Abstract
Viene esposta per sommi capi la disciplina processuale, illustrando le novità introdotte con il codice del processo amministrativo, tenendo conto dei chiarimenti dovuti, in particolare, all’Adunanza Plenaria, e segnalando i problemi, anche di interpretazione, che ancora resistono.
Con il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104), si è giunti ad avere, finalmente, dopo circa centoventi anni, una disciplina processuale organica e sostanzialmente soddisfacente: è stato ampliato il ventaglio delle azioni esperibili, è stata profondamente migliorata l’istruzione probatoria, sono stati aumentati i poteri decisori del giudice, anche in sede cautelare, sono stati previsti riti speciali per alcune materie considerate sensibili. Il codice si apre con una disposizione di bandiera: «la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo».
Tuttavia l’orientamento attuale della giurisprudenza amministrativa è piuttosto timido rispetto al quadro legislativo dei suoi poteri, anche se alcune aperture, di carattere tuttavia generico, sono ravvisabili nelle sentenze dell’Adunanza Plenaria; che spesso e solennemente afferma l’esigenza della pienezza ed effettività della tutela (sent. 23.3.2011, n. 3, spec. punto 3 della motivazione). Nella motivazione della sent. 27.4.2015, n. 5 si riporta, a mo’ di regola da seguire, un passo della sent. Cass., S.U., 12.12.2014, n. 26242, in cui la Corte regolatrice afferma la «necessità che il giudice dichiari, in sede di tutela costitutiva e non solo, e in modo vincolante per il futuro, il modo di essere (o di non essere) del rapporto sostanziale che, con la sentenza, andrà a costituirsi, modificarsi, estinguersi». Si ha il chiaro riconoscimento che l’oggetto del processo amministrativo demolitorio non è (solo) il provvedimento impugnato.
Tuttavia alle pronunce di principio non corrispondono sempre le affermazioni concrete: anche da ultimo, ed al massimo livello, si afferma che sussiste un divieto del giudice «di sostituirsi agli apprezzamenti discrezionali e tecnici dell’amministrazione», e si fa discendere tale divieto dall’art. 31, co. 3, c.p.a. (Cons. St., A. P., 27.4.2015, n. 5, punto 8.3.2 della motivazione. Nella sentenza si cita l’art. 30 invece dell’art. 31 del c.p.a.).
Il divieto sussiste effettivamente (come si ricava, oltre che dal principio di separazione dei poteri, anche dalla lettera della disposizione richiamata) per le valutazioni discrezionali in senso proprio, ossia per quelle relative all’apprezzamento e al modo di curare l’interesse pubblico; non sussiste affatto per le valutazioni tecniche, che attengono, di norma, alla conoscenza dei fatti, ossia ad un compito proprio ed ineliminabile, insieme alla interpretazione del diritto, della funzione giurisdizionale.
Il giudice amministrativo è convinto di non poter sindacare, se non sotto il profilo della palese irragionevolezza, le scelte tecniche effettuate dall’amministrazione; ma, in tal modo, viola il principio, da esso medesimo solennemente affermato, della pienezza ed effettività della tutela, senza che ci sia in proposito alcun divieto di legge.
Sussiste viceversa positivamente il divieto di sindacare «gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico» (art. 7, co. 1, ultima parte, c.p.a.); ma la disposizione è di dubbia legittimità costituzionale, dato il disposto dell’art. 113, secondo comma, Cost., secondo il quale la tutela giurisdizionale non può essere esclusa «per determinate categorie di atti». Anche a voler interpretare restrittivamente il dettato costituzionale, ritenendolo applicabile agli atti amministrativi in senso stretto (e quindi non agli atti politici), è comunque necessario, per non eludere il precetto costituzionale, accogliere una nozione molto limitata di atto politico.
Le ragioni della “timidezza” sono chiare, e in certa misura condivisibili: il giudice amministrativo non intende condizionare oltre misura la “libertà” dell’amministrazione; ma il rispetto delle prerogative dell’amministrazione si può facilmente voltare in diniego di giustizia.
La disciplina della giurisdizione è stata semplificata, in conformità agli orientamenti generali promossi dalla Cassazione (per la illustrazione critica del criterio di riparto della giurisdizione, e per la valutazione critica delle tre forme di giurisdizione del giudice amministrativo, si rinvia a Processo amministrativo.1 Il modello).
Il difetto di giurisdizione può essere rilevato, anche d’ufficio, solo in primo grado; nei giudizi d’impugnazione è rilevabile solo se dedotto con specifico motivo; altrimenti passa in giudicato, anche se non è stato oggetto di decisione esplicita (art. 9 c.p.a.).
Risulta prevista e disciplinata anche la translatio iudicii. Se il giudice amministrativo declina la giurisdizione, deve indicare il giudice che ne è fornito: se il processo viene riproposto dinanzi al giudice indicato nel termine di tre mesi, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda.
Ѐ comunque previsto anche il regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 c.p.c., ossia con ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, proponibile «finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado».
Più complessa, e meno soddisfacente, è la disciplina della competenza, soprattutto in ragione della generale inderogabilità, che irrigidisce e rende talvolta problematica la individuazione del Tribunale competente. La difficoltà è dimostrata dal rilevante numero di sentenze che l’Adunanza Plenaria ha dedicato all’argomento.
Nel processo amministrativo sussiste soltanto la competenza per territorio. Il criterio fondamentale di riparto attiene all’ambito di efficacia del provvedimento impugnato: se gli effetti diretti sono limitati al territorio di una Regione, la competenza spetta al Tribunale avente sede in quella Regione; se gli effetti sono più ampi, competente è il Tribunale amministrativo di Roma.
Succede che, quando vengono impugnati contemporaneamente, perché connessi, provvedimenti che hanno ambiti di efficacia diversi (endo- ed extra-regionali), si crea il problema, non essendo sempre facile ed incontroverso stabilire quale sia il provvedimento «da cui deriva l’interesse a ricorrere», come prescritto dall’art. 13, co. 4, c.p.a..
Il quadro è ulteriormente complicato dall’esistenza di un criterio diverso per le controversie di pubblico impiego e, soprattutto, dalla previsione di ipotesi di competenza funzionale, anch’essa ovviamente inderogabile (art. 14 c.p.a.).
Anche il difetto di competenza è rilevabile d’ufficio solo in primo grado. Ѐ ammesso il regolamento di competenza, da proporsi al Consiglio di Stato entro un breve termine (art. 16 c.p.a.).
Al di là di queste considerazioni di ordine generale, le azioni esperibili nel processo amministrativo vanno ben oltre il quadro originario, nel quale campeggiava solitaria l’azione di annullamento; e i poteri di cognizione e di decisione che la legge attribuisce al giudice amministrativo sono ormai sufficientemente ampi per assicurare al ricorrente che abbia ragione un adeguato volume di tutela (su cui si veda Azioni nel processo amministrativo).
Il codice prevede e disciplina espressamente le azioni di condanna, di accertamento della nullità dei provvedimenti, avverso il silenzio, oltre ovviamente l’azione di annullamento; la quale conserva un ruolo centrale, dato il carattere della tutela giurisdizionale, normalmente successivo all’esercizio del potere amministrativo (artt. 29, 30 e 31 c.p.a.).
Si discute se sia esperibile l’azione cd. di adempimento, presente nella disciplina processuale tedesca, spagnola e portoghese. Il codice non la elenca: era prevista nel progetto approvato dalla Commissione tecnica sedente presso il Consiglio di Stato ed è stata espunta in sede ministeriale. Tuttavia dottrina e giurisprudenza tendono a ritenere che essa sia ravvisabile nella disciplina concreta dell’azione avverso il silenzio, laddove il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale, inoltrata all’amministrazione e rimasta senza esito, «quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione» (art. 31, co. 3, c.p.a.). In tal caso il giudice può condannare l’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto (art. 34, co. 1, lett. c, c.p.a.).
La disciplina richiamata non è, nel suo complesso, molto diversa da quella che, nell’ordinamento tedesco, attiene all’azione di adempimento. L’azione di adempimento è espressamente riconosciuta ammissibile da Cons. St., A. P., 29.7.2011, n. 15, punto 6.4.2 della motivazione.
Si può in definitiva ritenere, con il conforto della Cassazione (Cass., S.U., 9.3.2015, n. 4683), che il principio di effettività della tutela giurisdizionale comporta necessariamente l’atipicità delle azioni esperibili nel processo amministrativo, oltre quindi il quadro esplicitamente delineato nel relativo codice.
La regola di fondo resta peraltro quella fissata nel secondo comma dell’art. 34 c.p.a.: il giudice non può «pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati». La tutela solo successiva all’azione dell’amministrazione è correttamente riportata al «principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri» (Cons. St., A. P., 27.4.2015, n. 5, punto 8.3.2 della motivazione): l’esercizio del potere costituisce uno spartiacque, del quale tuttavia non si deve considerare solo un versante, quello che impedisce al giudice di pronunciare prima dell’esercizio del potere, bensì occorre valorizzare anche l’altro versante, ritenendo che, dopo l’avvenuto esercizio con l’adozione del provvedimento, il giudice possa svolgere con pienezza di poteri la sua funzione, sindacando pienamente l’operato, anche tecnico, dell’amministrazione, senza alcun timore di violare il principio di separazione dei poteri.
La sua struttura soggettiva del processo amministrativo si articola su parti necessarie, dette anche contraddittori formali, e parti non necessarie. Le parti necessarie sono quelle «nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata» (art. 28, co. 1, c.p.a.).
Le parti necessarie, nei giudizi di annullamento e di nullità, sono il ricorrente, l’amministrazione autrice del provvedimento impugnato (o, meglio, quella cui formalmente viene imputato: l’art. 41, co. 1, c.p.a. usa la locuzione «pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato») e gli eventuali controinteressati, ossia i soggetti che hanno interesse alla conservazione del provvedimento; nel giudizio avverso il silenzio, sono il ricorrente e l’amministrazione c.d. procedente, ossia che aveva l’obbligo di concludere il procedimento; nel giudizio per il risarcimento del danno, sono il ricorrente, l’amministrazione cui si imputa il danno e gli «eventuali beneficiari dell’atto illegittimo» (art. 41, co. 2, ultimo periodo, c.p.a.).
Le parti necessarie costituiscono il contraddittorio, il quale deve essere integro perché il processo possa procedere fino al suo esito: prima che il contraddittorio venga integrato, il giudice può soltanto «pronunciare provvedimenti cautelari interinali» (art. 27, c.p.a.).
Il contraddittorio viene a formarsi progressivamente: entro il termine utile per la proposizione del ricorso è sufficiente che questo venga notificato all’amministrazione resistente e ad uno dei controinteressati (art. 41, co. 1, c.p.a.): la mancata notificazione del ricorso all’amministrazione e ad uno dei controinteressati è causa di inammissibilità; il mancato rispetto del termine è causa di irricevibilità (art. 35, co. 1, c.p.a.).
L’integrazione, di norma riguardante i controinteressati ai quali il ricorso non sia stato originariamente notificato, avviene per ordine del giudice; tuttavia i controinteressati possono intervenire spontaneamente, «senza pregiudizio del diritto di difesa», ossia potendo sollevare qualsiasi eccezione o richiesta processuale, anche se superate per lo stato avanzato del giudizio (intervento litisconsortile). Per una disposizione assai discutibile, l’integrazione del contraddittorio non viene ordinata se «il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato» (art. 49, co. 2, c.p.a.).
Viceversa, le parti non necessarie che abbiano interesse a partecipare al giudizio, possono intervenire, ma «accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova» (intervento adesivo, rispetto alla posizione processuale di una delle parti necessarie: art. 28, co. 1 e 2, c.p.a.).
In definitiva la struttura soggettiva del processo assume tre diverse composizioni: quella iniziale, necessaria per l’ammissibilità del ricorso e per la validità del rapporto processuale; quella del contraddittorio integro, ossia esteso a tutte le parti necessarie, indispensabile per la emissione e la validità della sentenza; quella comprensiva delle parti non necessarie, che disegna l’ambito soggettivo della efficacia della sentenza.
Le parti devono costituirsi in giudizio, il ricorrente depositando il ricorso ed eventuali documenti (art. 45, co. 1, c.p.a.), le «parti intimate» (amministrazione resistente e controinteressati) depositando memorie nelle quali contestano le affermazioni e le allegazioni di parte ricorrente (art. 46, co. 1, c.p.a.). L’amministrazione, nel termine fissato per la costituzione, deve «produrre l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio» (art. 46, co. 2, c.p.a.).
Sussiste tuttavia un problema che incide sulla parità delle parti: il termine per la costituzione del ricorrente è perentorio, quello per la costituzione delle altre parti necessarie viene ritenuto semplicemente ordinatorio; cosicché, potendosi le parti intimate costituirsi tardivamente (perfino nella udienza di discussione del merito), la dialettica processuale ne risente, con pregiudizio della parte ricorrente, che non può ribattere adeguatamente alle difese avversarie.
Con il ricorso, che contiene la domanda rivolta al giudice, si prospetta l’oggetto concreto del contendere, i motivi sui quali si fonda la domanda. L’oggetto può essere integrato dal ricorrente con i c.d. motivi aggiunti (art. 43 c.p.a.). I motivi aggiunti si dicono «propri», se prospettano nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte; si dicono «impropri», se contengono domande nuove, in particolare riguardanti nuovi provvedimenti. L’oggetto può essere ampliato dai controinteressati con il ricorso incidentale, che può contenere anche domande riconvenzionali (art. 42 c.p.a.), ed eventuali successivi motivi aggiunti.
Va rilevato che secondo Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5 «nel giudizio impugnatorio di legittimità, l’unicità o pluralità di domande proposte dalle parti, mediante ricorso principale motivi aggiunti o ricorso incidentale, si determina esclusivamente in funzione della richiesta di annullamento di uno o più provvedimenti».
La disciplina probatoria ha subito nel tempo una felice trasformazione: originariamente il giudice della legittimità non poteva conoscere direttamente i fatti, dovendo assumere come provati i fatti dedotti dall’amministrazione; alla quale, in caso di contraddizione tra i fatti affermati nel provvedimento e i documenti depositati in giudizio, potevano essere chiesti «nuovi schiarimenti o documenti» o poteva essere ordinato di «fare nuove verificazioni» (art. 44, t.u. 26.6.1924, n. 1054).
In definitiva i fatti venivano conosciuti dal giudice amministrativo soltanto attraverso l’amministrazione, mai direttamente ed autonomamente, e, quindi, in modo obiettivo.
La regola originaria, limata nel tempo per ragioni di effettività della tutela, è stata radicalmente modificata dal codice: il giudice amministrativo conosce direttamente dei fatti di causa, e all’uopo dispone di tutti i mezzi di prova previsti per il processo civile, tra i quali è compresa, sia pure con le cautele del caso, la prova testimoniale (che è «sempre assunta in forma scritta»: art. 63, co. 3, c.p.a., ai sensi dell’art. 257-bis c.p.c.). Sono esclusi soltanto l’interrogatorio formale e il giuramento.
La possibilità, espressamente prevista, di ordinare verificazioni o disporre consulenze tecniche dimostra che il giudice amministrativo può, e quindi deve, sindacare le affermazioni dell’amministrazione «che richiedono particolari competenze tecniche» (art. 63, co. 4, c.p.a.). L’atteggiamento rinunciatario del giudice amministrativo è quindi contrario al disposto normativo.
Secondo una concezione tradizionale, risalente a Feliciano Benvenuti, il processo amministrativo veniva definito come «processo dispositivo con metodo acquisitivo», volendo sottolineare che il ricorrente è tenuto a fornire soltanto un principio di prova e che il giudice può acquisire d’ufficio la prova piena dei fatti di causa (Benvenuti, F., L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 265 ss.).
Tale definizione è correntemente ritenuta valida anche dopo la nuova e diversa disciplina introdotta dal codice (Chieppa, R., Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 370; Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2010, 268 ss.; Police, A., I mezzi di prova e l’attività istruttoria, in Il nuovo diritto processuale, a cura di G.P. Cirillo, Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 437; in giurisprudenza si veda, da ultimo, Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5, punto 7.2 della motivazione), nonostante la nuova disciplina affermi chiaramente il principio dell’onere della prova (art. 63, co. 1; art. 64, co. 1 e 2, c.p.a.), per il quale onus probandi incumbit ei qui dicit.
Ѐ vero che il codice non accoglie il principio dispositivo puro, secondo il quale l’onus probandi spetta esclusivamente alle parti e assegna al giudice rilevanti poteri di assunzione di prove, esercitabili anche in assenza di domanda di parte (art. 63, co. 2 e 5, c.p.a.; art. 64, co. 3, c.p.a.). L’iniziativa officiosa si spiega in relazione alla circostanza di fatto che le parti, e nel processo amministrativo soprattutto la parte privata, non hanno la disponibilità delle prove.
Tuttavia la disciplina del codice del processo amministrativo non è molto diversa, sotto questo profilo, dalla disciplina del codice di procedura civile, al quale non sono sconosciuti poteri istruttori officiosi del giudice (per maggiori delucidazioni mi permetto di rinviare al mio Commento agli artt. 63-69 c.p.a., in Il processo amministrativo. Commentario al d.lgs. n. 104/2010, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, Milano, 2011, 535 ss.; in senso sostanzialmente conforme v. Di Modugno, N., La prova, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, a cura di B. Sassani e R. Villata, Torino, 2012, 587 ss.; da ultimo v. Giani, L., La fase istruttoria, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2014, 370 ss.; Perfetti, L.R., L’istruzione nel processo amministrativo e il principio dispositivo, in Riv. dir. proc., 2015, 72 ss.).
Forse la definizione più aderente alla disciplina codicistica sta nel configurare l’istruzione probatoria come rispondente al principio dispositivo, con alcuni correttivi (in questo senso Corradino, M.-Sticchi Damiani, S., Il processo amministrativo, Torino, 2014, 283).
Conferma del rilievo centrale che il codice assegna all’attività probatoria delle parti si trova nell’art. 64, co. 2, c.p.a., per il quale «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite».
Il principio cd. di non contestazione conferma che il giudice amministrativo non va alla ricerca della verità dei fatti, se le parti concordano nella loro rappresentazione; non va oltre le allegazioni e le prove dedotte dalle parti.
Lo svolgimento del processo amministrativo è in genere molto semplice, dato anche che, molto spesso, non c’è contestazione sui fatti, e non c’è, quindi, necessità di istruzione probatoria.
Una delle parti deve richiedere la fissazione della udienza di discussione con atto non revocabile (art. 71, co. 1, c.p.a.). Tale incombente è da parte di alcuni commentatori ritenuto un inutile aggravio processuale, dato che la presentazione del ricorso tende di per sé alla fissazione dell’udienza, necessaria per giungere alla sentenza.
L’istanza di fissazione d’udienza non è necessaria per i giudizi trattati in camera di consiglio, anziché in udienza pubblica (art. 87, co. 3, c.p.a.), per i giudizi concernenti gli atti di affidamento di contratti pubblici (art. 120, co. 6, c.p.a.), per i giudizi sulla esclusione dalle competizioni elettorali (art. 129, co. 5, c.p.a.) e per i giudizi sulle operazioni elettorali ( art. 130, co. 29, c.p.a.).
Le parti possono produrre documenti, presentare memorie e repliche entro termini scaglionati, in vista della udienza di discussione, nella quale esse possono «discutere sinteticamente» (art. 73, co. 1 e 2, c.p.a.).
Il collegio, dopo la discussione, si ritira in camera di consiglio e decide la causa con sentenza, che può avere «forma semplificata» in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso (art.74 c.p.a.). La motivazione, in questo caso, «può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme». É da condividere l’orientamento giurisprudenziale che intende l’espressione «punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo», non solo come idoneo a «chiudere il processo, ma nel senso più ampio e sostanziale di idoneità a chiudere la lite definitivamente» (Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5).
Come in ogni altro processo, le sentenze sono di rito, se chiudono il rapporto processuale senza decidere la questione di diritto sostanziale dedotta in giudizio; sono di merito se decidono anche quest’ultima.
Le sentenze di rito accertano vizi processuali, che impediscono la decisione sul merito (art. 35, co. 1, c.p.a.): la irricevibilità, per tardività della notificazione o del deposito del ricorso; la inammissibilità, quando è carente l’interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito; o la improcedibilità, quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione, o non sia stato integrato il contraddittorio nel termine assegnato, ovvero sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito.
Le sentenze di merito, decidendo sulla domanda proposta dal ricorrente, possono accoglierla o respingerla. Nel primo caso, in relazione alle diverse azioni, contengono l’annullamento, in tutto o in parte, del provvedimento impugnato; la dichiarazione della nullità del provvedimento impugnato; l’ordine all’amministrazione rimasta inerte di provvedere entro un termine determinato; la condanna al risarcimento del danno (art. 34, co. 1, c.p.a.).
Per il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato la sentenza, in linea di principio, deve decidere tutti i motivi di ricorso, ed eventualmente del ricorso incidentale.
Si pongono due spinosi problemi, l’uno relativo al c.d. assorbimento dei motivi, l’altro relativo all’ordine di trattazione del ricorso principale e di quello incidentale.
In ordine al primo problema si sottolinea che, in forza del modello dispositivo del processo amministrativo e del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice, in mancanza di graduazione esplicita fatta dalla parte, è obbligato ad esaminare tutti i motivi. Secondo la giurisprudenza (Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5), l’assorbimento dei motivi è consentito solo se previsto dalla legge: in caso di accoglimento del motivo di incompetenza (arg. ex art. 34, co. 2), e in caso di giudizio immediato, chiuso con sentenza in forma semplificata (art. 74 c.p.a.); ovvero se giustificato da ragioni logiche (la reiezione del ricorso per motivi di rito comporta l’assorbimento della questioni di merito; l’accoglimento di una censura prospettata alternativamente o in via prioritaria rispetto ad un’altra comporta l’assorbimento di quest’ultima; il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale subordinato); ovvero ancora per esigenze di economia processuale: il rigetto del ricorso in forza della c.d. ragione più liquida; l’assorbimento di motivi meramente ripetitivi; nel caso di provvedimenti fondati su più ragioni autonome, qualora vengano rigettati i motivi di censura dedotti avverso una delle ragioni, che sia tale da sostenerne la legittimità.
Con riguardo al secondo problema, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che, in via generale, il ricorso principale vada esaminato prioritariamente rispetto al ricorso incidentale. Tuttavia, in caso di procedure concorsuali o selettive, dev’essere esaminato per primo il ricorso incidentale, quando con esso sia sollevata una eccezione di carenza di legittimazione del ricorrente principale; e ciò anche quando lo stesso ricorrente incidentale sia, a sua volta, privo di tale legittimazione (difetto che resta, in base a questo orientamento, senza conseguenze): Cons. St., A.P., 25.2.2014, n. 9; Cons. St., A.P., 7.4.2011 , n. 4.
L’Adunanza Plenaria riconosce che il mancato accertamento (prioritario) del difetto di legittimazione del ricorrente incidentale costituisce una «dissimmetria processuale», ma ritiene, in modo peraltro non convincente, che tale dissimmetria non violi il principio di parità delle parti (Cons. St., A.P., 25.2.2014, n. 9, punto 8.3.2. della motivazione). Mi permetto di rinviare per l’esposizione delle ragioni che sostengono una tesi diversa al mio Censure paralizzanti incrociate: è sufficiente esaminarne una o è necessario esaminarle tutte?, in Giur. it., 2012, 2161 ss.
Anche in tema di tutela cautelare sono stati compiuti progressi decisivi: originariamente era ammessa solo la misura della sospensione della efficacia (o della esecuzione) del provvedimento impugnato; il codice del processo amministrativo ammette, invece, genericamente le «misure cautelari (…) più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso» (art. 55, co. 1, c.p.a.); e prevede anche le «misure cautelari provvisorie», ottenibili, in caso di urgenza e con provvedimento monocratico, prima della trattazione della domanda cautelare da parte del Collegio (art. 56, co. 1, c.p.a.), e perfino prima della notificazione del ricorso (art. 61, co. 1, c.p.a.).
Si può dire, pertanto, che si sia raggiunta la tutela cautelare completa e atipica, quindi pienamente aderente alle esigenze delle differenziate situazioni di fatto (in questo senso si esprime Follieri, E., La fase cautelare, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, cit., 342 ss.).
I presupposti per l’ottenimento delle misure cautelari sono quelle di ordine generale: il fumus boni iuris e il periculum in mora, nel linguaggio del codice del processo amministrativo, rispettivamente, «la ragionevole previsione dell’esito (positivo) del ricorso» (art. 55, co. 9, c.p.a.) e «un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso» (art. 55, co. 1, c.p.a.). Il giudice può decidere solo se si ritenga competente (art. 15, co. 2, c.p.a.), e sia stata presentata l’istanza di fissazione dell’udienza per la discussione del merito (art. 55, co. 4, c.p.a.).
La domanda cautelare viene trattata in camera di consiglio (art. 87, co. 2, lett. a, c.p.a.), e viene decisa con ordinanza collegiale (art. 33, co. 1, lett. b, c.p.a.). L’incontro con il giudice nella camera di consiglio cautelare serve anche a fini istruttori e per vagliare l’integrità del contraddittorio (art. 55, co. 12, c.p.a.). Questa possibilità risulta molto opportuna, dato che nel processo amministrativo non esiste una fase dedicata alla istruttoria.
C’è di più: in sede di trattazione della domanda cautelare si possono avere due esiti eventuali: la sollecita definizione del giudizio di merito, e perfino la definizione immediata con sentenza in forma semplificata.
La prima eventualità si ha ove il giudice ritenga che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la decisione nel merito. In tal caso viene fissata con sollecitudine la data della udienza di merito (art. 55, co. 10, c.p.a.); il che, peraltro, non impedisce che la domanda cautelare venga, nel frattempo, accolta.
Ai sensi del comma successivo, il giudice, nel disporre le misure cautelari, deve (dovrebbe) in ogni caso fissare la data della discussione del ricorso nel merito.
La seconda eventualità si ha, su proposta del giudice, sentite le parti, alle seguenti condizioni: siano passati venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso; sia accertata la integrità del contraddittorio e la completezza dell’istruttoria; non vi siano esigenze, rappresentate dalle parti, di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione (art. 60 c.p.a.). Se il contraddittorio non è integro, il giudice ne ordina l’integrazione; se alcuna delle parti intende presentare motivi aggiunti o ricorsi incidentali o regolamenti di competenza o di giurisdizione, il giudice assegna un termine «non superiore a trenta giorni», e fissa contestualmente la data per il prosieguo della trattazione. Il codice non fissa altre condizioni, ma sembra ovvio, dato che la definizione del giudizio avviene con sentenza in forma semplificata, che debba trattarsi di ipotesi in cui l’esito del ricorso risulti prima facie manifesto (art.74 c.p.a.).
L’ordinanza pronunciata sulla domanda cautelare è appellabile, entro termini ridotti (art. 62 c.p.a.; si veda anche l’art. 92, co. 5, c.p.a.), e può essere oggetto di revoca, anche per i motivi tipici di revocazione (art. 58, co. 2, c.p.a.; v. Cons. St., A.P., 241.2014, n. 5).
Le sentenze di primo grado sono impugnabili in appello, con ricorso da presentare al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, o, per le sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, al Consiglio di giustizia per la Regione siciliana (art. 100).
L’appello è proponibile dalla parte soccombente: la soccombenza è determinata dal rigetto totale o parziale, di una o più domande proposte in primo grado, o anche di una o più censure relative alla medesima domanda (sulla nozione di domanda e di censura, v. Ad. Plen., 27.4.2015, n. 5).
Ѐ ammesso l’intervento in appello (art. 28, co. 2, c.p.a. e art. 97 c.p.a.); ma l’interventore in primo grado può proporre appello solo «se titolare di una posizione giuridica autonoma» (art. 102, co. 2, c.p.a.).
L’ambito della materia del contendere in appello è determinato dalla parte appellante (ed eventualmente dalle controparti, se appellanti incidentali), la quale può impugnare per intero la sentenza o può impugnarne soltanto alcune parti, che, nel linguaggio tecnico, si denominano «capi». Il c.d. effetto devolutivo, ossia il «trasferimento al giudice di secondo grado della stessa controversia» già decisa in primo grado (Zito, A., Le impugnazioni, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, cit., 429), opera nell’ambito di quanto è stato dedotto con l’appello: tantum devolutum quantum appellatum.
Le questioni non dedotte in appello passano in giudicato, comprese le questioni relative alla giurisdizione e alla competenza (anche se non siano state oggetto di una decisione esplicita). L’effetto devolutivo comporta che riemerga in appello l’intero materiale processuale già esaminato dal primo giudice.
L’atto di appello deve contenere la critica dei capi di sentenza impugnati (art. 101, co. 1, c.p.a.); non è quindi sufficiente riproporre puramente e semplicemente le censure dedotte in primo grado. Sotto questo profilo si può ritenere che l’appello venga qualificato come revisio prioris istantiae. Tuttavia l’appello, formalmente diretto avverso la sentenza, sostanzialmente riguarda la controversia già decisa con la sentenza impugnata.
In appello non possono essere dedotte nuove domande o nuove eccezioni, né sono ammissibili, se non in casi particolari, nuovi mezzi di prova (art. 104, co. 1 e 2, c.p.a.; sul tema v. Saitta, F., I nova nell’appello amministrativo, Milano, 2010).
Con l’appello devono essere dedotti anche i motivi di revocazione ordinaria, deducibili solo prima del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, e di revocazione straordinaria, se non è ancora sopraggiunto il passaggio in giudicato (art. 106, co. 3, c.p.a.). I casi di revocazione ordinaria e straordinaria sono gli stessi del processo civile, elencati nell’art. 395 c.p.c.
Pertanto, nei confronti della sentenza di primo grado, è proponibile la revocazione straordinaria solo a seguito del passaggio in giudicato. La revocazione, tanto ordinaria quanto straordinaria, è peraltro proponibile anche nei confronti delle sentenze di secondo grado. La giurisprudenza ammette la revocazione anche della ordinanza che pronuncia sulla sospensione del provvedimento impugnato (Cons. St., A.P., 24.1.2014, n. 5).
La revocazione va proposta dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata; e la giurisprudenza intende per «stesso giudice» la medesima Sezione, sia pure, possibilmente, in composizione diversa; tuttavia i magistrati che hanno pronunciato la sentenza revocanda possono far parte del collegio che decide sulla revocazione, tranne nel caso in cui quest’ultima sia richiesta per dolo del giudice (Cons. St., A.P., 24.1.2014, nn. 4 e 5).
Con ord. del Cons. St., A.P., 4.3.2015, n. 2 è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 106, c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117, co. 1, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, § 1, della Convenzione dei diritti dell’uomo, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.
Il codice disciplina per la prima volta l’opposizione di terzo, introdotta a seguito di una sentenza della Corte costituzionale risalente al 1995 (17.5.1995, n. 177), che riconobbe la necessità del rimedio desumendola dalla «possibilità che – nonostante la regola generale dettata dall’art. 2909 del codice civile, della inefficacia della sentenza nei confronti di soggetti diversi dalle parti del processo a conclusione del quale essa sia stata pronunciata – si presentino casi in cui, per effetto della cosa giudicata, venga a determinarsi una obiettiva incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa».
L’ipotesi più comune di utilizzazione del rimedio riguarda il litisconsorte necessario pretermesso, sul presupposto di un litisconsorzio non integro, che si è concluso con una sentenza inter alios iudicata.
Il rimedio è esperibile sia nei confronti delle sentenze di primo grado sia di quelle di appello, sia passate in giudicato sia semplicemente esecutive (art. 108, co. 1, c.p.a.). Competente a decidere è lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, salvo che, trattandosi di sentenza di primo grado, essa sia stata appellata: in tal caso l’opposizione di terzo deve essere proposta mediante intervento in appello (art. 109, co. 1 e 2, c.p.a.).
Le sentenze di appello possono essere impugnate con ricorso in Cassazione; il quale, peraltro, in base all’art. 111, ultimo comma, Cost., è limitato ai soli motivi inerenti alla giurisdizione (artt. 91 e 110 c.p.a.). Va sottolineato che l’Assemblea costituente non si è soffermata a lungo su tale disposizione costituzionale: essa sembra passata in sordina, senza alcuna discussione dedicata ed approfondita.
La limitazione che essa pone ha radici molto lontane nel tempo, ma è sottoposta a critiche sempre più pressanti da parte della dottrina, dato che determina il frazionamento della delicata funzione di nomofilachia, la quale dovrebbe, invece, essere unitaria e quindi affidata ad un solo organo giudiziario (per tutti v. Cacciavillani, C., La giurisdizione amministrativa, in Il codice del processo amministrativo, a cura di B. Sassani e R. Villata, cit., 123): non se ne può sostenere l’illegittimità costituzionale, dato che la limitazione è espressamente prevista nella Costituzione; se ne denuncia, tuttavia, la profonda irragionevolezza e il suo contrasto con l’unità dell’ordinamento giuridico, che comporta la unitarietà di interpretazione (e, quindi, di applicazione) del sistema normativo, la violazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge nonché, sul piano pratico, disorientanti atteggiamenti difformi nell’applicazione delle medesime disposizioni legislative da parte di giudici appartenenti a corpi diversi.
Attualmente gli organi di nomofilachia sono (almeno) tre: la Corte di cassazione a Sezioni Unite, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e le Sezioni Riunite della Corte dei conti. Succede frequentemente che la medesima fattispecie sia valutata differentemente da giudici diversi, i quali seguono l’orientamento fissato dal loro organo di nomofilachia. A mero titolo di esempio le disposizioni in materia di edilizia ed urbanistica sono diversamente interpretate dal giudice amministrativo e dal giudice penale; il danno erariale è differentemente apprezzato dal giudice penale e dal giudice contabile.
La eventuale, auspicata, creazione di un organo unitario di nomofilachia non potrebbe essere identificato nell’organo di vertice di uno solo dei corpi, o ordini, giudiziari; dovrebbe avere una composizione mista. Osserva Verde, G., Obsolescenza, cit., 842, che può prospettarsi una alternativa: «o si configura un giudice di conflitti a composizione mista; ovvero, quando si propone un ricorso ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost., si deve integrare il collegio giudicante, che siede presso la Corte di cassazione, con componenti della magistratura della cui giurisdizione si discute».
Dovrebbe, inoltre, essere evitato che la medesima fattispecie sia oggetto di più processi; e, ove questo non sia possibile (dato che la medesima situazione di fatto, può essere oggetto di più norme attinenti a settori diversi dell’ordinamento, civile, penale, amministrativo, contabile, affidate alla cognizione di corpi giudiziali diversi), dovrebbe, al fine che la valutazione della fattispecie sia unitaria, essere stabilita una precisa gerarchia tra i processi, nel senso che l’accertamento raggiunto in uno non possa essere disconosciuto nell’altro.
Si tratta, a mio parere, di un indispensabile obiettivo di civiltà giuridica.
In prospettiva, come molti, me compreso, hanno più volte proposto, si potrebbe ridisegnare il complesso magistratuale, ispirandosi al sistema tedesco (in questo senso, da ultimo, Proto Pisani, A., L’art. 113, 3° comma, cit., 187).
Il processo si chiude di norma con sentenza, sulle questioni di rito e di merito, che hanno costituito la materia del contendere; ma può concludersi anche altrimenti: per cessazione della materia del contendere, che si verifica quando l’amministrazione resistente accoglie spontaneamente la domanda giudiziale del ricorrente; per perenzione, che si ha se, nel corso di un anno, non sia compiuto alcun atto di procedura (art. 35, co. 2, lett. b, c.p.a. e artt. 81-83), ma il termine annuale non decorre dalla presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza e fino a che il giudice non abbia provveduto su di essa); per rinuncia, che deve essere notificata alle controparti, le quali possono opporsi alla estinzione del processo (art. 35, co. 2, lett. c, c.p.a. e art. 84 c.p.a.).
Le sentenze si distinguono a seconda che risolvano soltanto le questioni processuali, che impediscano di passare all’esame del merito (sentenze di rito), ovvero risolvano anche le questioni di merito, ossia quelle di diritto sostanziale (sentenze di merito). Tutte le sentenze hanno un contenuto di accertamento; le sentenze di merito, se accolgono il ricorso, hanno ulteriori contenuti, variabili a seconda delle azioni proposte (annullamento, condanna al risarcimento del danno, condanna al rilascio di un provvedimento, e così via; per maggiori particolari su tutta questa materia v. Cacciavillani, C., Il giudicato, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, cit., 587 ss.).
Le sentenze di merito, poiché risolvono questioni di diritto sostanziale, hanno effetti che si producono fuori del processo, sulla situazione di diritto sostanziale dedotta in giudizio. In particolare, le sentenze di annullamento hanno un quadruplice effetto: costitutivo (demolitorio), dato che eliminano dal mondo giuridico il provvedimento impugnato; ripristinatorio, in quanto ripristinano la situazione sostanziale qual’era prima dell’adozione del provvedimento; conformativo, diretto a fornire all’amministrazione le coordinate per ri-esercitare, se del caso, il suo potere; preclusivo, perché impediscono all’amministrazione di riprodurre il provvedimento con gli stessi vizi per i quali è stato annullato.
L’effetto conformativo acquista un notevole rilievo sia sul piano teorico, sia su quello pratico. Dal primo punto di vista consente di respingere la tesi secondo cui l’oggetto del giudizio amministrativo sarebbe (soltanto) il provvedimento: se così fosse non sarebbe predicabile alcun effetto che si ripercuota sull’azione futura dell’amministrazione; sarebbe esaustivo l’effetto costitutivo, demolitorio del provvedimento.
Se la sentenza ha effetto oltre il provvedimento, investendo anche ciò che l’amministrazione potrà e dovrà fare in seguito, ed in esecuzione, della sentenza stessa, l’oggetto del giudizio non riguarda solo il provvedimento impugnato, ma direttamente le situazioni giuridiche soggettive che si contrappongono nel rapporto sostanziale corrente tra l’amministrazione e il cittadino. D’altronde, che un effetto conformativo sia riferibile alla sentenza non può essere negato, perché esiste un mezzo processuale dedicato alla verifica del suo rispetto da parte dell’amministrazione: il giudizio di ottemperanza.
Dal punto di vista pratico l’effetto conformativo, dando esca al giudizio di ottemperanza, consente al ricorrente vittorioso di ottenere il massimo possibile della tutela concepibile nei confronti dell’amministrazione; tutela che, se fossero effettivamente usati i poteri della giurisdizione di merito (sostituzione dell’amministrazione, anche nelle scelte propriamente discrezionali), sarebbe piena, e, comparativamente, migliore di quella offerta dagli ordinamenti delle altre democrazie occidentali; ordinamenti che spesso vengono elogiati per la maggiore tutela che la loro disciplina processuale consentirebbe di raggiungere.
Tutte le sentenze passano in giudicato, ossia non sono ulteriormente impugnabili con i mezzi ordinari; e ciò avviene o per esaurimento di tali mezzi ovvero per scadenza dei termini per azionarli: la disciplina si ricava dall’art. 324 c.p.c. Si parla, per questa evenienza, di (passaggio in) giudicato formale: la controversia decisa non può più essere riproposta.
Si ha il giudicato sostanziale solo per le sentenze di merito, quelle che influiscono sulla situazione di diritto sostanziale, una volta passate in giudicato (formale): la locuzione designa la stabilità e la non controvertibilità dell’accertamento e delle eventuali altre misure contenute nella sentenza.
La disciplina del giudicato sostanziale, sotto il profilo dell’ambito soggettivo, è contenuta nell’art. 2909 c.c.: l’accertamento contenuto nella sentenza «fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa». Il profilo oggettivo è inerente al contenuto della sentenza, al suo dispositivo integrato dalla motivazione: nel caso del giudizio di annullamento comprende l’accertamento della fondatezza delle censure sulle quali si basa il dispositivo di annullamento, ma anche la infondatezza delle eventuali altre censure.
Dalla motivazione si deduce l’effetto conformativo: l’amministrazione è tenuta a dedurre dalle censure accolte e da quelle respinte la guida per l’eventuale ri-esercizio del suo potere. Se essa non vi si conforma, se viola o elude il giudicato (o anche la sentenza esecutiva, ma non ancora passata in giudicato), il ricorrente può proporre il giudizio di ottemperanza, in esito al quale il giudice «ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione»; nominando, ove occorra, un commissario ad acta (art. 114, co. 4, c.p.a.).
Nel codice sono previste numerose varianti al rito ordinario: alcune riguardano soltanto la durata del processo, altre attengono, oltre alla durata, anche ad altri aspetti processuali. Le prime danno luogo a riti che possono denominarsi compatti, le altre a riti propriamente speciali.
Ai riti compatti si è già avuto modo di accennare: la chiusura del processo con sentenza semplificata (art. 74 c.p.a.); la definizione del giudizio in esito alla camera di consiglio cautelare (art. 60 c.p.a.).
Resta da accennare al rito abbreviato, che riguarda le controversie relative alle materie elencate nell’art. 119 c.p.a.. Tra tali materie si possono ricordare, oltre agli appalti pubblici (per i quali è previsto un rito speciale), i provvedimenti delle Autorità indipendenti, quelli di scioglimento dei consigli comunali, i provvedimenti di espropriazione, e così via.
Il rito abbreviato comporta la riduzione a metà di tutti i termini processuali, tranne, in primo grado, i termini per la notificazione del ricorso principale, del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti e dell’appello cautelare. Può inoltre essere richiesta la pubblicazione, entro sette giorni dalla decisione della causa, del dispositivo della sentenza.
Il più importante dei riti speciali riguarda le controversie in materia di affidamento degli appalti pubblici, disciplinato dagli artt. 120 ss. c.p.a.. Il codice prevede una limitata deroga al principio della domanda e al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, giacché stabilisce che il giudice, cui venga richiesto l’annullamento dell’aggiudicazione, debba esaminare anche se il contratto di appalto conservi ciononostante efficacia, ovvero la perda, applicando, nel primo caso, sanzioni alternative, anche se non richieste da nessuna delle parti. Ulteriori variazioni si hanno per le controversie riguardanti le infrastrutture strategiche.
Riti speciali sono ancora previsti per il contenzioso sulle operazioni elettorali (artt. 125 ss. c.p.a.), in materia di accesso ai documenti amministrativi (art. 116 c.p.a.) e per il ricorso avverso il silenzio (art. 117 c.p.a.). Per la valutazione critica della disciplina dei riti compatti e speciali v. Paolantonio, N., I riti compatti, e I riti speciali, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, cit., risp. 491 ss., 519 ss.
Artt. 24, 103, 111, 113, 125 Cost.; d.lgs. 2.7.2010, n. 10.
Caringella, F.-Protto, M., a cura di, Codice del processo amministrativo, Roma, 2015; Chieppa, R., Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010; Cirillo, G.P., a cura di, Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014; Corradino, M.-Sticchi Damiani, S., Il processo amministrativo, Torino, 2014; Quaranta, A.-Lopilato, V., a cura di, Il processo amministrativo, Milano, 2011; Sassani, B.-Villata, R., a cura di, Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012; Scoca, F.G., a cura di, Giustizia amministrativa, Torino, 2014; Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2014.