Processo tributario. Impugnabilita dell'interpello disapplicativo
Nell’ambito degli interpelli, la risposta negativa fornita all’istanza di interpello disapplicativo assume una funzione del tutto peculiare, in quanto sembra essere l’unica via “legale” attraverso la quale il contribuente può sottrarsi all’applicazione di una norma che in funzione antielusiva limiti sue posizioni vantaggiose, dimostrando che in punto di fatto effetti elusivi non possono verificarsi. La giurisprudenza è approdata a riconoscere l’impugnabilità davanti al giudice tributario, ma la qualificazione dell’atto e soprattutto gli effetti della sentenza e le ricadute del giudizio sui comportamenti successivi del contribuente restano ancora da chiarire in modo soddisfacente.
L’interpello disapplicativo nasce nel 1997, quando nel d.P.R. 29.9.1973, n. 600 viene introdotta la norma antielusiva di carattere quasi generale, l’art. 37 bis: nel co. 8 di tale disposizione viene prevista la possibilità di chiedere con istanza la disapplicazione di norme che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitino detrazioni, deduzioni, crediti d’imposta, o «altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario».
L’istanza deve essere sorretta dalla rappresentazione di ragioni, comprovate, dalle quali si ricavi che gli effetti elusivi previsti e combattuti dalla disposizione «non potevano verificarsi», e deve essere presentata alla direzione regionale delle entrate competente per territorio. Il co. 8 contiene poi un rinvio ad un decreto ministeriale regolamentare, n. 2591 emanato il 19.6.1998. Per quello che qui interessa, il co. 4 del d.m. citato prevede che la determinazione del direttore regionale sia comunicata all’istante con raccomandata con avviso di ricevimento, il co. 6 fissa un termine non superiore a novanta giorni dalla presentazione dell’istanza per comunicare le determinazioni, con «provvedimento che è da ritenersi definitivo». Quando, nel 2000, lo Statuto dei diritti del contribuente, l. 27.7.2000, n. 212, introduce all’art. 11 il diritto di interpello “ordinario”, di carattere interpretativo, diventa comune anche per l’istanza disapplicativa di cui al co. 8 dell’art. 37 bis la qualifica di interpello, e propriamente di interpello disapplicativo, che differenzia l’istituto dall’interpello “speciale” c.d. “antielusivo” di cui all’art. 21 della l. 30.12.1991, n. 413. In estrema sintesi, dal 2000 convivono diverse tipologie di interpello, tra le quali l’interpello ordinario ha esclusiva funzione interpretativa, poiché mira a individuare l’interpretazione di una norma rispetto ad un ben preciso adempimento tributario riferibile ad un determinato contribuente, quello antielusivo mira ad ottenere una valutazione, in termini di elusività o meno, di comportamenti, atti o negozi che possono rientrare – tra l’altro – nell’ambito della disciplina della norma antielusiva di carattere quasi generale (art. 37 bis), ed infine l’interpello disapplicativo che, pur previsto dall’art. 37 bis, non dovrebbe riguardare il campo di applicazione di tale disposizione, ma l’applicabilità di specifiche norme antielusive, ed in particolare di quelle che negano o limitano detrazioni, deduzioni crediti o altre posizioni di vantaggio per il contribuente, per le quali il contribuente possa preventivamente dimostrare l’effettiva assenza degli effetti elusivi che le singole disposizioni intendono prevenire2.
1.1 L’interpello disapplicativo e le sue peculiarità
L’interpello disapplicativo si è sempre presentato con caratteristiche diverse da quelle degli altri interpelli, in quanto prescinde, a ben vedere, da una situazione di incertezza (interpretativa ovvero in ordine alla liceità di comportamenti programmati dal contribuente) e presuppone invece la sussistenza di condizioni che giustifichino la disapplicazione di una norma che, altrimenti, è perfettamente applicabile alla situazione del contribuente istante. Quest’ultimo, in buona sostanza, chiede di essere dispensato, di essere sottratto al campo di applicazione di una disposizione che dovrebbe necessariamente essere applicata al suo caso: e per ottenere risposta favorevole, dimostra che se fosse applicata al suo caso la norma produrrebbe effetti iniqui e di sostanziale violazione delle regole tributarie, poiché verrebbe applicata, pur avendo esclusiva funzione di prevenzione di abusi, ad un’ipotesi nella quale ogni abuso sarebbe da escludere3. È evidente che per queste sue caratteristiche l’interpello in esame, applicabile anche ad una casistica di grande rilevanza e frequenza quale quella delle società di comodo o non operative, pone un problema di impugnabilità molto meno agevole da risolvere, rispetto agli altri interpelli tipizzati dall’art. 11 della l. n. 212/2000 e dall’art. 21 della l. n. 413/1991: se infatti per questi ultimi è agevole concludere nel senso che la risposta dell’amministrazione non è affatto vincolante per il contribuente, il diniego di disapplicazione riconduce in sostanza la situazione dell’istante a quella di tutti gli altri soggetti passivi destinati a vedere applicata la norma: escludendo la deroga ad personam, fissa di fatto l’obbligo del contribuente di applicare la norma. È vero che quest’ultimo può non adeguarsi: ma altro è il caso del contribuente che non si adegua in una situazione di dubbio interpretativo, o di dubbia elusività del proprio programma negoziale, e altro è sostenere che un contribuente che si dichiara egli stesso nell’istanza certamente compreso nell’ambito di una norma antielusiva specifica abbia diritto di sottrarsi, in mancanza di un’autorizzazione amministrativa a farlo, all’applicazione della stessa. Ciò, perlomeno se il discorso rimane nel limite del fisiologico: nel senso che, se decide di disapplicare la norma senza che l’amministrazione abbia consentito, la sua scelta di non adeguamento appare assimilabile a quella di un contribuente che decida di evadere ritenendo troppo alta la pressione fiscale.
1.2 L’evoluzione normativa e giurisprudenziale della giurisdizione tributaria
L’idea che il diniego di disapplicazione neghi al contribuente la via d’uscita dal campo di applicazione della norma che gli impone una restrizione sproporzionata agli effetti della sua situazione, e pertanto confermi un vincolo giuridico che limita i vantaggi riconducibili a detrazioni, deduzioni, crediti e altri vantaggi, si imbatte però, dall’epoca in cui l’interpello disapplicativo veniva disciplinato e fino al 2005, in due ostacoli che costituiscono i lati di una stessa medaglia: la giurisdizione tributaria è concepita come limitata alle liti riconducibili all’an e al quantum dell’obbligazione tributaria, e dunque sembra escludere dalla tutela che offre, provvedimenti sostanzialmente discrezionali, quali quelli di “dispensa”4; la conferma testuale viene ricavata dal secondo ostacolo, costituito dall’elenco, ritenuto tassativo o quasi, di atti impugnabili (art. 19 d.lgs. 31.12.1992, n. 546). In tale contesto interpretativo, si ipotizza piuttosto che l’impugnabilità del diniego debba avvenire davanti al giudice amministrativo, trattandosi di un interesse legittimo non tutelato dalla giurisdizione tributaria.
L’evoluzione giurisprudenziale avviata dalla Corte di cassazione nel 2005, traendo spunto dall’avvenuta generalizzazione della giurisdizione tributaria prevista dal legislatore a decorrere dal 2002, priva di ogni fondamento tali pregiudizi, e pone le premesse per ricondurre la giurisdizione sul diniego alle commissioni tributarie. Ma non solo. Nello stesso contesto giurisprudenziale, l’art. 19, con il suo scarno elenco di atti impugnabili, non è più considerato come una disposizione utile a definire, come accadeva in passato, la giurisdizione delle commissioni (in senso verticale, ovvero indicativo dei limiti “interni”), venendo ormai intesa come disposizione cedevole, la cui lettura rigida, incoraggiata dal tenore letterale, è superata dall’esigenza di assicurare pienezza alla giurisdizione delle commissioni tributarie, facendo confluire in quest’ultima ogni lite occasionata da atti impositivi che abbiano attitudine a definire aspetti rilevanti e autonomi delle fasi attuative dei tributi. Diventa così autonomamente e immediatamente impugnabile ogni atto che possa essere assimilato, per funzione ed effetti, agli atti impugnabili espressamente elencati nell’art. 19; se l’assimilazione è forzata, ma viene ad assicurare tutela in momenti in cui sarebbe pregiudizievole un differimento della stessa, essa deve essere compiuta, secondo la Suprema Corte deputata ad assicurare la nomofilachia.
Già con la sentenza 21.12.2004, n. 23731, la Suprema Corte aveva esaminato una controversia nata da un ricorso contro interpello disapplicativo, e aveva deciso direttamente “il merito” della questione, senza affatto porsi il problema dell’impugnabilità dell’atto, che probabilmente non era stato portato alla sua attenzione.
Dopo il formarsi degli indirizzi evolutivi descritti in precedenza (supra, § 1.2), era prevedibile che, alla prima occasione, la Corte si sarebbe orientata nel senso di affermare l’autonoma impugnabilità del diniego opposto all’istanza disapplicativa. La sentenza si è però avuta solo nel 2011. Nel frattempo, tuttavia, con la sentenza 26.1.2009, n. 414, la IV sezione del Consiglio di Stato aveva posto un altro tassello nel senso della competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie, rilevando tra l’altro come la qualificazione della situazione giuridica del ricorrente come interesse legittimo «non è ex se sufficiente ad attribuire la relativa controversia alla cognizione del giudice amministrativo».
Finalmente, con la sentenza 15.4.2011, n. 8663, la Suprema Corte, muovendo dai discutibili presupposti della esistenza di un diritto soggettivo, e di una assenza di discrezionalità da parte dell’amministrazione – che, in presenza di provata assenza di ricadute elusive, dovrebbe necessariamente concedere il diniego – ha affermato l’autonoma impugnabilità dell’atto: «la disapplicazione della norma antielusiva sfavorevole, ricorrendone le condizioni, consente al contribuente di sottrarsi agli effetti pregiudizievoli della normativa in questione, normalmente obbligatoria per la generalità degli utenti, realizzando una deroga al trattamento generale a favore del contribuente medesimo, ed in tal modo concretando una ipotesi tipica di agevolazione fiscale. Se infatti la agevolazione fiscale si definisce tecnicamente un trattamento preferenziale in campo tributario condizionato alla esistenza di determinati presupposti di fatto, non è revocabile in dubbio che il trattamento concesso al titolare di operazione dimostrata come non elusiva rientri pienamente in tale categoria». Assimilato l’interpello a vero e proprio diniego di agevolazione, la sentenza ne ha tratto la conseguenza di un onere ineludibile di impugnativa, che renderebbe vano, in applicazione della regola dei vizi propri, la deduzione degli stessi motivi in occasione di successivi atti impositivi: dinieghi di rimborso, per i contribuenti che si conformassero al diniego, applicando la norma antielusiva, sottoponendosi al conseguente maggior onere, e poi presentassero istanza di rimborso, e atti di accertamento per coloro che scegliessero, dopo il diniego, di contravvenirvi disapplicando autonomamente, rischiando anche le sanzioni, la norma antielusiva.
Quest’ultima parte del principio di diritto appare da ultimo rimeditata dalla recentissima sentenza 5.10.2012, n. 17010. In essa, il Collegio in primo luogo dissente dalla equiparazione tra diniego di disapplicazione e diniego di agevolazione, negando quindi che il primo possa essere considerato impugnabile già in base all’elenco di cui all’art. 19: correttamente osservando che in via interpretativa non è possibile estendere il perimetro applicativo di disposizioni che comminano decadenze e preclusioni, la Corte ritiene che il diniego non sia necessariamente impugnabile in via immediata, ma possa esserlo in base alla scelta del contribuente, che ritenga utile procedere ad una verifica giudiziale, in modo da informare ad essa l’adempimento dei propri doveri fiscali. Si tratterebbe quindi di un caso di scuola nel quale diventa decisivo l’indirizzo giurisprudenziale circa la possibile estensione della impugnabilità, in via interpretativa, ad atti non espressamente menzionati nell’art. 19, rispetto ai quali emerga un interesse ad agire concreto attuale e meritevole di tutela. Secondo quest’ultima sentenza, invero, il diniego non sarebbe mai idoneo a fondare preclusioni definitive, in quanto suscettibile di ripensamenti da parte degli uffici, in base a miglior esame della situazione, e non vincolerebbe il contribuente ad adeguarsi alle limitazioni previste dalla norma da disapplicare5.
2.1 Riflessi sul processo tributario
Il quadro, come appare evidente, denota segnali di miglioramento, se non altro sotto il profilo della giurisdizione, ma appare tutt’altro che soddisfacente, sotto il profilo di un’acquisita consapevolezza giurisprudenziale delle giurisdizioni di vertice su natura ed effetti dell’atto6. Nessuna delle sentenze, ad esempio, affronta il problema delle conseguenze cui va incontro il contribuente che ometta di presentare l’istanza disapplicativa. L’ultima sentenza appare come quella maggiormente conforme all’assetto complessivo della giurisprudenza, ma né essa, né quella precedente del 2011, sembrano sufficientemente approfondire la portata dell’atto. Si tratta, come è evidente, di un contrasto strutturale sulla visione del processo tributario e sulla regola fondamentale di accesso ad essa, che appare ancora largamente in corso di maturazione, come conferma l’assenza di spunti sul problema del silenzio, che appare trattato solo nella circ. n. 7 del 2009, nel senso della inapplicabilità sia delle norme sulla impugnazione del silenzio rifiuto – che nel processo tributario è formalmente prevista solo rispetto all’istanza di rimborso – sia di quelle, tratte dalla l. 7.8.1990, n. 241, sul silenzio assenso.
L’insoddisfacente elaborazione del diniego disapplicativo spiega i suo effetti in primo luogo sul processo: tutti gli aspetti strutturali della lite presentano dubbi quando oggetto del giudizio è l’atto in questione.
A partire dalla facoltatività o meno dell’impugnazione, a favore della quale milita la considerazione che le indicazioni in calce all’atto non indicano di regola, come previsto dall’art. 19, co. 2, d.lgs. n. 546/1992 per gli atti autonomamente impugnabili, modi e tempi di proposizione del ricorso, creando i presupposti, comunque, per richiedere fondatamente una rimessione in termini. Ma si pensi alla impugnabilità del silenzio, ai motivi deducibili, alla portata del giudicato.
3.1 Riflessi del giudizio sul comportamento del contribuente in sede di adempimenti tributari
A parte i dubbi sugli istituti tipicamente processuali, l’interrogativo di fondo che non appare ancora affrontato adeguatamente concerne l’utilità pratica che una controversia giurisdizionale, con i suoi tempi minimi di durata, può avere rispetto ad un aspetto, quello della ineludibile applicazione della norma antielusiva, che per definizione il contribuente che voglia tenere comportamenti conformi al diritto, ha necessità di definire in tempi brevi. Impugnato il diniego, quale comportamento deve tenere il contribuente? Probabilmente, è tenuto ad applicare, nelle more del riconoscimento della disapplicazione, la norma con effetti antielusivi, la quale è formulata in termini generali e per definizione è destinata a mietere vittime innocenti, proprio perché tarata sullo standard dei comportamenti dei contribuenti. Il riconoscimento, con sentenza passata in giudicato, che vi erano le condizioni per non applicare nel caso specifico quella disposizione, restringendone eccezionalmente il campo di applicazione altrimenti generale, determinerà poi un diritto al rimborso, se quella norma è stata comunque applicata e se il diniego non è stato sospeso. Ci si può chiedere poi, da una prospettiva rovesciata, quale sorte abbiano eventuali atti impositivi, applicativi della norma da disapplicare, che non siano stati tempestivamente impugnati. Le perplessità sono tali e tante, da indurre ad una seria riflessione: pur giustificata tecnicamente, soprattutto in una prospettiva che non ritenga altrimenti consentita, in mancanza di “dispensa”, la mancata applicazione della norma a finalità antielusiva7, l’impugnazione dell’interpello disapplicativo si imbatte in tante incertezze, nel rapporto tra processo e progressione della lite, da indurre a riconsiderare la prospettiva tradizionale di una scelta tra rischio di illecito, con onere di impugnazione degli atti impositivi conseguenti, e piena compliance, seguita dalla tradizionale, rassicurante istanza di rimborso: là dove “il diritto” alla disapplicazione, ovvero l’illegittimità dell’interpello che quel diritto neghi, vengono entrambi supportati dalla rivendicazione del diritto a sottrarsi all’applicazione di una norma destinata ad applicarsi a tutte le situazioni da essa previste, senza esclusione alcuna.
1 Occorre tuttavia ricordare che per le imprese di più rilevante dimensione è stata modificata e unificata la disciplina di presentazione delle istanze di interpello, secondo quanto segnala il seguente passo della circ. n. 7/E/2009 dell’Agenzia delle entrate: «L’art. 27, co. 12, del d.l. 29.11.2008, n. 185 ha introdotto novità in tema di gestione degli interpelli presentati dalle imprese definite di più rilevante dimensione. In quest’ultima categoria di soggetti vanno ricomprese, ai sensi del co. 10 dello stesso art. 27, le imprese “che conseguono un volume d’affari o ricavi non inferiori a trecento milioni di euro. Tale importo è gradualmente diminuito fino a cento milioni di euro entro il 31 dicembre 2011. …”. In base alla nuova disciplina dettata dal citato co. 12 dell’art. 27 “Le istanze di interpello di cui all’articolo 11, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212, all’articolo 21, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, e all’articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 600, proposte dalle imprese indicate nel precedente comma 10 (cd. “imprese di più rilevante dimensione”, n.d.r.) sono presentate secondo le modalità di cui al regolamento di cui al decreto del Ministro delle finanze 13 giugno 1997, n. 195,…”».
2 Su questi aspetti, Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, Milano, 2007.
3 Emblematico il caso deciso da Cass., 21.12.2004, n. 23731, che accoglie le tesi del contribuente – senza affatto occuparsi del problema preliminare dell’impugnabilità del diniego disapplicativo – perché le misure adottate dal contribuente stesso impedivano qualsiasi uso extraaziendale dei telefoni cellulari in uso ai dipendenti dell’impresa, rendendo così iniqua l’applicazione delle norme che limitano deduzione e detrazione in ordine alle spese relative alla telefonia mobile.
4 La ragione per cui appare preferibile a chi scrive qualificare l’interpello disapplicativo come un atto di dispensa, è desumibile ad es. dalle pagine di un classico, quale Virga, P., Il provvedimento amministrativo, Milano, 1972, 72, il quale definisce tali provvedimenti discrezionali come quelli in grado, in base a una espressa previsione di legge, di esonerare il destinatario dall’adempimento di un obbligo o dalla osservanza di una prescrizione imposta dalla legge in via generale, apprezzando le particolari circostanze di fatto che rendano opportuno l’esonero.
5 Alcuni passi della motivazione meritano di essere riportati: «L’istanza, infatti, è obbligatoria; deve contenere la descrizione compiuta della fattispecie concreta; deve essere corredata della documentazione rilevante; è soggetta a richieste istruttorie; è rivolta ad ottenere un atto dell’amministrazione, sia esso da intendere come una sorta di “autorizzazione alla disapplicazione” della specifica norma antielusiva in questione, sia, piuttosto, come sembra più corretto anche in base alla disciplina della materia, quale atto, esso stesso, di esercizio del potere di disapplicazione (che spetta all’amministrazione e non al contribuente); le “determinazioni” del direttore regionale delle entrate sono comunicate al richiedente mediante servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, con “provvedimento” “da ritenersi definitivo” (d.m. n. 259 del 1998, art. 1 in specie co. 4 e 6). In sostanza, la risposta all’interpello, positiva o negativa, costituisce il primo atto con il quale l’amministrazione, a seguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica, e con particolari garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, relativa ad un determinato rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata. Non può, pertanto, negarsi che il contribuente, destinatario della risposta, abbia l’interesse, ex art. 100 c.p.c., ad invocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto in esame. 4.5. Occorre, infine, chiarire, in coerenza con la ritenuta mera facoltà d’impugnazione, le ragioni in virtù delle quali (oltre al dato normativo della non riconducibilità dell’istituto in esame in alcuna delle “voci” elencate nel d.lgs., 546 del 1992, art. 19, ed anzi in conformità con la sua ratio) l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non pregiudica la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi. Ciò deriva dal fatto che tale atto, in assenza di espresse previsioni contrarie, è privo di efficacia vincolante nei confronti del contribuente stesso. Premesso che la “definitività” prevista dal citato d.m. n. 259 del 1998, art. 1, comma 6, va intesa semplicemente come impossibilità di richiesta di riesame delle determinazioni del direttore regionale mediante ricorso gerarchico, va osservato che la risposta all’interpello costituisce un «provvedimento» emesso allo stato degli atti, sulla base della documentazione acquisita, che, al più, se negativo, prelude, predeterminandone il contenuto, ad un eventuale avviso di accertamento relativo alla dichiarazione dei redditi presentata in difformità (che, peraltro, potrebbe essere anche parziale) dalla risposta, ovvero ad un, anch’esso eventuale, diniego di rimborso nel caso in cui il contribuente, pur adeguandosi a quella, ne ritenga l’illegittimità. In definitiva, la risposta all’interpello non impedisce innanzitutto alla stessa amministrazione di rivalutare – in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso – l’orientamento (negativo) precedentemente espresso, nè al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva. Resta fermo, invece (come la stessa resistente espressamente riconosce), che la risposta positiva del direttore regionale impedisce all’amministrazione – a condizione, ovviamente, che i fatti accertati in sede di controllo della dichiarazione corrispondano a quelli rappresentati nell’istanza – l’applicazione della norma antielusiva oggetto d’interpello, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento, che ha diretto fondamento costituzionale e carattere generale ed immanente anche nell’ordinamento tributario, nel quale trova espresso riconoscimento, in linea generale, nella l. n. 212 del 2000, art. 10, nonché, specificamente in relazione agli interpelli c.d. ordinari, ma con portata da ritenere estesa alle altre tipologie di interpello previste dalla normativa, nella medesima l. n. 212, art. 11, comma 2, (il quale prevede la nullità di atti impositivi emanati in difformità dalla risposta all’interpello)».
6 Schiavolin, R., Art. 19, in Consolo, C.-Glendi, C., a cura di, Commentario breve alle leggi sul processo tributario, III ed., Padova, 2012, 287 ss.
7 D. Stevanato si è sempre dichiarato perplesso sull’utilità di una immediata impugnativa, considerando privo di efficacia preclusiva il diniego: si vedano gli interventi in Dialoghi di diritto tributario, 2004 e 2005.