Abstract
Con l’espressione “processo previdenziale”, che è riassuntiva piuttosto che definitoria, si fa riferimento alle forme e alle regole specifiche di procedura che, contemplate dal codice di rito nonché da leggi speciali, concorrono variabilmente a diversificare la trattazione in sede giudiziaria del contenzioso previdenziale e assistenziale.
Hanno natura giuridica previdenziale o assistenziale le controversie concernenti i rapporti sostanziali menzionati nei primi due commi dell’art. 442 c.p.c. Questa norma processuale – con la stessa tecnica dell’art. 409 c.p.c. per le controversie sui rapporti lavoristici – richiama le relazioni giuridiche previdenziali, cioè una componente necessaria del mondo del lavoro (subordinato, autonomo, professionale, parasubordinato, flessibile), regolate dalla disciplina delle assicurazioni sociali su base contributiva, sia ex lege (co. 1) sia di fonte negoziale (co. 2), e menziona la normativa in materia di assistenza, in applicazione della quale vengono erogati sussidi pubblici e privati ai non abbienti selezionati alla stregua del reddito (salvo eccezioni). Peraltro, l’art. 442 c.p.c. è una disposizione polifunzionale, in quanto: «1) indica quali sono le controversie previdenziali e assistenziali sottoposte al rito del quale la stessa norma si occupa; 2) prescrive l’applicazione degli articoli da 409 a 441 c.p.c. come nucleo centrale di tale processo; 3) apre la breve sequenza delle altre disposizioni codicistiche che concorrono a formarlo; 4) nulla dice circa le necessarie integrazioni derivanti dalle leggi speciali in materia» (Gentile, S.L., Il processo previdenziale, Milano, 2010, 14).
Lo statuto delle controversie previdenziali e assistenziali, per tal via, è il risultato complesso di una doppia specialità e di innesti eterogenei. Bisogna fare riferimento, in primo luogo, al rito del lavoro, che, a sua volta, recepisce e conserva le regole non derogate dell’ordinario processo di cognizione. In questa trama devono poi essere inseriti e applicati gli artt. da 443 a 447 c.p.c. nonché, in particolare, gli artt. 146, 147, 148, 149 e 152 disp. att. c.p.c., invece delle corrispondenti disposizioni del rito del lavoro o, secondo i casi, in aggiunta. Infine, per singole fattispecie fra quelle contemplate dall’art. 442 c.p.c., vanno estrapolate dalle leggi speciali, in materia di prestazioni previdenziali e assistenziali nonchè di enti gestori, e innestate nel processo le prescrizioni ad hoc che condizionano (non soltanto la maturazione del diritto sostanziale ma anche) l’intervento del giudice previdenziale. «Ne deriva un articolato corpus normativo che configura, secondo la migliore dottrina, il c.d. processo previdenziale» (Oricchio, M., Il contenzioso previdenziale, Padova, 2010, 286). Un’altra definizione in uso è «processo della sicurezza sociale» (Cinelli, M., Diritto della previdenza sociale, Torino, 2008, 278).
L’ambito delle controversie previdenziali e assistenziali è rimasto unitario sino all’entrata in vigore dell’art. 46, co. 22, l. 18.6.2009, n. 69, che, con decorrenza dal 4 luglio 2009 (art. 58, co. 1), ha scorporato i processi relativi «agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali», di cui dice l’art. 7, co. 3, n. 3 bis, c.p.c. (contestualmente introdotto dall’art. 45, co. 1, lett. c, l. cit.). La modifica ha riguardato sia l’organo giurisdizionale competente a conoscere tali cause, che è diventato il giudice di pace «qualunque ne sia il valore», vale a dire per materia, sia il rito applicabile. Al riguardo, l’indicazione della legge riformatrice è soltanto di segno negativo, nel senso che «non si osservano le disposizioni» del processo del lavoro né quelle del processo previdenziale, ma l’effetto necessario di tale esclusione è che il giudice di pace deve trattare le liti in oggetto secondo le regole del rito applicabile dinanzi a lui, cioè ai sensi dell’art. 311 ss. c.p.c.
Le due innovazioni processuali, tuttavia, non incidono sulla natura giuridica delle controversie transitate ex lege n. 69/2009 nella competenza del giudice di pace, che, come prima, riguardano prestazioni previdenziali e assistenziali, sebbene nella ridotta prospettiva dell’applicazione a vantaggio dell’assistibile, quale creditore, delle sanzioni civili per l’adempimento tardivo dell’ente gestore. Ne derivano giustificate perplessità sul versante del frazionamento della domanda (Trisorio Liuzzi, G., Le novità per il processo civile (l. 18 giugno 2009 n. 69) – Le novità in tema di competenza, litispendenza, continenza e connessione, in Foro it., 2009, V, 254). Comunque, la domanda giudiziale concernente sia la prestazione sia gli accessori rimane appannaggio del giudice previdenziale e comporta l’applicazione del rito previdenziale.
La cognizione del giudice previdenziale può essere inaudita altera parte e di tipo cautelare, perchè le peculiarità delle materie sostanziali e la specialità del processo ex art. 442 ss. c.p.c. non ostano, ricorrendone i presupposti, all’utilizzo della procedura per decreto ingiuntivo e del rito cautelare. Il ricorso monitorio è consentito sia all’assistibile che rivendichi una prestazione previdenziale o assistenziale sia all’ente gestore che agisca per il pagamento di contributi omessi, a vantaggio del quale l’art. 635 c.p.c. appresta un’agevolazione probatoria generalmente riconosciuta allo Stato e agli enti pubblici, con riferimento alle risultanze dei libri e dei registri della pubblica amministrazione (co. 1), nonchè una facilitazione specifica, consistente nella sancita rilevanza pure dei verbali ispettivi (co. 2). Il ricorso cautelare ai sensi dell’art. 669 bis ss. c.p.c., in concreto, risulta utilizzato sporadicamente, perché gli enti previdenziali possono valersi ex lege di forme di autotutela, mentre il riconoscimento del diritto degli assistibili postula sovente la necessità di espletare attività istruttorie.
Non è compatibile con la materia previdenziale o assistenziale, invece, il procedimento sommario di cognizione (artt. 51 l. n. 69/2009 e 702 bis, ter e quater c.p.c.). A tale conclusione conduce, in particolare, la regola sulla conversione che, ove occorra «un’istruzione non sommaria», il giudice dispone, «con ordinanza non impugnabile», fissando «l’udienza di cui all’art. 183», per poi trattare la controversia secondo «le disposizioni del libro II». Quest’ultimo è dedicato sia al processo ordinario di cognizione sia ai processi del lavoro e previdenziale, ma il riferimento all’udienza di «prima comparizione delle parti e trattazione della causa», regolata dall’art. 183 c.p.c., evoca esclusivamente il rito ordinario. «Questi precisi richiami inducono a ritenere, pur in assenza di una esplicita esclusione, che il procedimento sommario non sia adottabile per le cause assoggettate ad un rito (a cognizione piena) diverso da quello ordinario» (Balena, G., Le novità per il processo civile (l. 18 giugno 2009 n. 69) – Il processo sommario di cognizione, in Foro it., 2009, 325).
La riforma in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili non ha modificato l’assetto del processo previdenziale, in quanto il d.lgs. 1.9.2011, n. 150, prevede la sopravvivenza per intero delle relative norme fondamentali. Queste, infatti, stanno nel capo II, sezione II, titolo IV, del libro secondo del codice di rito e, nell’impianto del d.lgs. n. 150/2011: a) non costituiscono l’archetipo del rito del lavoro, di cui al capo I (destinato ad affiancare il rito ordinario e il rito sommario di cognizione); b) non rientrano fra le «controversie regolate dal rito del lavoro» elencate nel capo II.
Sull’accertamento tecnico preventivo dell’invalidità previdenziale e assistenziale, ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., v. infra, § 3.
Molte controversie previdenziali sono devolute ad altri organi di giustizia e soggiacciono a regole processuali del tutto o parzialmente diverse. In particolare, la Corte dei conti conosce dei ricorsi in materia di pensioni: 1) relativi ai trattamenti di guerra (art. 7, co. 3, d.P.R. 30.9.1999, n. 377); 2) concernenti le prestazioni «in tutto o in parte a carico dello Stato o di altri enti designati dalla legge» (art. 13 r.d. 12.7.1934, n. 1214); formula che individua la previdenza dei lavoratori pubblici.
Non è stabile la relazione fra il rito del lavoro, le norme codicistiche dettate per il contenzioso previdenziale e assistenziale nonché le disposizioni di rilievo processuale contemplate dalle leggi speciali in riferimento a singole fattispecie litigiose. Infatti, si registrano variazioni di diversa entità delle regole processuali da applicare nei singoli casi. Spesso la trattazione e la decisione della lite dipendono (anche) dall’attuazione di più norme tipiche del processo previdenziale, mentre alcune volte lo svolgimento della controversia avviene essenzialmente alla stregua delle norme del rito del lavoro. Pure in questo secondo caso, tuttavia, ci sono sempre alcune regole specifiche da applicare, quando l’oggetto della controversia è previdenziale o assistenziale.
Fra tali caratteristiche peculiari, innanzitutto vanno menzionati gli adempimenti e le procedure conciliative di natura amministrativa che devono necessariamente precedere l’inizio della controversia dinanzi al giudice previdenziale, sicché ne condizionano la rituale introduzione. Ai sensi dell’art. 7 l. 11.8.1973, n. 533, l’assistibile che intende esercitare un diritto disciplinato da leggi previdenziali o assistenziali, in primo luogo, deve presentare un’istanza amministrativa all’ente gestore. L’omissione di tale adempimento necessario comporta l’improponibilità della domanda giudiziaria, rilevabile d’ufficio senza preclusioni, cioè in ogni stato e grado del giudizio, salvo il giudicato interno, perché la violazione determina una situazione di temporanea carenza di giurisdizione.
Dalla data di presentazione dell’istanza amministrativa comincia a decorrere un periodo di centoventi giorni, entro il quale l’ente gestore – che amministra un gran numero di rapporti e per questo ha una struttura complessa, sicché merita di fruire di un congruo spatium deliberandi – può legittimamente pronunciarsi sulla richiesta, vale a dire senza incorrere in conseguenze. L’eventuale silenzio, invece, concorre a configurare una fattispecie significativa del rigetto dell’istanza e costituisce in mora l’ente gestore a partire dal centoventunesimo giorno; con la conseguenza che, nel caso di successivo accoglimento della corrispondente domanda giudiziale, all’avente diritto a una prestazione di contenuto economico spettano gli interessi legali e la rivalutazione monetaria (quanto alla misura, v. infra, § 2.4), appunto, dal centoventunesimo giorno. Pertanto, questo elemento iniziale del procedimento amministrativo/giudiziario costituisce un presupposto processuale, indispensabile ab origine e non acquisibile in itinere, a differenza delle tipiche condizioni dell’azione, cioè l’interesse ad agire e la legitimatio ad causam.
L’iter di accesso alla tutela giurisdizionale contempla poi la condizione di procedibilità della domanda posta dall’art. 443 c.p.c., che consiste, intervenuto il diniego dell’ente gestore (espresso o tacito; totale o parziale), nell’esaurimento dei procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o nel decorso dei termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi o comunque, di centottanta giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo. In particolare, nelle materie previdenziali di competenza dell’INPS, avverso i provvedimenti dell’istituto sono consentiti ricorsi in sede contenziosa amministrativa, ai sensi degli artt. 46 («contenzioso in materia di prestazioni») e 47 («contenzioso in materia di contributi alla gestione dei lavoratori autonomi») l. 9.3.1989, n. 88, che la parte privata (assicurato; datore) può proporre entro il termine di novanta giorni dalla data di comunicazione del provvedimento e il competente comitato dovrebbe definire entro ulteriori novanta giorni; poi il rimedio impugnatorio si intende rigettato e gli interessati hanno facoltà di adire l’autorità giudiziaria. L’adempimento amministrativo in parola, previsto a scanso dell’improcedibilità della domanda giudiziale, viene considerato di minore importanza, rispetto a quello ex art. 7 l. n. 533/1973, che deve precederlo a pena di improponibilità dell’iniziativa processuale, per cui la disciplina è più tollerante: 1) nel fissare, ai fini della rilevabilità, il limite della prima udienza di discussione; 2) nel consentire la sanatoria, mediante la sospensione della controversia e l’attivazione del ricorso amministrativo pretermesso, entro sessanta giorni.
La durata complessiva della procedura amministrativa ante causam, in conclusione, non può superare i trecento giorni. Questa soglia temporale non è prorogabile per effetto del comportamento delle parti del rapporto litigioso (Cass., 29.3.2010, n. 7527).
Nel contenzioso assistenziale e, in particolare, di invalidità civile, fermo l’onere di presentare l’istanza amministrativa all’INPS (dal 1° gennaio 2010 necessariamente con modalità telematica: art. 20 d.l. 1.7.2009, n. 78, conv. in l. 3.8.2009, n. 102) a pena di improponibilità della successiva domanda giudiziaria, lo sviluppo dell’iter amministrativo è diverso, perché: a) il termine di centoventi giorni ex art. 7 l. n. 533/1973 rileva soltanto ai fini della maturazione del diritto agli accessori sui ratei della prestazione spettante (Cass., 6.4.2001, n. 5201); b) l’art. 4, co. 1, d.P.R. 21.9.1994, n. 698, fissa il termine di centottanta giorni per la conclusione delle «procedure di concessione e di pagamento delle provvidenze economiche»; c) dal 1° gennaio 2005 il contenzioso amministrativo è stato abolito dall’art. 42, co. 3, d.l. 30.9.2003, n. 269, conv. in l. 24.11.2003, n. 326; d) tale disposizione impone che la domanda giudiziaria sia «proposta, a pena di decadenza, … entro e non oltre sei mesi dalla data di comunicazione all’interessato del provvedimento emanato in sede amministrativa».
Per i trattamenti erogati dall’INAIL, ha natura officiosa l’accertamento che prende il via per effetto della denuncia di infortunio e di malattia professionale prescritta dagli artt. 52 e 53 d.P.R. 30.6.1965, n. 1124 (t.u. inf. lav.), mentre la procedibilità della domanda giudiziaria dipende dall’osservanza dell’iter contenzioso intermedio regolato dagli artt. 104 e 111 t.u. inf. lav.
Merita segnalazione l’estensione del «limite alla presentazione di nuove domande», già fissato dall’art. 11 l. 12.6.1984, n. 222, in relazione ai trattamenti di invalidità in regime assicurativo, «alle domande volte a ottenere il riconoscimento del diritto a pensioni, assegni e indennità comunque denominati spettanti agli invalidi civili nei procedimenti in materia di invalidità civile, cecità civile e sordomutismo», per effetto dell’art. 56, co. 2, l. n. 69/2009.
Prima dell’esercizio dell’azione giudiziaria finalizzata al pagamento degli accessori del credito in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie – cioè per l’introduzione delle controversie transitate nella competenza del giudice di pace (v. supra, § 1) – occorre «che siano decorsi 120 giorni da quello in cui l’attore ne abbia richiesto il pagamento alla sede tenuta all’adempimento a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, contenente i dati anagrafici, residenza e il codice fiscale del creditore, nonché i dati necessari per l’identificazione del credito» (art. 44, co. 4, d.l. n. 269/2003).
L’art. 44, co. 3, d.l. n. 269/2003, con riferimento alla fase di attuazione coattiva dei diritti, tutela anche gli enti previdenziali, disponendo che, prima del decorso del termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo, «il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né procedere alla notifica di atto di precetto» in danno delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici non economici. La violazione comporta la nullità del precetto (Cass., 28.10.2009, n. 22815).
L’art. 444 c.p.c. indica il tribunale competente per territorio, utilizzando tre criteri diversi. Il primo comma, per le cause in cui si discute di una prestazione previdenziale o assistenziale, fa riferimento alla «residenza dell’attore». Il secondo comma, per le cause concernenti gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dei marittimi, menziona «l’ufficio del porto di iscrizione della nave». Il terzo comma, per le cause intraprese dagli enti previdenziali al fine di perseguire le violazioni contributive dei datori di lavoro, privilegia «l’ufficio dell’ente». La regola basata sulla residenza dell’attore ha portata generale rispetto alle altre due, che sono applicabili soltanto alle controversie nominate nel secondo e nel terzo comma dell’art. 444 c.p.c.
Se si tiene presente che il principale criterio del processo civile ordinario, per le persone fisiche e giuridiche, è quello, opposto, della residenza (o domicilio o dimora) e della sede del convenuto (artt. 18 e 19 c.p.c.), mentre per le controversie lavoristiche conta il luogo di instaurazione ovvero di svolgimento del rapporto (art. 413 c.p.c.), si coglie con immediatezza lo scopo della norma del processo previdenziale di facilitare l’accesso alla giurisdizione, consentendo all’assicurato e all’assistibile di adire sempre il giudice circondariale territorialmente più vicino (Cass., S.U., 9.8.2010, n. 18480).
Tale favor lavoratoris comporta una deroga in primo grado alla disciplina del foro erariale (art. 25 c.p.c.), in quanto, per le controversie ex art. 442 c.p.c. nelle quali è parte una pubblica amministrazione che fruisce della rappresentanza e della difesa dell’Avvocatura dello Stato, non si verifica l’accentramento della trattazione su base distrettuale.
L’art. 46, co. 23, l. n. 69/2009 ha aggiunto la seguente regola al primo comma dell’art. 444 c.p.c.: «se l’attore è residente all’estero la competenza è del tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione l’attore aveva l’ultima residenza prima del trasferimento all’estero ovvero, quando la prestazione è chiesta dagli eredi, nella cui circoscrizione il defunto aveva la sua ultima residenza».
Questo tema attiene piuttosto al diritto sostanziale, concernendo l’an e il quantum della lievitazione del credito per effetto del decorso del tempo, ma, nel solco della scelta sistematica sottesa agli artt. 429, co. 3, c.p.c. e 150 disp. att. c.p.c., sovente ne discutono i processualisti.
La tutela contro il soddisfacimento in ritardo dei diritti derivanti da norme in materia di previdenza e assistenza, a conclusione di un percorso disseminato di interpretazioni contrastanti (v. C. cost., 29.12.1977, n. 162; C. cost., 7.4.1988, n. 408; C. cost., 12.4.1991, n. 156; C. cost., 27.4.1993, n. 196), si basa sulla norma speciale che domina la materia da circa venti anni: l’art. 16, co. 6, l. 30.12.1991, n. 412, secondo cui «gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli interessi legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda … l’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito».
Si tratta di un regime intermedio fra quello che garantisce al massimo livello i crediti lavoristici nel comparto privato, alla stregua delle norme del codice di rito dianzi indicate, e la tutela minima consistente nel c.d. differenziale inflazionistico di cui all’art. 1224 c.c., in particolare, co. 2, che resta la regolamentazione generale per il risarcimento dei danni nelle obbligazioni pecuniarie. In particolare, la disciplina dei crediti previdenziali e assistenziali adotta il criterio della debenza automatica degli accessori, senza la necessità che il creditore fornisca la prova dell’eventuale maggior danno derivante dalla svalutazione monetaria, ma non consente di calcolare gli interessi legali sul capitale rivalutato, imponendo l’assorbimento fra le due componenti del conteggio. Peraltro, le differenze fra i diversi regimi normativi concernenti gli accessori del credito si sono ormai ridotte per effetto del generale utilizzo della prova presuntiva del maggior danno (v. Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499).
Quanto alla decorrenza della maggiorazione per tal via spettante, il dies a quo è costituito dal primo giorno successivo allo spirare del termine dilatorio di centoventi giorni fissato dall’art. 7 l. n. 533/1973 (v. supra, § 2.2). La natura speciale dell’art. 16, co. 6, l. n. 412/1991 non è compatibile con le prestazioni pensionistiche integrative dovute dal datore di lavoro (Cass., 28.10.2008, n. 25889). L’art. 1, co. 783, l. 27.12.2006, n. 296, ha aggiunto la condizione della completezza dell’istanza amministrativa, dovendosi altrimenti avere riguardo, ai fini della maturazione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, «alla data del suo perfezionamento».
Norma di riferimento è l’art. 152 disp. att. c.p.c., che ha assunto un ruolo in questa materia per effetto del rifacimento apportato dall’art. 9 l. n. 533/1973 allo scopo evidente di rendere più accessibile il giudice previdenziale. La disposizione novellata ha svincolato, soltanto per «il lavoratore», il rischio del costo del processo, nel rapporto con la controparte pubblica, cioè «gli istituti di assistenza e previdenza», dalla causalità alla base del principio della soccombenza. L’effetto agevolatorio dell’esenzione degli assicurati e dei non abbienti (C. cost., 26.7.1979, n. 85) da tutte le spese processuali, nell’impianto del 1973, era ampio per via della notevole specificazione del canone binario della manifesta infondatezza e temerarietà, con riguardo all’iniziativa processuale del lavoratore, condizionante la condanna di quest’ultimo al rimborso dei costi del processo. La congiunzione fra le due componenti della norma richiedeva sia la manifesta infondatezza della domanda, consistente nell’assoluta mancanza di fondamento della stessa, rilevabile prima facie, sia la temerarietà della pretesa; con l’ulteriore precisazione che la parte privata incorreva in tale ultimo vizio se era in malafede o agiva con colpa grave (Cass., 23.12.1999, n. 14480); ma talvolta la valutazione è stata più rigorosa, essendosi basata soltanto sulla colpevole leggerezza nell’introduzione della lite (Cass., 13.4.2006, n. 8672).
Dopo traversie significative del suo ruolo centrale nella gestione del contenzioso previdenziale e assistenziale (l’abrogazione per effetto dell’art. 4 d.l. 19.9.1992, n. 384, conv. in l. 14.11.1992, n. 438; l’eliminazione dall’ordinamento di tale norma abrogatrice a opera di C. cost., 13.4.1994, n. 134; la rinnovata vigenza della regola dell’esenzione dal carico delle spese processuali, ritenuta da Cass., 21.9.1995, n. 10017, e dalla giurisprudenza successiva), l’art. 152 disp. att. c.p.c. è stato radicalmente trasformato alla stregua del canone oggettivo consistente nella capacità reddituale dell’assistibile. In particolare, l’art. 42, co. 11, d.l. n. 269/2003, conv. in l. n. 326/2003, ha sancito che la parte privata soccombente «non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari quando risulti titolare, nell’anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall’ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l’importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115». In applicazione del d.m. 2.7.2012, che ha fissato la soglia di 10.766,33 euro per l’ammissione al gratuito patrocinio, l’esenzione dal pagamento delle spese processuali in caso di soccombenza, attualmente, tutela gli assistibili titolari di un reddito personale annuo non superiore a 21.532,66 euro. Nel caso di calcolo del reddito familiare, l’art. 92 t.u. spese di giustizia sancisce che «i limiti di reddito indicati dall’articolo 76, comma 1, sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi».
Per fruire del beneficio, l’art. 152 disp. att. c.p.c. richiede all’assistibile di formulare «apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell’atto introduttivo» nonché di impegnarsi «a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell’anno precedente». È necessaria sia la «deduzione» sia la «prova (anche mediante dichiarazione sostituiva) della titolarità, nell’anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile inferiore alla soglia specificata» dalla legge (Cass., 16.4.2009, n. 9081); peraltro, l’autocertificazione del reddito è destinata a svolgere nel processo soltanto il ruolo che l’art. 42, co. 11, d.l. 269/03, «disposizione eccezionale», le attribuisce ai fini della decisone del giudice circa il regime delle spese processuali fra i litiganti, esclusa l’idoneità a sostituire la prova del requisito reddituale (Cass., 3.5.2006, n. 10203). «Deve ritenersi l’efficacia della dichiarazione sostitutiva che, ancorché materialmente redatta su foglio separato, sia espressamente richiamata nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e ritualmente prodotta con il medesimo» (Cass., 12.5.2009, n. 10875).
«A proposito della funzionalità della disposizione», il parametro reddituale è alquanto elevato, con la conseguenza che «la categoria dei non abbienti, da tenere al riparo dall’esborso delle spese di causa, risulta piuttosto capiente, il che non è criticabile in sé – anzi, alla stregua dei principi costituzionali, la scelta del legislatore può essere considerata meritoria – ma pregiudica la capacità di filtro della norma riformata» (Gentile, S.L., Contenzioso previdenziale in piena e spese processuali: dall’argine cedevole della pretestuosità della lite all’inefficiente sbarramento reddituale, in Foro it., 2006, I, 3400). La compensazione delle spese rimane, peraltro, un’opzione compatibile con la specifica disciplina in esame. Il vigente art. 152 disp. att. c.p.c. contempla la possibilità di porre comunque le spese processuali a carico della parte privata soccombente, nel caso di lite temeraria ai sensi dell’art. 96, co. 1, c.p.c., per avere «agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave».
L’art. 52, co. 6, l. n. 69/2009 ha ulteriormente ritoccato l’art. 152 disp. att. c.p.c., aggiungendovi la regola che individua nel valore della prestazione dedotta in giudizio il limite entro cui deve essere contenuto l’ammontare delle spese processuali spettanti e liquidabili alla parte privata vittoriosa. «Si tratta evidentemente di una norma di forte impatto, che, con opzione davvero innovativa, è finalizzata a stroncare il fenomeno delle liti previdenziali bagatellari» (Gentile, S.L., Il processo, cit., 618).
Una norma immanente soltanto alle controversie previdenziali e assistenziali nelle quali venga in rilievo il c.d. requisito sanitario, cioè l’accertamento della residua capacità lavorativa dell’assistibile, si rinviene nell’art. 149 disp. att. c.p.c. Tale disposizione, in contrasto con il principio della tendenziale insensibilità della lite alle circostanze sopravvenute, impone di estendere la ricognizione giudiziale ai fatti peggiorativi dello stato di salute dell’assistibile verificatisi dopo l’introduzione del giudizio.
La forza del criterio decisionale in esame – finalizzato alla giustizia sostanziale e all’economia processuale – si apprezza nel confronto con le scansioni e le preclusioni tipiche del rito previdenziale (e lavoristico): soprattutto quelle contenute negli artt. 443, 420 e 437 c.p.c., che rimangono bypassate (Poli, G.G., L’art. 149 disp. att. c.p.c. in materia di infortuni sul lavoro: infermità sopravvenute nel corso del giudizio e deducibilità in appello, in Foro it., 2007, I, 2553, nota a Cass. 9.2.2006, n. 2835); ma uno sbarramento non valicabile è stato talvolta individuato nella conclusione dell’istruttoria in primo grado (Cass., 2.2.2009, n. 2577).
L’ampia portata del principio ex art. 149 disp. att. c.p.c. ne consente l’utilizzo a prescindere dall’organo giurisdizionale competente, riferendosi anche alla previdenza dei pubblici dipendenti (C. conti, sez. giur. Sicilia, 6.3.2008, n. 79).
Attiene alla gestione di due o più controversie la disciplina introdotta dall’art. 20 d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133, concernente soltanto le cause previdenziali e assistenziali che «frazionano un credito relativo al medesimo rapporto» e consistente nell’obbligo di procedere d’ufficio alla riunione di tali controversie (co. 7), a scanso della sanzione processuale della «improcedibilità delle domande successive alla prima» (co. 8). «In conseguenza, con l’entrata in vigore del d.l. 112/2008, coesistono più regimi in materia di riunione delle cause civili connesse, rintracciabili in altrettante sedi normative, atteso che le disposizioni in commento non apportano una novella destinata a confluire nel testo dell’art. 151 disp. att. c.p.c. Riepilogando: 1) l’art. 274 c.p.c. si applica alle controversie da trattare con il rito ordinario dinanzi al tribunale; 2) la regolamentazione ex art. 151 disp. att. c.p.c. concerne tutte le cause dinanzi al giudice di pace (art. 7 c.p.c.) e di lavoro, nonché quelle previdenziali e assistenziali che non «frazionano un credito relativo al medesimo rapporto»; 3) alle controversie di cui all’art. 442 c.p.c. caratterizzate da tale nuovo requisito, infine, è riservato il trattamento più rigoroso introdotto con il d.l. 112/2008. Ne deriva un quadro piuttosto articolato, per il numero delle opzioni coesistenti e per la disomogeneità dei criteri attuativi …» (Gentile, S.L., Connessione, serialità e riunione delle controversie previdenziali e assistenziali, in Commentario alla legge n. 133/2008. Lavoro privato, pubblico e previdenza, a cura di M. Miscione e D. Garofalo, Assago, 2009, 320). La riunificazione investe anche la fase di attuazione del diritto, in quanto «il giudice dichiara la nullità dei pignoramenti successivi al primo in caso di proposizione di più azioni esecutive» (art. 20, co. 8, d.l. n. 112/2008).
Sennonché l’efficacia operativa dell’istituto processuale in esame risulta minima. In primo luogo, per la difficoltà di qualificazione del presupposto applicativo del frazionamento di un credito relativo al medesimo rapporto (opzione processuale vietata all’attore, ha statuito la fondamentale Cass., S.U., 15.11.2007, n. 23726), dovendosi tenere conto che «altro è il rapporto di credito, altro è il rapporto prestazionale, in seno al quale sovente non è pretestuoso distinguere i crediti che maturano anno per anno – come avviene, per esempio, per l’indennità di disoccupazione in agricoltura – in relazione al ripetersi di situazioni protette fra loro analoghe, ma da accertare alla stregua di fatti storici in sequenza» (Gentile, S.L., Connessione, cit., 328). «Il nucleo fondamentale della questione sta nell’accertare se ed in che limiti, a causa petendi invariata, ovvero permanendo inalterata la base fattuale dedotta a fondamento della pretesa creditoria, l’enucleazione di una pluralità di petita mediati configuri una pluralità di autonomi diritti o, alternativamente, il frazionamento di un unico diritto» (Lombardi, A., La questione della frazionabilità giudiziale del credito unitario, in Giur. mer., 2010, 2724).
Soprattutto è problematica l’attuazione in concreto della modalità di cui all’art. 20, co. 9, d.l. n. 112/2008, secondo cui «il giudice, ove abbia notizia che la riunificazione non è stata osservata, anche sulla base dell’eccezione del convenuto, sospende il giudizio e l’efficacia esecutiva dei titoli eventualmente già formatisi e fissa alle parti un termine perentorio per la riunificazione a pena di improcedibilità della domanda». Infatti, così configurata, la procedura di riunificazione è difficilmente conciliabile sia con la regola primaria dell’officiosità dell’intervento del giudice ai sensi dell’art. 151 disp. att. c.p.c. (posta dal co. 7) sia con la declaratoria ex officio della «improcedibilità delle domande successive alla prima» (come vuole il co. 8).
La soluzione del problema risulta proibitiva perchè la riunificazione concerne controversie tutte nella competenza dello stesso ufficio giudiziario.
«Da questo presupposto non ci si può discostare, perché la nuova normativa costituisce l’applicazione più severa della riunione ai sensi dell’art. 151 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, il quale, a sua volta, rappresenta – come si è detto – una regola speciale della medesima riunione, ai sensi dell’art. 274 del codice, delle cause connesse che pendono davanti allo stesso giudice» (Gentile, S.L., Connessione, cit., 331, sul presupposto dell’unicità del criterio principale di competenza per territorio basato sulla residenza dell’assicurato o dell’assistibile; in contrario, cfr. De Angelis, L., Manovra economica del 2008, efficienza del processo del lavoro, abuso del processo, in www.lex.unict.it).
La l. 4.11.2010, n. 183 (c.d. collegato lavoro), ha previsto: a) l’estensione ai pignoramenti mobiliari delle disposizioni già vigenti (si veda l’art. 14, co. 1 bis, d.l. 31.12.1996, n. 669, conv. in l. 28.2.1997, n. 30) per i pignoramenti presso terzi dei crediti degli enti e degli istituti esercenti forme di previdenza e di assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale (art. 44); b) l’intervento del giudice – mediante decreto, su istanza della parte interessata – ai fini della dichiarazione di esecutività del verbale di conciliazione di cui all’art. 11, co. 3 e 4, d.lgs. 23.4.2004, n. 124, avente come oggetto anche «i versamenti dei contributi previdenziali e assicurativi, da determinarsi secondo le norme in vigore, riferiti alle somme concordate in sede conciliativa» (art. 38); c) una maggiore articolazione dell’art. 13 d.lgs. n. 124/2004, concernente gli accessi ispettivi, la verbalizzazione unica delle violazioni accertate a carico del datore di lavoro, in particolare, contributive, nonché il potere di diffida e la facoltà di sanatoria entro trenta giorni dalla notificazione (art. 33).
Altre disposizioni innovative si rinvengono nell’art. 38 d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. in l. 15.7.2011, n. 111. In particolare: a) l’estinzione di diritto, «con riconoscimento della pretesa economica a favore del ricorrente», dei processi in materia previdenziale in cui sia parte l’INPS, di valore non superiore a 500,00 euro e pendenti in primo grado alla data del 31 dicembre 2010; estinzione dichiarata dal giudice mediante decreto, anche d’ufficio, con l’effetto di lasciare le spese del processo a carico delle parti che le hanno anticipate; b) un ulteriore contenuto obbligatorio del ricorso introduttivo, «a pena di inammissibilità», consistente nella «dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio» e funzionale all’applicazione della regola circa la corrispondente limitazione dell’importo delle spese processuali a vantaggio della parte privata vittoriosa (v. supra, § 2.5), sicché la nuova regola è confluita nell’art. 152 disp. att. c.p.c.; c) il «pagamento delle somme dovute a titolo di spese, competenze e altri compensi in favore dei procuratori legalmente costituiti esclusivamente attraverso l’accredito delle medesime sul conto corrente degli stessi», previa richiesta a mezzo raccomandata o posta elettronica certificata e con dilazione del successivo eventuale precetto a centoventi giorni dopo; d) l’applicazione della decadenza previdenziale per le prestazioni assicurative erogate dall’INPS, prevista dall’art. 47 d.P.R. 30.4.1970, n. 639, «anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito», con decorrenza del termine «dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte».
Riguarda anche il processo previdenziale la fine del regime di gratuità ex art. 10 l. n. 533/1973, che si deve all’art. 37, co. 6, d.l. n. 98/2011. Per effetto di tale norma, devono sostenere un costo, a titolo di contributo unificato per l’iscrizione a ruolo della controversia, «le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, superiore a tre volte l’importo» per l’ammissione al gratuito patrocinio. Ai sensi dell’art. 13, co. 1, t.u. spese di giustizia, l’ammontare del contributo è pari a 37,00 euro.
La maggiore novità apportata dall’art. 38 d.l. n. 98/2011 consiste in un accertamento tecnico preventivo – regolato dal nuovo art. 445 bis c.p.c., in vigore dal 1° gennaio 2012 – a pena di improcedibilità delle domande in materia di «invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222», «per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere». Nel caso di non contestazione delle parti e di adeguatezza del riscontro peritale (altrimenti il giudice può disporre la rinnovazione dell’indagine per il tramite di un altro consulente), la procedura si conclude con l’omologazione circa «l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico» e la regolamentazione delle spese processuali. A tal fine, il giudice emette un decreto «non impugnabile né modificabile», dopodiché «gli enti competenti … provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni». Se, invece, non si perfeziona un «accordo», la parte dissenziente deve introdurre il giudizio entro trenta giorni, depositando un ricorso contenente «a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione».
La riforma è destinata a influire molto sul funzionamento delle sezioni lavoro. I rilievi statistici indicano che in alcune sedi circa la metà delle sopravvenienze in materia di previdenza e di assistenza devono essere trattate con il procedimento obbligatorio di atp.
A tanta rilevanza, però, non corrisponde la completezza che sarebbe stata necessaria, come è dimostrato dall’ampio dibattito in corso sull’art. 445 bis c.p.c. Le questioni più discusse riguardano: il rapporto tra il procedimento preventivo obbligatorio e la maturazione della decadenza dal diritto; la sorte della controversia ordinaria iniziata senza il rispetto della condizione di procedibilità costituita dall’atp; l’esito della procedura nell’ipotesi che la parte dissenziente, dopo avere depositato l’atto scritto di contestazione delle conclusioni del consulente tecnico, non si attivi ai fini dell’introduzione della successiva controversia prevista dal co. 6; l’oggetto di tale giudizio; il controllo sulla statuizione circa le spese del procedimento contenuta nel decreto di omologa; il rischio di mutilazione della potestà giurisdizionale, come conseguenza della cognizione limitata al requisito sanitario, che va coniugata con la necessità del rilievo di ufficio almeno di alcune irregolarità processuali e carenze sostanziali, nonché per effetto della natura del provvedimento tipicamente conclusivo dell’atp, cioè il decreto di omologa, incompatibile con l’ipotesi che il giudice non condivida l’indicazione del consulente e ritenga di avere gli elementi per decidere in disaccordo con il suo ausiliario. Per una disamina delle soluzioni prospettate in via di interpretazione, si deve necessariamente rinviare ai contributi sull’art. 445 bis c.p.c. menzionati nella bibliografia.
Artt. 429, 442-447, 653 c.p.c.; artt. 146-149, 150-152 disp. att. c.p.c.; artt. 46, co. 22 e 23, 52, co. 6, 56, co. 2, e 58, co. 1, l. 18.6.2009, n. 69; art. 7, co. 3, d.P.R. 30.9.1999, n. 377; art. 13 r.d. 12.7.1934, n. 1214; art. 7, co. 3, n. 3 bis, c.p.c.; d.lgs. 1.9.2011, n. 150; artt. 7 e 9 l. 11.8.1973, n. 533; artt. 46-47 l. 9.3.1989, n. 88; art. 20 d.l. 1.7.2009, n. 78, conv. in l. 3.8.2009, n. 102; art. 4, co. 1, d.P.R. 21.9.1994, n. 698; artt. 42, co. 3 e 11, e 44, co. 4, d.l. 30.9.2003, n. 269, conv. in l. 24.11.2003, n. 326; artt. 52, 53, 104 e 111 d.P.R. 30.6.1965, n. 1124; art. 11 l. 12.6.1984, n. 222; art. 16, co. 6, l. 30.12.1991, n. 412; art. 1, co. 783, l. 27.12.2006, n. 296; art. 4 d.l. 19.9.1992, n. 384, conv. in l. 14.11.1992, n. 438; art. 20 d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133; artt. 33, 38 e 44 l. 4.11.2010, n. 183; artt. 37, co. 6, e 38 d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. in l. 15.7.2011, n. 111; art. 47 d.P.R. 30.4.1970, n. 639; art. 13 d.P.R. 30.5.2002, n. 115.
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