PROCESSO (XXVIII, p. 274; App. II, 11, p. 612)
Il processo civile. - Il decr. legisl. 5 maggio 1948 n. 488, contenente modificazioni e aggiunte al codice di procedura civile, avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 1949, previa emanazione, da parte del governo (secondo l'autorizzazione contenuta nell'art. 38 secondo comma) delle disposizioni complementari, transitorie e d'attuazione del decreto legisl. stesso, nonché di quelle di coordinamento col codice di procedura civile e con le altre leggi. La fondata previsione che la data di entrata in vigore del menzionato decreto sarebbe stata prorogata, come infatti lo fu più volte con le leggi 29 dicembre 1948 n. 1470, 31 marzo 1949 n. 92 e 5 luglio 1949 n. 341, consigliò il governo a non avvalersi della delega prima che il decreto stesso fosse ratificato dal parlamento, a norma dell'art. 6 del decreto legisl. 16 marzo 1946 n. 98. Le critiche mosse al nuovo sistema, tracciato dalla Costituente con la collaborazione del ministero di Grazia e Giustizia, e i suggerimenti di autorevoli processualisti, indussero poi il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati ad apportare con la legge di ratifica del 14 luglio 1950 n. 581 radicali modificazioni al decreto del 1948; e, in omaggio all'art. 76 della Costituzione, la legge stessa restrinse la delega al governo dell'esercizio della funzione legislativa, alle disposizioni complementari "aventi carattere transitorio e d'attuazione", e a quelle di coordinamento. In generale, il nuovo sistema, entrato in vigore il 1° gennaio 1951, ha notevolmente attenuato i criterî dell'oralità, della concentrazione e della immediatezza, che dominavano il processo secondo il codice 1940; ha scosso l'assolutezza del principio di autorità cui si era già ispirato il legislatore, e, rinvigorendo il controllo del collegio sui poteri del giudice istruttore, ha fortemente sbiadito la figura di tale organo, già cardine del p. civile e dominus di quell'impulso d'ufficio cui il legislatore aveva affidato la speranza di un rapido ritmo del p.; ha derogato all'obbligatorietà dell'impugnazione differita delle sentenze che non definiscono il giudizio, e ha circondato di maggiori gararizie l'istituto dell'estinzione del processo. Questa nuova fisionomia del p. di cognizione emerge dal rapido esame degli istituti su cui più profondamente ha inciso la riforma, esame che prescinde dalle numerose novità di ordine tecnico particolare, riguardanti anche il p. d'esecuzione e i procedimenti speciali.
Sistema d'introduzione delle cause davanti ai giudici collegiali. - Secondo il codice del 1940, l'introduzione delle cause avveniva mediante un sistema di citazione a udienza indeterminata. La citazione, cioè, conteneva soltanto l'invito alla parte a costituirsi in cancelleria nel termine di legge, e non anche l'indicazione della data dell'udienza in cui le parti dovevano comparire per la prima volta davanti al giudice (istruttore). Al primo contatto tra le parti e il giudice si perveniva attraverso un complesso iter, che comprendeva: l'istanza di designazione del giudice istruttore; il decreto, emesso dal presidente del tribunale, di designazione dell'istruttore e di fissazione della prima udienza; irifine, la comunicazione del decreto alle parti a cura del cancelliere (artt. 172 e 173). A tale sistema, la riforma, nella prospettiva, forse troppo ottimistica, di ottenere un più immediato avvio della causa, ha sostituito quello della citazione a udienza fissa, analogo, per alcuni riflessi, a quello già adottato dal codice del 1940 per i p. davanti ai pretori e ai conciliatori. In breve, i giorni della settimana in cui gli istruttori del tribunale civile terranno udienze di prima comparizione sono prefissati dal presidente del tribunale al principio e alla metà dell'anno giudiziario con un decreto cui è data congrua pubblicità mediante affissione nelle sale d'udienza (art. 163, 2° comma; art. 80 disp. attuaz., nuovo testo). L'attore citerà il convenuto a comparire in una di tali udienze, dinanzi a un istruttore - ancora non determinato - rispettando i termini minimi di comparizione stabiliti dal nuovo art. 163 bis a seconda delle varie ipotesi di distanza tra il luogo di notificazione e la sede del tribunale. Costituitasi almeno una delle parti in cancelleria, entro il termine legale prefisso, anteriormente all'udienza, il presidente del tribunale designa, d'ufficio, il giudice istruttore, non necessariamente tra quei magistrati che terranno udienza nel giorno prescelto dall'attore, ma, eventualmente, anche tra altri istruttori, nel qual caso la comparizione delle parti è per legge automaticamente rinviata alla prima udienza successiva di prima comparizione che sarà tenuta dal magistrato designato, e il cancelliere comunicherà alla parte costituita la nuova data di comparizione.
Forma di trattazione della causa. - Il testo originario dell'art. 180 cod. proc. civ. stabiliva che la trattazione della causa davanti al giudice istruttore fosse sempre orale: i difensori delle parti esponevano a voce le proprie deduzioni e le proprie istanze e difese e tali deduzioni venivano raccolte nel verbale di udienza. Con la riforma del 1950, è stata eliminata la parola "sempre", e la portata di tale eliminazione è stata chiarita nel senso che il giudice può autorizzare comunicazione di comparse a norma dell'ultimo comma dell'art. 170 (cioè mediante deposito, o notificazione, o scambio con visto di procuratore), rinviando l'udienza di comparizione. Tali comparse serviranno, di solito, a svolgere punti di diritto la cui trattazione orale risulterebbe troppo lunga o disagevole, o anche a precisare domande, eccezioni, capitoli di prova, ecc. Attraverso queste disposizioni, il p. civile italiano si avvia, ormai, a diventare scritto, in quanto si ricorre all'espediente delle comparse ogni qualvolta, per mancanza di tempo, la trattazione orale potrebbe risultare affrettata o manchevole.
Limiti alle nuove deduzioni nel corso dell'istruzione. - Secondo il testo originale del codice (art. 184), la facoltà delle parti di presentare nel corso dell'istruttoria, dopo la prima udienza di comparizione, nuove deduzioni e produzioni era soggetta a un limite elastico, cioè a una preclusione, che poteva essere rimossa da una specifica autorizzazione da parte del giudice istruttore il quale avesse accertato l'esistenza di gravi motivi. Il nuovo testo dell'articolo 184 elimina tali preclusioni, attribuendo alle parti il potere, fino alla rimessione della causa al collegio, di modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni precedentemente formulate, di produrre nuovi documenti e di proporre nuove eccezioni. Il legislatore ha inteso, con ciò, eliminare la causa di una delle più istintive, ma non del tutto ingiustificate antipatie suscitate dal rito introdotto nel 1940, il quale, attraverso la serie di molesti e progressivi vincoli posti alle deduzioni e alle produzioni delle parti, dava spesso la sensazione di sacrificare le necessità sostanziali della difesa a una malintesa esigenza di celerità, e sia pure di probità processuale. Il legislatore, inoltre, ha ritenuto l'opportunità di evitare le contestazioni, spesso accanite, tra le parti, e non di rado rinnovate in sede di decisione della causa nonché in fase d'impugnazione, circa il concreto esercizio, in un senso o nell'altro, da parte del giudice istruttore, del delicato potere di rimuovere la preclusione, previa una valutazione discrezionale di circostanze giustificative della tardiva deduzione. Rimane il potere, attribuito al giudice dal nuovo testo dell'art. 184, in conformità dei principî dettati dall'art. 92 cod. proc. civ., di tenere conto del comportamento della parte e delle ragioni del ritardo nella produzione delle difese e delle eccezioni, ai fini dell'onere delle spese del giudizio (condanna alle spese di singoli atti, compensazione totale o parziale).
Controllo sulle ordinanze del giudice istruttore attinenti all'ammissione dei mezzi di prova. - La legge n. 581 del 1950, con l'art. 13, modificativo dell'art. 178 cod. proc. civ., derogando al criterio generale della scissione dell'istruzione dalla decisione della causa, ha introdotto il principio dell'immediata impugnazione delle ordinanze dell'istruttore che risolvono questioni relative all'ammissibilità e alla rilevanza di mezzi di prova, proposti dalle parti o ammissibili d'ufficio. Lo scopo è stato, da una parte, di evitare che l'attività probatoria possa svolgersi in pura perdita, nell'eventualità che l'ordinanza ammissiva di prova sia modificata o revocata dal collegio dopo l'esperimento della prova stessa; dall'altra, di ovviare, in qualche misura, al pericolo che, per l'inevitabile influenza psicologica del fatto compiuto, il collegio non eserciti, a posteriori, efficacemente il proprio controllo, limitandosi a prendere atto delle direttive seguite e delle decisioni prese, bene o male, dal giudice istruttore.
Il reclamo contro le ordinanze aventi l'oggetto già indicato è proposto nel termine perentorio di dieci giorni (ma la perentorietà non implica affatto che, decorso il termine, l'ordinanza acquisti una stabilità che prima non aveva, che, cioè. divenga irrevocabile da parte del giudice istruttore o dello stesso collegio, quando la causa gli sia rimessa per il merito). La proposizione del reclamo può avvenire con la forma di una dichiarazione raccolta nel verbale di udienza - il che avverrà di solito quando l'ordinanza sia stata pronunciata in udienza - ovvero con quella del ricorso al giudice istruttore. Se il reclamo è proposto nella stessa udienza, il giudice assegna il termine per la comunicazione di una memoria e quello successivo per la comunicazione di una replica, comunicazione da farsi a mezzo della cancelleria; se il reclamo è proposto con ricorso, questo è presentato al giudice che vi appone in calce un decreto, col quale assegna all'altra parte un termine per la memoria di risposta; il decreto è comunicato all'altra parte a mezzo della cancelleria. Entro i quindici giorni dalla scadenza del termine, il collegio deve emettere la sua ordinanza in camera di consiglio, senza discussione delle parti, le quali non posson0, in occasione del reclamo, sottoporre conclusioni di merito, nemmeno parziali; e con l'ordinanza lo stesso collegio deve dare provvedimenti per la prosecuzione della causa, a norma dell'art. 280. L'ordinanza del collegio rimane pur sempre revocabile, e non pregiudica la decisione della causa. Il collegio potrebbe, tuttavia, una volta investito del reclamo, richiedere, su istanza di parte o d'ufficio, la formulazione delle conclusioni anche di merito, cioè la rimessione di tutta la causa. Il reclamo ha, normalmente, effetto sospensivo dell'esecuzione dell'ordinanza, salvo che il giudice l'abbia, per ragioni d'urgenza, dichiarata esecutiva nonostante reclamo.
Un'ancora più sostanziale restrizione dei poteri del giudice istruttore, cioè una spontanea abdicazione, non provocata da reclamo di parte, alla propria funzione a favore del collegio, è quella prevista dall'ultimo comma dell'art. 187 nuovo testo, per cui il giudice istruttore, ove insorga una questione relativa all'ammissibilità e alla rilevanza di prove, può, astenendosi dall'emettere ogni proprio provvedimento, limitarsi a rimettere direttamente le parti al collegio per la sola decisione della questione predetta. In tal caso, il giudice assegna alle parti termini per la comunicazione di memorie; e per la decisione del collegio si osservano le forme già indicate a proposito dell'esame del reclamo.
L'estinzione, per inattività delle parti, del processo di cognizione. - In aderenza alla struttura generale del codice del 1940, dominato dall'impulso d'ufficio e dalla tendenza ad accelerare il ritmo del p., il legislatore aveva congegnato il p. stesso in modo che ogni specifico atto processuale fosse concatenato a quello, pure specifico, che doveva seguirlo, mediante un breve termine perentorio, fissato dalla legge o dal giudice, ovvero mediante l'onere di compiere l'atto successivo nel preciso momento previsto; cosicché, se l'atto successivo non era compiuto entro il termine o nel momento stabilito, la catena si spezzava e il p. si estingueva immediatamente. Tale estinzione, a differenza della perenzione, prevista dal codice del 1865 (che doveva essere eccepita dalla parte prima di ogni altra sua istanza o difesa), doveva essere dichiarata d'ufficio dal giudice. A questo riguardo, in sede di riforma il legislatore ha seguito l'intendimento di ovviare alle asprezze di un simile sistema, e quindi ha provveduto ad attenuare l'impulso ufficiale ed ha convenientemente ampliati i termini imposti alle parti stesse per il compimento delle loro attività. Concretamente, la legge di riforma ha dato separata disciplina a due distinte serie di casi di estinzione. La prima serie riguarda gli effetti del mancato adempimento dell'onere di costituzione e di comparizione, cioè gli effetti della mancata costituzione di tutte le parti dopo la citazione introduttiva, ovvero della mancata comparizione di tutte - dopo la costituzione di almeno una di esse - alla prima udienza fissata o nelle successive dinanzi all'istruttore o anche davanti al collegio.
Per questi casi e analoghi di "diserzione", il codice comminava l'immediata estinzione del processo, previo ordine della cancellazione della causa dal ruolo, ove questa fosse stata già iscritta (artt. 171, 181 2° comma, 270 e 309). Per queste situazioni, oggi, invece, è stabilito (1° comma dell'art. 307, modificato dall'art. 31 della legge di riforma) che alla mancata costituzione, ovvero agli altri successivi inadempimenti che importino la cancellazione della causa già iscritta nel ruolo, non segua più immediatamente e automaticamente l'estinzione del p., ma resti alla parte la possibilità di riassumere il p. stesso - da considerarsi ancora pendente benché la causa non sia iscritta a ruolo - entro il termine di un anno, sicché esso si estingue soltanto se non riassunto entro il termine medesimo. A differenza che nella perenzione vecchio stile, per interrompere il termine di estinzione non è sufficiente un atto qualsiasi di procedura, ma è necessario che venga notificato l'atto di riassunzione del p., dinanzi allo stesso giudice cioè dinanzi allo stesso organo: istruttore o collegio) davanti a cui la causa pendeva allorché ne venne sospeso il corso a seguito della mancata costituzione o comparizione. La forma dell'atto riassuntivo è, normalmente, quella della comparsa contenente l'invito a costituirsi, e a comparire in una data udienza, davanti al giudice già indicato (art. 125 dispos. attuaz. modificato dall'art. 30 del decreto n. 857 del 1950). Al fine, poi, di evitare il perpetuarsi indefinito della lite, noto inconveniente della vecchia perenzione, è stato stabilito (art. 307 modificato, secondo comma) che, nei casi sopra indicati, il p. si estingua, questa volta immediatamente, se alla riassunzione non segua la costituzione, o la nuova costituzione, delle parti, ovvero se in qualsiasi momento successivo si verifichi uno di quegli eventi, in specie la mancata comparizione, che, secondo legge, comportano la cancellazione della causa dal ruolo.
L'altra serie di casi riguarda l'inadempimento delle parti, al di fiori delle situazioni già indicate nel primo comma dell'art. 307 modificato, all'obbligo di rinnovare ia citazione, o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio nel termine perentorio stabilito dalla legge (ad es., art. 305: riassunzione dopo il verificarsi di un evento interruttivo del processo, a seguito di cambiamento di stato delle parti), ovvero dal giudice che dalla legge sia stato autorizzato a fissarlo (ad es., art. 102: ordine d'integrazione del contraddittorio in caso di litisconsorzio necessario).
Riguardo a questi numerosi casi, tutti richiamati con formula sintetiea nel testo del terzo comma dell'art. 307 modificato, il legislatore, in sede di riforma, laddove si trattava di termini stabiliti direttamente dalla legge in varia misura, ha sostituito (con distinte disposizioni) il termine uniforme di sei mesi, normalmente ben più ampio di quello originario; ove, poi, la legge dia facoltà al giudice di fissare il termine perentorio per il compimento dell'atto, la misura minima del termine, secondo le nuove prescrizioni, non potrà essere inferiore a un mese, e la misura massima non potrà essere superiore a sei mesi. Inoltre, il legislatore, ricalcando, per questo riflesso, le orme della vecchia perenzione, ha sottratto la dichiarazione dell'estinzione all'officium iudicis, stabilendo che l'estinzione stessa, pur operando di diritto, deve essere eccepita dall'interessato prima di ogni altra istanza o difesa successiva al verificarsi del fatto estintivo (art. 307 nuovo testo, ultimo comma). Il coordinamento dell'espressa esigenza dell'eccezione con l'affermazione che l'estinzione "opera di diritto" si ottiene, sul piano concettuale, ritenendo che il provvedimento del giudice che riconosce il buon fondamento dell'eccezione retroagisca - pur avendo carattere costitutivo - al tempo in cui si è verificato il fatto estintivo.
È noto che, prima della riforma, era esclusa ogni possibilità di controllo del collegio sulle ordinanze del giudice istruttore dichiarative dell'estinzione, essendo ammesso soltanto - e non in tutti i casi - un ricorso (una specie di opposizione) davanti allo stesso giudice istruttore, che decideva sul reclamo con ordinanza non impugnabile. Al difetto di tale disciplina, unanimemente riconosciuto, ha ovviato la legge n. 581 del 1950, rendendo in ogni caso impugnabili le ordinanze dell'istruttore, dichiarative dell'estinzione, mediante un reclamo al collegio, il quale provvede in camera di consiglio con sentenza - appellabile - se respinge il reclamo, confermando, quindi, la dichiarazione di estinzione; con ordinanza, se l'accoglie, stabilendo, quindi, che il processo debba proseguire. L'ordinanza collegiale non è impugnabile, vale a dire non è revocabile nemmeno con la successiva sentenza; ma ciò, per opinione prevalente, non esclude che il provvedimento si ripercuota sulla sentenza stessa, e che, quindi, la parte interessata possa impugnare tale sentenza, eccependone il vizio derivante dall'avvenuta estinzione; cioè, il vizio dell'ordinanza che ha erroneamente disconosciuto l'estinzione, diviene vizio della sentenza, ovviabile a mezzo dell'appello.
L'appello e il ricorso per cassazione contro le sentenze non definitive. - L'antico problema attinente al punto se le sentenze che non chiudano il p. in primo grado o in appello debbono essere soggette rispettivamente ad appello e a ricorso per cassazione in via immediata e separata, era stato risolto dal codice di procedura civile del 1940, in omaggio al canone della concentrazione, nel senso che, ove il giudice non avesse provveduto su tutta la materia del contendere, l'appello o il ricorso contro la sentenza (parziale) dovesse essere obbligatoriamente differito, cioè potesse essere prodotto soltanto insieme con quello contro la sentenza definitiva, e a condizione che ne fosse stata fatta riserva nei modi e nei termini degli artt. 340 e 361. Avendo tale sistema sollevato vive proteste da parte dei pratici, la legge di riforma n. 581 del 1950 ha reso immediatamente e separatamente appellabili tutte le sentenze, definitive o non definitive (già parziali), predisponendo, però, nello stesso tempo, un sistema d'impugnazione facoltativamente differito e concentrato.
Le nuove norme ammettono, infatti, quanto all'appello, che la parte soccombente, quando si tratta di sentenza non definitiva, possa differire l'esercizio della facoltà di appello, facendone riserva entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza davanti al giudice istruttore, successiva alla comunicazione della sentenza (art. 340 modificat). Fatta la riserva in termine, l'appello contro la sentenza non definitiva deve essere proposto insieme a quello contro la sentenza definitiva, o a quello che venga proposto in via immediata dalla stessa parte, contro una successiva sentenza che anch'essa non definisca il giudizio. La legge prevede anche l'ipotesi che una sentenza successiva, che non definisca il giudizio, venga impugnata, mediante appello, da una parte diversa da quella che ha fatto la riserva nei riguardi della sentenza precedente; e anche in questo caso impone lo scioglimento della riserva. La riserva non può più farsi, o, se già fatta, rimane priva di effetti, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello. Anche in questa ipotesi, caduta l'efficacia della riserva, la parte che l'aveva fatta deve, a pena di decadenza, proporre l'impugnazione, in via incidentale nello stesso processo di appello proposto da alcuna delle altre parti. È chiaro che, in caso di più capi di soccombenza, la riserva d'impugnazione deve investire tutti i capi, a cui la parte non intenda acquietarsi, non essendo ammessa l'impugnazione immediata per alcuni di tali capi e la riserva per altri. È discusso se la parte che abbia fatto riserva possa successivamente revocarla e proporre l'impugnazione immediata, senza attendere l'emanazione di successiva sentenza. È, in proposito, opinione prevalente che la riserva sia írrevocabile, nel senso che esaurisca il diritto di avvalersi del sistema del gravame immediato anche se di questo non sia ancora decorso il termine. Altra delicata questione, sorta nell'applicazione del nuovo sistema, è quella se la mancata dichiarazione di riserva entro la prima udienza istruttoria successiva alla comunicazione della sentenza produca soltanto la decadenza dalla facoltà d'impugnazione differita, o se - nell'ipotesi che sia ancora aperto il termine breve (trenta giorni o quello lungo (un anno), decorrente l'uno dalla notificazione e l'altro dalla pubblicazione della sentenza - precluda anche l'esercizio dell'impugnazione immediata. La risposta della dottrina e della giurisprudenza prevalenti è nel primo senso. La forma della riserva è disciplinata dall'art. 129 delle disposizioni d'attuazione (testo modificato). Essa può essere fatta nell'udienza davanti al giudice istruttore con dichiarazione orale da inserirsi nel processo verbale, o con dichiarazione scritta su foglio a parte da allegarsi ad esso. Può essere anche utilizzata la forma di un atto notificato ai procuratori delle altre parti costituite, o personalmente alla parte, se questa non si è costituita.
Perfettamente analogo è il sistema alternativo tra impugnazione per cassazione, immediata o differita, delle sentenze d'appello non definitive (art. 361, testo modificato).
La nuova fisionomia del processo di appello. - Il regime delle nuove eccezioni e delle nuove prove in appello è stato sensibilmente trasformato dalla legge di riforma. Nel codice, infatti, accentuandosi le analoghe preclusioni già poste per il giudizio di primo grado, era sancito che le parti non potessero proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova, se non quando esistessero gravi motivi accertati dal giudice. La legge predetta, modificando il testo originario dell'art. 345 secondo comma del codice, ha, in conformità di esigenze manifestate non soltanto dai pratici, ma anche da gran parte della dottrina, restituito alle parti, con l'ampiezza già ammessa dal codice del 1865, la facoltà di proporre in appello nuove eccezioni, di produrre nuovi documenti e di chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova. È stato, così, impresso di nuovo al giudizio di appello il suo carattere tradizionale di normale prosecuzione del giudizio di primo grado, e di riesame pieno della controversia, mentre le preclusioni poste dal codice del 1940 avevano avvicinato alquanto la configurazione dell'appello a quella di una revisione del giudizio emesso dal magistrato di primo grado.
Quale unica remora alla libertà, per ogni altro riflesso incondizionata, della deduzione dello ius novorum in appello, è stato stabilito che, se la deduzione poteva essere fatta in primo grado, il giudice può, in applicazione dell'art. 92, infliggere la sanzione della irripetibilità delle spese del giudizio di appello sostenute dall'appellante vittorioso, ed eventualmente anche quella della condanna delle spese dovute sostenere dall'appellato, ancorché soccombente; ciò, particolarmente, quando la tardività della deduzione sia effetto di un comportamento malizioso, contrario, cioè, ai doveri della lealtà e della probità processuale. Tali sanzioni eventuali presuppongono che la mancata produzione dei documenti, o la mancata deduzione della prova o dell'eccezione, sia stata determinante della soccombenza della parte in primo grado, e che, per converso, la produzione o la deduzione in appello abbia determinato la vittoria della stessa parte appellante.
L'ampliamento del controllo della Cassazione sulla motivazione delle sentenze. - Il codice di rito del 1865 contemplava, tra i motivi di nullità delle sentenze deducibili con il ricorso per cassazione, l'omessa motivazione (combinato disposto degli artt. 517 n. 2, 361 n. 2 e 360 n. 6); in pratica, il vizio di omessa motivazione era stato esteso al difetto logico della motivazione, nonostante che la dottrina avvertisse che, mentre il primo è una vera nullità, il secondo si risolve piuttosto in un vizio del ragionamento, e quindi costituisce una violazione di legge, per cui si ha cassazione per difetto di motivazione soltanto quando questo apparisca influente sulla sicurezza e correttezza del giudizio di fatto. Nel corso dei lavori preparatorî del codice del 1940, si era profilata la tendenza a sopprimere del tutto il difetto di motivazione quale motivo di cassazione, proprio a causa dell'estensione così esorbitante e così lontana dalle sue origini testuali. Senonché, si finì per restringere anziché eliminare tale motivo di annullamento, cioè, per limitarlo al vizio d'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5, testo originario). La riforma portata dalla legge n. 581 deI 1950, adottando una nuova formula ("omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio"), è addivenuta, in realtà, alla fusione di due motivi, ampliando, da un lato, il controllo della Corte suprema, rispetto al testo originario del 1940, sulla consistenza logica della motivazione, e tentando, dall'altro lato, di evitarre che, in aderenza all'indirizzo emerso nel vigore del codice del 1865, siano emesse sentenze di annullamento per difetto di motivazione senza precisa individuazione del punto non considerato, ovvero esaminato con scorretta motivazione, in modo da lasciare la controversia senza un preciso indirizzo, in balìa del giudice cui sia stata rinviata.
Il punto della controversia è pur sempre un punto di fatto, non di diritto, in quanto, se l'insufficiente o scorretta motivazione riguardasse una questione giuridica, la Corte suprema avrebbe il potere di correggere in diritto la motivazione a norma dell'art. 384 cod. proc. civ. Esso deve essere decisivo, cioè potenzialmente determinante di una soluzione eventualmente diversa; deve trattarsi di un elemento prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio davanti al giudice di merito, il quale, quindi, doveva tenerne conto.
A parte l'omissione, è insufficiente la motivazione allorché essa non basta a rendere chiaro il pensiero del giudice, e quindi vi è un vizio non perché risulti che costui ha errato, ma perché la struttura della motivazione lascia in chi legge il testo della sentenza qualche incognita insoluta circa le ragioni della decisione; è contraddittoria, allorché fa sorgere gli stessi dubbî a causa delle contraddizioni che contiene. Nel determinare il carattere di decisività del punto, la Corte esercita poteri di fatto; essa, però, non può giungere ad affermare direttamente che un fatto è vero o non è vero, ma ha solo il potere di rilevare o che il giudice di merito, non motivando intorno a un certo fatto, non ha dato la dimostrazione di essersene sufficientemente occupato, ovvero che un determinato fatto avrebbe potuto essere decisivo se provato o valutato; in tal modo, il giudice di rinvio potrà, riesaminando la causa su detto punto di fatto, decidere nuovamente dando una più adeguata motivazione, e cioè precisando le ragioni che lo inducono a prenderlo o meno in considerazione.
Bibl.: V. Andrioli, Le riforme del codice di procedura civile, Napoli 1951; S. Costa, Manuale di diritto processuale civile, 2ª ed., Torino 1959; F. Pasquera, G. Scarpello, C. La Farina, Le nuove norme del processo civile, Roma 1951; S. Satta, Le nuove disposizioni nel processo civile, Padova 1951.
Processo penale. (XXVIII, p. 282).
Nei rapporti tra lo stato e il cittadino il p. penale rappresenta uno dei momenti più delicati e solenni perché risolve la lite direttamente insorta tra i due soggetti per il soddisfacimento della pretesa punitiva; la sua regolamentazione è quindi influenzata dalla concezione dello stato imperante in un determinato momento storico, principalmente per quel che concerne i poteri dell'autorità e i diritti del cittadino, e anche il cod. di proc. pen. del 1931, che rimane un saggio notevole di evoluzione giuridica, subì sia pur debolmente e parzialmente l'influenza del tempo in cui fu emanato. Dopo la caduta del fascismo e la liberazione, il legislatore si è preoccupato di armonizzare questo codice coi principî democratici affermati dalla coscienza popolare e consacrati dalla Costituzione con numerose modifiche. Il p. penale peraltro è rimasto sostanzialmente immutato nella sua struttura, che si uniforma a un sistema intermedio tra quello accusatorio (in astratto più liberale) e quello inquisitorio, "che più specialmente si addice ai regimi dispotici" (Carrara): i principî fondamentali che lo disciplinano sono sempre quelli dell'obbligatorietà e ufficialità dell'azione penale, il cui esercizio è affidato al pubblico ministero, organo distinto dal giudice, del contraddittorio, della segretezza e graficità dell'istruttoria, della pubblicità e oralità del dibattimento, del libero convincimento del giudice. Delle suaccennate modifiche alcune furono temporanee, perché, dettate per considerazioni di carattere contingente in vista dello stato di guerra, ebbero validità, così come era stato previsto, sino a sei mesi dopo la sua cessazione e cioè sino al 15 ottobre 1947; le più importanti di queste norme modificatrici erano quelle che riducevano, con criteri più favorevoli all'imputato, i casi nei quali sono obbligatorî o facoltativi l'arresto in flagranza e il mandato di cattura (d. l. l. 10 agosto 1944, n. 194).
Le innovazioni di carattere permanente, prescindendo dalle norme dirette ad adeguare le sanzioni pecuniarie al valore della moneta (d. l. l. 45 ottobre 1945, n. 679, d. l. l. 21 ottobre 1947 n. 1250, d. l. 9 aprile 1948, n. 438), tendono principalmente ai seguenti fini: aumentare le garanzie che salvaguardano gli interessi delle parti e specialmente dell'imputato, rendere più efficiente la partecipazione popolare ai processi più importanti attraverso il riordinamento dei giudizî di assise, regolare la partecipazione delle donne alla funzione giudiziaria, riformare l'ordinamento del casellario gudiziale.
Modificazioni generali al codice di procedura penale. - Anteriormente alla Costituzione, alcune innovazioni furono introdotte col d. l. l. 14 sattembre 1944, n. 288, e col d. l. l. 5 attobre 1945, n. 679. Di esse le più importanti sono le seguenti.
L'art. 74 del codice del 1931 conferiva al pubblico ministero e al pretore il potere di disporre essi stessi la trasmissione degli atti all'archivio per la manifesta infondatezza dell'accusa. Questa disposizione è stata riformata dal decreto n. 288 del 1944 nel senso che, in quella ipotesi, il pubblico ministero deve richiedere al giudice istruttore di pronunziare il decreto di archiviazione, e il giudice, se ritiene di non accogliere la richiesta, può disporre con ordinanza la formale istruttoria; il pretore provvede direttamente informandone il procuratore della Repubblica, che può ordinare il procedimento. Lo stesso decreto, riformando gli art. 469 e 470, ha temperato i poteri attribuiti al presidente e al pretore nella direzione della discussione finale del dibattimento, per dar modo ai difensori di esplicare il loro compito con la maggior possibile libertà.
Il decreto n. 679 del 1945, invece, ha ripristinato l'istituto della competenza prorogata, che esisteva nel precedente codice del 1913; nei processi di competenza del tribunale, il procuratore della Repubblica può, quando ritenga applicabile in concreto una pena che rientri nei limiti della competenza pretoria per il concorso di attenuanti diverse dalle generiche, ordinare la rimessione del p. al pretore con provvedimento insindacabile.
La più ampia riforma del cod. di proc. pen., che ha reso operanti nel nostro ordinamento giuridico i principî posti dalla Costituzione, si è avuta con la legge 18 giugno 1955, n. 517, seguita dalle norme transitorie, di attuazione e di coordinamento emanate col d. p. 8 agosto 1955, n. 666, e col d. p. 25 ottobre 1955, n. 932, e da alcune norme modificatrici emanate con la legge 21 marzo 1958, n. 229. Le modifiche riguardano principalmente la competenza per materia, il sistema delle notificazioni, il sistema delle nullità, il sistema delle impugnazioni, i diritti della difesa nell'istruttoria, la disciplina della polizia giudiziaria, la tutela della libertà personale e la restituzione in termini.
È stato più vigorosamente affermato il principio della inderogabilità della competenza per materia, disponendosi che l'incompetenza determinata da tale motivo sia dichiarata anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio; è stata soppressa la disposizione che non ammetteva appello contro la sentenza del giudice superiore, che avesse giudicato di un reato di competenza del giudice inferiore rispetto al quale era giudice di secondo grado, perché si risolveva in un'ingiustificata privazione di un grado di giurisdizione.
Nella materia delle notificazioni sono state aumentate le garanzie dirette ad assicurare la ricezione dell'atto da parte dell'imputato. Quando, in assenza dell'imputato, la copia dell'atto debba essere consegnata a persona convivente o al portiere, quest'ultimo deve firmare l'originale e l'ufficiale giudiziario deve comunicare al destinatario l'avvenuta notificazione a mezzo di raccomandata; se le persone suddette mancano o sono inidonee o si rifiutano di ricevere la copia, questa deve essere depositata nella casa comunale, previa affissione di un avviso alla porta della casa d'abitazione, e altro avviso deve essere comunicato all'interessato mediante raccomandata. Il decreto d'irreperibilità, in virtù del quale la notifica può essere effettuata mediante deposito in cancelleria con avviso al difensore, può essere emesso dal magistrato "dopo aver disposto nuove ricerche particolarmente nel luogo di nascita o in quello dell'ultima dimora dell'imputato", e la sua efficacia è limitata alla fase del procedimento nella quale è stato emanato, sì che le ricerche dovranno essere rinnovate nelle fasi successive. Se risulta notizia precisa del luogo dove dimora all'estero l'imputato, il magistrato deve trasmettergli mediante raccomandata avviso del procedimento.
Mentre il codice del 1931, preoccupato di evitare intralci o ritardi nella procedura, considerava sanabili tutte le nullità, la riforma stabilisce che sono insanabili e obbligatoriamente rilevabili dal giudice, anche di sua iniziativa, in ogni stato e grado del procedimento, quelle di ordine generale che più fortemente incidono sulla funzionalità dell'atto processuale, cioe quelle che concernono la nomina e la capacità del giudice e la formazione degli organi collegiali, l'iniziativa e la partecipazione del pubblico ministero, l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato. È da avvertire a questo proposito che la giurisprudenza, anche sotto l'impero delle norme abrogate, aveva temperato il loro rigore identificando in molte inosservanze di particolare gravità dei casi d'inesistenza giuridica, insanabile e sempre rilevabile d'ufficio.
Nel campo delle impugnazioni, è stato anzitutto stabilito, uniformandosi alla norma precettiva di cui all'art. 111 Cost., che l'imputato possa ricorrere per cassazione contro tutte le sentenze di condanna o di proscioglimento, e anche contro le sentenze pronunziate dal giudice di rinvio nel giudizio di revisione, nonché contro i provvedimenti e le sentenze sulla libertà personale (mandato di cattura). È stato mantenuto il principio che le sentenze sono alcune appellabili (contro la sentenza d'appello potrà poi ricorrersi in cassazione per violazione di legge), altre (quelle di condanna per reati meno gravi e quelle di proscioglimento che per la formula adottata incidono meno sulla reputazione dell'imputato) soggette soltanto al ricorso per cassazione; sono stati però aumentati i casi in cui la sentenza può essere appellata dall'imputato, in modo da offrire a quest'ultimo più generosamente la maggior garanzia del doppio grado di giurisdizione nel merito.
Mentre le modifiche all'art. 151, che riguarda la notifica degli avvisi di deposito dei provvedimenti, estendono la possibilità di conoscenza dei provvedimenti stessi e quindi la possibilità d'impugnazione, altre innovazioni rendono più agevole la proposizione del gravame e la presentazione dei motivi. Tanto la dichiarazione d'impugnazione quanto i motivi possono essere inviati a mezzo di raccomandata, e la dichiarazione anche a mezzo di telegramma, purché la firma sia autenticata da organi appositamente indicati; la dichiarazione d'impugnazione dell'imputato contumace e, in ogni caso, i motivi di gravame, possono essere presentati, oltre che al cancelliere del giudice che pronunziò il provvedimento, anche al cancelliere della pretura del luogo in cui l'imputato o il difensore dimora.
Infine, la dichiarazione d'impugnazione del pubblico ministero deve essere notificata entro trenta giorni all'imputato a pena d'inammissibilità; basta all'uopo la notifica di un avviso contenente tutti gli estremi dell'atto.
L'istruttoria, come è noto, si svolge o nelle forme dell'istruzione sommaria (che viene espletata dal pubblico ministero e che si conclude o con la richiesta di archiviazione o di proscioglimento rivolta al giudice istruttore o con la richiesta di citazione a giudizio) ovvero nelle forme dell'istruzione formale (che viene espletata dal giudice istruttore con l'intervento del pubblico ministero e che si conclude o con la sentenza di proscioglimento o con la sentenza di rinvio a giudizio). Le innovazioni, che, secondo l'interpretazione data dalla cassazione a sezioni unite, riguardano soltanto l'istruzione formale, ampliano le possibilità della difesa consentendo al difensore d'intervenire personalmente ad alcuni importanti atti istruttorî (esperimenti giudiziali, perquisizioni domiciliari, perizie, ricognizioni) e mettendolo in grado di conoscerne immediatamente altri (interrogatorio dell'imputato, sequestri, ispezioni e perquisizioni personali).
Prima di procedere agli atti della prima categoria, escluse le perquisizioni domiciliari, il giudice istruttore deve avvertire il pubblico ministero e i difensori a pena di nullità, salvo il caso di assoluta urgenza. Gli atti della prima e quelli della seconda categoria debbono essere entro cinque giorni, di regola, depositati in cancelleria a disposizione dei difensori previo avviso ai medesimi. Il perito d'ufficio può essere ricusato dal pubblico ministero e dalle parti per determinati motivi (interesse personale, rapporto di parentela, inimicizia grave, ecc.).
La polizia giudiziaria esercita le sue attribuzioni alle dipendenze e sotto il controllo del pubblico ministero; in ogni sede giudiziaria l'ufficiale di polizia giudiziaria più elevato in grado non può essere trasferito ad altra sede o ad altro incarico senza il consenso del procuratore generale, e senza il parere favorevole di quest'ultimo non può esser disposta qualsiasi promozione degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria.
Per quanto concerne la tutela della libertà personale, più severe disposizioni sono state dettate per disciplinare le perquisizioni di polizia giudiziaria, che possono essere eseguite, senza ordine del magistrato, solo in flagranza di reato e in caso di evasione e devono essere convalidate dall'autorità giudiziaria entro breve termine; senza autorizzazione del magistrato non possono essere aperte carte sigillate né intercettate comunicazioni telefoniche. Il fermo è consentito soltanto quando vi è sospetto di fuga e nei confronti di indiziati di reato per il quale è obbligatorio il mandato di cattura, ma, subito dopo l'interrogatorio, il fermato deve essere tradotto nel carcere e messo a disposizione del pubblico ministero che, prontamente avvertito, entro il termine massimo di quattro giorni deve interrogarlo, convalidare il fermo ed eventualmente prorogarlo sino al settimo giorno dall'esecuzione.
Sono stati limitati i casi nei quali sono obbligatorî o facoltativi l'arresto in flagranza da parte della polizia giudiziaria e il mandato di cattura, ed è stata ampliata la possibilità di concedere la libertà provvisoria. I provvedimenti con i quali si ordina o si nega la scarcerazione, si concede o si nega la libertà provvisoria sono sempre impugnabili; se il pubblico ministero intende negare la scarcerazione o la libertà provvísoria richiesta dall'imputato, nell'istruttoria sommaria, deve trasmettere gli atti con le sue conclusioni al giudice istruttore che provvede con ordinanza.
Ripristinato l'istituto della scarcerazione automatica, sono stati stabiliti dei termini, diversi a seconda della gravità del reato (2 anni per i reati più gravi), che non possono essere oltrepassati dalla custodia preventiva dell'imputato nel corso dell'istruttoria formale; trascorso questo termine, se non è stata depositata la sentenza di rinvio a giudizio l'imputato deve essere scarcerato. Nell'istruttoria sommaria, se la custodia preventiva ha oltrepassato i quaranta giorni e l'indagine non è stata conclusa, il pubblico ministero deve trasmettere gli atti al giudice istruttore per la formale istruzione.
È stato ripristinato infine anche l'istituto della restituzione in termini. La parte può essere restituita in un termine stabilito a pena di decadenza, compreso quello per proporre impugnazione, se prova di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore; la relativa istanza deve essere proposta entro dieci giorni dalla cessazione dell'impedimento, e su di essa decide, con ordinanza ricorribile in cassazione, il giudice che procede ovvero quello competente per l'impugnazione se fu pronunciata condanna; la restituzione però non può esser concessa alla stessa parte più di una volta nello stesso procedimento.
Riordinamento dei giudizî di assise: v. corte d'assise, in questa Appendice.
Riordinamento del casellario giudiziale. - Gli artt. 604 e 605 cod. di proc. pen., che disciplinano questa materia, sono stati modificati dalla legge 14 marzo 1952, n. 158, cui ha fatto seguito la legge 18 giugno 1955, n. 516. L'innovazione più importante è l'eliminazione, come criterio generale, dell'obbligo di iscrivere nel casellario, e di registrare quindi nei relativi certificati, le sentenze di condanna per i reati meno gravi (contravvenzioni oblazionabili) e le sentenze di assoluzione o di proscioglimento con le più ampie formule.
Partecipazione delle donne alla funzione giudiziaria. - La legge 27 dicembre 1956, n. 1441, ammette la donna all'esercizio delle funzioni giudiziarie limitatamente però ai giudizî di assise e ai procedimenti nei confronti dei minori. Nelle Corti d'assise dei sei giudici popolari almeno tre devono essere uomini, gli altri possono essere donne; la Corte costituzionale con la sua sentenza del 29 settembre 1958, n. 56, ha respinto l'eccezione d'illegittimità costituzionale sollevata circa queste norme. Nei Tribunali per i minorenni e nelle sezioni di Corte d'appello per i minorenni i due esperti non togati debbono essere un uomo e una donna.
Riparazione degli errori giudiziarî. - Infine la l. 23 maggio 1960 n. 504, modificando gli artt. 571 e sgg. cod. proc. pen., ha dato una nuova disciplina all'istituto della riparazione degli errori giudiziarî, che meglio corrisponde al principio sancito dall'art. 24 Cost.; essa è ora non più soltanto un soccorso, condizionato all'accertamento dello stato di bisogno, ma un vero e proprio diritto soggettivo a un integrale risarcimento del danno, attribuito al condannato che sia stato assolto, in sede di revisione, per effetto della sentenza della cassazione o del giudice di rinvio, a condizione che egli non abbia per dolo o colpa grave dato o concorso a dar causa all'errore, e, in caso di sua morte, al coniuge non separato legalmente per sua colpa, agli ascendenti, ai discendenti, ai fratelli, alle sorelle o agli affini in primo grado. La riparazione sarà equamente commisurata alla durata dell'eventuale carcerazione o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, comprendendo quindi anche il danno morale. Per ottenerla occorre presentare una domanda, alla Corte di cassazione se la sentenza di condanna fu annullata senza rinvio, ovvero al giudice che pronunziò la sentenza di assoluzione quando vi sia stato un giudizio di rinvio, entro 18 mesi dalla pronuncia dell'assoluzione; e la domanda deve essere notificata al ministro del Tesoro che può intervenire nel procedimento. Nessuna riparazione è dovuta, per la carcerazione preventiva ingiustamente subita, a chi sia stato assolto nel corso del procedimento.
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