Prodotti alimentari: qualità e certificazione
L’evoluzione della qualità alimentaretra globale e locale
L’inizio del 21° sec. ha visto proseguire la tendenza alla globalizzazione degli scambi che ha caratterizzato gli ultimi decenni del secolo scorso. Il processo d’integrazione del mercato a livello planetario è sembrato per lungo tempo un fenomeno senza termine, con la conseguente presenza diffusa di prodotti alimentari provenienti dai Paesi più disparati, che ha fatto praticamente scomparire la stagionalità dei consumi e ha reso omogenei i prezzi dei mercati sulla base della maggiore convenienza.
Tuttavia almeno tre nuovi fattori, la cui portata all’inizio è apparsa assolutamente sottostimata, fanno presagire la possibilità di modificare profondamente la struttura della produzione e dei consumi e, con essa, lo stesso concetto di qualità alimentare: il cambiamento climatico; l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime; l’aumento della domanda alimentare, in particolare dei grandi Paesi asiatici, connessa alla progressiva crescita del reddito di larghi strati di popolazione in passato sottonutrita.
Il primo fattore sembra destinato a incidere profondamente sull’agricoltura mondiale e, di conseguenza, sulla geografia della produzione alimentare di base, e implica notevoli ripercussioni sulla disponibilità di acqua per usi agricoli.
Il secondo fattore si riflette automaticamente sul prezzo del cibo a causa dell’aumento dei costi di produzione e comporta una lievitazione dei costi di trasporto. Tale fenomeno sembra incidere in maniera sensibile sui costi, al punto da costringere a riprogettare i sistemi di fornitura alimentare in funzione della vicinanza ai luoghi di consumo. Questa ‘agricoltura di prossimità’ riproduce in realtà un modello molto antico in cui gran parte del fabbisogno alimentare delle città veniva soddisfatto dalle produzioni locali. Tale concetto di ‘locale’ può effettivamente essere considerato il primo elemento della nuova qualità alimentare, come in seguito sarà meglio descritto.
Il terzo fattore, ossia l’aumento dei consumi in India e in Cina, attira verso questi nuovi mercati grandi quantità di materie prime, soprattutto di cereali. È il fenomeno più recente ma sembra quello destinato a incidere in misura maggiore sulla struttura dei mercati alimentari: in uno scenario dove la richiesta di cibo aumenta di continuo e i prezzi si muovono di conseguenza, anche il concetto di qualità è destinato a evolversi profondamente.
Il quadro appena descritto si sta gradualmente sovrapponendo a quello creatosi in seguito alla grande crescita degli scambi, avvenuta tra il secondo dopoguerra e la fine del 20° secolo.
Gli elementi caratterizzanti il grande mercato alimentare mondiale, e in particolare quello del mondo occidentale, possono essere così riassunti: a) un grande rimescolamento degli stili alimentari provocato dalla globalizzazione. In tutti i Paesi del mondo è più o meno presente una omologazione dei consumi (dalla Coca-Cola®, agli hamburger) che mette in secondo piano le tradizioni alimentari locali; b) l’allungamento della filiera produzione-consumo, la conseguente riduzione delle occasioni d’incontro tra chi produce cibi e chi li consuma e con essa la necessità di regolare sempre di più la quantità e la qualità delle informazioni obbligatorie che devono risultare sulle etichette e sulle confezioni dei prodotti alimentari; c) l’aumento dei pasti fuori casa, strettamente connesso al cambiamento delle abitudini lavorative della società occidentale, che comporta una crescita sempre più massiccia sul mercato dei prodotti già preparati per il consumo (cibi precotti, surgelati, pronti da cuocere), con conseguente scarsa conoscenza da parte del consumatore degli ingredienti, della provenienza e, in definitiva, della qualità di quello che acquista; d) la crescente insicurezza, la sfiducia dei consumatori nei confronti delle grandi produzioni agro-industriali, conseguenza dei ripetuti scandali verificatisi nel settore alimentare: un atteggiamento questo che determina un sempre maggiore bisogno di sicurezza alimentare; e) la specializzazione delle forniture alimentari verso gruppi di consumatori che scelgono aspetti specifici della qualità, come particolari caratteristiche organolettiche o valori nutrizionali; f) la richiesta, sempre più ampia, di funzionalità e di semplicità d’uso, connessa alle abitudini della vita moderna e in particolare alla necessità di abbreviare i tempi di preparazione dei prodotti alimentari. La funzionalità, ben riassunta dall’espressione anglosassone fitness for use, ossia adeguatezza all’uso, appare essere il principale fattore evolutivo dei mercati alimentari occidentali; g) la continua crescita del bisogno di identificare il cibo come fattore di distinzione, che interessa gruppi limitati di consumatori, basata sulla riscoperta di abitudini alimentari proprie di ciascun territorio, con i suoi prodotti tipici e le sue ricette tradizionali. Questo fenomeno, da elitario, è divenuto sempre più popolare, grazie anche all’azione di associazioni di consumatori come Slow food, e ha raggiunto una dimensione internazionale. A tale riguardo bisogna aggiungere che la tipicità non è sganciata da caratteristiche qualitative prioritarie quali la salubrità e l’interesse per alcuni aspetti etici dei sistemi produttivi, come la conservazione dell’ambiente e il benessere delle popolazioni locali. È, questo, il fattore più importante per la scelta dei prodotti di alta qualità.
Ne consegue che la qualità attesa si evolve molto rapidamente ed è profondamente cambiata. Essa deve essere intesa, infatti, come qualità a tutto tondo che va dal prodotto al processo produttivo e alla sua funzione d’uso, e che richiede specifiche garanzie su tutti questi aspetti. Si può affermare che la qualità è da identificarsi con la garanzia della qualità, perché la qualità, da sola, non basta ad assicurare il successo di un prodotto sul mercato. Ai due estremi di questo percorso vi sono la sicurezza e l’eccellenza, concetti sui quali vale la pena di soffermarsi.
La sicurezza, o meglio la percezione del livello di sicurezza da parte dei consumatori, è minata da fenomeni ripetuti che interessano a volte il mercato globale, a volte soltanto situazioni locali, ma che hanno comunque una grande eco e provocano immediate modificazioni delle abitudini di consumo. Tra i fenomeni più importanti e clamorosi verificatisi nei primi anni del nuovo secolo si possono citare: il morbo della mucca pazza – BSE, Bovine Spongiform Encephalopa-thy (in Italia la prima segnalazione risale al 16 gennaio del 2001); l’influenza aviaria (2004); le contaminazioni da diossina (verificatesi più volte in luoghi e mercati diversi); i coloranti nelle confezioni di tetrapak® (con riferimento al contaminante isopropiltioxantone, ITX, nel 2005); la scoperta di tossine nei cereali e nei loro derivati (le aflatossine nel 2003 e nel 2005); la contaminazione dei prodotti lattiero-caseari da melanina (nel 2008).
A queste situazioni si possono sommare gli allarmi sui dolcificanti ipocalorici (aspartame nel 2005), su alcuni coloranti come il cosiddetto rosso sudan, oltre che sulla presenza di ormoni anabolizzanti nelle carni.
Quando si verificano questi scandali alimentari, l’atteggiamento dei consumatori è caratterizzato da un forte allarme e, di conseguenza, un vero e proprio blocco degli acquisti. Nel pieno delle emergenze alimentari circa il 40% dei consumatori smette di comprare i prodotti coinvolti o comunque ritenuti tali. L’atteggiamento in questo caso è di totale sfiducia non soltanto verso il sistema produttivo, ma anche e soprattutto nei confronti dei sistemi di controllo, quindi della capacità stessa della società di salvaguardarsi da fenomeni anomali.
In questi casi se, da una parte, i consumatori ricercano e scelgono produttori locali, ritenendoli più affidabili e sicuri, dall’altra il mondo della distribuzione organizzata, che detiene quote sempre più importanti del commercio, tenta di difendersi attraverso propri sistemi di assicurazione della qualità, sostenuti da ampie campagne di comunicazione. È proprio la ricerca di fiducia da parte del consumatore, infatti, a essere al centro dell’azione dei private label, marchi privati posseduti dai distributori che contraddistinguono gamme sempre più ampie di prodotti, e che competono con i marchi pubblici ormai storici, come le denominazioni e le indicazioni di origine. In questi il concetto di eccellenza è legato a prodotti tipici locali derivanti da lunghe tradizioni, concetto che ha una sua logica poiché lega la qualità a un lungo lavoro di miglioramento svolto da successive generazioni. Ma proprio nel momento in cui i marchi europei DOP® (Denominazione di Origine Protetta), IGP® (Indicazione Geografica Protetta), STG® (Specialità Tradizionale Garantita) e il marchio che tutela il metodo di produzione biologico raggiungono un buon livello di notorietà, si trovano a concorrere con nuove e più ampie forme di garanzie gestite da privati, spesso senza riferimenti all’origine geografica.
Il tema della provenienza, che in qualche modo è sempre collegato a quello della tracciabilità, cioè della possibilità di seguire ogni passaggio commerciale di un prodotto, e della rintracciabilità, cioè della capacità di rintracciare un prodotto considerato anomalo e potenzialmente pericoloso allo scopo di eliminarlo dal mercato, è però sempre più al centro dell’interesse dei consumatori italiani ed europei che, scegliendo l’acquisto diretto dal produttore, la cosiddetta filiera corta, e cercando di soddisfare il loro fabbisogno di informazioni sul prodotto acquistato, beneficiano anche di un certo risparmio e possono conoscere direttamente il produttore e la sua azienda.
Anche l’acquisto diretto è divenuto nel tempo un vero e proprio fattore di qualità, tanto da trasformarsi in appositi marchi collettivi per i ‘prodotti di fattoria’ in Italia o i più famosi fermiers in Francia.
Questo fenomeno si traduce in vari percorsi, tutti oggetto di specifiche garanzie di qualità, come, per es., i farmer’s markets, molto diffusi negli Stati Uniti e nei Paesi anglosassoni e in corso di attivazione anche nel nostro Paese: l’acquisto diretto in azienda, a volte organizzato in itinerari di acquisto come le Strade del vino e dei sapori; forme di raccolta ‘fai da te’ in azienda e, naturalmente, l’acquisto a distanza attraverso Internet. Del resto il ruolo della rete appare sempre più importante per la capacità di diffusione delle informazioni, per il basso costo e per la sempre maggiore accessibilità e facilità d’uso. In questi ultimi anni la leva della convenienza è stata la base per l’autorganizzazione da parte dei consumatori che hanno costituito appositi Gruppi d’acquisto, in cui le specifiche della qualità vengono definite direttamente tra chi compra e chi vende.
La qualità alimentare e le esigenzedi garanzia
In un mercato sempre più globalizzato, in continua e rapida evoluzione, nel quale le condizioni mutano con grande dinamismo e dove il consumatore diventa sempre più attento, più informato (anche grazie alla diffusione capillare effettuata dai mass media e da Internet) e consapevole delle scelte che adotta, anche le aziende del settore agroalimentare devono essere in grado di adeguarsi prontamente alle nuove situazioni che si vengono a creare. In questo panorama, la richiesta di qualità da parte dei consumatori è sempre più insistente e chi vuole rimanere sul mercato, non può dimenticarsene. In particolare, per un prodotto alimentare, il concetto di qualità risulta essere essenzialmente soggettivo e può modificarsi sia nel tempo sia nello spazio. Inoltre, solo alcuni dei requisiti qualitativi sono immediatamente percepiti dai consumatori (per es., le caratteristiche organolettiche), mentre altri non possono essere determinati se non indirettamente (per es., il valore nutrizionale).
Invece per quanto riguarda gli aspetti qualitativi più rilevanti di un prodotto alimentare si possono citare: la qualità agronomica, intesa come l’insieme delle caratteristiche ricercate dai produttori, ossia resistenza alle malattie delle piante o agli animali, adattabilità all’ambiente di produzione ecc.; la qualità nutrizionale, cioè la capacità, potenziale, che un prodotto ha di apportare una certa quantità di nutrimento e di energia necessari per il metabolismo vitale; la qualità organolettico-sensoriale, che comprende diverse caratteristiche di un prodotto (per es., aspetto, colore, consistenza, odore, gusto, aroma); la qualità igienico-sanitaria, ovvero la sicurezza che in un alimento siano assenti sostanze che possano risultare dannose per la salute dei consumatori.
Ai fini della qualità, i primi tre aspetti passano certamente in secondo piano rispetto all’ultimo che rappresenta, invece, un prerequisito della qualità di un alimento. La componente igienico-sanitaria, infatti, deve essere garantita in maniera incondizionata e al massimo livello possibile; tutti i prodotti, inoltre, la devono garantire in eguale misura.
A fronte delle considerazioni sopra esposte, emerge chiaramente l’esigenza da parte del mondo agricolo e agroalimentare di rendere sempre più distinti e riconoscibili i prodotti realizzati. I sistemi a disposizione per riuscire a perseguire quest’obiettivo sono: l’applicazione delle leggi; l’applicazione di standard volontari e certificabili; la creazione di marchi e la definizione di accordi di filiera.
L’applicazione delle leggi
La posizione dell’Unione Europea (UE) e conseguentemente degli Stati membri in fatto di garanzia della qualità e, in particolare, dell’igiene degli alimenti può essere ricondotta a tre fasi temporali successive: una prima fase in cui vengono definiti i requisiti minimi che le strutture, i materiali, le attrezzature e il personale che opera a contatto con gli alimenti devono avere; una seconda fase in cui si definiscono le modalità per l’esecuzione dei controlli da parte degli organi ufficiali; una terza fase in cui (dato l’altissimo costo della ‘macchina’ delegata ai controlli ufficiali) i produttori stessi vengono responsabilizzati e incaricati dell’esecuzione del primo livello di controllo dell’igiene delle loro attività e dei loro prodotti.
La terza fase di questo processo evolutivo ha introdotto il concetto di autocontrollo, presente ormai da tempo nella politica dell’Unione Europea. Con questo termine si intende infatti l’insieme delle azioni o delle attività destinate ad assicurare e dimostrare che un prodotto alimentare sia conforme alle esigenze di igiene e di sicurezza. Tale concetto si basa su tre aspetti cardine: la responsabilizzazione del produttore su ciò che produce (responsabilità); l’assunto che la sicurezza di un alimento debba provenire da attività di tipo preventivo e non da controlli sui prodotti finiti (prevenzione); l’esigenza che la gestione della sicurezza igienica di un alimento debba essere opportunamente formalizzata per essere sempre in grado di dimostrare ciò che è stato fatto (dimostrazione).
Per sintetizzare ciò che le aziende devono fare in merito all’autocontrollo igienico, si può dire che ogni azienda che manipola alimenti, anche in una sola delle fasi dal campo alla tavola, deve procedere allo studio, alla progettazione e documentazione di un insieme di regole attraverso le quali definire le procedure di prevenzione dei potenziali pericoli per il consumatore, connessi al consumo dello specifico alimento. Tali regole prendono il nome di Manuale HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) o Manuale aziendale di autocontrollo igienico. Sull’igiene degli alimenti, infatti, si afferma che: «Le malattie dovute ai cibi contaminati costituiscono forse il problema di salute pubblica più diffuso nel mondo contemporaneo e un’importante causa di riduzione della produttività economica. […] La sicurezza dei cibi non riceve il grado di attenzione e di stanziamenti che meriterebbe; i problemi di salute e il peso dell’impatto economico delle malattie associate alla contaminazione dei cibi devono essere riconosciuti a livello nazionale e internazionale, in modo che possano essere individuate le risorse necessarie per la loro prevenzione» (pp. 17-18).
Da questo assunto deriva l’assoluta necessità che gli operatori del mondo alimentare si impegnino seriamente per: a) conoscere i fattori di rischio (chimici, fisici, biologici e microbiologici) e i conseguenti pericoli connessi al consumo di uno specifico alimento; b) definire e descrivere in un documento aziendale tutte quelle regole necessarie per evitare che tali pericoli possano essere riscontrabili nell’alimento stesso; c) formare e sensibilizzare il personale aziendale al fine di garantire che sia consapevole della delicatezza e dell’importanza delle corrette azioni che si devono adottare durante la conduzione del processo produttivo; d) documentare e lasciare traccia dell’avvenuta applicazione delle regole definite, in maniera tale da poter dimostrare nel tempo quanto fatto.
Qui di seguito sono riportate le normative, nazionali e comunitarie, cogenti in tema di autocontrollo igienico e, più in generale, di sicurezza alimentare, che richiedono un impegno più diffuso per l’adeguamento delle aziende agroalimentari: la direttiva 43/1993/CEE e il d. legisl. del 26 maggio 1997 n. 155, ambedue sull’igiene dei prodotti alimentari e sull’HACCP (ormai abrogate); il regolamento (CE) n. 178/2002 che si occupa della rintracciabilità dei prodotti alimentari; la direttiva 89/2003/CE riguardante l’indicazione degli ingredienti contenuti nei prodotti alimentari; il regolamento (CE) n. 1829/2003 sugli alimenti e i mangimi geneticamente modificati; il regolamento (CE) n. 1830/2003 sulla tracciabilità ed etichettatura dei prodotti OGM.
Un insieme di norme per la sicurezza alimentare, l’igiene e i controlli è noto come pacchetto igiene e riunisce i regolamenti (CE) n. 852/2004 sull’igiene dei prodotti alimentari, n. 853/2004 sull’igiene degli alimenti di origine animale e n. 854/2004 sui controlli ufficiali; oltre al regolamento (CE) n. 183/2005 sui requisiti per l’igiene dei mangimi e al n. 1273/2005 sui controlli analitici degli alimenti. A questo elenco fa seguito la normativa sui contaminanti, per es. il regolamento (CE) n. 2073/2005 sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari.
Si può concludere quindi che l’applicazione ‘ragionata’ delle normative suddette rappresenti un primo step minimo e indispensabile sulla strada della ‘distinguibilità’ di un prodotto.
L’applicazione di standard volontarie certificabili
A parte l’applicazione delle normative attualmente in vigore, negli ultimi dieci anni anche nel settore agroalimentare si è sviluppata, in maniera sempre più capillare, l’adesione a normative e standard volontari attraverso i quali le aziende possono progettare e implementare sistemi organizzativi interni, volti alla definizione di regole e di procedure gestionali e tecniche. Questa attività normativa per l’Italia viene gestita dall’Ente nazionale italiano di unificazione (UNI), che partecipa agli organismi normativi sovranazionali ISO (International Organization for Standardization) ed EN (European Norms).
La certificazione
Fra i punti in comune di queste norme, certamente è da mettere in evidenza quello legato alla loro certificabilità. In altre parole, un’organizzazione che realizzi e applichi un sistema di regole basato su una o più norme, descritte di seguito, è libera di richiedere a un organismo terzo, e quindi indipendente, periodici audits attraverso i quali valutare l’effettiva congruenza e conformità delle regole stesse alle norme applicate, allo scopo di conseguire una certificazione (per fare solo un esempio, la norma UNI EN ISO 19011/2003 fornisce linee guida per gli audits dei sistemi di gestione per la qualità e/o di gestione ambientale). Entrando più nello specifico, si intende l’atto mediante il quale un organismo di certificazione dichiara che un determinato prodotto, processo, servizio, sistema di qualità aziendale è conforme alle norme oppure alle regole a esso applicabili.
Gli scopi principali dell’attività certificativa sono: garantire la conformità del sistema a requisiti di qualità e di affidabilità noti e accettati dalla maggioranza degli utenti; facilitare la loro libera circolazione in un mercato internazionale, permettendo di effettuare confronti, sulla base dei requisiti precedentemente esposti. Inoltre, affinché la certificazione possa effettivamente facilitare il libero scambio tutelando nel contempo il consumatore, è necessario disporre di: a) norme o standard di riferimento riconosciuti e accettati dalle parti; b) enti di certificazione indipendenti (nella maggioranza dei casi si tratta di società che erogano il servizio di auditing e quello di rilascio della certificazione); c) enti di accreditamento che assicurino un livello uniforme e omogeneo di competenza degli organismi di certificazione all’interno di uno specifico Paese e nei diversi Paesi.
Le caratteristiche degli organismi di certificazione sono determinanti per assicurare una corretta valutazione. È pertanto evidente la necessità che tali enti siano essi stessi soggetti a un controllo e a un insieme di regole che garantiscano l’operatività e l’omogeneità del sistema di certificazione. L’attività di controllo sugli enti di certificazione porta al loro accreditamento, attraverso il quale viene valutata e assicurata la loro competenza, imparzialità e trasparenza nella gestione dell’attività di auditing e di certificazione. In Italia, l’ente preposto a questa attività è il Sistema nazionale per l’accreditamento degli organismi di certificazione e ispezione (SINCERT).
Tutto ciò, oltre a un indubbio valore interno, connesso con la definizione di regole che consentono a un’azienda di ottimizzare i propri processi produttivi e organizzativi, fornisce certamente un importante valore esterno, legato alla garanzia, anche commerciale, che i clienti possono avere da un’azienda certificata. In effetti, le principali motivazioni che possono portare un’azienda ad adottare un sistema gestionale interno e a richiederne successivamente la certificazione sono: a) rendere il sistema organizzativo dell’azienda il più efficiente possibile, realizzando una gestione interna che non solo preveda controlli più accurati sui prodotti/servizi con continuità e metodo ma che, operando nell’ambito dell’esatta assegnazione di ruoli e responsabilità, riesca a eliminare tutti i problemi inerenti le ambiguità di competenze; b) acquisire nuove possibilità di affari in quanto sempre più spesso i clienti pretendono che i loro fornitori operino nel rispetto di schemi, norme e standard che possano essere certificati per dare loro delle precise garanzie (garanzia della qualità) a riguardo delle forniture che entrano nel ciclo produttivo della loro attività: è evidente come il processo di certificazione divenga un processo a catena, in quanto anche il fornitore può avanzare simili richieste al subfornitore per garantirsi analoghe coperture; c) mantenere i clienti: infatti, poter garantire al cliente standard di qualità elevati aiuta a conservare il parco clienti creando una sorta di fidelizzazione degli stessi; d) correre meno rischi quanto a responsabilità da prodotto difettoso: si rischia cioè sempre meno di immettere sul mercato prodotti il cui uso può rivelarsi pericoloso e le cui implicazioni di responsabilità possono venire a ricadere sull’azienda; e) avere un’immagine sul mercato che possa dar forza e lustro ai propri prodotti, intesi come prodotti di qualità, certificati e quindi affidabili per il cliente: l’importanza anche della pubblicità che l’azienda ne ricava può essere determinante ai fini dell’acquisizione di spazi di mercato; f) ridurre i costi della non-qualità.
I sistemi di gestione per la qualità
Prima fra le norme volontarie, sia in termini di numero di aziende che vi aderiscono in maniera trasversale (dal momento che può essere applicata da una qualunque organizzazione nell’ambito di tutti i settori produttivi e di servizi), sia in termini di storia di applicazione, è certamente la norma UNI EN ISO 9001/2000, che definisce i requisiti che una organizzazione deve avere per progettare e realizzare un sistema di gestione per la qualità.
Un sistema di gestione per la qualità si riferisce quindi all’insieme della struttura organizzativa e investe le responsabilità, le procedure, i procedimenti e le risorse necessari. Sostanzialmente è riconducibile a quattro elementi: definizione della struttura; attribuzione di compiti e responsabilità; mezzi e personale; modalità operative (UNI EN ISO 9004/2000, che fornisce linee guida per il miglioramento delle prestazioni, del sistema di gestione e il raggiungimento dell’eccellenza della organizzazione/azienda). A tale scopo, prima è necessario individuare le attività che hanno o possono avere riflessi condizionanti sulla qualità. A fronte di questa individuazione è richiesta la precisa attribuzione dei compiti e delle responsabilità. Particolare attenzione deve essere posta all’eliminazione delle carenze e a evitare l’esistenza di sovrapposizioni. È necessario che le deleghe di compiti e autorità siano chiaramente definite, che siano distintamente individuate e tenute sotto controllo le interfacce interne ed esterne e siano previste le opportune misure per garantire il coordinamento delle strutture.
Parallelamente a questa definizione-attribuzione emerge la necessità di ‘disegnare’ la struttura aziendale attribuendo a ogni posizione organizzativa la necessaria disponibilità di mezzi economici, uomini e competenze specialistiche, mezzi tecnici. Il disegno (cioè l’organigramma) aziendale deve definire chiaramente le dipendenze gerarchiche e le linee funzionali. L’esigenza di una razionale suddivisione dei compiti e delle responsabilità tra i vari gruppi o persone di un’azienda è anteriore all’introduzione dei concetti dell’assicurazione della qualità, ed era (come è) dettata dall’ottimale impiego delle risorse disponibili per la realizzazione dell’obiettivo proprio dell’azienda. Appare del tutto evidente che la dimensione dell’organizzazione dipenderà dal tipo e dalla mole del lavoro, dalle dimensioni dell’azienda e dalle capacità del personale disponibile. Nello strutturare l’organizzazione, nell’assegnare le responsabilità e nello svolgimento del lavoro l’aspetto qualitativo deve essere riconosciuto come un impegno che coinvolge tutti i settori e i livelli, e non deve essere considerato un compito esclusivo dell’organo responsabile della definizione, controllo e valutazione della qualità.
È precisa responsabilità del management aziendale definire il profilo degli uomini relativamente a ogni posizione organizzativa; la definizione delle caratteristiche umane deve tener conto di fattori come professionalità, addestramento ed esperienza, necessari a un adeguato svolgimento dei compiti richiesti dall’attività. Importante è che sia valutata l’adeguatezza (mezzi-uomini) per il raggiungimento degli scopi. Le modalità operative per la conduzione delle diverse attività aziendali devono essere chiare e diffuse, sempre documentate e continuamente adeguate all’evoluzione delle esigenze dell’azienda.
La necessità di avere un sistema definito e diffuso è indispensabile anche per effettuare le attività di verifica e valutazione del sistema organizzativo interno. È infatti un preciso dovere del management aziendale assicurare che venga verificata e valutata la risposta del sistema, nella sua reale applicazione, alle esigenze dettate dagli obiettivi e dalla politica aziendale per la qualità. Le attività di verifica e valutazione devono tendere, nel rispetto dello spirito di un’autonoma scelta aziendale, al miglioramento della qualità ed essere collaborative nei confronti delle funzioni aziendali. Devono inoltre avere cadenza periodica, quella periodicità ritenuta necessaria da chi definisce il sistema stesso. Infine, devono pervenire all’individuazione del reale stato della qualità aziendale in relazione agli obiettivi qualitativi da raggiungere.
La rintracciabilità
In questo ambito, spiccano nel settore agroalimentare le norme relative alla realizzazione di Sistemi di rintracciabilità aziendale (UNI 11020/2002) e di filiera (UNI 10939/2001) che sono stati recentemente sostituiti da una normativa a carattere più marcatamente internazionale (ISO 22005/2007). Attraverso l’applicazione di queste norme, le aziende singole, o i gruppi di aziende lungo una filiera, hanno la possibilità di realizzare e applicare dei sistemi di regole volti proprio a garantire la capacità di mantenere la storia di un qualunque prodotto realizzato e la conoscenza della destinazione sul mercato dello stesso. Tutto ciò anche e soprattutto al fine di dimostrare la capacità, nel caso di una indesiderata ‘crisi alimentare’, di ritirare dal mercato il prodotto riscontrato come pericoloso per il consumatore.
Lo scopo di un sistema di rintracciabilità, sia esso aziendale (cioè destinato a gestire le informazioni e i dati sviluppati ‘all’interno dei cancelli’ di una specifica azienda) sia di filiera (afferente quindi a una successione produttiva, dal campo al prodotto pronto per il consumo), è permettere di risalire alla provenienza dei materiali utilizzati nei vari processi produttivi e alla destinazione del prodotto finito, oltre che a tutti i parametri e controlli effettuati lungo il percorso produttivo; il sistema è un punto di riferimento per l’attribuzione delle singole responsabilità, e dà la possibilità di affrontare eventuali problemi di sicurezza alimentare e di capirne le cause.
Per l’applicazione di un sistema di rintracciabilità inoltre, sia in un’azienda agroalimentare sia in una filiera, è necessario definire e identificare: a) i materiali in entrata e i relativi fornitori; b) i flussi e i lotti degli stessi nei processi produttivi; c) le modalità di registrazione dei materiali impiegati in ogni lotto di prodotto; d) i singoli parametri di processo impiegati per la trasformazione di ogni specifico lotto di prodotto finito; e) i controlli eseguiti e i relativi risultati ottenuti sul singolo lotto di materia prima e/o di prodotto finito; f) la destinazione finale di questi ultimi; g) le modalità di attribuzione delle responsabilità nella gestione del sistema di rintracciabilità.
Oltre a quanto sopra elencato è fondamentale definire un piano di controllo del sistema progettato. Il piano di controllo di un sistema di rintracciabilità ha la funzione di assicurare il suo corretto funzionamento, raccogliendo informazioni sui punti critici, le attività, i processi e le relative responsabilità all’interno dell’intero ciclo di produzione, di trasformazione e di distribuzione. Il piano, grazie alla registrazione di ogni singola operazione da parte degli operatori coinvolti, permette di controllare ciascuna fase che porta alla formazione dei lotti di prodotto finito e si esplica attraverso una serie di prove e di accertamenti; un esempio di questo tipo di interventi è l’autocontrollo, che consiste in verifiche, effettuate dall’operatore stesso, circa la corretta esecuzione della fase di cui è responsabile e nella registrazione dei fatti su appositi documenti di lavoro. Deve essere poi prevista e scadenzata l’esecuzione di controlli interni, cioè di verifiche effettuate lungo il processo aziendale e/o lungo la filiera produttiva, allo scopo di valutare che vengano rispettati i requisiti prestabiliti. In sintesi un piano di controllo, per poter essere efficace, deve indicare: le fasi e i parametri del processo produttivo; i metodi di gestione e di controllo; le responsabilità; le frequenze del controllo; i sistemi di registrazione adottati.
Qualora si rilevi una anomalia (ossia una non conformità) attraverso l’applicazione del piano di controllo, il sistema di rintracciabilità deve essere in grado di gestire i materiali o i prodotti che risultassero non conformi ai requisiti. È fondamentale quindi stabilire le responsabilità e i vari livelli di non conformità per poi poter intervenire tempestivamente e con misure adeguate, in particolare attraverso l’utilizzo di azioni correttive o preventive.
Al fine di assicurare una corretta attuazione del si-stema di rintracciabilità, è molto importante che il personale coinvolto venga addestrato e sensibilizzato attraverso un’adeguata formazione, in modo da poter svolgere i propri compiti con consapevolezza e responsabilità; deve essere conscio dell’importanza della propria funzione e delle possibili conseguenze che il proprio comportamento può avere.
Per valutare la reale efficacia e il buon funzionamento del sistema di rintracciabilità realizzato, periodicamente devono essere eseguite delle verifiche ispettive interne, condotte da personale qualificato e non direttamente coinvolto nelle attività oggetto di verifica. Nello stesso tempo devono essere condotti anche test di rintracciabilità di un lotto di prodotto finito prelevato casualmente e prove di richiamo del prodotto dal mercato. È importante sottolineare l’esigenza della periodicità di questa operazione (almeno annuale), che si rivela ancor più importante in caso di cambiamenti nelle attività o nelle caratteristiche del prodotto stesso.
Il sistema di rintracciabilità, inoltre, per poter essere efficiente deve fare riferimento a un’adeguata documentazione (manuali, procedure ecc.) che possa essere utilizzabile sia dall’azienda singola e/o dalle aziende aderenti alla filiera produttiva per la conduzione e il monitoraggio dei processi attuati, sia dagli organismi di certificazione incaricati dell’attività di auditing e rilascio del certificato.
Le norme e gli standard settoriali e privati
Nell’ambito delle normative volontarie è stata pubblicata e resa operativa una norma che rende certificabili anche i sistemi di gestione per l’autocontrollo igienico, progettati e implementati sulla base del metodo HACCP. Si tratta della norma UNI EN ISO 22000/2005, riguardante i sistemi di gestione per la sicurezza alimentare, che rende quindi certificabile proprio quanto già previsto (anche se forse in maniera più blanda) da molte delle normative in materia di sicurezza igienica degli alimenti. Gli obiettivi principali di questa nuova norma sono fondamentalmente due: il primo, armonizzare i differenti standard specifici riguardanti la sicurezza alimentare e derivanti da un’attività normativa tipica dei grandi gruppi di retailer (vendita al dettaglio); il secondo, fornire uno strumento per sviluppare il metodo HACCP in tutto il sistema produttivo del settore alimentare.
Questa norma si rivolge a tutti gli attori coinvolti nella filiera agroalimentare e in particolare alle aziende agricole, ai mangimifici, agli allevamenti, alle aziende agroalimentari, alle imprese della distribuzione organizzata, ai rivenditori al dettaglio e all’ingrosso; ma anche alle aziende di trasporto, ai produttori di pack-aging e macchinari alimentari, alle aziende fornitrici di prodotti per la pulizia e sanificazione e ai fornitori di servizi. Gli obiettivi della norma sono: a) la comunicazione interattiva tra l’azienda e i singoli attori a monte e a valle della catena di fornitura; b) il sistema di gestione aziendale che deve essere applicato; c) il controllo di processo; d) la metodologia HACCP, applicata seguendo i criteri propri del documento FAO/OMS Codex alimentarius (CAC/RCP, Recommended international Code of Practice general principles of hygiene, 1-1969, rev. 4-2003, pp. 1-21), ponendo massima attenzione all’analisi dei pericoli, che diviene quindi la guida della politica di sicurezza alimentare dell’azienda; e) la gestione dei pericoli per la sicurezza igienica degli alimenti e, soprattutto, delle misure di controllo operative.
La ISO 22000/2005 può vantare i seguenti punti di forza: la definizione chiara del modello gestionale da adottare allo scopo di perseguire l’obiettivo della sicurezza alimentare e non della qualità in senso lato; la completa integrabilità e compatibilità con altre norme e, in particolare, con la UNI EN ISO 9001/2000 (dedicata ai sistemi di gestione per la qualità) e con la UNI EN ISO 14001/1996 (concernente i sistemi di gestione ambientale); l’integrazione del metodo HACCP e dei principi del Codex alimentarius all’interno del modello gestionale; la soddisfazione dei diversi attori interessati (ossia autorità preposte al controllo dei requisiti di legge, consumatore, intermediari commerciali, altre aziende alimentari e così via).
Per concludere il quadro sulle norme e sugli standard volontari per il settore agricolo e agroalimentare, non si può dimenticare quell’insieme di standard privati, realizzati per lo più da consorzi cui aderiscono le principali catene della Grande distribuzione (GD) e della Grande distribuzione organizzata (GDO) europea, e che risultano essere costituiti da elenchi di requisiti strutturali, impiantistici e procedurali, complessivamente tendenti al perseguimento dell’obiettivo di ottenere prodotti alimentari sicuri; anche a fronte di questi standard le aziende possono ottenere una certificazione da organismi certificativi indipendenti.
In particolare se ne ricordano alcuni tra i più significativi: l’IFS (International Food Standard), versione 5 (ag. 2007), realizzato dalle catene della GD e GDO tedesca e successivamente anche francese, è stato progettato come uno strumento uniforme per assicurare la sicurezza alimentare e per monitorare il livello di qualità per i produttori di prodotti a marchio (private label). È uno standard applicabile al settore della trasformazione agroalimentare. Il BRC (British Retail Consortium), versione 5 (genn. 2008), analogamente al precedente è stato realizzato dalle catene della GD e GDO inglesi per essere usato come strumento per valutare i produttori di generi alimentari a marchio; rappresenta il pilastro della due diligence (espressione anglosassone che identifica il processo di valutazione di un’azienda prima dell’apertura di trattative di acquisizione o investimento) per i retailers; anche in questo caso, è applicabile al settore della trasformazione agroalimentare. QS (Qualità Standard), impiegato nel settore ortofrutticolo (frutta fresca, verdure e pa-tate), è un sistema di assicurazione qualità che offre un controllo completo, dal campo di coltivazione fino al banco del negozio. È stato fondato da partecipanti alla catena di produzione alimentare come alleanza per un’attiva tutela del consumatore. Il cuore del sistema QS per frutta fresca, verdure e patate è rappresentato dal monitoraggio dei residui QS. L’obiettivo è infatti quello di rilevare possibili superamenti del limite dei Residui massimi ammessi (RMA), identificarne le cause e trovare misure adatte per evitare che si ripetano in futuro. GlobalGAP (Global Good Agricultural Practice), l’ex EurepGAP, applicabile soprattutto ai comparti ortofrutticolo, zootecnico e ittico, oltre che a quello floricolo, nell’ambito sia del settore primario sia della trasformazione, è stato realizzato da un organismo normatore privato internazionale (il GlobalGAP), che definisce standard volontari per la certificazione di prodotti agricoli, con la finalità di fornire garanzie al consumatore circa le modalità con le quali il prodotto è stato coltivato, anche attraverso la riduzione dell’impatto sull’ambiente e delle operazioni agronomiche adottate, assicurando un approccio responsabile alla sicurezza del lavoro e al benessere animale. Il GlobalGAP prevede l’applicazione in azienda delle Buone pratiche agricole (BPA) e si fonda su una partnership tra agricoltori e distributori, attraverso un insieme di regole condivise e certificabili: il GlobalGAP, versione 3.0 (sett. 2007), è articolato in tre sezioni: Regolamento generale, Punti di controllo e criteri di adempimento, Checklist.
Tutti questi standard, nati con la finalità di ridurre l’impegno da parte delle singole catene della GD e della GDO, profuso per la realizzazione di periodici audits presso i singoli fornitori, sono successivamente divenuti dei sistemi di riferimento anche per quelle organizzazioni che, pur non operando direttamente con la grande distribuzione, vogliono comunque dotarsi di un sistema organizzativo interno al fine di rendere distinguibile il proprio prodotto.
La creazione di marchi e la definizionedi accordi di filiera
Un’altra possibilità fornita alle imprese agroalimentari è l’adesione a consorzi di tutela, e quindi a marchi realizzati per distinguere un prodotto con caratteristiche ben definite e direttamente collegate a uno specifico territorio.
Anche in quest’ambito, nel tempo si sono perseguite due strade: la prima è quella dell’adesione a un sistema ‘ufficiale’ realizzato sulla base di regolamenti comunitari. Marchi DOP, IGP, STG (v. sopra), che vengono impiegati per caratterizzare prodotti tipici e tradizionali sia agricoli sia agroalimentari; marchi DOC (Denominazione di Origine Controllata), DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita) e IGT (Indicazione Geografica Tipica), specifici per il campo vitivinicolo; marchio Biologico (applicabile in tutti i comparti del settore agricolo e agroalimentare). La seconda strada è quella dell’adesione a un sistema ‘privato’ realizzato sulla base di accordi tra aziende tutte afferenti alla medesima filiera produttiva. Si tratta in questo caso per lo più di marchi costituiti da gruppi di imprese, operanti nelle differenti fasi della filiera produttiva sottoposta a un soggetto che ne coordina il funzionamento, oppure creati spesso per soddisfare specifiche esigenze della committenza.
Per la costituzione di un marchio, è necessario seguire alcuni steps: a) creazione di un gruppo costituito da organizzazioni afferenti alle diverse fasi che costituiscono la specifica filiera produttiva; b) definizione e condivisione delle finalità; c) stesura di un codice disciplinare, che aiuti nella definizione e condivisione delle regole lungo tutta la filiera; d) definizione di un accordo di natura tecnico-economica; e) applicazione delle regole da parte dei diversi soggetti aderenti al marchio; f) definizione di un sistema di controllo necessario per accertare l’effettiva corretta applicazione delle regole stabilite dai diversi attori; g) analisi e divulgazione dei risultati.
Nell’ambito della creazione di un consorzio o di un gruppo di imprese afferenti alla medesima filiera produttiva, con la finalità di creare un marchio, bisogna sempre aver presente un presupposto, cioè che tutti gli operatori devono riuscire a condividere gli obiettivi e le finalità del lavoro. In questo senso non si può nascondere l’insieme di ostacoli che spesso rallentano l’operato dei gruppi di lavoro incaricati della stesura dei disciplinari, in particolare le difficoltà nell’individuazione di punti di incontro (tecnici ed economici) specie tra i diversi attori della filiera produttiva e la copertura dei costi del sistema e del marchio che necessiteranno di una continua attività di coordinamento e di controllo.
Peraltro, l’adesione a un marchio da parte di un’azien-da agroalimentare consente di perseguire una serie di risultati assolutamente vantaggiosi in ogni fase del lavoro. Nell’ambito della produzione primaria: la concentrazione dell’offerta di materia prima; la programmazione delle produzioni; la contrattualizzazione dei criteri di definizione dei prezzi. Nel settore della trasformazione: l’omogeneizzazione della materia prima; la localizzazione delle produzioni; la programmazione degli acquisti; la contrattualizzazione dei criteri di definizione dei prezzi; infine, l’impiego di un marchio. Nella filiera produttiva: la riconoscibilità del prodotto sul mercato.
Conclusioni
Il grande scenario internazionale del mercato alimentare disegna una qualità in continua evoluzione. Se al termine del 20° sec. si poteva affermare la netta distinzione del mondo occidentale come principale luogo in cui si effettuavano le scelte della qualità, oggi si può invece sostenere che questa è decisa e affermata dai consumatori di tutto il mondo e, proprio per questo, manifesta continui cambiamenti.
Il sistema della produzione agroalimentare cerca sempre più di affrontare il mercato proponendosi ai clienti, che molte volte consumano prodotti a parecchie migliaia di chilometri di distanza, come sicuro e affidabile, comunicando qualità e distinzione attraverso sistemi standardizzati. I consumatori evoluti di tutto il mondo sono sempre più in grado di distinguere e di capire i significati che sottendono alle garanzie fornite dai produttori, e indirizzano la loro fiducia verso chi offre loro maggiori assicurazioni.
La moltiplicazione di marchi e forme di garanzia, con diversi contenuti, metodi e gradi di affidabilità, non favorisce la trasparenza del mercato.
L’affermazione di un linguaggio comune della qualità, essenziale perché produttori e consumatori di tutto il mondo possano intendersi, deve quindi essere al centro delle politiche locali, regionali e internazionali.