Abstract
In materia di lavoro, l’esigenza di differenziazione della tutela processuale, riconducibile alla peculiare natura dei diritti fatti valere e alla debolezza economica di una delle parti del rapporto sostanziale (il lavoratore), ha indotto il legislatore del 1973 a predisporre un rito speciale a cognizione piena, caratterizzato da un’accentuata concentrazione delle attività processuali e da incisivi poteri istruttori d’ufficio del giudice, in vista del perseguimento dell’accertamento pieno dei fatti e della cd. verità materiale. Nel corso del tempo il rito ha dimostrato di possedere una notevole forza espansiva, tanto da assurgere, di recente, a vero e proprio “modello processuale”, applicabile in ambiti e contesti diversi, sia pure al netto delle disposizioni che denotano il favor per il lavoratore.
Il processo speciale del lavoro è disciplinato dalle disposizioni contenute nel titolo IV del libro II del c.p.c. (art. 413 ss.); il suo ambito di applicazione è individuato dall’art. 409 c.p.c. e riguarda le controversie attinenti ai rapporti di lavoro ivi indicati. Allo stesso tempo, tali disposizioni offrono uno schema procedimentale dalla vocazione espansiva molto spiccata che ne determina l’utilizzazione, mutato quel che vi è da mutare, in altri e differenti contesti.
Nel 2009 il legislatore delegante (l. 18.6.2009, n. 69) e nel 2011 quello delegato (d.lgs. 1.9.2011, n. 150) hanno provveduto a completare il progressivo percorso di espansione, elevando il rito a vero e proprio “modello processuale”, accanto a quello sommario di cognizione e a quello ordinario, facendo rifluire in esso i procedimenti in cui fossero «prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione», con esclusione, salvo espresso richiamo, delle disposizioni codicistiche caratterizzate dal favor per il lavoratore. Appare, dunque, molto più appropriato oggi distinguere tra “rito del lavoro” e “rito delle controversie di lavoro”, intendendo con quest’ultima formula soltanto il procedimento da esperire per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c.
In questa sede, occorre procedere all’esame di quest’ultimo.
Le ragioni dell’introduzione, con la l. 11.8.1973, n. 533, di disposizioni speciali per le controversie di lavoro riposano su esigenze di differenziazione della tutela in un ambito caratterizzato dalla disuguaglianza economica delle parti e, ancor di più, dalla presenza di situazioni sostanziali spesso a contenuto e funzione non patrimoniale di rango costituzionale. Il rito di cui agli artt. 413 ss. c.p.c. è stato concepito in un contesto di rivendicazioni e lotte sindacali, particolarmente favorevole alla posizione della parte più debole del rapporto sostanziale sul piano economico, snello, ideale per la soluzione di controversie semplici e seriali, che negli anni non è mutato nel suo impianto generale. La specialità della materia ha imposto l’assegnazione delle relative controversie a giudici specializzati, vale a dire preparati specificamente in funzione della risoluzione di una peculiare tipologia di conflitti.
L’idea di fondo era che il nuovo rito potesse dare concreta realizzazione ai canoni chiovendiani della oralità, immediatezza e concentrazione, attraverso la discussione della causa in udienza alla presenza personale delle parti, la coincidenza piena tra giudice della fase istruttoria e giudice della decisione, la rigida scansione delle fasi processuali e la previsione di un sistema forte di preclusioni.
Nonostante le gravi disfunzioni manifestatesi in molti casi nella prassi (riconducibili, tuttavia, non al rito in sé, ma a ragioni organizzative o di cattiva gestione delle risorse), l’impianto complessivo negli anni non è mutato, salvo chirurgiche modifiche; anzi, come già detto, non soltanto è stato elevato a “modello processuale”, ma ha costituito la base sperimentativa per l’aggiustamento del rito ordinario di cognizione (“modello ispiratore”), come è avvenuto con la novella del 1990.
Più di recente, l’esigenza di differenziazione del rito è stata portata a conseguenze estreme, in relazione alle controversie aventi ad oggetto «l’impugnativa del licenziamento», nelle ipotesi disciplinate dall’art. 18 st. lav., come modificato dalla l. 28.6.2012, n. 92 (cfr. da ultimo Barbieri, M.-Dalfino, D., Il licenziamento individuale nell'interpretazione della legge Fornero, Bari, 2013).
L’ambito di applicazione del rito del lavoro è delineato dall’art. 409 c.p.c.
Il n. 1 riguarda i «rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di un’impresa» (sugli indici della subordinazione ex art. 2094 c.c., v. Cass., 12.1.2012, n. 248, in Foro it., 2012, I, 422. In particolare, sul lavoro a domicilio, v. Cass., 11.1.2011, n. 461; Cass., 16.10.2006, n. 22129, in Foro it., 2007, I, 92. Sul lavoro marittimo e portuale e sul coordinamento con la competenza del comandante di porto ex art. 603 cod. nav., v. Cass., 8.6.2001, n. 7823, Foro it., 2001, I, 3137).
Secondo la giurisprudenza, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, il criterio del nomen iuris adottato dalle parti non ha valore prevalente, dovendo la qualificazione medesima desumersi dalle concrete modalità della prestazione e di attuazione del rapporto (v. Cass., 12.7.2012, n. 11802, Id., 2012, I, 2284). Ciò premesso, non è necessario che il rapporto sia stato validamente costituito, rientrando nell’ambito del rito speciale anche la lite relativa alla prestazione di fatto in caso di invalidità del contratto (v. art. 2126 c.c.) ovvero alla violazione dell’obbligo di assunzione, legale o contrattuale ovvero ancora ad un rapporto di lavoro, in atto, estinto o ancora da costituirsi (Cass., 26.10.2010, n. 21883, in Giust. civ., 2011, I, 92) e, in generale, le controversie nelle quali la pretesa fatta valere si colleghi direttamente al rapporto di lavoro, nel senso che questo, pur non costituendo la causa petendi di tale pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario – non meramente occasionale – della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale (Cass., 8.10.2012, n. 17092).
Con riferimento al n. 2 dell’art. 409 c.p.c. («rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie»), le questioni interpretative connesse al riparto di competenza tra giudice del lavoro e sezioni specializzate agrarie (istituite con l. 2.3.1963, n. 320) sono da ritenersi ormai pressoché superate in virtù dell’attribuzione a queste ultime delle «controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto» (v. art. 11 d.lgs. n. 150/2011 e, in precedenza, art. 9 l. 14.2.1990, n. 29), ferma restando, in ogni caso, l’applicazione del rito del lavoro (ove non diversamente disposto dal citato art. 11).
Il n. 3 dell’art. 409 c.p.c. («rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato») contiene il riferimento espresso a due rapporti tipici (agente di commercio ex art. 1742, co. 1, c.c. e rappresentante di commercio ex art. 1752 c.c.) e il rinvio ad una figura generale. Per l’applicazione del rito del lavoro è richiesta la sussistenza di: a) la “continuatività” della prestazione d’opera, che si sostanzia nella stabilità della collaborazione; b) la “coordinazione” con l’attività altrui, che comporta l’inserimento nell’organizzazione di un’impresa, anche se in regime di autonomia; c) il carattere “prevalentemente personale” dell’opera (cfr. Cass., 22.3.2006, n. 6351). Si parla, a tal proposito, di “parasubordinazione” (a titolo esemplificativo, v. il rapporto dei medici convenzionati con il SSN: Cass., S.U., 21.10.2005, n. 20344; quello tra l’amministratore di una società di capitali o il sindaco e la società medesima: Cass., 20.2.2009, n. 4261, in Foro it., 2009, I, 3386, salve le azioni di responsabilità «da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo», sottratte al rito del lavoro ex art. 144 ter disp. att. c.p.c. e ora spettanti alla competenza collegiale delle sezioni specializzate in materia di impresa istituite dalla l. 24.3.2012, n. 27).
Il n. 4 dell’art. 409 c.p.c. si riferisce ai «rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica», mentre il n. 5 ai «rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro, sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice». I dubbi interpretativi sull’individuazione dei casi nei quali potesse ravvisarsi uno spazio applicativo di tali disposizioni, a fronte della attribuzione al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva delle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti, sono stati definitivamente superati con il trasferimento al giudice ordinario di tutte le controversie in materia, salve espresse eccezioni, avvenuto con il d.lgs. 31.3.1998, n. 80, e succ. modif., e poi con il d.lgs. 30.3.2001, n. 165, anche in corrispondenza con la cd. “privatizzazione” sul piano sostanziale dei rapporti di pubblico impiego ovverosia con l’estensione ai pubblici dipendenti di istituti e figure appartenenti al lavoro privato e conseguente (quasi) equiparazione delle due categorie.
Ai sensi dell’art. 63, co. 1, d.lgs. n. 165/2001, spettano al g.o. in funzione di giudice del lavoro anche le «controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo» (v. Menchini, S., La tutela dei diritti soggettivi e degli interessi nel pubblico impiego privatizzato, in Riv. dir. proc., 2002, 430. Sulle controversie relative all’assunzione di personale da parte della RAI-Radiotelevisione italiana, v. Cass., S.U., ord. 22.12.2011, n. 28330, in Foro it., 2012, I, 3458).
Il comma 3, inoltre, dispone che sono devolute al g.o. anche le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pp.aa., ai sensi dell'art. 28 l. 20.5.1970, n. 300, e succ. modif. e integr. (sulle questioni interpretative sorte in precedenza in relazione al riparto di giurisdizione in caso di mono o pluri-offensività della condotta antisindacale: v. Luiso, F.P., La regressione della condotta antisindacale dopo la riforma della legge sullo sciopero nei servizi pubblici, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, 247. In giurisprudenza, nel senso che la giurisdizione spetta al g.o. ove l’asserita condotta antisindacale incida – per il suo carattere plurioffensivo – anche sulle posizioni soggettive dei dipendenti pubblici non «contrattualizzati», di cui all’art. 3 d.lgs. n. 165/2001, v. Cass., S.U., 24.9.2010, n. 20161, in Foro it., 2011, I, 1155).
Infine, ai sensi del comma 4, al g.a. restano devolute le «controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» (cioè le controversie riguardanti le attività precedenti alla formale «assunzione» del pubblico dipendente, dove residua la discrezionalità della p.a.).
Al g.o. spettano le controversie di lavoro promosse da un dipendente dei gruppi parlamentari (Cass., S.U., 24.11.2008, n. 27863, id., 2009, I, 760), mentre vi esulano, in virtù del principio della cd. “autodichia”, non soltanto quelle concernenti i rapporti di lavoro già costituiti dei dipendenti delle Camere, ma anche quelle riguardanti i procedimenti concorsuali di assunzione (v. Cass., S.U., 10.6.2004, n. 11019, id., 2005, I, 478). Sempre in ragione dell’autodichia, sussiste carenza assoluta di giurisdizione nelle controversie relative ai rapporti d’impiego del personale addetto alla presidenza della repubblica (Cass., S.U., 17.3.2010, n. 6529, id., 2011, I, 1206).
Competente per materia nelle controversie di lavoro in primo grado, qualunque ne sia il valore, è (dopo la soppressione del pretore avvenuta con il d.lgs. 19.2.1998, n. 51) il tribunale in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro (art. 413, co. 1 e 8, c.p.c.).
Ai sensi dell’art. 48 quater ord. giud., «le controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie sono trattate esclusivamente nella sede principale del tribunale». Questa disposizione ha perso la propria portata precettiva, a seguito della soppressione delle sezioni distaccate di tribunale, stabilita dal d.lgs. 7.9.2012, n. 155).
Occorre precisare, peraltro, che l’assegnazione delle controversie in parola alla sezione lavoro del tribunale, risponde ad un criterio di distribuzione interna all’ufficio giudiziario e non investe profili di competenza (v. Cass., 13.7.2001, n. 9547, in Foro it., 2002, I, 466).
Per quanto riguarda la competenza per territorio, l’art. 413, co. 2, c.p.c. prevede tre fori, alternativamente concorrenti tra loro (v. Cass., 27.7.2012, n. 13530), innanzi ai quali la controversia può essere instaurata, anche su iniziativa del datore di lavoro: a) giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto; b) ovvero si trova l’azienda; c) o una sua dipendenza, alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto.
Ai sensi del comma 3, la possibilità di adire il tribunale in base ai criteri sub b) e c) «permane dopo il trasferimento dell’azienda o la cessazione di essa o della sua dipendenza, purché la domanda sia proposta entro sei mesi dal trasferimento o dalla cessazione» (termine semestrale sospeso, per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi, dalla comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione: Cass., 25.10.2001, n. 13196, ibidem, 781).
Per le controversie previste dal n. 3 dell’art. 409, invece, competente per territorio in via esclusiva (Cass., 13.5.2003, n. 7358) è «il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante di commercio ovvero del titolare di altri rapporti di collaborazione», ai sensi dell’art. 413, co. 4, c.p.c., aggiunto dalla l. 11.2.1992, n. 128.
Con riferimento alle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pp.aa., competente per territorio è «il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto» (art. 413, co. 5, c.p.c.); in particolare, se parte della controversia è una amministrazione dello Stato, non si applica l’art. 6 R.d. 30.10.1933, n. 1611 (art. 413, co. 6, c.p.c.), che attribuisce, invece, la competenza al giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il tribunale che sarebbe competente secondo le norme ordinarie (v. anche art. 25 c.p.c.).
Le clausole derogative della competenza per territorio sono nulle (art. 413, co. 7, c.p.c.).
L’art. 428 c.p.c. disciplina, poi, il regime del rilievo dell’incompetenza, stabilendo che questa possa essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c. ovvero rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. Il riferimento è evidentemente alla incompetenza per territorio; quella per materia, dunque, dovrebbe essere assoggettata all’art. 38 c.p.c., che, tuttavia, a seguito della riforma della l. n. 69/2009, ha introdotto un regime non molto diverso da quello dell’art. 428. Diverso, invece, rispetto al regime generale dell’art. 50 c.p.c., è il termine per la riassunzione innanzi al giudice competente, fissato (non in tre mesi, ma) in trenta giorni.
Il processo del lavoro si caratterizza per un sistema rigido di preclusioni e decadenze, ancorate agli atti introduttivi e ispirato al cd. “principio di eventualità”, sebbene questo non sia stato adottato nelle sue più formalistiche implicazioni.
C. cost., 14.1.1977, n. 13, in Foro it., 1977, I, 259, ebbe subito modo di chiarire che il sistema di preclusioni stabilito per il convenuto dovesse valere anche per l’attore, in virtù di esigenze di parità costituzionalmente imposte e di tutela del diritto di difesa.
Dopo un iniziale atteggiamento improntato ad elasticità interpretativa, più di recente la giurisprudenza ha prediletto un più rigido formalismo nell’applicazione del principio della ragionevole durata del processo ex art. 111, co. 2, Cost., pur emergendo, allo stesso tempo, la preoccupazione da parte della stessa di mitigare la portata dei nuovi arresti giurisprudenziali, soprattutto in tema di esercizio dei poteri istruttori d’ufficio.
Ad ogni modo, come anticipato, la previsione di preclusioni e decadenze non ha contribuito a rendere il rito del lavoro “migliore” del rito ordinario. Né, però, peggiore. Anzi, lo schema procedimentale in sé è apparso idoneo ad adattarsi ai più disparati contesti, sia pure, come nel caso del d.lgs. n. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei riti, al netto delle rationes che hanno ispirato la riforma del 1973.
L’art. 40, co.3, c.p.c. individua una regola di prevalenza del rito del lavoro rispetto a quello ordinario, che trova la propria ratio nella peculiare natura dei diritti oggetto di tutela e dunque, limitata alle ipotesi in cui la causa del rito “prevalente” rientri nell’ambito di applicazione degli art. 409 e 442 c.p.c. (App. Caltanissetta, 31.3.2008, in Foro it., 2008, I, 2647).
Tale regola è destinata ad operare anche nell’ipotesi di concorso del rito del lavoro con altri riti speciali, sebbene sino a qualche tempo fa abbia conosciuto una importante deroga in materia societaria (v., infatti, l’art. 1, co. 1, d.lgs. 17.1.2003, n. 5, dichiarato incostituzionale da C. cost., 12.3.2008, n. 71, ibid., 1361 e poi abrogato dalla l. n. 69/2009).
Gli artt. 426 e 427 c.p.c., invece, si occupano del passaggio dal rito ordinario al rito speciale e viceversa, là dove l’attore abbia evidentemente commesso un errore (da ritenersi tale in base alla prospettazione della domanda) nell’individuazione delle forme e dei modi procedimentali applicabili alla controversia instaurata.
In particolare, l’art. 426 si occupa del caso in cui la causa riguardante uno dei rapporti previsti dall’art. 409 sia proposta innanzi al tribunale con il rito ordinario. La conseguenza dell’errore – che non investe profili di competenza a meno che il tribunale adito sia incompetente per territorio, nel qual caso viene in rilievo la disciplina dell’art. 428 c.p.c. – è che il giudice, previa rimessione alla sezione lavoro, ove esistente nell’ufficio giudiziario, fissi con ordinanza l’udienza di discussione di cui all’art. 420 e il termine perentorio entro il quale le parti devono effettuare l’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memoria e documenti di cancelleria; nell’udienza così fissata, provvede nelle forme del rito del lavoro.
L’art. 427 riguarda l’ipotesi opposta, cioè quella in cui sia stata proposta la domanda nelle forme del rito del lavoro in relazione a rapporti non compresi nell’art. 409. Nel caso in cui il giudice adito sia competente, egli stesso «dispone che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie». Nel caso in cui non lo sia, rimette con ordinanza (forma coerente con quella generale prevista per i provvedimenti sulla competenza dalla l. n. 69/2009) la causa al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario; ove poi nel corso del processo instaurato con il rito del lavoro siano disposti e acquisiti mezzi di prova, questi ultimi, nel passaggio al rito ordinario, conservano efficacia nella misura in cui sia consentita «dalle norme ordinarie» (il riferimento implicito è, principalmente, ai mezzi istruttori disposti d’ufficio ai sensi dell’art. 421, co. 2, c.p.c.).
Queste disposizioni vanno lette unitamente a quella di cui all’art. 439 c.p.c., secondo cui «la corte di appello, se ritiene che il procedimento in primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto, procede a norma degli artt. 426 e 427». Ciò significa che l’errore sul rito (che non investa anche profili di competenza) relativo al giudizio di primo grado può essere fatto valere anche in appello; tuttavia, in considerazione del fatto che in sé esso non costituisce un’ipotesi di nullità, occorre fondare l’impugnazione sul concreto pregiudizio che ne sia derivato (Cass., 7.4.2010, n. 8245). La Corte d’appello, disposto il mutamento, decide la causa senza rimetterla al primo giudice, stante la tassatività delle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. Ove, invece, l’errore investa pure profili di competenza (giudizio di primo grado svoltosi innanzi al tribunale con il rito del lavoro in materia attribuita al giudice di pace ovvero svoltosi innanzi al giudice di pace con il rito ordinario in relazione a uno dei rapporti di cui all’art. 409), il giudice dell’appello rimette la causa al giudice competente.
L’atto introduttivo del processo del lavoro riveste la forma del ricorso (art. 414 c.p.c.), il cui deposito determina la litispendenza (art. 39, ult. co., c.p.c.). Da questa attività discendono gli altri effetti processuali e quelli sostanziali della domanda, tranne l’interruzione della prescrizione che richiede la notificazione del ricorso stesso (unitamente, come si vedrà, al decreto di fissazione d’udienza) (v., Oriani, R., Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977, 315 ss. In giurisprudenza, tra le tante, v. Cass., 24.6.2009, n. 14862, in Dir. merc. lav., 2010, 304).
I requisiti del ricorso corrispondono in larga parte a quelli individuati dall’art. 163 c.p.c. per la citazione. Per ciò che attiene alle richieste istruttorie, non si dubita che l’indicazione specifica dei mezzi di prova e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione, costituisca attività da compiere a pena di decadenza, in virtù dell’interpretazione fornita dalla citata C. cost. n. 13/1977.
Ai sensi dell’art. 415 c.p.c., entro 5 giorni dal deposito del ricorso, il giudice fissa con decreto l’udienza di discussione, alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente. Tra il giorno del deposito e l’udienza non devono decorrere più di 60 giorni. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto, a cura dell’attore, entro 10 giorni dalla data di pronuncia del decreto (salvo quanto disposto dall'art. 417 c.p.c. per il caso di costituzione personale delle parti, nel quale provvede la cancelleria); in particolare, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle p.a. di cui al co. 5 dell’art. 413, il ricorso è notificato direttamente presso l’amministrazione destinataria ai sensi dell’art. 144, co. 2, c.p.c., mentre per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato competente per territorio.
Tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 30 giorni, previsto a garanzia di uno spatium temporis sufficiente per l’esercizio del diritto di difesa.
A questo proposito, va osservato che il rito del lavoro non contempla una disciplina specifica per i vizi del ricorso introduttivo, come, invece, previsto dall’art. 164 c.p.c. per la citazione nel rito ordinario. Ciononostante, si ritiene senz’altro applicabile quest’ultima disposizione almeno con riferimento ai vizi relativi alla editio actionis (v. Cass., 16.2.2010, n. 3605, in Foro it., 2011, I, 189; Cass., S.U., 17.6.2004, n. 11353, Id., 2005, I, 1135). Inoltre, la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per omessa determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui essa si fonda è ravvisabile solo quando attraverso l’esame complessivo dell’atto risulti impossibile l’individuazione esatta della pretesa del ricorrente ed il resistente non possa apprestare una compiuta difesa (Cass., 19.8.2009, n. 18378).
Con riferimento ai vizi relativi alla vocatio in ius, l’applicazione dell’art. 164 c.p.c. è più problematica, poiché l’instaurazione del contraddittorio si attua attraverso la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza. Ciononostante, la comunanza di ratio rispetto all’ipotesi di violazione dell’art. 163 bis c.p.c., induce a ritenere comunque sanabili tali vizi con efficacia retroattiva, previa rinnovazione dell’atto nullo (v. Cass., 19.12.2000, n. 15914, Id., 2001, I, 2909).
Il convenuto si costituisce in giudizio almeno 10 giorni prima della udienza attraverso il deposito di una memoria difensiva ex art. 416 c.p.c., che distingue tra attività da esercitare a pena di decadenza (proposizione di domande riconvenzionali – che comporta la fissazione di una nuova udienza per dar modo all’attore di esercitare il proprio diritto di difesa – ed eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, richiesta specifica dei mezzi di prova di cui il convenuto intende avvalersi e in particolare indicazione e deposito contestuale dei documenti, nonché, sebbene non espressamente previsto, chiamata in causa di terzi) e attività per il cui espletamento non è previsto alcun termine (articolazione di mere difese, precisa e specifica presa di posizione circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, attività quest’ultima, che si risolve nell’onere di contestazione dei fatti stessi, che deve essere, appunto, specifica anche ai sensi dell’art. 115, co.1, c.p.c., come modificato dalla l. n. 69/2009).
In ultima analisi, con riferimento alla costituzione delle parti, l’art. 417 bis c.p.c., nelle controversie relative al pubblico impiego, stabilisce che le amministrazioni possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti, sia pure limitatamente al primo grado, salvo che, se si tratti di amministrazioni statali o ad esse equiparate, «l’Avvocatura dello Stato competente per territorio, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, determini di assumere direttamente la trattazione della causa».
L’udienza di discussione fissata con il decreto emesso a seguito del deposito del ricorso (v. § precedente), costituisce il cuore del processo del lavoro. Secondo le intenzioni del legislatore questa udienza, dovrebbe essere l’unica, ma in realtà, nella prassi questa eventualità si verifica raramente poiché è affatto improbabile che le attività previste dall’art. 420 c.p.c. si esauriscano in un’unica soluzione.
Una volta effettuati i controlli di cui all’art. 421, co. 1, c.p.c., sanate le eventuali irregolarità degli atti e dei documenti ed espletate altre incombenze (quali, ad es., quelle relative alla riunione di cause ex art. 151 disp. att. c.p.c. connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione), il giudice provvede ad eseguire l’interrogatorio libero delle parti presenti (personalmente o rappresentate da un procuratore generale o speciale, il quale sia a conoscenza dei fatti della causa e sia munito del potere di conciliare o transigere la controversia) ed effettua il tentativo di conciliazione della lite, formulando alle parti una proposta, che, a seguito della modifica apportata dalla l. n. 69/2009, la norma definisce «transattiva o conciliativa». La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento «valutabile dal giudice ai fini del giudizio» (v. l’analoga previsione dell’art. 185 bis c.p.c., introdotto dal d.l. n. 69/2013).
In udienza, «le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice». Si tratta, a ben vedere, di una conseguenza del principio di preclusione che domina il processo del lavoro e che impone alle parti, in particolare, di “vuotare il sacco” negli atti introduttivi. Peraltro, la previsione risponde alla regola, operante anche nel rito ordinario, che vieta la mutatio libelli, consentendo la semplice emendatio (sia pure, appunto, «previa autorizzazione del giudice»). Occorre precisare, tuttavia, che: - le eccezioni alle quali si riferisce la norma sono quelle in senso stretto, poiché soltanto in relazione ad esse è prevista la proponibilità a pena di decadenza nella memoria difensiva (v. Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2012, 33 s.); - all’attore deve essere consentito proporre la cd. reconventio reconventionis, ove l’esigenza sia sorta dalle difese del convenuto (Cass., 29.7.2002, n. 11180).
Se il tentativo di conciliazione ha esito positivo, si forma apposito verbale che ha efficacia di titolo esecutivo ed è assoggettato al regime di cui all’art. 2113 c.c. Altrimenti, il processo può seguire due strade, a seconda che il giudice ritenga la causa sia già matura per la decisione o sorgano questioni idonee a definire il giudizio, oppure ritenga di ammettere i mezzi di prova richiesti dalle parti.
Nel primo caso, il giudice «invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva dando lettura del dispositivo». A tal proposito, va precisato che le questioni idonee a definire il giudizio sono, per espressa previsione dell’art. 420, co. 4, c.p.c. soltanto quelle «attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio». Non si dubita, però, che possano ritenersi comprese anche le questioni preliminari di merito e che il meccanismo decisorio applicabile sia quello dell’art. 187, co. 2 e 3, c.p.c. (del tutto peculiare è il regime della sentenza non definitiva che può essere emessa sull’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità e interpretazione di contratti collettivi nazionali di lavoro, introdotto – art. 64, d.lgs. n. 165/2001; art. 420 bis c.p.c. e 146 bis disp. att. c.p.c. – con l’obiettivo di dare uniformità alle decisioni nella soluzione di questioni comuni che possono interessare una molteplicità di controversie e di soggetti, definite per questa ragione “di serie”, in vista della economia processuale e della deflazione del carico giudiziario. Cfr., anche per riferimenti, Dalfino, D., Questioni di diritto e giudicato, Torino, 2008, 249 ss.).
Nel secondo caso, il giudice «nella stessa udienza ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti» negli atti introduttivi «e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa nell’udienza, per la loro immediata assunzione» (art. 420, co. 5, c.p.c.) ovvero, «qualora ciò non sia possibile», come nella maggior parte dei casi, «fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell’udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive» (art. 420, co. 6, c.p.c.; in ogni caso, ai sensi del co. 8, «l’assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi»). Naturalmente, l’ammissione di “nuovi” mezzi di prova disposta a beneficio della parte che ne abbia fatto richiesta, dimostrando l’impossibilità di farlo prima, deve consentire all’altra di «dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un termine perentorio di cinque giorni».
In caso di chiamata in causa a norma degli artt. 102, co. 2, 106 e 107, l’udienza può essere rinviata per dar modo al terzo di costituirsi non meno di 10 giorni prima.
In caso di intervento volontario, invece, l’art. 419 c.p.c. dispone che, «salvo che sia effettuato per l'integrazione necessaria del contraddittorio, l'intervento del terzo ai sensi dell’art. 105 non può aver luogo oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto, con le modalità previste dagli artt. 414 e 416 in quanto applicabili». Tuttavia, C. cost., 29.6.1983, n. 93, in Foro it., 1983, I, 2068, ha dichiarato l’illegittimità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., di tale disposizione nella parte in cui, ove un terzo spieghi intervento volontario, non attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare, con il rispetto del termine di cui all’art. 415, co. 5, una nuova udienza, non meno di dieci giorni prima della quale potranno le parti originarie depositare memoria, e disporre che, entro cinque giorni, siano notificati alle parti originarie il provvedimento di fissazione e la memoria dell’interveniente, e che sia notificato a quest’ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza.
Sono vietate le cd. “udienze di mero rinvio”, quelle cioè in cui non vi è luogo per alcuna attività processuale e si rivelano assolutamente inutili e contrarie al principio di concentrazione.
Infine, a tutte le comunicazioni e notificazioni provvede l’ufficio (art. 420, penult. co.).
L’ampiezza dei poteri istruttori d’ufficio del giudice (v. soprattutto artt. 421 e 437 c.p.c.) rappresenta una tra le principali peculiarità del rito del lavoro e risponde alla esigenza di ricerca della “verità materiale”, in funzione della “giusta composizione della controversia”, pur nella doverosa opera di contemperamento dei valori in gioco.
In particolare, l’art. 421 c.p.c. distingue a seconda che l’esercizio di tali poteri riguardi la necessità di provvedere alla “sanatoria” delle irregolarità degli atti e dei documenti di parte (co. 1) ovvero l’ammissione di mezzi di prova (co. 2 e 4; il co. 3, invece, relativo all’ordine di accesso sul luogo di lavoro, ritenuto necessario al fine dell'accertamento dei fatti, nonché, in tal caso, ravvisatane l'utilità, l’esame dei testimoni sul luogo stesso, presuppone l’istanza di parte e anche per questo motivo si differenzia dall’ordine di ispezione di cui all’art. 118 c.p.c.).
Con specifico riferimento al secondo caso, l’ampia latitudine di intervento del giudice sul piano istruttorio consentita dalla lettera della norma (del co. 2, in particolare: «può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile») risponde all’esigenza, più forte nelle cause di lavoro, che si addivenga ad un accertamento pieno dei fatti, alla cd. “verità materiale”.
Tuttavia, premesso che l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio «anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile» non significa libertà di superamento delle limitazioni connesse alla forma prevista dalla legge per determinati atti né dell’efficacia delle prove legali già assunte o prodotte, le deviazioni rispetto alla disciplina del codice civile riguardano principalmente la prova testimoniale (art. 2721 c.c.: v. Cass., 29.7.2009, n. 17614; e art. 1417c.c.: Cass., 15.4.2009, n. 8928, in Foro it, 2009, I, 2362). La richiesta di informazioni e osservazioni può essere disposta d’ufficio, ma anche su istanza e indicazione di parte ai sensi dell’art. 425 c.p.c., fermo restando che l’associazione sindacale (che ha facoltà di rendere in giudizio, tramite un suo rappresentante, informazioni e osservazioni orali o scritte) non acquisisce a sua volta la qualità di parte. Alla stessa il giudice può richiedere, d’ufficio, il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa (art. 425, co. 4, c.p.c.).
Inoltre, sempre in virtù dei poteri istruttori d’ufficio, «il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246» (la norma richiama anche l’art. 247 c.p.c., ma questo è stato dichiarato incostituzionale da C. cost., 23.7.1974, n. 248).
L’ampiezza di tali poteri ha reso necessario individuare efficaci meccanismi di controllo dell’esercizio o del mancato esercizio degli stessi (per una diffusa analisi, v. Fabiani, E., I poteri istruttori del giudice civile, I. Contributo al chiarimento del dibattito, Napoli, 2008).
Nel rito del lavoro, «in ogni stato del giudizio», il giudice può emettere i provvedimenti sommari di condanna, aventi natura anticipatoria, di cui all’art. 423 c.p.c.
La norma contempla due ipotesi, nelle quali i provvedimenti assumono la forma dell’ordinanza costituente titolo esecutivo.
La prima si fonda sulla non contestazione delle somme di cui è stato richiesto il pagamento e può essere emessa in favore sia del lavoratore sia del datore di lavoro («su istanza di parte»). In assenza di una disciplina specifica relativa al regime di stabilità della relativa ordinanza, si ritiene potersi applicare quella di cui all’art. 186 bis c.p.c. (in senso contrario, v. Tarzia, G., Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 259).
La seconda può essere emessa allorquando il giudice, in base alle prove assunte, ritenga di aver accertato l’esistenza del diritto, sia pure entro un determinato limite quantitativo. La particolarità di questa ordinanza sta nel fatto che di essa può beneficiare soltanto il lavoratore. A differenza dell’ordinanza di cui al comma 1, questa è, per esplicita previsione normativa, «revocabile con la sentenza che decide la causa», ma, come la prima, conserva efficacia esecutiva in caso di estinzione del giudizio.
Anche la fase decisoria è ispirata alla massima concentrazione delle attività processuali. Ai sensi dell’art. 429, co. 1, c.p.c., infatti, «nell’udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza». La disposizione, modificata dal d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. con modif. in l. 6.8.2008, n. 133, si ispira al modello del rito ordinario innanzi al giudice monocratico rappresentato dall’art. 281 sexies c.p.c., salve talune non irrilevanti differenze (cfr. Izzo, S., I modelli di decisione, in La nuova giustizia del lavoro, 49 ss.).
Non vi è luogo, dunque, per una specifica udienza di precisazione delle conclusioni, né per lo scambio di comparse conclusionali e memorie di replica, come nel rito ordinario, poiché tutto avviene nella medesima udienza, a meno che il giudice, se lo ritiene necessario e su richiesta delle parti, disponga il deposito di note difensive entro un termine non superiore a dieci giorni, rinviando la causa «all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza» (art. 429, co. 2, c.p.c.).
Con disposizione avente natura sostanziale e di chiaro favore per il lavoratore, il comma 3, dell’art. 429 (da leggere unitamente all’art. 150 disp. att. c.p.c.) stabilisce, inoltre, che «il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto» (sulle differenze di regime tra lavoratori privati e pubblici, per ciò che attiene al cumulo di interessi e rivalutazione, v. C. cost., 2.11.2000, n. 459, in Foro it., 2001, I, 35).
La sentenza di primo grado, sia quella che pronunci condanna «a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all’art. 409» sia quella che pronunci condanna a favore del datore di lavoro, è provvisoriamente esecutiva, ai sensi dell’art. 431, co. 1 e 5, c.p.c.
Muta, tuttavia, il regime dell’esecutività nei due casi.
Infatti, qualora il processo si concluda con la condanna del datore di lavoro, il lavoratore può procedere all’esecuzione «con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza» (art. 431, co. 2), sebbene, dopo le su viste modifiche del 2008 riguardanti la «motivazione contestuale», la norma è destinata ormai a trovare scarsa applicazione. Per la medesima ragione, l’operatività dell’istituto del cd. “appello con riserva dei motivi”, disciplinato dall’art. 433, co. 2, c.p.c., ai sensi del quale «ove l’esecuzione sia iniziata, prima della notificazione della sentenza, l’appello può essere proposto con riserva dei motivi che dovranno essere presentati nel termine di cui all’art. 434», dovrebbe vedersi ridotta notevolmente (sull’istituto in parola, v. da ultimo Cass., 26.10.2012, n. 18489, in Foro it., 2013, I, 1607).
Peraltro, il datore di lavoro soccombente che, nel proporre appello, chieda anche la sospensione dell’esecuzione (anche parziale, ferma restando l’esecuzione provvisoria sino ad € 258,23) della sentenza di primo grado, non può limitarsi a dimostrare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 283 c.p.c., ma deve allegare un «gravissimo danno» (art. 431, co. 3, c.p.c.).
Invece, «le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro sono provvisoriamente esecutive e sono soggette alla disciplina degli artt. 282 e 283» e «il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa in tutto o in parte quando ricorrono gravi motivi» (art. 431, co. 5 e 6).
In entrambi i casi, però, vale la regola stabilita dall’ultimo comma dell’art. 431 c.p.c., come modificato dalla l. 12.11.2011, n. 183, secondo cui «se l’istanza per la sospensione di cui al terzo ed al sesto comma è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio».
Il giudizio di appello nel rito del lavoro trova la propria disciplina nelle disposizioni speciali di cui agli art. 433 ss. c.p.c., ma anche, ove nulla sia espressamente previsto, nelle disposizioni generali contenute negli artt. 323-338, nonché in quelle del rito ordinario ove applicabili (ferma restando l’inappellabilità delle sentenze che hanno deciso una controversia di valore non superiore ad € 25,82).
Come per il primo grado, l’atto introduttivo ha la forma del ricorso, contenente le indicazioni prescritte dall’art. 414 c.p.c., e va depositato, nel rispetto dei termini per l’impugnazione (art. 434, ultimo comma; 327 c.p.c.), nella cancelleria del giudice competente, che, nella specie, è la Corte d’appello in funzione di giudice del lavoro (art. 433, co.1, c.p.c.).
A seguito della modifica apportata dalla l. 7.8.2013, n. 134, l’atto di appello deve essere motivato, a pena di inammissibilità, nelle forme e nei modi indicati dal nuovo all’art. 434 c.p.c.
Ai sensi dell’art. 435 c.p.c., a seguito del deposito del ricorso, il Presidente della Corte d’appello, entro cinque giorni, nomina il giudice relatore e fissa con decreto, non oltre 60 giorni dalla data medesima, l’udienza di discussione dinanzi al collegio. Nei 10 giorni successivi al deposito del provvedimento, l’appellante, provvede alla notifica del ricorso e del decreto all’appellato. Tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni [nel senso che in caso di omessa o inesistente notificazione del ricorso e del decreto, l’appello è improcedibile, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, non essendo consentito, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, al giudice di assegnare ex art. 421 c.p.c. all’appellante, previa fissazione di un’altra udienza di discussione, un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell’art. 291 c.p.c. (principio ritenuto applicabile al procedimento per opposizione a decreto ingiuntivo), v. Cass., S.U., 30.7.2008, n. 20604, Id., 2009, I, 1130. Tale conseguenza non si estende all’inosservanza del termine (non perentorio) di dieci giorni assegnato all’appellante per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione (art. 435, co. 1, c.p.c.), sempre che resti garantito all’appellato uno spatium deliberandi non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza di discussione, perché egli possa apprestare le proprie difese (art. 435, co. 2, c.p.c.): Cass., 15.10.2010, n. 21358, in Corr. giur., 2011, 653. Sulla manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 435, co. 2, c.p.c., v. C. cost., ord. 24.2.2010, n. 60, in Foro it., 2010, I, 2326, nonché C. cost., 5.11.2012, n. 253].
La costituzione dell’appellato si effettua, ai sensi dell’art. 436 c.p.c., mediante deposito in cancelleria, almeno dieci giorni prima dell’udienza, del fascicolo e di una memoria difensiva, che deve contenere «dettagliata esposizione di tutte le sue difese» e comunque gli elementi di cui all’art. 416, in quanto applicabili. L’appello incidentale, nel quale l’appellato deve esporre «i motivi specifici su cui fonda l’impugnazione», va proposto a pena di decadenza nella memoria di costituzione, da notificarsi, a cura dell’appellato stesso, alla controparte almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata a norma dell’art. 435.
Anche nel rito del lavoro si applica il cd. “filtro” di inammissibilità di cui agli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., richiamati dall’art. 436 bis c.p.c., che, tuttavia, attiene al merito della causa (App. Bari, ord. 18.2.2013, in Foro it., 2013, I. Cfr. Costantino, G., Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in Treccani.it).
Superato il “filtro”, nell’udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa e il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo (ma non anche della motivazione, non essendo richiamato l’art. 429, co. 1) nella stessa udienza (art. 437, co. 1, c.p.c.).
Ove l’appellante già costituito non compaia, il collegio fissa una nuova udienza, della quale il cancelliere gli dà comunicazione, ma se anche alla nuova udienza l’appellante non compare, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 348, co. 2, c.p.c. (v. Cass., 4.3.2011, n. 5238). Invece, è necessario fissare una udienza anticipata in camera di consiglio per la trattazione dell’istanza di inibitoria.
In appello, non sono ammesse nuove domande (ferme restando, tuttavia, le “aperture” di cui all’art. 345, co. 1, c.p.c. per il rito ordinario) né nuove eccezioni (l’art. 437, co. 2, non distingue tra quelle di merito e processuali, rilevabili d’ufficio e non, stabilendo un generale divieto, a differenza di quanto disposto dall’art. 345, co. 2; tuttavia, si ritiene consentito al giudice e alle parti dedurre la rilevanza giuridica di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi ritualmente acquisiti in primo grado).
Non sono neanche ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa (sulla nozione di “indispensabilità” dei mezzi di prova in appello, v. Cass., 26.7.2012, n. 13353. In dottrina, v. Poli, G. G., Ultrattività delle decadenze e «indispensabilità» dei mezzi di prova in appello: ricerca di una convivenza possibile, in Giusto proc. civ., 2012, 163 ss.).
Quanto ai documenti, mentre l’art. 345, co. 3, come modificato dalla l. n. 69/2009, sancisce espressamente il divieto di produzione in appello (ponendosi in linea con Cass., 20.4.2005, n. 8202, in Foro it., 2005, I, 1690 e, successivamente, Cass., 9.3.2009, n. 5642, Id., 2009, I, 2093), l’art. 437, co. 2, è rimasto invariato, il che sembrerebbe fornire un indizio della volontà del legislatore di diversificare la disciplina rispetto al rito ordinario. L’ammissibilità di nuovi documenti in quanto ritenuti indispensabili, peraltro, non deve essere tale da consentire alla parte di introdurre in secondo grado nuove allegazioni di fatto (Cass., 6.3.2012, n. 3506). In ogni caso, deve ritenersi ammissibile la produzione tardiva dei documenti ove giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale (Cass., 25.5.2010, n. 12793).
È, inoltre, fatta salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa e, per il collegio, il potere di rinviare ad altra udienza, da fissarsi non oltre 30 giorni, ove sia nominato un consulente tecnico, il cui parere deve essere depositato almeno 10 giorni prima della nuova udienza.
Qualora ammetta le nuove prove richieste il collegio fissa, entro 20 giorni, l’udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza.
Anche in appello possono essere adottati i provvedimenti sommari anticipatori di cui all’art. 423, nonché le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 429, 430, 431, co. 2, innanzi viste.
13. Conciliazione e arbitrato
Negli ultimi anni gli istituti della conciliazione e dell’arbitrato in materia di lavoro hanno subito importanti modifiche.
Per ciò che concerne il primo, viene in immediato rilievo l’eliminazione (ad opera dell’art. 31, l. 4.11.2010, n. 183, cd. “collegato lavoro”) della obbligatorietà del tentativo di conciliazione (introdotta dal d.lgs. 80/1998, e succ. modif.) – quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale (in precedenza sopravvissuta al vaglio di costituzionalità ex artt. 3, 24 e 76 Cost.: v. C. cost., 13.7.2000, n. 276, in Giur. it., 2001, 439), che non aveva affatto sortito risultati soddisfacenti dal punto di vista deflativo – e ritorno della facoltatività (salvo che per le controversie in materia di certificazione dei contratti di lavoro, ai sensi dell’art. 80 d.lgs. 10.9.2003, n. 276, nonché quelle in materia di invalidità, cecità e sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c.) già prevista dallo st. lav. e poi dalla l. n. 533/1973, con equiparazione (anche) sotto questo punto di vista, del lavoro pubblico a quello privato.
La nuova disciplina non è applicabile alle controversie di lavoro relative al cd. “personale non contrattualizzato” rientranti nella giurisdizione amministrativa.
Le forme dei “tentativi di conciliazione” sono più d’una, si distinguono in relazione alla sede di svolgimento (per la conciliazione in sede giudiziale v. § 7) e sono alternative tra loro: quella innanzi alla Direzione provinciale del lavoro (art. 410, 411 c.p.c.), quella in sede sindacale (art. 412 ter c.p.c.), quella presso il collegio di conciliazione e arbitrato costituito ex art. 412 quater c.p.c., quella innanzi alle commissioni di certificazione. Quale che sia la sede, all’avvenuta composizione della lite non si applica la disciplina delle invalidità di cui all’art. 2113 c.c. e il verbale di conciliazione è suscettibile di divenire esecutivo attraverso un procedimento di omologazione giudiziale.
Per quanto riguarda il secondo, v’è da dire che in relazione alle controversie di lavoro (anche quelle collettive) l’arbitrato è sempre stato considerato con diffidenza a causa della natura dei diritti coinvolti, dell’esigenza di salvaguardia dell’autonomia del sindacato, nonché dell’avvertita rilevanza sociale della materia.
Inizialmente il codice di procedura civile del 1940 prevedeva un divieto assoluto, confermato dalla l. n. 533/1973 per l’arbitrato rituale (salva la possibilità di ricorrere alla clausola compromissoria se prevista dai contratti o dagli accordi collettivi con conservazione della garanzia della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria e ferma restando la necessità di un arbitrato di diritto e dell’impugnabilità del lodo non soltanto per i motivi di cui all’art. 829, ma «anche per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi»).
Successivamente, ma soltanto nel 2006 con il d.lgs. n. 40, si è stabilito (art. 806, co. 2, come modificato) che le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. possano essere «decise da arbitri», con il limite, però, della previsione di legge o dei contratti o accordi collettivi di lavoro (sebbene sia stata espunta la cd. clausola di “salvaguardia”). Inoltre, è stato modificato l’art. 829 c.p.c., che adesso ammette sempre «l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia» (comma 4, n. 1), conservando l’assoggettabilità del lodo «ad impugnazione anche per violazione dei contratti e accordi collettivi». Infine, è stata introdotta una norma di carattere generale relativa al procedimento arbitrale irrituale, quale l’art. 808 ter c.p.c., che ha contribuito a riempire di più specifico contenuto le ambigue disposizioni di cui agli artt. 412 ter e quater c.p.c. (nel testo all’epoca vigente, cioè prima delle ultime modifiche apportate dalla l. 183).
Il collegato lavoro conferma la predilezione per l’arbitrato irrituale, sebbene le modalità attualmente contemplate (arbitrato dinanzi alla commissione di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro: art. 412; arbitrato sindacale: art. 412 ter; arbitrato ad hoc: art. 412 quater; arbitrato presso gli organismi di certificazione: art. 31, co. 12, l. 183; arbitrato fondato su clausola compromissoria certificata: art. 31, co. 10, l. 183) appaiano piuttosto un “ibrido”. Con riferimento agli effetti e al regime del lodo la disciplina è comune, differenziandosi le fattispecie nel momento “genetico”. In particolare, il lodo rappresenta niente più che una «determinazione contrattuale», ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c., espressamente applicabile; tuttavia, diversamente dal lodo arbitrale irrituale, non è impugnabile in via di azione nell’ordinario termine di prescrizione; peraltro, può acquisire l’efficacia di titolo esecutivo previa omologazione giudiziale ed è efficace tra le parti, ai sensi degli artt. 1372 e 2113, co. 4, c.c., ove «sottoscritto dagli arbitri» e «autenticato».
Il legislatore del 2010 ha previsto, inoltre, la possibilità che le parti conferiscano agli arbitri il potere di decidere secondo equità, ferma restando la necessaria osservanza dei «principi generali dell’ordinamento» e (grazie al rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica) dei «principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari». Tuttavia, se ne deve ammettere non soltanto l’annullabilità ex art. 808 ter c.p.c., ma anche imprescindibilmente l’azione per la dichiarazione di nullità tutte le volte in cui non possa essere invocata la protezione dell’art. 2113, co. 4, c.c. (ad es., quando il lodo disponga in ordine a diritti non ancora sorti o maturati oppure sia contrario all’ordine pubblico o a norme imperative o inderogabili). Soluzione quest’ultima, che, in ogni caso, non può non valere anche per il lodo deciso secondo diritto.
Con riferimento alla stipulazione di clausole compromissorie, sono stabilite maggiori cautele, quali il principio della necessaria precostituzione sindacale, la previa conclusione del periodo di prova ovvero, ove non sia previsto, il previo decorso di almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, l’esclusione per le «controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro» (le quali, tuttavia, potranno formare oggetto di arbitrato), la necessaria certificazione all’atto della sottoscrizione, a pena di nullità, da parte degli appositi organismi di certificazione previsti dal d.lgs. n. 276/2003: requisiti questi, tutti diretti (e non soltanto l’ultimo) ad assicurare, per quanto possibile praticamente, «la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro».
Artt. 3, 24, 36, 111 Cost.; artt. 1372, 2094, 2113, 2126 c.c.; artt. 38, 39, 115, 281 sexies, 282, 283, 409 ss., 442 ss c.p.c.; R.d. 30.1.1941, n. 12; l. 20.9.1970, n. 300; l. 11.10.1973, n. 533; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; l. 18.6.2009, n. 69; l. 4.11.2010, n. 183; d.lgs. 1.9.2011, n. 150; l. 28.6.2012, n. 92.
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