spesso di trovare le neuroscienze, cioè la neurobiologia, la neurochimica, la biofisica applicata al sistema nervoso, la neuroembriologia, e altre. Questo non deve sorprendere dato che in un'impresa esplicitamente interdisciplinare che ha per oggetto di studio la mente è evidente che debba trovare un posto anche lo studio della macchina fisica che fa da supporto alla mente, cioè le neuroscienze. Tuttavia, fino a oggi, l'interscambio e la collaborazione tra le neuroscienze e le altre scienze cognitive, in particolare la psicologia cognitiva e l'intelligenza artificiale, sono stati più auspicati che realizzati. La ragione è nella troppo grande distanza che separa le neuroscienze dalle altre scienze cognitive. In primo luogo, le neuroscienze non hanno finora accolto, se non marginalmente, il punto di vista che concepisce la mente (e, possibilmente, anche il cervello) come un sistema di elaborazione dell'informazione. L'idea che nel cervello vi sia trasmissione di informazioni è comunemente accettata nelle neuroscienze (v. Kandel e Schwartz, 1985), ma quest'idea non ha nessuna specifica influenza sui modelli teorici da esse adottati, che restano quelli delle tradizionali scienze naturali. È mancata quindi, finora, una base concettuale comune tra le neuroscienze e le altre scienze cognitive, sulla quale poggiare scambi e cooperazioni. In secondo luogo, per le ragioni che vedremo più avanti, le neuroscienze non sono riuscite fino a oggi a estendere le loro conoscenze e i loro modelli dai fenomeni e dai processi neurofisiologici elementari ai funzionamenti e alle prestazioni complessive del sistema nervoso, cioè ai livelli ai quali sono più specificamente interessate le altre scienze cognitive. Infine, sia l'intelligenza artificiale che la psicologia cognitiva - in maniera più netta la prima e meno la seconda - hanno messo da parte ogni reale tentativo di trovare un collegamento con la considerazione del cervello come macchina fisica su cui poggia la mente. Il disinteresse per il cervello è esplicito e completo nell'intelligenza artificiale, così come questa disciplina si è evoluta negli ultimi venti, venticinque anni (mentre era vivo nella cibernetica che ha preceduto l'intelligenza artificiale). L'intelligenza artificiale considera anzi come uno dei suoi principî l'indipendenza, per così dire, del software dallo hardware, cioè assume che un sistema funzionale possa essere realizzato fisicamente in macchine diverse senza essere influenzato dall'architettura di base della macchina. Di conseguenza, l'intelligenza artificiale ha sempre dichiaratamente ignorato le caratteristiche fisiche del cervello e i possibili vincoli o suggerimenti che queste possono presentare per la costruzione di sistemi intelligenti artificiali. Per la psicologia cognitiva le cose sono più sfumate, dato che la psicologia ha una lunga tradizione di tentativi per stabilire un ponte tra la mente e il cervello attraverso sottodiscipline quali la psicofisiologia, la psicofisica e la neuropsicologia.
Tuttavia, alle intrinseche limitazioni delle discipline-ponte tradizionali, inevitabilmente costrette a limitarsi alle correlazioni mente-cervello più elementari (sensoriali o, al massimo, percettive), la psicologia cognitiva ha aggiunto ulteriori difficoltà nello stabilire collegamenti adeguati tra lo studio della mente e lo studio del cervello. Infatti i modelli cognitivisti delle capacità mentali raggiungono livelli di dettaglio e di complessità molto maggiori dei modelli tradizionali della psicologia. Ma poiché la possibile relazione di questi modelli con il cervello continua in sostanza a essere concepita soltanto nei tradizionali termini della localizzazione topografica, è proprio la sofisticazione dei modelli cognitivisti della mente a rendere sempre più implausibile trovare una loro corrispondenza con il cervello, cioè una precisa localizzazione dei numerosi componenti, rappresentazioni e processi postulati nei modelli degli psicologi. D'altro canto, anche se questa localizzazione fosse possibile, essa sarebbe un modo palesemente povero e insufficiente di concettualizzare la relazione tra struttura e funzionamento della mente da un lato e del cervello dall'altro. Pertanto, anche se la neuropsicologia cognitiva è uno dei settori più fiorenti e attivi della scienza cognitiva, tuttavia l'espressione 'neuro-' in essa sta a indicare piuttosto la considerazione puramente psicologica e funzionale dei disturbi mentali (per esempio nell'afasia), da utilizzare per ampliare la base empirica dei modelli psicologici, che non il tentativo di stabilire un collegamento tra ciò che sappiamo della mente (inclusi i suoi disturbi) e ciò che sappiamo del cervello. Se queste sono le ragioni che tengono le neuroscienze lontane e separate dalla scienza cognitiva, rimane il fatto che un'impresa interdisciplinare che ha per oggetto lo studio della mente non fa a meno facilmente delle discipline che ne studiano il supporto fisico. Negli anni più recenti è andato emergendo un nuovo paradigma nello studio della mente che offre qualche promessa di risolvere questi problemi che affliggono la scienza cognitiva, e cioè da un lato la netta separazione di metodi tra la psicologia cognitiva e l'intelligenza artificiale, e dall'altro l'assenza delle neuroscienze da uno studio integrato della mente e del cervello. Questo nuovo paradigma è il 'connessionismo'. Sarà ora necessario darne una breve descrizione per spiegare in che modo esso possa offrire una nuova base alla scienza cognitiva.
Nella scienza cognitiva - intendendo per scienza cognitiva ogni approccio, anche in discipline diverse, che concepisce la mente come un sistema di elaborazione dell'informazione - il calcolatore elettronico ha costituito finora il modello della mente. In alcuni casi l'espressione 'modello' va intesa nel senso di una semplice metafora interpretativa o di una sorgente di suggerimenti; in altri, più alla lettera, la mente viene vista come un sistema costruito sugli stessi principî e modi di funzionamento di un calcolatore. Ricercatori ed epistemologi discutono quale sia l'interpretazione corretta dell'idea che il calcolatore è il modello della mente, ma tale idea è sostanzialmente condivisa da tutti all'interno della scienza cognitiva. Il connessionismo invece la rifiuta; anziché ritenere che il calcolatore - almeno nelle forme che questa macchina ha preso storicamente - sia il modello della mente, esso assume un'altra metafora o modello della mente: il cervello. Si deve tener presente che inizialmente, cioè nella cibernetica di venti, trent'anni fa, il calcolatore era considerato anche un modello del cervello, oltre che della mente, tant'è vero che i calcolatori erano chiamati 'cervelli elettronici'. Tuttavia, con il passare del tempo, è diventato sempre più chiaro che i calcolatori elettronici e il cervello sono macchine basate su principî profondamente diversi. Un calcolatore elettronico è una macchina sequenziale, cioè una macchina in cui le operazioni si susseguono molto velocemente l'una all'altra, coinvolgendo in ogni momento un numero limitato di elementi. Nel cervello le operazioni sono di per sé molto più lente, ma avvengono contemporaneamente in un gran numero di elementi. In un calcolatore esiste una 'unità centrale di elaborazione' che controlla tutto quello che avviene, eseguendo una complessa sequenza di istruzioni (il programma) che manipolano dei dati immagazzinati in una grande 'memoria' passiva. Nel cervello le prestazioni emergono dall'interazione tra un gran numero di semplici unità di elaborazione che sono costantemente attive e non richiedono un supervisore centrale che dica loro cosa fare. Se il calcolatore è stato per decenni e in una varietà di discipline - dalla psicologia cognitiva all'intelligenza artificiale e alla scienza cognitiva nel suo complesso - il modello della mente, e se il connessionismo assume ora il cervello, e non più il calcolatore, come modello della mente, ci si deve chiedere come si sia arrivati a questo importante cambiamento di paradigma.
Vi sono almeno due ragioni che spiegano il cambiamento, l'una inerente allo sviluppo tecnologico e l'altra di carattere più teorico e scientifico. Un'esigenza molto sentita nel campo delle applicazioni dei calcolatori è sempre quella di aumentare l'efficienza di queste macchine, il che in larga misura significa aumentare la velocità delle loro prestazioni. Data l'architettura dei calcolatori tradizionali (architettura di von Neumann), aumentare la velocità di prestazione di un calcolatore ha significato aumentare la velocità di esecuzione delle sue operazioni elementari. Tuttavia più recentemente si è scoperto che vi era una strada alternativa per aumentare l'efficienza e la velocità delle prestazioni di un calcolatore, e cioè quella di fare in modo che la macchina compia più operazioni contemporaneamente, ovvero in parallelo. In questo modo, anche senza aumentare ulteriormente la velocità delle operazioni elementari, più cose possono essere fatte nell'unità di tempo. Questa strada del parallelismo è stata esplorata in vari modi, per lo più mantenendo la filosofia tradizionale dei calcolatori (ad esempio la distinzione tra elaborazione e memoria) e aggiungendovi qualche elemento di parallelismo. Ma è stato compiuto anche un tentativo di impostare in modo radicalmente nuovo l'architettura di base di un calcolatore, prendendo come modello il cervello proprio nelle sue caratteristiche descritte sopra: memoria attiva che si identifica con il sistema di elaborazione, parallelismo elevato tra un gran numero di elementi semplici, prestazioni come risultato dell'interazione tra questi elementi semplici. I nuovi calcolatori connessionistici o 'a parallelismo elevato', resi possibili da questa svolta nella concezione dell'architettura di base dei calcolatori e dagli sviluppi tecnologici, hanno favorito concettualmente l'emergere del nuovo paradigma che considera il cervello come modello della mente. L'altro fattore che è alla base dell'emergere del connessionismo è di carattere più conoscitivo e scientifico. L'intelligenza artificiale si è sviluppata negli ultimi due decenni in stretto collegamento con lo sviluppo della tecnologia dei calcolatori elettronici, ed è profondamente influenzata dall'architettura tradizionale di questi calcolatori.
Negli ultimi anni questa disciplina ha avuto un decorso in un certo senso contraddittorio. Da un lato è riuscita a portare i suoi successi conoscitivi e tecnologici nel mercato, mettendo a punto applicazioni utili e di rilevante valore economico. Dall'altro, sono diventati sempre più evidenti i suoi limiti, almeno nel modo in cui questa disciplina finora è stata impostata e realizzata. L'intelligenza artificiale è riuscita a riprodurre sulle macchine solo una frazione molto piccola dell'intelligenza dell'uomo, o dell'intelligenza in genere, e queste limitazioni non sembrano essere fondamentalmente superabili col tempo, ma appaiono derivate dal modo stesso in cui l'intelligenza artificiale concepisce e cerca di riprodurre l'intelligenza. Ogni aspetto dell'intelligenza viene interpretato come una procedura razionale o raziomorfa, studiabile con la logica formale o con qualche suo equivalente, da concettualizzare come una manipolazione di simboli, regole, procedure, concetti, schemi, scopi, piani, e non a un livello più elementare in cui sussistono fondamentalmente soltanto quantità fisiche organizzate e le loro interazioni. Partendo da scelte concettuali e metodologiche di questo tipo molti fondamentali aspetti dell'intelligenza rimangono fuori della portata dell'intelligenza artificiale: la sensibilità al contesto tipica dei comportamenti intelligenti, la loro flessibilità di fronte al variare delle situazioni, l'apprendimento e il modificarsi continuo con l'esperienza, la capacità di ristrutturare la propria interpretazione di una situazione tenendo simultaneamente conto dei suoi molteplici vincoli. In questo modo, praticamente in ogni suo campo, dalla visione al linguaggio naturale, dalla rappresentazione e uso delle conoscenze alla soluzione dei problemi e alla pianificazione delle azioni, l'intelligenza artificiale appare a molti, anche al suo interno, come segnare il passo, incapace di superare problemi che appaiono insolubili. Le difficoltà attuali dell'intelligenza artificiale sono una seconda ragione dell'interesse che si è manifestato di recente per il connessionismo. In effetti, questo si presenta come un paradigma concettuale molto diverso da quello dell'intelligenza artificiale così come si è finora sviluppata. A parte la scelta iniziale di considerare il cervello e non più il calcolatore elettronico come modello della mente, i due paradigmi differiscono un po' in tutte le scelte, e forse anche negli stessi fondamenti disciplinari a cui fanno riferimento. Mentre l'intelligenza artificiale tende a proiettare il pensiero razionale, cosciente e sequenziale su tutto il funzionamento della mente, per così dire dall'alto al basso, il connessionismo preferisce vedere anche nelle funzioni mentali più elevate l'azione di funzioni più elementari di riconoscimento e di soddisfacimento ottimale di vincoli diversi, se non addirittura delle caratteristiche fisiche e biologiche del cervello e del corpo. Collegata con questa è la scelta di quale debba essere il livello appropriato per studiare la mente, che per l'intelligenza artificiale è quello dei simboli, delle regole, dei concetti, ecc., mentre per il connessionismo è quello di unità elementari, di per sé prive di significato, capaci di interazioni semplici, e che producono entità e prestazioni dotate di significato soltanto collettivamente, attraverso le loro interazioni e la loro azione complessiva. Infine, mentre le radici storiche dell'intelligenza artificiale e della stessa informatica sono nella logica formale o simbolica e negli studi sui fondamenti della matematica, il connessionismo sembra ispirarsi piuttosto, oltre che alle neuroscienze, alle scienze naturali, in particolare a certi settori della fisica, per le analogie tra il comportamento delle 'reti neuronali' teoriche e quello della materia e dell'energia in certe particolari condizioni e sotto particolari aspetti (per esempio: termodinamica, fisica dei sistemi non lineari). Con queste scelte alternative rispetto a quelle dell'intelligenza artificiale, il connessionismo sembra offrire qualche speranza di riuscire là dove l'intelligenza artificiale attuale sembra destinata a trovare limiti non superabili, cioè nel riprodurre quei fondamentali aspetti dell'intelligenza che sono la flessibilità, la sensibilità al contesto, la capacità di ristrutturarsi e quella di apprendere da ogni esperienza.
Ma al di là di queste promesse di portare più avanti le possibilità di riproduzione artificiale dell'intelligenza, il nuovo paradigma connessionistico sembra destinato a dare un nuovo senso al progetto di una scienza cognitiva risolvendo i suoi due problemi attuali più seri, cioè da un lato la separazione metodologica tra psicologia e intelligenza artificiale e dall'altro l'assenza delle neuroscienze dalla scienza cognitiva, e forse trasformando la scienza cognitiva in una disciplina scientifica vera e propria, unitaria e coerente, invece dell'attuale impresa di scambio e di collaborazione interdisciplinare più o meno stretta e credibile. Come abbiamo già accennato, nonostante condividano la concezione della mente come sistema di elaborazione dell'informazione e la stessa idea che il calcolatore sia il modello della mente, la psicologia cognitiva e l'intelligenza artificiale hanno sempre operato concretamente con metodologie concettuali e tecniche di ricerca radicalmente diverse. Gli psicologi cognitivi hanno continuato a usare il metodo sperimentale di laboratorio, o altri metodi tradizionali della psicologia, come quello dell'osservazione del comportamento spontaneo, mentre le loro teorie e modelli, benché ispirati all'informatica e ai calcolatori elettronici, e quindi formulati come diagrammi di flusso dell'informazione, non giungono normalmente al livello di specificità e di formalizzazione che consenta loro di diventare traducibili in un programma di calcolatore, effettivamente costruito e in grado di 'girare' su una macchina reale. Al contrario, l'intelligenza artificiale, sorta come branca dell'informatica e della tecnologia dei calcolatori, segue la metodologia della simulazione computazionale, cioè formula le sue teorie e modelli come sistemi computazionali che vengono implementati in programmi usando un qualche linguaggio di programmazione, e passano così attraverso la verifica della macchina. Questa differenza di metodi usati nel concreto lavoro di ricerca è troppo importante perché la scienza cognitiva possa essere qualcosa di più di un semplice scambio e di una collaborazione interdisciplinare. Del resto, anche l'altra disciplina che ha un posto importante nella scienza cognitiva, la linguistica formale di ispirazione chomskiana, rimane legata ai suoi propri metodi di ricerca, che sono diversi sia da quelli della psicologia che da quelli dell'intelligenza artificiale, e che consistono nell'impiego come dati empirici dei 'giudizi del parlante' sull'accettabilità, l'ambiguità e la parafrasabilità delle espressioni linguistiche, e nella formulazione di regole e principî che diano conto nel modo più semplice, generale ed elegante di tali giudizi. Al di là dell'inerzia propria delle discipline e delle loro strutture di formazione universitaria, la ragione fondamentale per cui gli psicologi non hanno finora compiuto uno sforzo per adottare più largamente il metodo della simulazione è che questo, così come veniva usato all'interno dell'intelligenza artificiale, conduceva alla costruzione di modelli e di sistemi palesemente poco plausibili come modelli della mente e dell'intelligenza naturale, che lasciavano scopertamente fuori una serie di aspetti fondamentali, ovvi agli psicologi, del funzionamento mentale. È questa ragione che, con l'emergere del paradigma connessionistico, sembra diventare meno forte. I modelli e i sistemi computazionali connessionistici, pur essendo modelli formali che girano su un calcolatore, puntano a riprodurre aspetti del comportamento familiari agli psicologi, e comunque non danno l'impressione di escludere necessariamente componenti essenziali dell'intelligenza naturale. Un esempio è l'apprendimento, che gli psicologi hanno studiato da tempo come un aspetto fondamentale e anzi come una manifestazione dell'intelligenza, e che, trattato in modo marginale dall'intelligenza artificiale, torna ad avere un ruolo centrale nei modelli connessionistici delle capacità mentali. La conseguenza di tutto ciò è che le ricerche di simulazione impostate in modo connessionistico hanno molto più potere di attrazione per gli psicologi di quanto non ne avessero quelle impostate secondo i canoni dell'intelligenza artificiale classica. (Del resto, non bisogna trascurare il fatto che il connessionismo è emerso in parte proprio ad opera di psicologi: v. Rumelhart e McClelland, 1986; v. McClelland e Rumelhart, 1986).
Inoltre, mentre le tecniche di simulazione dell'intelligenza artificiale classica richiedono complesse competenze e conoscenze, in cui è molto forte la componente formale e astrattiva, non è escluso che le tecniche richieste dai nuovi modelli simulativi connessionistici siano più semplici e basate in parte su differenti competenze e conoscenze. In conclusione, quello che ci si può aspettare è che gli psicologi siano in misura crescente spinti ad adottare il metodo della simulazione, accanto e in interazione con le loro tradizionali metodologie sperimentali, e che in questo modo si creino condizioni di maggiore omogeneità metodologica all'interno della scienza cognitiva. Come sappiamo, l'altro problema centrale della scienza cognitiva attuale è il suo sostanziale restar fuori dalla collaborazione interdisciplinare delle cosiddette neuroscienze, cioè di quelle discipline che usando le metodologie classiche delle scienze naturali (fisica, chimica, biologia) studiano il cervello come sistema fisico, ossia come la struttura materiale dal cui funzionamento risultano in ultima analisi le attività mentali e le capacità intelligenti. Le ragioni di questa esclusione le abbiamo già viste, ma dobbiamo qui ricordarle. Innanzitutto le neuroscienze non hanno finora accolto il punto di vista cognitivo, che costituisce la base comune, per quanto un po' generica, che tiene insieme le discipline che sono parte della scienza cognitiva. In secondo luogo le neuroscienze riescono a fare progressi per loro conto nello studio dei processi neurofisiologici elementari e locali, ma non in quelli più complessivi e integrati, che corrispondono invece alle capacità mentali e intelligenti a cui sono interessati psicologi e studiosi dell'intelligenza artificiale. In terzo luogo, per parte loro, questi ultimi dimostrano un interesse per il cervello e per le basi fisiche della mente e dell'intelligenza che o è esplicitamente nullo (l'intelligenza artificiale) o è più asserito che reale (la psicologia). Tutte queste ragioni contribuiscono a far sì che la scienza cognitiva si sia sviluppata finora tenendo fuori le neuroscienze, le quali per loro conto si sono preoccupate di sviluppare la collaborazione al loro interno piuttosto che con le discipline cognitive. Il paradigma connessionistico offre una prospettiva che può portare a una maggiore integrazione tra le discipline che studiano la mente e l'intelligenza dal punto di vista puramente funzionale (scienze cognitive) e le discipline che ne studiano le basi fisiche (neuroscienze), contribuendo a eliminare una separazione che non è difendibile a lungo termine. Questo può essere dimostrato considerando le ragioni appena viste di tale separazione. Cominciando dall'ultima, si è già detto che con il connessionismo si passa dall'idea che il calcolatore sia il modello della mente all'idea che tale modello sia invece il cervello. Più concretamente, i modelli connessionistici sono esplicitamente ispirati alle caratteristiche del cervello, e se è vero che le caratteristiche conosciute del cervello usate oggi come vincoli per la costruzione dei modelli connessionistici sono ancora poche e sono le più generali e di base, la direzione di sviluppo che coscientemente si vuole prendere è quella di un progressivo incorporamento di proprietà del sistema nervoso, così come vengono scoperte e descritte dalle neuroscienze, nei modelli simulati del connessionismo.
Da parte delle scienze funzionali della mente vi è quindi, con il connessionismo, un'apertura verso le scienze strutturali e fisiche del cervello che spinge nella direzione di una loro maggiore integrazione. Un altro ostacolo a questa integrazione è stato finora il mancato accoglimento nell'ambito delle neuroscienze del punto di vista cognitivo (la mente, e quindi in qualche modo anche il cervello, come sistema di elaborazione dell'informazione), e di conseguenza la mancata adozione del metodo computazionale e simulativo come metodo appropriato per studiare un sistema che elabora informazione. Le ragioni di questo mancato accoglimento sembrano essere fondamentalmente due. Da un lato le neuroscienze, come è stato già ricordato, hanno rivolto finora la loro attenzione e le loro ricerche soprattutto ai processi e ai fenomeni più elementari e più locali del sistema nervoso, e per lo studio dei processi e fenomeni a questo livello i metodi e i concetti classici delle scienze naturali (dalle tecniche sperimentali e di misurazione ai concetti espressi nelle teorie della fisica, della chimica e della biologia) appaiono adeguati e forse sufficienti. Non vi è stata quindi, finora, l'esigenza di ricorrere a metodi e a concetti non tradizionali nelle scienze della natura, come quelli degli approcci formali, computazionali e simulativi. Tuttavia questi metodi e questi concetti potrebbero rivelarsi indispensabili quando le neuroscienze vorranno passare a occuparsi, come è necessario prima o poi, dei processi e dei fenomeni più complessivi e integrati del sistema nervoso. La seconda ragione per la quale l'approccio computazionale formale non ha avuto finora molta fortuna nell'ambito delle neuroscienze è che questo approccio, là dove è stato applicato, come nell'intelligenza artificiale, ha prodotto modelli che con il cervello hanno palesemente ben poco a che fare. Non vi è stata quindi una motivazione da parte dei neuroscienziati ad adottare questo approccio. Ora che con il connessionismo i modelli computazionali e simulativi divengono più rispettosi di almeno alcune delle proprietà note del sistema nervoso, e cominciano a esibire comportamenti che si avvicinano a quelli tipici di un cervello, ci si può aspettare che vi sia un più forte interesse delle neuroscienze a capire e a utilizzare i nuovi metodi. Anche da questo punto di vista il connessionismo rappresenta quindi un fattore di integrazione nello studio della mente e del cervello. Infine, bisogna tener presente che le scienze funzionali della mente (la psicologia e l'intelligenza artificiale) e le scienze fisiche del cervello (le neuroscienze) non potranno giungere a un'effettiva collaborazione finché rimarranno interessate a fenomeni e processi appartenenti a livelli diversi: le scienze funzionali a quelli più globali e integrati, le scienze fisiche a quelli più elementari e locali.
Abbiamo già accennato al fatto che il connessionismo adotta un approccio dal basso - cioè da ciò che è più elementare e più primitivo - allo studio delle capacità mentali, approccio che in ogni caso appare, almeno inizialmente, come particolarmente appropriato per lo studio dei processi mentali più fondamentali, periferici in senso neurofisiologico (percezione, movimento) e automatici. Quindi, da parte del connessionismo vi è la tendenza a partire dal livello dei fenomeni su cui lavorano oggi più specificamente le neuroscienze. D'altro canto, vi è da chiedersi se il rapporto tra le scienze cognitive e le neuroscienze resterà un rapporto a senso unico, come è oggi con il connessionismo, per cui i modelli computazionali delle capacità e dei processi funzionali cominciano a essere ispirati alle caratteristiche del cervello, oppure se anche le neuroscienze scopriranno che hanno qualcosa da imparare dalle metodologie simulative e formali. Quello che abbiamo detto più sopra, e certe tendenze all'interno delle neuroscienze, sembrano far propendere per la seconda ipotesi. In effetti, mentre le metodologie classiche delle scienze naturali risultano appropriate per lo studio dei processi neurofisiologici locali ed elementari, esse possono rivelarsi insufficienti per lo studio dei processi a livelli superiori di integrazione. È a questi livelli che probabilmente i metodi e le tecniche classiche di sperimentazione e concettualizzazione dovranno necessariamente essere integrati con i metodi formali della simulazione, e in questo modo le neuroscienze potranno estendere le loro conoscenze e i loro modelli anche a quei livelli di funzionamento del cervello che sono più direttamente rilevanti per le scienze funzionali della mente, e che oggi appaiono sostanzialmente fuori della loro portata. La conclusione a cui possiamo giungere è che l'integrazione metodologica e concettuale che il paradigma connessionistico tende a favorire tra scienze cognitive e neuroscienze potrà anche aiutare a rimuovere il terzo ostacolo che divide questi due gruppi di scienze, e cioè l'occuparsi della stessa cosa (la mente o cervello), ma a livelli di integrazione diversi.
La scienza cognitiva è un campo di ricerca in evoluzione, sorto sotto l'influenza dell'informatica e della concezione della mente come sistema di elaborazione dell'informazione, che sta ancora cercando la strada per diventare una disciplina unitaria che faccia convergere metodologie, sistemi concettuali e tradizioni scientifiche diverse in un corpo di conoscenze integrato riguardante la mente e la sua base fisica, il cervello. Nonostante queste esigenze di crescita ulteriore e di migliore fondazione teorica e metodologica, la scienza cognitiva ha già fatto emergere nuove concezioni e prospettive su un argomento così importante e così poco conosciuto come la mente/cervello. Dal punto di vista metodologico la possibilità di usare il metodo della simulazione su calcolatore accanto a quelli più tradizionali apre prospettive di grande interesse. Tutta la scienza, e forse tutta la conoscenza in genere, consiste nella costruzione di modelli dei fenomeni che si vogliono conoscere, cioè nell'elaborazione di sistemi che riproducono in modo semplificato ed essenziale i fenomeni e che, essendo sotto il controllo dello scienziato, gli consentono una maggiore libertà nel trarre deduzioni, compiere manipolazioni ed effettuare previsioni. I modelli possono essere distinti in modelli descrittivi e modelli simulativi. I modelli descrittivi si limitano a formulare verbalmente o con altri mezzi simbolici (vari simbolismi, la matematica, ecc.) i concetti e i meccanismi con cui descrivere una certa classe di fenomeni. I modelli simulativi invece cercano di riprodurre i fenomeni che interessano, cioè di costruire un pezzo di realtà artificiale che si comporti, con le ovvie semplificazioni, nello stesso modo dei fenomeni che si vogliono studiare. Un modello simulativo, pur essendo derivato da un modello descrittivo che fornisce i concetti e le idee sulla base dei quali disegnare il pezzo di realtà artificiale, è un mezzo di conoscenza più potente che non un modello descrittivo, perché offre un'analisi più completa dei fenomeni (che altrimenti non si lascerebbero riprodurre), consentendo di eseguire le operazioni di trarre deduzioni, compiere manipolazioni, effettuare previsioni che, come abbiamo visto, sono il compito di tutti i modelli, e soprattutto perché permette di verificare più puntualmente le previsioni del modello, controllando se il pezzo di realtà artificiale costruito si comporta effettivamente come i fenomeni che si vogliono studiare e fornendo così un feedback al modello descrittivo di partenza. L'esperimento è un tipo di modello simulativo. Un tipico esperimento di fisica o di un'altra scienza è una situazione creata artificialmente per verificare certe ipotesi, o comunque per osservare la realtà in condizioni controllate e manipolabili. I pregi di questo tipo di modello simulativo sono fin troppo noti, dato che finora l'esperimento ha costituito, insieme all'analisi quantitativa, il più potente strumento di conoscenza della scienza e la ragione principale dei suoi successi. In effetti, in generale si può trovare una correlazione tra l'uso dell'esperimento come strumento di conoscenza da parte di una scienza e il suo grado di maturità. Se una scienza non riesce a usare l'esperimento, o lo usa con difficoltà, di regola si tratta di una scienza non molto matura e dal potere conoscitivo debole, come dimostra il caso delle scienze sociali e umane.
Tuttavia, come metodo empirico di conoscenza, l'esperimento ha dei limiti in quanto appare sempre meno appropriato man mano che si vogliono studiare livelli di realtà di crescente complessità e integrazione. Di fatto, mentre nelle scienze naturali (la fisica, la chimica, la biologia) l'esperimento è usato con grande naturalezza e con grandi successi, nelle scienze della mente (la psicologia e, per certi aspetti, le stesse neuroscienze) esso ha un uso e una capacità di conoscenza più limitati, e nelle scienze della società (la sociologia, l'antropologia, l'economia, per non parlare della storia) l'idea di usare l'esperimento in sostanza neppure si pone. Una via d'uscita da queste limitazioni riguardanti il campo di applicazione del metodo sperimentale può essere trovata se si prende coscienza che l'esperimento è soltanto un tipo di modello simulativo, e che gli indubbi vantaggi dei modelli simulativi rispetto a quelli puramente descrittivi si possono ottenere ugualmente, e forse in misura maggiore, impiegando modelli simulativi alternativi. La simulazione su calcolatore è appunto un metodo di simulazione alternativo a quello 'naturale' dell'esperimento. Un modello computazionale è un modello simulativo nel senso sopra definito: viene creata una realtà artificiale, manipolabile e capace di fornire verifiche, la quale si deve comportare come i fenomeni reali che si vogliono studiare. La differenza rispetto all'altro tipo di modelli simulativi costituito dagli esperimenti è che nei modelli computazionali la realtà non viene riprodotta direttamente, ma a livello più astratto, attraverso simboli su cui un calcolatore è in grado di lavorare. (Si badi che parlare qui di simboli non ha nulla a che vedere con l'idea tipica dell'intelligenza artificiale classica secondo cui l'intelligenza è 'manipolazione di simboli'. La simulazione è perfettamente compatibile con modelli connessionistici dell'intelligenza, i quali rifiutano espressamente quest'idea). Nei modelli computazionali la realtà non è presente direttamente, e quindi non è manipolata, osservata, fatta operare direttamente come negli esperimenti, ma è presente in modo indiretto attraverso i simboli che la rappresentano. Per il resto i modelli computazionali sono modelli simulativi come gli esperimenti: pezzi di realtà artificiale che devono comportarsi come i fenomeni che si vogliono studiare. Soltanto che, mentre la realtà artificiale che costituisce un esperimento è fatta della stessa 'materia' dei fenomeni che si vogliono conoscere attraverso l'esperimento, nei modelli computazionali la realtà artificiale che viene creata è fatta di simboli che 'stanno per' i fenomeni. Questa differenza può essere molto importante e può preludere a profondi rivolgimenti in tutta la scienza. In effetti, i modelli computazionali aprono nuove prospettive in tutti i campi della scienza, anche se le loro conseguenze potranno essere più rivoluzionarie in alcuni piuttosto che in altri. Nel campo delle scienze naturali l'impatto dei metodi simulativi potrà essere meno importante che altrove, dato che queste scienze già si avvalgono con grande profitto dei tradizionali metodi sperimentali. E tuttavia anche qui il metodo della simulazione può offrire vantaggi specifici. Gli esperimenti possono risultare molto costosi in termini economici (si pensi agli attuali esperimenti di fisica che richiedono apparati come un ciclotrone o un supercollider), oppure possono essere semplicemente non realizzabili per ragioni intrinseche (per esempio un esperimento che riguarda fenomeni verificatisi in uno specifico momento del passato, o esperimenti che riguardano fenomeni che si svolgono in periodi di tempo molto lunghi), o per ragioni etiche (come molti esperimenti che si vorrebbero fare sull'uomo). In tutti questi casi il metodo della simulazione computazionale offre una possibile soluzione al problema. Ma i modelli computazionali possono rivelarsi per certi aspetti superiori ai tradizionali metodi sperimentali per ragioni più sostanziali. Un esperimento di simulazione appare in linea generale più foggiabile a volontà, più manipolabile, più flessibile dei tradizionali esperimenti di laboratorio. In effetti, i modelli computazionali sembrano combinare i due vantaggi rispettivamente dei modelli descrittivi e di quelli simulativi. Da un lato essi operano con la 'leggerezza' simbolica dei modelli descrittivi, fatti di formulazioni verbali o quantitative o formali ma appunto sempre simboliche. Dall'altro, i modelli computazionali mantengono i vantaggi dei metodi simulativi rispetto a quelli descrittivi, e cioè la maggiore completezza di descrizione dei processi, la manipolabilità, la capacità di offrire una verifica alle previsioni del modello descrittivo di partenza. È proprio per questi potenziali vantaggi che le stesse scienze della natura stanno scoprendo, anche se lentamente, i metodi della simulazione su calcolatore. Questo sta avvenendo in certi settori della fisica e della chimica, mentre alcuni biologi parlano di 'vita artificiale' in analogia con l'intelligenza artificiale, cioè della creazione di sistemi computazionali che esibiscono alcune proprietà fondamentali dei fenomeni viventi come la crescita, la riproduzione, l'alimentazione.
Lo sviluppo delle metodologie computazionali nelle scienze della natura è appena agli inizi, ed è troppo presto per dire quanto questi metodi prenderanno piede in queste scienze, quale sarà il rapporto che si instaurerà con i tradizionali metodi sperimentali, e soprattutto se l'uso dei metodi computazionali solleverà questioni più profonde nell'ambito di queste scienze. Molto più critica e significativa appare l'introduzione dei metodi computazionali nelle scienze della mente e della società. In questo caso si ha a che fare con discipline che usano, in modo limitato e problematico (la psicologia), o per nulla affatto (le scienze sociali), il metodo sperimentale, e quindi si trovano sprovviste del tutto di modelli simulativi, rimanendo legate a quelli descrittivi, conoscitivamente più deboli. Pertanto la possibilità di far uso dei modelli computazionali apre una prospettiva che si può ben dire rivoluzionaria per le scienze della mente e della società. Questa possibilità si va traducendo in realtà per lo studio della mente, dove il metodo computazionale è usato da decenni all'interno dell'intelligenza artificiale e ora, con il connessionismo, sta conquistando terreno anche in psicologia. Nello studio della società, cioè nelle scienze sociali, invece, i metodi della simulazione su calcolatore non sono ancora entrati se non marginalmente - una circostanza che può dipendere o dalla maggiore difficoltà di applicare tali metodi in discipline come la sociologia, l'economia, l'antropologia o la storia, o da altri fattori superabili con il tempo, oppure da qualche ragione più di fondo, peraltro ancora da identificare, che renderebbe impossibile l'applicazione di tali metodi a queste discipline. Altre questioni di fondamentale importanza la scienza cognitiva, e in particolare quella più unitaria e integrata che va ora emergendo con il connessionismo, le solleva dal punto di vista epistemologico. Una di tali questioni è se i modelli computazionali della mente debbano essere in realtà modelli del cervello, anche se con le inevitabili astrazioni, idealizzazioni e progressive approssimazioni, oppure se vi sia una chiara distinzione tra mente e cervello che renda necessario costruire modelli computazionali separatamente per la mente e per il cervello, in questo secondo caso accanto ai modelli sperimentali attualmente usati dalle neuroscienze. Se si prende questa seconda strada ci si dovrà poi porre il problema di quali possano essere i rapporti tra un modello computazionale della mente e un modello computazionale del cervello. Questa questione, pur dando l'impressione di risollevare insolubili problemi filosofici, si pone oggi in modo diverso e più diretto che in passato. Come abbiamo già visto, fino a tempi molto recenti i modelli computazionali dell'intelligenza sviluppati nell'ambito dell'intelligenza artificiale non si ponevano in alcun modo l'obiettivo di riprodurre le caratteristiche del cervello, e di fatto avevano proprietà molto diverse da quelle note del cervello. Con l'emergere del connessionismo vengono proposti modelli computazionali della mente che sono esplicitamente ispirati al cervello e alle sue caratteristiche. Questi modelli potrebbero rendere obsolete distinzioni tra modelli appartenenti a livelli epistemologicamente distinti, come quella dovuta a Chomsky tra modelli della competenza e modelli dell'esecuzione, o quella di David Marr (v., 1982) tra un livello 'computazionale' (equivalente alla competenza di Chomsky), un livello 'algoritmico' e un livello 'implementativo', o infine quella tipica della scienza cognitiva preconnessionistica, tra un livello puramente funzionale della rappresentazione simbolica e un livello fisico delle strutture cerebrali (v. Gardner, 1985, p. 6). In effetti, il connessionismo fa intravedere esplicitamente l'ipotesi di una scienza cognitiva unificata con le neuroscienze, in grado di costruire modelli computazionali del cervello che siano simultaneamente modelli della mente, dove le tradizionali distinzioni tra discipline, in particolare quella tra le neuroscienze (che hanno per oggetto il cervello) e la psicologia (che ha per oggetto la mente), sono unicamente distinzioni tra tipi di dati sul funzionamento del cervello di cui si vuole dare conto: nel caso delle neuroscienze, i dati sui funzionamenti più locali ed elementari rilevabili con i metodi e i concetti delle scienze della natura; nel caso della psicologia, i dati sui funzionamenti più integrati che si esprimono in comportamenti e in attività intelligenti.
Una seconda questione di carattere epistemologico aperta dall'applicazione del metodo computazionale allo studio della mente/cervello è se il rapporto tra il modello computazionale e la mente o il cervello sia lo stesso rapporto che sussiste tra un modello computazionale di certi fenomeni fisici o chimici o biologici e questi fenomeni. Più specificamente, ci si può chiedere se un sistema artificiale che si comporta in modo intelligente sia esso stesso un'intelligenza o una mente. Noi non diremmo che un calcolatore opportunamente programmato che riproduce certe proprietà della vita è un essere vivente, mentre potremmo essere tentati di dire che un calcolatore opportunamente programmato che riproduce certe proprietà dell'intelligenza è un essere intelligente. (Questa questione è connessa con la distinzione di John Searle - v., 1980 - tra intelligenza artificiale in senso forte e intelligenza artificiale in senso debole). La tentazione di chiamare un calcolatore che si comporta in modo intelligente un essere intelligente o una mente sembra collegata con l'idea che, nel (solo) caso in cui si studia e si simula in modo computazionale l'intelligenza - ma non negli altri casi di simulazione computazionale -, il modello simulativo e la realtà simulata siano fatti della stessa 'materia': attività di manipolazione di simboli. È per questo che un calcolatore intelligente non si limita a simulare l'intelligenza ma è intelligente, è un'intelligenza. Tuttavia questo modo di vedere le cose appare legato alla concezione dell'intelligenza (nel senso di un fenomeno della realtà tra gli altri) come attività di manipolazione di simboli. Ma se si abbandona questa concezione, come fa il connessionismo, allora viene a mancare la base per affermare una identità tra un modello computazionale dell'intelligenza - che, come tutti i modelli computazionali, è un sistema di manipolazione di simboli - e l'intelligenza stessa, che per il connessionismo non è manipolazione di simboli. Quindi i modelli computazionali della mente o dell'intelligenza (o del cervello) sono modelli computazionali come tutti gli altri. Quanto abbiamo appena detto può servire per chiarire almeno un punto per quanto riguarda l'applicazione - che, come abbiamo visto, è oggi ancora problematica - dei metodi simulativi allo studio della società. Infatti non sembra necessario assumere che una società o un'istituzione sociale abbiano una mente - anche se questo è possibile, in qualche significato della parola 'mente' -, oppure che una società o una istituzione sociale siano in sostanza la somma delle menti degli individui che ne fanno parte, perché lo studio computazionale della società o dell'istituzione sociale sia possibile. Infatti il metodo computazionale può essere applicato in linea di principio a qualunque parte o aspetto della realtà, dalla fisica alla biologia, alla mente, alla società. In effetti, l'unione del metodo della simulazione su calcolatore con i nuovi modelli connessionistici apre una prospettiva di unificazione dello studio di tutti i sistemi adattivi, dall'evoluzione biologica alle neuroscienze, dallo studio della mente alla costruzione di macchine intelligenti. "Il comportamento adattivo è una proprietà emergente, che sorge spontaneamente attraverso l'interazione tra semplici componenti. Questi componenti possono essere neuroni, aminoacidi, formiche o sequenze di bits" (v. Farmer e Packard, 1986, p. VI). Se anche le strutture e le istituzioni sociali possano essere analizzate e studiate in modo illuminante seguendo questi metodi e questi modelli resta un affascinante problema aperto. (V. anche Apprendimento; Intelligenza; Sapere).
Farmer, J. D., Packard, N. H., Evolution, games, and learning: models for adaptation in machines and nature, Amsterdam 1986.
Gardner, H., The mind's new science. A history of the cognitive revolution, New York 1985 (tr. it.: La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Milano 1988).
Haugeland, J., Artificial intelligence: the very idea, Cambridge, Mass., 1985.
Kandel, E. R., Schwartz, J. H., Principles of neuronal science, New York 1985.
Lindsay, P. H., Norman, D. A., Human information processing: an introduction to psychology, New York 1977² (tr. it.: L'uomo elaboratore d'informazione, Firenze 1968).
McClelland, J. L., Rumelhart, D. E., Parallel distributed processing, vol. II, Cambridge, Mass., 1986.
Marr, D., Vision. A computational investigation into the human representation and processing of visual information, San Francisco 1982.
Neisser, U., Cognitive psychology, New York 1967 (tr. it.: Psicologia cognitivista, Milano 1976).
Parisi, D., Sui limiti del metodo sperimentale in psicologia, in "Giornale italiano di psicologia", 1978, V, pp. 241-254.
Parisi, D., Castelfranchi, C., Una definizione della psicologia cognitivista, in Psicologia della Gestalt e psicologia cognitivista (a cura di G. Kanizsa e P. Legrenzi), Bologna 1978.
Rich, E., Artificial intelligence, New York 1983 (tr. it.: Intelligenza artificiale, Milano 1986).
Rumelhart, D. E., McClelland, J. L., Parallel distributed processing, vol. I, Cambridge, Mass., 1986.
Searle, J. R., Minds, brain, and programs, in "The behavioral and brain sciences", 1980, III, pp. 417-457 (tr. it.: Menti, cervelli e programmi, Milano 1984).