Processo
di Vittorio Denti
Il termine processo, col quale si designa il complesso di atti posti in essere ai fini dell'esercizio della funzione giurisdizionale, nella sua portata attuale risale all'epoca in cui la funzione stessa è divenuta monopolio del potere statuale. Ciò è accaduto nella fase storica che ha preceduto la Rivoluzione francese, nella quale hanno cominciato a delinearsi, sotto l'influsso dell'illuminismo giuspolitico, i tratti che avrebbero poi caratterizzato la giustizia moderna. Questa evoluzione si coglie particolarmente nella struttura burocratizzata e gerarchica impressa all'amministrazione della giustizia dalle riforme prussiana e austriaca; una struttura che sarà poi ripresa dalle codificazioni napoleoniche. La giustizia dell'antico regime, infatti, era caratterizzata dalla pluralità delle giurisdizioni, dall'arbitrarietà dei giudizi e dall'estrema complicazione delle forme processuali, non riducibili all'unitarietà che caratterizzerà poi il procedimento.Nella riforma prussiana della metà del Settecento la rottura con l'antico regime si espresse soprattutto nella creazione di una carriera professionale dei magistrati e degli addetti all'amministrazione della giustizia, ordinata in senso gerarchico. Le stesse caratteristiche ebbero le riforme teresiane in Austria, ove l'amministrazione della giustizia venne resa autonoma dalla restante amministrazione pubblica e venne sancita la preminenza, nell'ambito del processo, dei poteri del giudice, che si estendevano dal controllo sulla formulazione della domanda giudiziale alla direzione dell'intero procedimento. In Francia, dopo la breve parentesi rivoluzionaria, la restaurazione napoleonica, con la legge del 1810, stabilì definitivamente il reclutamento burocratico dei giudici e la gerarchia dei mezzi di impugnazione, lasciando in vita, dell'antico sistema giudiziario, soltanto i tribunali di commercio.
Da questa vicenda storica nasce la categoria concettuale del procedimento, come forma razionale dell'esercizio dei pubblici poteri, che si concreta in una sequela di atti formali, preordinata all'emanazione della decisione del giudice, la cui disciplina è volta a prevenire, secondo l'affermazione di R.-J. Pothier, il disordine, l'arbitrio e la confusione nell'amministrazione della giustizia. Un altro giurista francese dell'Ottocento, il Bordeaux, sottolineava questa finalità, affermando: "L'ordine nell'amministrazione della giustizia è la prima garanzia delle parti: non satis est quod iudex sciat, sed ut ordine sciat. La procedura è l'insieme delle formalità necessarie a garantire questo ordine".Proprio la forma del procedimento, destinata a regolare tutte le funzioni pubbliche, e quindi anche quelle legislativa e amministrativa, è stata posta, nella seconda metà dell'Ottocento, a fondamento della cosiddetta concezione pubblicistica del processo, nella quale emergeva la centralità dei poteri del giudice come organo dello Stato. Il cosiddetto rapporto processuale, che si instaura con la proposizione della domanda, viene considerato come rapporto di diritto pubblico tra le parti e il giudice, e il diritto di agire in giudizio trova la sua collocazione tra i diritti pubblici soggettivi.
Questo stretto legame tra l'assetto della giustizia nell'Europa continentale e l'affermarsi delle dottrine processuali che fanno perno sulla categoria formale del processo ha la sua controprova nel fatto che una teoria generale del procedimento è rimasta del tutto estranea agli ordinamenti di common law. Questi, infatti, non hanno conosciuto, se non marginalmente, la burocratizzazione della funzione giudiziaria, e le regole del processo, formulate dalle stesse corti, hanno mantenuto la caratteristica delle practicae iudiciariae che costituivano il nucleo della letteratura processuale europea sino al Settecento.
Prima di passare all'analisi della portata che la nozione di processo ha nel nostro ordinamento, è opportuno prendere in esame il quadro costituzionale entro il quale il processo si muove. Questa prospettiva appare rilevante almeno sotto due profili: a) l'art. 24, comma 1, della Costituzione, nel sancire il principio dell'incondizionata tutelabilità delle situazioni giuridiche soggettive (diritti e interessi legittimi), fa riferimento al giudizio come al mezzo per l'attuazione della tutela, e quindi al processo che alla tutela stessa è finalizzato; b) il secondo comma della norma, affermando l'inviolabilità del diritto di difesa, con palese riferimento alla garanzia dei diritti dell'imputato, parla esplicitamente di procedimento, espressione del tutto equivalente a quella di processo.
Si tratta, in entrambe le ipotesi, della garanzia di quella "equa e pubblica udienza" cui fanno riferimento le Carte internazionali dei diritti dell'uomo, dall'art. 10 della Dichiarazione universale del 1948 all'art. 6 della Convenzione europea del 1950, all'art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, all'art. 8 della Convenzione americana del 1969. In questo contesto, il 'processo' assume quel significato generale di 'giusto processo' (o fair trial) che risale, nella sua matrice storica, alla due process clause della Costituzione statunitense, a sua volta ricollegabile al legale iudicium della Magna Charta inglese. L'evoluzione di questi principî verso la concezione moderna delle garanzie processuali è stata assai lenta e contrastata, come dimostra lo sviluppo della giurisprudenza americana, che solo in epoca relativamente recente è pervenuta ad affermare che un processo giusto comporta il rispetto di garanzie di giustizia concrete, e non soltanto formali, e che la garanzia del due process deve estendersi a tutti i procedimenti che possono in qualsiasi modo coinvolgere l'esercizio dei diritti fondamentali da parte dei cittadini. Al termine di questa evoluzione il due process, da garanzia destinata a operare quasi esclusivamente nel processo penale, ha assunto una portata generale, assicurando la possibilità concreta ed effettiva di fruire di un minimo di attività giurisdizionale, sia instaurando il giudizio che partecipando al contraddittorio.
Nella prospettiva così delineata parlare di processo nel quadro dei diritti costituzionali comporta necessariamente parlare di processo 'equo', o 'corretto', o 'giusto', finendo con l'attribuire alla nozione di processo una valenza giusnaturalistica, proprio per la sua portata costituzionale. Prova ne sia il fatto che le leggi che si succedono a modificare la disciplina del processo, incidendo sul sistema delineato dai codici di rito, finiscono prima o poi col passare al vaglio delle Corti costituzionali, chiamate a decidere se la nuova normativa confligga col diritto di azione o col diritto di difesa.Va anche aggiunto, peraltro, che il principio del due process, per la sua forza espansiva, ha trovato applicazione in campi diversi da quello giurisdizionale, nei quali pure si manifesta l'esercizio dei pubblici poteri.
Anche il procedimento amministrativo, infatti, ha subito l'influsso del garantismo di derivazione costituzionale attraverso l'applicazione del principio della partecipazione, come è accaduto in Italia con la legge generale del 7 agosto 1990, n. 241. La garanzia della partecipazione, infatti, comporta il diritto di far valere nel corso del procedimento, nella forma dell'intervento (v. l'art. 9 della legge citata), la tutela degli interessi, individuali o collettivi, coinvolti nell'azione della pubblica amministrazione, alla quale è fatto carico di pronunciarsi in merito. Si verifica così una sorta di giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo, che può anche svolgersi in più gradi, e che finisce col distinguersi dal procedimento giurisdizionale soprattutto per l'inidoneità dei provvedimenti che lo concludono ad acquisire l'efficacia della cosa giudicata.
Sul piano della teoria generale, il procedimento costituisce una delle figure di combinazione di atti, collegati tra loro in vista della produzione di un effetto giuridico unitario, che danno luogo a una serie in senso proprio, ossia a una successione temporale, caratterizzata dalla prefissione dei momenti in cui gli atti debbono essere compiuti. Tale successione, tuttavia, non basta a dar ragione della specificità del procedimento giurisdizionale rispetto a quello amministrativo: la sua caratteristica essenziale, infatti, è di avere in se stesso la sanzione della propria validità o invalidità. Invero, mentre la regolarità del procedimento amministrativo è controllata da organi esterni, come quelli della giurisdizione amministrativa, la validità degli atti del processo è verificata dal giudice che lo dirige e che, con la propria decisione finale, chiude la serie procedimentale. Si parla, in proposito, di 'autosufficienza' della decisione giudiziale, nel senso che la sentenza è comunque valida, anche se viene pronunciata al termine di un procedimento invalido e si limita, quindi, a dichiarare la nullità del procedimento medesimo.
I vizi della sentenza, d'altronde, se non sono fatti valere in sede di impugnazione, restano sanati, dando luogo a quella intangibilità della decisione (art. 161 del Codice di procedura penale) che la legge definisce "cosa giudicata formale" (art. 324 del Codice di procedura civile) e che costituisce il presupposto per l'operare degli effetti della decisione stessa al di fuori del processo, effetti che si riconducono alla nozione di "cosa giudicata sostanziale" (art. 2909 del Codice civile).A ciò consegue che il procedimento pubblico, nei modelli non giurisdizionali, è caratterizzato da quel particolare fenomeno che si definisce 'invalidità derivata', in forza del quale un atto, e quindi anche lo stesso atto conclusivo del procedimento, può essere nullo non per la sua intrinseca invalidità, ma perché dipendente da un precedente atto viziato. Il provvedimento amministrativo finale, quindi, può subire la nullità di uno o più atti 'preparatori', appartenenti alla fase procedimentale.
D'altronde, anche il procedimento legislativo, nel modello delineato dalla Carta costituzionale, è soggetto a controllo di validità, anche nella sua fase 'preparatoria', da parte della Corte costituzionale. È pacifico, infatti, che l'incostituzionalità delle leggi può verificarsi anche per un vizio formale o procedimentale, che ha luogo per effetto della violazione delle norme che ne regolano la formazione, norme che possono anche non essere di rango costituzionale. Altro problema è se la competenza della Corte costituzionale sussista per la violazione di qualunque norma relativa al procedimento legislativo, ovvero soltanto per i vizi più gravi, derivanti dalla violazione di norme costituzionali, restando escluse dal suo controllo le violazioni delle regole contenute nei regolamenti parlamentari.
Se, dopo aver considerato la prospettiva costituzionale del processo e la sua collocazione nel quadro dell'esercizio dei pubblici poteri, prendiamo in esame i problemi del processo come modalità di esercizio della funzione giurisdizionale, dobbiamo premettere che il complesso delle regole tecniche che lo disciplinano acquista il suo reale significato soltanto se collocato nel più ampio quadro normativo dell'amministrazione della giustizia, dall'ordinamento giudiziario a quello delle professioni legali. Si può dire, anzi, che solo coordinando le norme del processo con le regole che riguardano la magistratura e l'avvocatura si può avere un'adeguata conoscenza della loro effettività ai fini della tutela delle situazioni giuridiche protette dall'ordinamento.
Anche sistemi che appartengono, storicamente, alla medesima famiglia giuridica presentano, infatti, sostanziali differenze, nella concreta esperienza del processo, a causa sia della diversa struttura delle professioni forensi, sia della diversa posizione istituzionale della magistratura. Ad esempio, l'Inghilterra e gli Stati Uniti, malgrado la fonte storica comune dei loro sistemi, mantengono differenze rilevanti quanto all'avvocatura (caratterizzata nel primo dei due paesi dal dualismo tra barristers e solicitors e dalla unitarietà, invece, della professione nel secondo) e quanto alla magistratura, prevalentemente elettiva negli Stati Uniti, a differenza dell'Inghilterra, con frequenti scambi di ruolo tra magistratura, avvocatura e organi della pubblica accusa.Va anche considerato che la stessa adozione di un modello generale di processo su base codicistica, caratteristica dei sistemi dell'Europa continentale, non solo si contrappone agli ordinamenti in cui la normativa processuale procede per lo più da un potere regolamentare degli organi giurisdizionali (come accade nei paesi di common law), ma deve tener conto della unitarietà o meno delle forme di tutela. Basti pensare alla differenziazione della giustizia civile in Francia, ove accanto ai giudici ordinari operano numerosi giudici speciali, dai tribunali di commercio ai probiviri in materia di lavoro.
D'altronde la stessa nozione di 'giustizia civile' non ha un significato univoco nei diversi ordinamenti, non solo perché può non esistere una giustizia 'amministrativa', ma anche perché le situazioni tutelate davanti ai giudici cosiddetti ordinari non sono univocamente riconducibili, come accade nel nostro paese, alla categoria dei diritti soggettivi.
Il processo, come serie temporale degli atti preordinati all'esercizio della funzione giurisdizionale, presuppone per il suo svolgimento un impulso esterno, che è dato dall'esercizio dell'azione, civile e penale, regolata la prima dagli artt. 2907 del Codice civile e 99 del Codice di procedura civile, e la seconda dagli artt. 50 e 405 del Codice di procedura penale. A questo principio non si sottraggono i casi di tutela giurisdizionale promossa d'ufficio, cui fa riferimento il citato art. 2907 del Codice civile (si tratta essenzialmente della dichiarazione di fallimento), poiché la mancanza di un'iniziativa esterna per la messa in moto del processo non esclude, comunque, un'iniziativa interna, secondo le regole dell'ordinamento giudiziario.
Fissato il momento temporale iniziale, che coincide col compimento degli atti di esercizio dell'azione, la più rilevante differenza tra il processo penale e il processo civile è data dal carattere di necessità che, nel primo, contraddistingue lo svolgimento del processo sino alla decisione; mentre nel secondo può verificarsi il fenomeno dell'inattività delle parti, che dà luogo all'estinzione del giudizio, come 'arresto' della serie procedimentale. Questa differenza fondamentale tra i due processi si manifesta anche nel diverso regime delle nullità dei relativi atti.Invero, mentre comune al processo civile e al processo penale è la già ricordata regola della invalidità 'derivata', che estende la nullità di un atto agli atti consecutivi che ne dipendono, divergente è il regime degli effetti della dichiarazione di nullità.
Nel processo penale, infatti, proprio per l'officiosità del procedimento, la dichiarazione di nullità di un atto "comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo" (art. 185 n. 3 del Codice di procedura civile); nel processo civile, invece, la nullità, insanabile o non sanata, esclude la pronuncia sul merito della domanda e limita il potere-dovere del giudice alla pronuncia della nullità. In sintesi, quindi, il procedimento giurisdizionale è sempre congegnato in modo che si debba comunque pervenire a una decisione del giudice, essendo esclusa l'impugnazione autonoma dei suoi atti, la cui invalidità, se non sanata nel corso della causa, si riflette sul contenuto della pronuncia giudiziale. Questa caratteristica del processo si estende a tutti i gradi in cui lo stesso si svolge, e quindi anche alle fasi di impugnazione, ivi compreso il giudizio di cassazione. Le norme sulla validità degli atti del processo e sul rilievo della loro nullità trovano applicazione, infatti, in tutti i gradi della causa.
Il compimento degli atti del processo, che ne determina lo svolgimento e la conclusione, discende dall'esercizio di poteri, o dall'adempimento di doveri, che fanno capo al giudice e alle parti. Il potere, infatti, costituisce la situazione giuridica di un soggetto legittimato, col suo esercizio, a produrre effetti nella sfera propria di un altro soggetto; al potere, come situazione giuridica attiva, corrisponde, come situazione passiva, la soggezione. Il dovere costituisce, invece, la situazione di un soggetto tenuto a porre in essere un dato comportamento per non incorrere nelle conseguenze sanzionatorie previste dall'ordinamento: più propriamente, si parla di dovere quando il soggetto è vincolato al comportamento in forza dell'esercizio di una funzione pubblica, come accade per il giudice; si parla, invece, di obbligo quando il comportamento si riferisce a soggetti privati, come le parti.Nel processo civile, peraltro, le situazioni di obbligo sono, per le parti, del tutto eccezionali, poiché i comportamenti a loro imputabili fanno capo in prevalenza a un tipo di situazione che nel processo assume un significato particolare: l'onere. Si tratta, infatti, della situazione in cui si trova il soggetto processuale che 'deve' tenere un certo comportamento se intende conseguire un effetto a lui vantaggioso.
Esempio classico di questa situazione è l'onere della prova (art. 2697 del Codice civile), formulato nei noti termini: "Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento". Nel processo penale, invece, la legge parla di obbligo per l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero (art. 112 della Costituzione), o per il dovere di prestare il patrocinio da parte del difensore d'ufficio (art. 97 n. 5 del Codice di procedura penale); ma tale situazione soggettiva ha una portata assai più generale. Il prevalere delle situazioni di 'obbligo' si giustifica, infatti, con la doverosità dell'accertamento penale, e col fatto che, a differenza del processo civile, il processo penale non può estinguersi per inattività, dovendo necessariamente pervenire a una pronuncia sull'esistenza o sull'estinzione del reato, e quindi al proscioglimento o alla condanna dell'imputato.
Se si considerano i presupposti della tutela giurisdizionale civile, occorre anzitutto rilevare che sia il Codice civile che il Codice di procedura civile, nel delineare i presupposti e gli effetti della tutela, hanno come punto di riferimento i rapporti soggettivi interprivati, bilaterali o plurilaterali, che fanno capo alle situazioni giuridiche tradizionali: i diritti reali e i diritti di obbligazione. Ciò emerge chiaramente sia dalle norme che disciplinano l'instaurazione del contraddittorio (artt. 101 e 102 del Codice di procedura civile), sia dalle norme che regolano i limiti soggettivi della cosa giudicata (art. 2909 del Codice civile). Tutte queste disposizioni, infatti, muovono dalla premessa che nel processo sia dedotto un rapporto giuridico facente capo a soggetti individuati o individuabili, anche quando ne sia difficile l'identificazione e si debba ricorrere all'eccezionale notizia del processo mediante la notificazione per pubblici proclami (art. 150 del Codice di procedura civile).
Ciò che è rimasto del tutto estraneo all'ordinamento vigente, sino a recenti riforme settoriali, è l'operare della tutela dei cosiddetti interessi superindividuali o diffusi, la cui espansione caratterizza le società contemporanee, in particolare per quanto concerne la protezione dell'ambiente e del consumatore. Col termine 'interesse diffuso', infatti, si designa la contitolarità di situazioni di interesse da parte di soggetti non identificati o identificabili in base alla preesistenza di rapporti giuridici rispetto a un bene. Si tratta infatti, per definizione, di beni che non sono di per se stessi suscettibili di appropriazione esclusiva e rispetto ai quali il godimento, di singoli o di gruppi, non è limitato dal concorrente godimento di altri membri della collettività.Come si è rilevato, i due settori di espansione della tutela degli interessi diffusi sono stati quelli della protezione dell'ambiente e del consumatore, nella linea evolutiva di una maggiore protezione dei soggetti più deboli, sia nei confronti dei pubblici poteri, sia nei confronti dei poteri privati. Si rammenta a questo proposito che, in tale contesto, la definizione di 'consumatore' assume un significato tecnico preciso, in quanto designa i soggetti che fruiscono dei servizi rientranti nella tutela "per finalità estranee all'attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta" (art. 18 della legge del 19 febbraio 1992, n. 142).
L'espansione della tutela ha avuto il suo maggiore incentivo nell'affermarsi della normativa a livello europeo (si ricordi la 'Carta europea' dei consumatori) e nella corrispondente attuazione delle direttive comunitarie nel nostro ordinamento. L'attuale fase evolutiva, sia a livello nazionale che a livello regionale, mira a rafforzare la protezione con l'ampliamento della sfera di legittimazione dei soggetti portatori di interessi diffusi, quali le associazioni dei consumatori e quelle di difesa dell'ambiente. Si tratta, infatti, di superare gli ostacoli frapposti a questo tipo di tutela dalle basi tradizionalmente individualistiche del nostro processo, sia civile che amministrativo. Passi avanti sono stati fatti per quanto concerne i procedimenti amministrativi, mentre le riforme non hanno inciso adeguatamente sulla tutela giudiziale.
Un esempio di evoluzione legislativa in queste materie si rinviene nella legge del 24 gennaio 1996 che, dando attuazione alle direttive del Consiglio europeo concernenti le clausole abusive dei contratti stipulati con i consumatori, ha aggiunto nel Codice civile gli articoli dal 1469 bis al 1496 sexies che, sancendo l'inefficacia delle predette clausole, non solo ne consente la rilevabilità d'ufficio da parte del giudice, ma legittima le associazioni dei consumatori e le Camere di commercio a chiedere che ne sia inibito l'uso, e ciò anche con provvedimento d'urgenza. Altro esempio è dato dalla facoltà, attribuita dal nuovo Codice di procedura penale agli enti e associazioni portatori degli interessi offesi dal reato, di esercitare i diritti attribuiti alla persona offesa (art. 91) presentando un atto di intervento (art. 93).
Tornando a considerare lo studio del processo sul piano della teoria generale, si impone il rilievo che l'evoluzione delle dottrine processuali, caratterizzata dalla tendenza fortemente sistematica espressa soprattutto nell'opera di Francesco Carnelutti, ha avuto per conseguenza la propensione a elaborare nozioni comuni al processo civile e al processo penale. Questa tendenza si è spinta sino a sollecitare la formulazione di una 'parte generale' comune ai due processi, anche se nei paesi in cui è stato attuato un codice processuale unitario (come nella riforma svedese del 1948), la novità è stata possibile per ragioni storiche particolari dei relativi ordinamenti.
Nel nostro paese la vicenda più significativa in questa direzione è stata il tentativo, compiuto da Carnelutti all'inizio degli anni trenta, di trasporre la nozione di lite, pilastro del suo sistema, dal processo civile al processo penale. Tale operazione dogmatica conobbe una serie di precisazioni e di aggiustamenti poiché, dall'iniziale configurazione della lite come conflitto di pretese tra l'imputato e la parte lesa, Carnelutti passò ad attribuire la formulazione della pretesa stessa al pubblico ministero, titolare dell'azione penale, che "entra nella lite" in tale sua qualità. Nella successiva evoluzione del suo pensiero Carnelutti, affrontando direttamente, nel 1949, il tema del processo penale, non rinunciò a una sistemazione unitaria, pur se in diversa prospettiva, affermando l'appartenenza del processo penale al genus del processo 'volontario', al quale sarebbe strutturalmente indispensabile la presenza del pubblico ministero. Di questa impostazione sistematica vi è traccia ancora, negli anni cinquanta, in opere dedicate alle dottrine generali del processo, come quella di Franco Cordero (1956), opere che ambiscono a presentarsi come parti di un sistema completo nelle sue linee essenziali.Solo negli anni successivi è possibile parlare di una fase post-sistematica degli studi processuali, che coincide con l'affermarsi, accanto all'elaborazione dei principî costituzionali del processo in precedenza ricordati, di ricerche di ispirazione sociologica sull'amministrazione della giustizia e di indagini di carattere comparatistico estese anche a sistemi estranei alla tradizione europea. Non può certo escludersi il sopravvivere della tendenza all'elaborazione, sul piano della teoria generale, di una nozione di 'processo' che trascende i processi giurisdizionali, per abbracciare anche quelli legislativi e amministrativi.
Tale tendenza ha oggi il suo massimo esponente in Elio Fazzalari ed è stata teorizzata, a partire dal 1975, nelle varie edizioni delle sue Istituzioni di diritto processuale. Non si è trattato tuttavia della costruzione, in senso proprio, di un 'sistema', quanto piuttosto dell'individuazione di una 'struttura' generale idonea a dar ragione di un complesso di fenomeni che caratterizzano sia attività di diritto pubblico che attività di diritto privato. Né vanno trascurate le esigenze didattiche che sono all'origine di opere come quella ricordata; esigenze connesse con i vari corsi di Istituzioni di diritto processuale, Teoria generale del processo, Dottrine generali del processo, introdotti nelle facoltà di Giurisprudenza proprio sotto l'impulso del pensiero carneluttiano: un impulso che attualmente, anche sotto il profilo della didattica, sembra alquanto affievolito.
Se si vuole trovare una giustificazione teorica alla transizione verso la fase post-sistematica dello studio del processo, è possibile individuarla nel passaggio da una concezione strutturale a una concezione funzionale del processo, caratterizzata principalmente dall'analisi degli effetti della tutela giurisdizionale sui rapporti sociali: in altri termini, dall'analisi della correlazione fra processo e società. Temi come quelli, già ricordati, della tutela degli interessi superindividuali o diffusi (dall'ambiente al consumatore), intrinseci all'attuale stadio evolutivo delle società industriali, determinano la crisi della sistematica tradizionale, incidendo su aspetti essenziali del processo, dal contraddittorio alla prova e agli effetti del giudicato.
In questa prospettiva assumono particolare rilevanza problemi come quello della durata del processo, fenomeno la cui abnormità coinvolge tanto il processo civile, quanto quello penale e amministrativo, incidendo in modo fortemente negativo sia sulla libertà dei cittadini che sui rapporti economici e sociali di cui sono titolari. I rimedi a questa situazione dovrebbero essere trovati in un'adeguata riorganizzazione dell'ordinamento giudiziario, sia per quanto concerne l'aumento degli organici dei magistrati, sia per quanto concerne la revisione della distribuzione degli affari giudiziali sul territorio. Interventi in queste direzioni, purtroppo, sono sinora mancati e i ritardi della giustizia hanno ripetutamente portato il nostro paese davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo, tanto in campo civile che in campo penale, sotto il profilo della violazione dell'art. 6 della Convenzione, che garantisce il diritto a ottenere la tutela "entro un termine ragionevole".
Le decisioni della Corte si sono tradotte nella condanna dello Stato italiano al risarcimento dei danni conseguenti al ritardo della giustizia.Il rimedio a tale situazione è stato sinora cercato nell'introduzione di riti semplificati o sommari, che hanno finito col surrogare, soprattutto nell'immagine esterna del processo, l'effettività della tutela. Basti pensare ai procedimenti speciali previsti dal Codice di procedura penale: dal giudizio abbreviato all'applicazione della pena su richiesta delle parti, dal giudizio direttissimo al giudizio immediato. Nel campo della giustizia civile un analogo fenomeno si verifica per le varie forme di tutela d'urgenza, sia quelle regolate in via generale dal Codice di procedura civile, sia quelle disseminate nelle leggi speciali. Queste esigenze di tutela hanno offerto uno spazio sempre più ampio a quel fenomeno che è stato definito come 'differenziazione' della funzione giurisdizionale, la quale tende a modellarsi sulle particolarità delle situazioni sostanziali oggetto del processo, muovendo dal principio che a bisogni diversi debbano corrispondere forme diverse di tutela. Basti pensare, nell'ambito del processo civile, ai riti che si sono ispirati, come modello generale, alla normativa del processo del lavoro: dalle locazioni urbane e agrarie all'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi; dalla depenalizzazione delle contravvenzioni stradali, allo scioglimento e alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Nel campo penale vale il rilievo che gli interventi repressivi previsti dalle leggi speciali, generalmente modellati sul giudizio direttissimo, hanno come punto di riferimento la disciplina di tale giudizio, delineata in via generale dal Codice di procedura penale. È stato, infatti, giustamente osservato da M. Chiavario (v., 1994²) che i fenomeni di frammentazione legislativa, che vanno sotto il nome di 'decodificazione', difficilmente trovano spazio nella tutela penale, nella quale prevale la propensione ad avere di mira la ricomposizione, nel segno del Codice, "di un quadro normativo sufficientemente unitario e sufficientemente stabile".
Le considerazioni che precedono hanno avuto come punto di riferimento le regole processuali espresse dai due settori della tutela giudiziale che, per ragioni storiche, hanno dato vita al corpus sistematico di norme contenuto nel Codice di procedura civile e in quello di procedura penale. Un'analoga evoluzione non si è verificata per il terzo rilevante settore della giustizia, costituito dal processo amministrativo. Progetti di codificazione in questo campo non sono mancati, ma la recezione, nella Carta costituzionale, della giustizia amministrativa come sistema fondato sulla giurisdizione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (art. 103) ha finito col lasciare in vigore le norme processuali antecedenti: dalla legge fondamentale del 1865 sul contenzioso amministrativo al Regolamento di procedura avanti il Consiglio di Stato del 1907 (recepito nel Testo Unico del 1924), al Testo Unico del 1934 sulla Corte dei conti in sede giurisdizionale.
L'unica novità rilevante è stata rappresentata dall'istituzione, con la legge del 1971, dei tribunali amministrativi regionali, organi di primo grado, le cui decisioni sono suscettibili di appello davanti al Consiglio di Stato. Nella legge citata era stata preannunciata la successiva emanazione di una "apposita legge sulla procedura" nei giudizi amministrativi, ma di tale normativa, dopo un venticinquennio, si è ancora in attesa.Caratteristica essenziale del processo amministrativo, nella sua funzione tipica, è quella di avere un oggetto predeterminato, costituito dall'atto amministrativo del quale si chiede l'annullamento. Da ciò discende non soltanto l'individuazione dell'organo che ha emesso il provvedimento impugnato come parte necessaria del giudizio, ma anche l'esigenza di partecipazione al processo dei soggetti destinatari del provvedimento stesso. Né va trascurato che l'evoluzione garantistica della tutela dei cittadini ha condotto ad anticipare queste esigenze dal processo amministrativo al procedimento in materia di ricorsi amministrativi: il D.P.R. del 1971, infatti, impone all'organo decidente di comunicare il ricorso "agli altri soggetti direttamente interessati e individuabili sulla base dell'atto impugnato" (art. 4). Resta essenziale, comunque, alla comprensione dei principî della giustizia amministrativa, il rilievo che nel giudice amministrativo si sommano poteri schiettamente giurisdizionali a poteri estranei alla sfera di attribuzioni del giudice ordinario e che, secondo regole risalenti alla citata legge del 1865, sono in via di principio riservati all'amministrazione. Caso tipico è il ricorso diretto a ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato (art. 37, legge n. 1034 del 1971), la cui decisione può comportare l'esercizio, da parte del giudice amministrativo, di poteri di surroga dell'amministrazione inadempiente.
Un analogo fenomeno di sovrapposizione di poteri giurisdizionali e amministrativi può verificarsi nel procedimento di 'sospensione' degli effetti dell'atto impugnato (art. 21 della legge citata), in quanto il provvedimento del giudice amministrativo può andar oltre la mera efficacia sospensiva, potendo tradursi nella prescrizione di comportamenti a carico dell'amministrazione.
Il quadro sopra delineato, se pure non esaurisce le ipotesi della tutela che si attua nelle forme del processo (basti citare il processo costituzionale, il processo tributario, il processo dei minorenni, il processo militare, ecc.), appare sufficiente a dar ragione del fenomeno per cui il procedimento, come serie di attività coordinate sul piano temporale, si traduce in 'processo', in quanto preordinato all'esercizio della funzione giurisdizionale. Il processo è, quindi, tipicamente uno strumento finalizzato a tale funzione, sia o meno sollecitato dall'iniziativa di parte, sia o meno imperniato sulla presenza dei giudici dello Stato. Anche il giudizio arbitrale, infatti, tradizionalmente considerato come un 'equivalente giurisdizionale', in quanto sostitutivo della giurisdizione statale, è disciplinato da norme processuali, tra l'altro inderogabili nel loro nucleo essenziale a garanzia del contraddittorio, pur se dettate da un'esigenza di semplificazione delle forme al fine della celerità della procedura.
In sintesi, quindi, il processo rappresenta un fenomeno sostanzialmente unitario, anche se la fonte della sua disciplina si rinviene non soltanto nel codice di rito, ma anche nei codici sostanziali. Basti pensare alle materie regolate dal libro VI del Codice civile, che non solo definisce su un piano generale l'attività giurisdizionale (art. 2907) e l'efficacia propria della sentenza, ossia la cosa giudicata (art. 2909), ma disciplina aspetti essenziali del processo, come le prove (art. 2697 ss.) e l'esecuzione forzata (art. 2910 ss.). Le discussioni, un tempo assai vivaci, sulla natura processuale o sostanziale di questa normativa, hanno ormai perso molto del loro valore, sia perché si è relativizzata, sul piano concettuale, la qualificazione delle norme, sia perché gli effetti della distinzione operano in ambiti assai limitati, come l'efficacia delle norme nel tempo e nello spazio.
(V. anche Arbitrato; Giurisprudenza; Giustizia; Giustizia, accesso alla; Magistrati; Magistratura; Ordinamenti giudiziari e professioni giuridiche; Prova giuridica).
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