PROCESSO CIVILE
(XXVIII, p. 280; App. II, II, p. 612; III, II, p. 488)
Il codice entrato in vigore nel 1942, e successivamente riformato, ha regolato il nostro p.c. per oltre 40 anni. La Corte costituzionale ha, infatti, inciso solo su alcune disposizioni marginali e lo stesso legislatore si è limitato per lo più a interventi circoscritti, anche se, a volte, rilevanti dal punto di vista sociale e politico. Basti ricordare la l. 11 agosto 1973 n. 533 sul nuovo processo del lavoro e la l. 13 aprile 1988 n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati, che ha fatto seguito all'abrogazione mediante referendum degli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile. Ma neppure la controriforma si è rivelata una valida terapia per le disfunzioni della giustizia civile, disfunzioni che, con il tempo, si sono anzi aggravate e sono apparse intollerabili, quando si è cominciato a considerare la situazione della giustizia italiana nel contesto europeo.
Negli anni Settanta non si era ancora concluso il processo di costituzionalizzazione dei principi processuali e già si andava delineando un loro ripensamento in una dimensione sovranazionale. Si cominciavano a intravedere degli standard processuali europei che costituiscono non solo la risultante delle tradizioni comuni agli stati membri, ma anche, e soprattutto, il prodotto di una significativa elaborazione da parte della Corte di Strasburgo. Si tratta di un complesso di garanzie le quali richiedono, da un lato, che l'operato del giudice sia improntato ai fini di efficienza e di economicità, dall'altro, che agli utenti della giustizia sia garantita l'effettiva imparzialità e uguaglianza di trattamento. Tali garanzie appaiono riconducibili a una comune matrice: quel principio del processo equo, che ha la sua origine nell'esperienza anglosassone, ma che è stato già consacrato positivamente nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Quando il nostro processo è stato ''misurato'' sugli standard europei, è divenuta inconfutabile la sua inadeguatezza. Si sono, infatti, registrate numerose condanne nei confronti del governo italiano da parte della Corte di Strasburgo, soprattutto per violazione del ''termine ragionevole'' di definizione dei p.c. (art. 6 n. 1 della Convenzione), il che ha evidenziato il carattere generalizzato, e diffuso sul territorio, del problema − fra l'altro − dell'eccessiva durata del nostro processo. La problematica dell'adeguamento dei meccanismi processuali al dettato della Costituzione e a quello della Corte dei diritti umani ha finito, a sua volta, per far emergere, o meglio riemergere, i contrasti sugli stessi presupposti ideologici del processo.
Fin dagli anni Sessanta era, peraltro, iniziata una nuova fase di ricerche e studi che − a seguito di un significativo rinnovamento metodologico − cominciavano a investire anche gli aspetti organizzativi, sociologici, storici e comparativi della giustizia. Le indagini si sviluppavano in un quadro di incertezze, o quanto meno di certezze contraddittorie, ma che hanno avuto il merito di riaprire, in un contesto più articolato e consapevole, il complesso discorso della politica delle riforme processuali. Non sempre la messe di dati disponibili è stata adeguatamente messa a frutto. Comunque i lavori preparatori della riforma del codice di procedura civile, pur con l'approssimazione inevitabile in ogni schematizzazione, possono essere divisi in tre periodi.
Gli anni Cinquanta e Sessanta, considerati in prospettiva, appaiono un periodo di preparazione e di studi, diretti soprattutto a predisporre aggiustamenti parziali al meccanismo processuale. Università, Corti, e altri operatori della giustizia furono ufficialmente interpellati due volte. I risultati della prima inchiesta, pubblicati nel 1956, hanno costituito oggetto di studio da parte di una Commissione ministeriale e si sono concretati in un progetto che −senza apportare modifiche strutturali − si limitava a una serie di interventi ''settoriali'', di natura soprattutto tecnica. Si pensi alle misure organizzatorie dirette a conseguire, e a mantenere, una perequazione del carico di lavoro fra i giudici di primo grado; nonché alla previsione (dopo la prima udienza e prima dell'istruttoria) di una fase di trattazione preliminare della causa, basata sullo scambio fuori udienza di comparse e chiusa da un sistema temperato di preclusioni. Questo lavoro di bricolage, forse perché in linea con lo spirito di quegli anni, ebbe una certa fortuna, tanto da essere ripresentato, per diverse legislature, come disegno di legge da parte del governo, ma venne vivacemente contestato dalla civil-processualistica. A metà degli anni Sessanta seguì una nuova inchiesta. Le molteplici, e spesso contraddittorie, proposte non vennero però tradotte in un progetto di riforma. Del resto, si cominciava già a profilare, anche in sede ufficiale, l'esigenza di una riforma organica.
Negli anni Settanta si avverte un deciso mutamento di prospettiva: viene abbandonata la via fino ad allora seguita degli interventi parziali e urgenti. L'orientamento prevalente è ormai per la riforma globale e, quindi, per l'emanazione di un nuovo codice di procedura civile. Il risultato più rilevante del movimento di riforma è indubbiamente rappresentato dalla già citata legge del 1973 sul nuovo processo del lavoro (v. App. IV, iii, p. 57). In quanto realizzava alcune delle istanze orientate verso la ''socializzazione'' del processo, il nuovo rito del lavoro pareva, anzi, rappresentare l'archetipo del futuro processo. Tuttavia il funzionamento in concreto della procedura del lavoro doveva, successivamente, frenare gli entusiasmi e far emergere uno stato d'animo caratterizzato da maggiore prudenza nel proporre interventi riformatori. Va comunque riconosciuto che, per alcuni aspetti, il rito del lavoro anticipa effettivamente la riforma del 1994: si pensi al giudice monocratico, alla reintroduzione di un sistema di preclusioni e allo schema processuale concentrato tendenzialmente in una (o poche) udienze.
Anche se non hanno ottenuto l'approvazione del Parlamento, documenti significativi sono inoltre il progetto Liebman sulla riforma del p.c. e i progetti Bonifacio sul giudice onorario. Il progetto (o meglio i progetti) Liebman costituiscono il risultato dei lavori di due Commissioni presiedute da E.T. Liebman, nella seconda metà degli anni Settanta. Si tratta, innanzitutto, del disegno di legge sui provvedimenti urgenti (cosiddetto progetto Reale del 1975, che, nelle intenzioni del guardasigilli, avrebbe dovuto anticipare alcuni aspetti della riforma generale, ma che in pratica servirà solo a fornire la base di successive leggine). Va poi ricordato il progetto del 1977 sul 2° libro del codice, che prevede il giudice monocratico di prima istanza; disegna ex novo lo schema del processo ordinario (articolandolo in un'udienza preliminare con successive preclusioni e un'udienza di decisione) e traspone nel codice di rito la normativa sulle prove, alla quale apporta anche significative innovazioni (per es., l'abolizione del giuramento decisorio e la libera valutazione della confessione). I lavori trovano, infine, il loro completamento nel progetto di legge delega del 1981 per l'emanazione di un nuovo codice di procedura civile, progetto che accanto al processo ordinario costruisce due processi sempre a cognizione piena, ma semplificati, e, con un notevole sforzo di razionalizzazione, tre modelli generali di processi sommari. Il decennio si chiude, infine, con i progetti del guardasigilli F.P. Bonifacio sul giudice onorario, che hanno il merito di aver aperto il dibattito sulla giustizia minore.
Le vicende dell'ultimo decennio segnano, infine, un ritorno alle riforme urgenti e settoriali, ma il quadro si è progressivamente complicato con l'intrecciarsi di diverse iniziative, sfociate in una serie di normative che hanno inciso, da più lati, sull'articolato del codice. Durante i lavori parlamentari sulla legge delega per il nuovo codice, le difficoltà riscontrate indussero l'Associazione fra gli studiosi del p.c. a promuovere la redazione di un progetto condizionato, per un verso, dall'urgenza e quindi con funzione anticipatoria rispetto alla ''grande riforma''; per altro verso, da un contenuto limitato, ma con una valenza tecnica tale da poter ovviare al grave problema della durata non ragionevole del processo. Il progetto suscitò un fervore di studi e di proposte, fra le quali va segnalata, in particolare, un'iniziativa ufficiale, il cosiddetto progetto Rognoni, per l'accelerazione dei tempi della giustizia civile.
Solo nella successiva legislatura, con il progetto Vassalli, inizia però l'iter parlamentare di formazione della l. 26 novembre 1990 n. 353, che costituisce il fulcro della ''novella'' del 1994, anche perché tende a realizzare un'accelerazione del processo di cognizione utilizzando un sistema di preclusioni flessibili. Per la verità il progetto Vassalli aveva ambizioni minori. La riforma si è caricata, invece, di contenuti innovativi nel corso dei lavori parlamentari. Si pensi al giudice unico di primo grado e al nuovo originale disegno del procedimento cautelare.
La l. 353 del 1990 è stata, inoltre, preceduta e seguita da una serie di interventi legislativi, che non rappresentano sempre il consapevole risultato di una progettazione unitaria. Si ricordano la l. 1° febbraio 1989 n. 30 sulle preture circondariali, la l. 21 novembre 1991 n. 374 istitutiva del giudice di pace. Non vanno poi sottovalutati la l. 4 dicembre 1992 n. 477 e i successivi decreti legge, con i quali è stata dilazionata l'entrata in vigore della ''novella'' al 1994, e sono stati apportati modifiche e aggiustamenti non sempre di rilevanza secondaria. Da ultimo, importanti innovazioni, anche se settoriali, sono dovute alla l. 5 gennaio 1994 n. 25 sull'arbitrato internazionale e alla l. 21 gennaio 1994 n. 53 sull'attribuzione agli avvocati e ai procuratori legali della facoltà di provvedere direttamente alle notificazioni. In definitiva, nel 1994, dovrebbe (il condizionale è d'obbligo, in considerazione dei reiterati rinvii) vedere la luce un'articolata e complessa riforma del rito civile.
Bibl.: M. Taruffo, La giustizia in Italia dal 700 ad oggi, Bologna 1980; F. Cipriani, Il codice di procedura civile fra gerarchi e processualisti, Napoli 1992; Codice di procedura civile, a cura di N. Picardi, Milano 1994, spec. prefazione e ivi riferimenti bibliografici.