Produttività
sommario: 1. Definizioni introduttive: produttività economica; produttività totale e parziale; produttività fisica; produttività ed efficienza. 2. La produttività microeconomica. Concetti, metodi di misurazione. 3. Cause di variazione della produttività microeconomica. Economie di scala. Curve di apprendimento. Legge di Kaldor-Verdoorn. Azioni deliberate. 4. Le tendenze della produttività nell'industria. Gli effetti del ciclo e le modifiche strutturali. 5. La produttività aggregata. Confronti internazionali. Tendenze di lungo periodo. 6. Considerazioni conclusive. La relazione produttività - competitività - sviluppo. □ Bibliografia.
1. Definizioni introduttive: produttività economica; produttività totale e parziale; produttività fisica; produttività ed efficienza
Il concetto di produttività riguarda la relazione fra ciò che è prodotto (risultato produttivo o output) e ciò che viene, o deve essere, impiegato per ottenere quel risultato produttivo (fattori della produzione o inputs). Ne segue che il concetto di produttività implica che entrambi i termini da cui esso deriva, il risultato e i fattori impiegati, debbono essere conosciuti e misurabili; e inoltre che il processo attraverso cui si attua la trasformazione sia sufficientemente noto, in modo da poter stabilire quali effetti derivano per la produttività da eventuali cambiamenti delle modalità del processo.
Per l'economia, la produttività deriva dal confronto fra prodotto economico e inputs economici. Dato che la misura di questi è rappresentata da ‛valori', la produttività, in prima istanza, è un confronto fra il valore del prodotto e il valore dei fattori impiegati.
Da queste semplici considerazioni introduttive emergono immediatamente i numerosi problemi che si debbono affrontare in sede di misurazione della produttività, i quali possono essere risolti solo con artifizi logici e di calcolo.
Infatti, è immediatamente evidente che la produttività economica risulta dal confronto fra un prodotto e due o più fattori produttivi impiegati, dato che virtualmente non esistono processi produttivi nei quali si impieghino fattori della produzione di una sola specie. Ad esempio, la produttività del settore automobilistico (πa) è data dal rapporto fra il prodotto in un certo intervallo di tempo (Ya) e i fattori impiegati; in estrema sintesi il lavoro (wLa) e il capitale (Ka):
Mentre il concetto di ‛produttività totale', rappresentato dalla (1), è intuitivamente chiaro, assai più complesso risulta poter attribuire a ciascuno dei fattori impiegati una specifica misura della produttività, perché il prodotto non può essere direttamente suddiviso in una parte attribuibile al fattore lavoro e in un'altra attribuibile al capitale. Sulle modalità di calcolo della ‛produttività parziale', ovvero la produttività da attribuire a un singolo input, e sugli artifizi necessari a tale calcolo si dirà nei capitoli successivi.
Come si è già anticipato e come risulta evidente dalla (1), la produttività economica totale risulta da un rapporto fra valori, ovvero fra il valore del prodotto e il valore degli inputs impiegati (wLa, Ka), che rappresentano i costi di produzione in senso economico. È appena il caso di osservare che l'entità assoluta, così come le variazioni dei valori in parola, dipendono da almeno tre distinte variabili che influenzano ciascuna grandezza, ossia: la quantità fisica; i prezzi unitari; la qualità.
Ciò comporta ulteriori complicazioni di calcolo e limitazioni nel significato delle misure della produttività. Ad esempio, quale significato ha il confronto delle produttività di un'industria farmaceutica degli anni cinquanta con quelle di oggi? Per quanto non privo di spunti di interesse, tale confronto soffre delle seguenti limitazioni: la qualità del prodotto non è la medesima (si confronti la qualità del prodotto ‛penicillina' degli anni cinquanta con quella degli antibiotici attuali); il prezzo del prodotto è molto diverso, sia in valore assoluto che relativo (cioè in rapporto al prezzo delle altre merci); il prezzo unitario del lavoro è diverso; probabilmente la qualità del lavoro, e, certamente, la qualità del capitale, è radicalmente cambiata, ecc.
Una via frequentemente utilizzata per aggirare tali complicazioni consiste nel ricorrere al concetto di ‛produttività fisica', in luogo di quello di produttività economica. Essa può semplicemente risultare dal rapporto fra la quantità di prodotto ottenuto (ad es. quintali di frumento; chilogrammi di ferro; unità di autovetture prodotte) e la quantità di fattori impiegati (ore di lavoro, ettari a coltura, ecc.).
Dei problemi suscitati dai prezzi nella misura dei valori, e quindi della produttività, erano perfettamente consci gli economisti classici. All'inizio del secolo scorso, in una lettera a J. Mill, Ricardo scriveva: ‟So che ben presto sarò fermato dalla parola prezzo" (D. Ricardo, Works and correspondence, a cura di P. Sraffa, vol. VI, Cambridge 1951, p. 348). Di qui il tentativo, ben lungi dall'aver avuto successo, di trovare una misura efficace del valore, che la maggior parte degli economisti classici identificò nell'unità di lavoro. In proposito lo stesso Ricardo osservava: ‟Se tutte le merci fossero prodotte dal solo lavoro, senza alcuna anticipazione di capitale, e se fossero vendute entro un giorno, allora avremmo certamente una misura uniforme del valore, e ogni merce, per la cui produzione si richiede sempre un'uguale quantità di lavoro, sarebbe una perfetta misura del valore" (cfr. D. Ricardo, Saggio sull'influenza del basso prezzo del grano, in Napoleoni, 1970, p. 234).
Malgrado queste e altre limitazioni di metodo alla misura e all'interpretazione del concetto di produttività, esso tuttavia conserva un ruolo centrale nella scienza economica, poiché da esso dipendono altri fenomeni, quali la misura e la variazione del salario reale e del profitto, e più in generale la formazione della ricchezza, e quindi del benessere sociale.
Un'ultima distinzione terminologica che pare opportuno introdurre è quella fra ‛produttività' ed ‛efficienza', proposta da S. Kuznets (v., 1971). Con il termine ‛efficienza' si fa riferimento all'utilizzazione delle risorse produttive, dato un certo livello di tecnologia. Il termine produttività, al contrario, si riferisce a un fenomeno più ampio, che comprende il livello di efficienza e le caratteristiche della tecnologia. In altri termini, un produttore di riso della Lombardia del secolo scorso può avere avuto la medesima efficienza di un produttore di oggi del Sud-Est asiatico, date le tecnologie comparabili, mentre la loro produttività è senz'altro più bassa di quella di un produttore moderno, ancorché modestamente efficiente, che dispone di una tecnologia meccanica, chimica e genetica assai più progredita.
2. La produttività microeconomica. Concetti, metodi di misurazione
Il concetto di produttività nella microeconomia si riferisce al rapporto fra la produzione e i fattori impiegati di una singola impresa, o di un insieme di imprese omogenee che costituiscono un settore produttivo, o industria.
Si consideri, data una certa tecnologia, un processo produttivo in cui la combinazione dei due fattori variabili (L e K) consente di ottenere un dato prodotto Q. La relativa ‛funzione di produzione' fa dipendere la quantità del prodotto (q) dalla quantità impiegata dei fattori della produzione (l e k), cioè:
q = f (l, k). (2)
Assumendo fissa la quantità del fattore K, le variazioni del prodotto Q possono essere messe in relazione alle variazioni del fattore L. È quindi per questa via possibile calcolare la produttività del fattore in parola per diversi livelli, assunti successivamente costanti, di k.
Data una funzione di produzione, se ne possono dunque ricavare i valori della produttività totale, della produttività media e della produttività marginale.
Come si può osservare, le curve presentano, dopo il punto di massimo, un'inclinazione negativa. Ciò significa che, facendo crescere la quantità di un fattore (ad esempio L) al di sopra di un dato valore, la sua produttività risulta decrescente. Questo fenomeno è, per la teoria economica, considerato alla stregua di un assioma.
La ‛produttività media' e la ‛produttività marginale' possono essere calcolate in modo analogo considerando fissa la quantità dell'altro fattore. In particolare la produttività media di L è data dal rapporto fra la sua produttività totale e la quantità di L impiegata, ossia:
La produttività marginale di L è invece data dal saggio di variazione della produttività totale rispetto alla variazione della sua quantità, ossia:
Data la forma della curva della produttività totale, la forma e le relazioni delle due curve di produttività media e di produttività marginale risultano determinate. La produttività marginale del fattore considerato sarà inizialmente crescente e superiore alla produttività media, via via che aumenta la quantità impiegata del fattore medesimo.
Al punto corrispondente a quello che registra un flesso nella curva di produttività totale la curva di produttività marginale diviene decrescente, fino a intersecare la curva della produttività media nel punto di massimo di quest'ultima. La curva prosegue la sua discesa, fino a raggiungere il valore di zero in corrispondenza del punto di massimo della curva di produttività totale.
Dopo queste brevi definizioni di carattere logico-matematico, è opportuno volgersi alla sostanza economica del fenomeno della produttività, per descrivere i fenomeni e le leggi economiche che spiegano quei particolari andamenti descritti nelle definizioni.
3. Cause di variazione della produttività microeconomica. Economie di scala. Curve di apprendimento. Legge di Kaldor-Verdoorn. Azioni deliberate.
Sotto questo profilo è necessario distinguere l'andamento della produttività in un quadro di statica economica, cioè in presenza di tecnologie e di conoscenze costanti, da quello che caratterizza il quadro della dinamica economica.
Nel primo caso l'andamento della produttività è legato a una data funzione di produzione e dipende dal fenomeno delle ‛economie di scala'. Nel secondo caso le variazioni della produttività dipendono da cambiamenti della funzione di produzione, che si possono fare risalire al fenomeno delle ‛curve di esperienza' o di apprendimento (learning curves), oppure da innovazioni stimolate dal cambiamento dei prezzi.
Sul fenomeno delle economie di scala, come fattore di variazione della produttività, la letteratura è assai vasta e comprende numerose analisi di misurazione in varie industrie (v. Haldi e Whitcomb, 1967; v. Silberston, 1972).
La loro presenza, analiticamente, è dovuta a una funzione di produzione del seguente tipo:
αs =f (αL, αK), (5)
dove α è una costante e s > 1; per cui, facendo crescere la quantità dei fattori impiegati, la crescita del prodotto è più che proporzionale.
Le cause che determinano una conformazione della funzione di produzione del genere descritto sono numerose e assai varie. Esse possono avere origine da fenomeni tecnologici, come, ad esempio, nel caso della produzione dell'ammoniaca, dove le tecnologie più efficienti possono essere applicate solo con impianti di grandi dimensioni; oppure nel rapporto fisico fra superficie e volume, ovvero costo di costruzione e capacità dell'impianto, come nel caso delle navi cisterna, dove il costo in parola, per unità di trasporto, cresce meno che proporzionalmente al crescere delle dimensioni. Ancora, le economie di scala possono derivare dall'indivisibilità dei fattori produttivi, per cui la piena utilizzazione di questi dipende dal raggiungimento di elevati volumi di produzione.
Altri fattori di rendimento crescente hanno origine nei costi di esercizio. Il più importante fra questi è rappresentato dalla specializzazione del lavoro, che provoca il miglioramento della produttività secondo una legge che già Adam Smith aveva identificato e posto al centro della sua analisi del fenomeno economico.
La crescita delle dimensioni dell'organizzazione d'impresa, infatti, provoca, o quantomeno permette, la suddivisione delle mansioni in compiti sempre più specialistici, i quali determinano un aumento della produttività del lavoro e anche del capitale.
In omaggio al principio dei rendimenti decrescenti, tuttavia, si ammette generalmente che le economie di scala operino come fattore di aumento della produttività in misura via via decrescente fino a esaurirsi in corrispondenza della cosiddetta ‛dimensione ottima minima'. Inoltre, per quanto il fenomeno compaia in termini difficilmente generalizzabili, si assume che, superata una data soglia dimensionale, la produttività tenda a decrescere; siano cioè presenti diseconomie di scala, dovute ad aspetti logistici o alle distorsioni di natura organizzativa proprie delle dimensioni molto grandi (v. Williamson, 1970).
Un fenomeno di natura differente, anche se le sue conseguenze possono talvolta essere confuse con quelle proprie delle economie di scala, è costituito dalle cosiddette curve di apprendimento o di esperienza (v. Alchian, 1963; v. Baloff, 1965).
Tali curve mettono in relazione l'aumento della produttività dei fattori con il trascorrere del tempo, o, meglio, con lo svolgersi nel tempo della produzione.
Tale relazione è approssimata dall'equazione:
dove l rappresenta le unità di lavoro necessarie per ottenere il prodotto al tempo n; Σnt=0 qt rappresenta il volume cumulativo prodotto fra il tempo 0 e il tempo n, a e b sono due costanti con b > 1. Conseguentemente, al crescere di n cresce la produttività del lavoro. Le osservazioni condotte in numerose industrie mostrano che il fenomeno delle curve di apprendimento è generalmente presente, e si registra anche in settori ad alta intensità di capitale, come la siderurgia, in conseguenza del progressivo miglioramento degli impianti e dei processi.
La presenza di economie di scala e di curve di apprendimento ha portato alla formazione di una legge generale concernente l'andamento della produttività, che prende il nome da Kaldor e Verdoorn, secondo cui la crescita della produttività dipende in definitiva dalla crescita della domanda che, per una singola industria, può essere considerata in parte un'esogena (v. Verdoorn, 1949; v. Kaldor, 1966 e 1975; v. anche Scognamiglio e Frova, 1983).
Più complessa è l'impostazione che si tende a dare correntemente al fenomeno della variazione della produttività (v. Sylos Labini, 1984 e 1985). In effetti la produttività non aumenta solo in funzione della crescita della domanda (economie di scala e di apprendimento) e dell'innovazione tecnologica (investimenti innovativi e, ancora, apprendimento), ma anche come conseguenza della variazione dei salari reali e dei prezzi.
Infatti, considerando un'equazione di prezzo molto semplificata:
dove p è il prezzo, m il margine di ricarico, w il saggio salariale e π la produttività del lavoro, si ottiene:
Se il rapporto fra salari e prezzi tende a crescere più rapidamente della produttività, si determina per tutte le imprese uno stimolo a risparmiare lavoro attraverso innovazioni labour saving, di natura tecnologica o organizzativa, che fanno crescere la produttività e che, a rapporto w/p invariato, non sarebbero state invece introdotte.
Pertanto, per spiegare le variazioni di produttività, occorre considerare, accanto alle variazioni della domanda e agli investimenti, anche il rapporto salari-prezzi. Un'equazione della produttività può essere pertanto:
π• = a + bÿ + c [w•/p] + d K• -n, (9)
dove appunto ÿ rappresenta il saggio di variazione della domanda, [w•/p] il saggio di variazione del rapporto salariprezzi, e K• -n rappresenta gli investimenti (variazione dello stock di capitale) effettuati n anni prima; e ciò per tenere conto degli effetti ritardati degli investimenti sulla produttività.
Le stime dei parametri di questa equazione, svolte da Sylos Labini (v., 1984), per l'Italia e gli Stati Uniti mettono in evidenza il peso elevato dei salari reali nel determinare impulsi alla crescita della produttività.
4. Le tendenze della produttività nell'industria. Gli effetti del ciclo e le modifiche strutturali
Le cause di variazioni della produttività sin qui considerate riguardano tutte, in definitiva, fenomeni che hanno origine da cambiamenti della funzione di produzione. Tuttavia, dato che la produttività è un rapporto fra il prodotto e i fattori, variazioni della produttività devono necessariamente derivare anche dalle fluttuazioni cicliche della domanda, ovvero dal ciclo economico.
Nella tab. I sono svolti i calcoli per misurare l'andamento delle produttività parziali del lavoro e del capitale nell'industria manifatturiera italiana.
La produttività del lavoro mostra un cospicuo incremento, che nel decennio è mediamente pari al 3,85% annuale. Tuttavia le variazioni effettive annuali mostrano un andamento fortemente oscillante. Nelle fasi espansive del ciclo (1976; 1979-1980; 1984) l'aumento della produttività è nettamente superiore a quello che si registra nelle fasi di recessione o di stagnazione. La media degli incrementi di produttività è pari al 6% nelle fasi espansive, contro il 2% degli altri anni. Trova conferma così la tendenza ‛prociclica' della produttività, che tende a muoversi in armonia con le fasi del ciclo.
Dalla lettura della tab. I, inoltre, risulta sufficientemente chiaro che le modalità di crescita della produttività nel breve periodo differiscono a seconda della fase del ciclo. In condizioni di espansione l'aumento della produttività deriva dalla crescita del numeratore del rapporto, più che proporzionale alla crescita delle unità di lavoro impiegate. Al contrario, nelle fasi di recessione-stagnazione, l'incremento della produttività deriva principalmente dalla riduzione delle unità di lavoro.
I dati sull'andamento della produttività nell'industria lasciano anche intravvedere una modifica strutturale. Infatti, mentre la prociclicità della produttività si mantiene elevata, le variazioni delle unità di lavoro impiegate sembrano piuttosto seguire un trend costantemente discendente.
Per interpretare questo fenomeno, oltre alle considerazioni già svolte circa gli effetti del livello dei salari reali sulla produttività, e prima di esaminare le osservazioni che emergono dall'esame comparato del fenomeno in diversi paesi, è utile soffermarsi sull'andamento della produttività del capitale.
Le variazioni di quest'ultima non sono significative se riferite ai singoli anni. Infatti la misura dello stock di capitale, e delle sue variazioni, risente pesantemente dei criteri contabili con cui viene calcolato nei bilanci delle imprese, e in particolare della mancata adozione di appropriate tecniche di contabilità dell'inflazione. Al contrario, vi è motivo di ritenere che nel medio periodo questi effetti di disturbo si attenuino, poiché le politiche di bilancio, sulla base di norme speciali, correggono le distorsioni provocate dall'inflazione.
Con queste cautele, la sostanziale costanza della produttività del capitale (+ 0,75% medio annuo nel periodo) può essere vista come il risultato del difforme andamento di due sottoperiodi. Nella prima parte del decennio (1975-1979) la produttività del capitale è in aumento in ragione del 3,6% annuo; nella seconda parte (1980-1984) essa invece presenta una diminuzione di circa il 2,6% annuo. Il confronto fra l'andamento delle due produttività parziali porta a concludere che, in aggiunta ai fattori prima considerati, l'aumento della produttività del lavoro è anche la conseguenza della sostituzione di capitale a lavoro, ovvero del diffondersi su grande scala dei processi di automazione industriale.
5. La produttività aggregata. Confronti internazionali. Tendenze di lungo periodo
La ‛produttività aggregata' deriva dal rapporto fra il prodotto netto aggregato e gli inputs di produzione, costituiti dal lavoro e dal capitale fisico riproducibile. Il prodotto nazionale rappresenta la misura del valore dei beni finali prodotti, nell'arco di un anno, da un'intera collettività nazionale. Esso comprende: il flusso dei beni di consumo immediato e durevole che affluisce alle famiglie; il flusso dei beni destinati al consumo pubblico; l'incremento dello stock di capitale del paese. In aggiunta a queste tre componenti vi è il saldo delle esportazioni, delle importazioni e dei trasferimenti che avvengono fra il paese in questione e gli altri paesi, che costituisce il contributo della produzione del paese in parola alla posizione netta nei confronti degli altri.
Si deve osservare che, per quanto la misura del prodotto nazionale rappresenti una misura completa dell'output totale di un sistema economico, i calcoli di produttività che se ne possono ricavare sono influenzati dalla circostanza che il fattore produttivo lavoro è misurato quantitativamente, in termini di ore uomo, e non qualitativamente, in termini di capitale umano. Le spese sostenute per migliorare la qualità del capitale umano, come l'istruzione, la sanità, il miglioramento dell'alimentazione, sono considerate alla stregua di consumi e non, come sarebbe corretto, di investimenti. È del tutto evidente, perciò, che gran parte delle differenze di produttività che si riscontrano fra i diversi paesi, e nello stesso paese in tempi diversi, non sono chiaramente attribuibili, poiché esse dipendono anche da un fattore non misurato, cioè dal capitale umano.
Nel lungo periodo il tasso di crescita della produttività può variare secondo le seguenti combinazioni fra crescita dell'output e dell'input di lavoro.
1. Lenta crescita del prodotto, compresa fra il 2,75% e il 3% medio annuo, lenta crescita della popolazione, e crescita ancora più lenta della quantità di lavoro, pari allo 0,8-1%. È questo lo schema che descrive le tendenze dei principali paesi dell'Europa occidentale, Italia inclusa.
2. Rapida crescita del prodotto, superiore al 3,5%, accompagnata dalla rapida crescita dell'offerta di lavoro (1,8-2% annuo). Questo schema è corrente nell'esperienza dei paesi d'oltreoceano di lingua inglese (Stati Uniti, Canada, Australia).
3. Lenta crescita del prodotto e rapida crescita della popolazione, per cui la produttività tende a decrescere, come è accaduto per molti paesi del Terzo Mondo.
Le variazioni cumulate della produttività - sull'arco, ad esempio, di un secolo - portano a differenze enormi della ricchezza disponibile. Nei paesi del tipo sub 1 è molto cresciuta la ricchezza individuale, e meno quella complessiva, grazie a un'elevata crescita della produttività del lavoro. Nei paesi sub 2 è cresciuta enormemente la ricchezza complessiva e meno quella pro capite, data la crescita più lenta della produttività e il fortissimo aumento degli inputs produttivi.
Assai più problematico è il calcolo delle tendenze della produttività per i paesi africani, asiatici e dell'America Latina, per i quali le statistiche della contabilità nazionale sono approssimative e disponibili solo in anni relativamente recenti. Tuttavia, sulla base dei dati resi pubblici dall'ONU (v. ONU, 1957 ss.; v. International Labour Office, 1971) si può calcolare che la quantità di beni di consumo finale prodotta per unità di input di lavoro nei paesi sviluppati è da 12 a 15 volte superiore a quella dei paesi del Terzo Mondo. Questo enorme divario di produttività che incorpora, naturalmente, gli effetti di grandi differenze degli stock di capitale fisico disponibili, come pure del capitale umano, dimostra che le disuguaglianze nel mondo vanno accentuandosi in luogo di attenuarsi e che, se anche vi fosse un'inversione di tendenza, il tempo necessario per ottenere una sensibile attenuazione delle differenze di produttività si misura in molti decenni, se non in secoli.
La tab. II mostra, relativamente ai paesi più sviluppati, le differenze e le tendenze della produttività del lavoro in vari paesi sviluppati. Per quanto i divari siano ancora marcati, le tendenze mostrano il diverso andamento dell'Italia, della Francia e del Giappone, da un lato, e degli altri paesi dall'altro.
Il Giappone ha avuto il saggio di crescita della produttività più elevato fra tutti i paesi industrializzati. Su un gradino inferiore stanno la Francia e l'Italia, che tuttavia hanno potuto contare su un rallentamento della pressione demografica in questi anni. A livelli ancora più bassi troviamo gli Stati Uniti, la Germania e infine l'Inghilterra, che in quegli anni non aveva ancora risolto la riconversione della propria economia dal carbone al petrolio.
Per quanto le serie numeriche mostrino una notevole variabilità del tasso di crescita della produttività nei vari paesi, è abbastanza evidente che a partire dagli anni 1972-1974 vi è stata, in tutti i paesi a economia di mercato, una forte caduta del tasso di crescita della produttività (v. tab. III), che risulta virtualmente dimezzata in tutte le principali aree economiche sviluppate.
Questo fenomeno ha suscitato l'interesse di molti analisti, ma permane, quanto alle sue cause lontane, ancora in parte oscuro (v. Denison, 1983; v. Giersch e Wolter, 1983; V. Lindbeck, 1983).
Le cause più dirette del rallentamento nella crescita della produttività sembrano potersi identificare in tre principali gruppi: a) modifiche intervenute nelle strutture dei sistemi economici occidentali; b) esaurimento di alcune favorevoli circostanze che avevano sostenuto la produttività nei periodi precedenti; c) effetti di disturbo esercitati dalle politiche macroeconomiche.
A proposito del primo gruppo di fattori che hanno influenzato negativamente la produttività, vi sono ormai fondati elementi per affermare che il diffondersi in più paesi di rilevanti fenomeni inflazionistici, prolungati nel tempo, abbia condotto a cospicue alterazioni del processo di accumulazione, con riflessi anche sulla produttività del lavoro (v. Scognamiglio, 1982; v. Scognamiglio e Frova, 1983). La presenza di prolungata inflazione, inoltre, si riflette negativamente sulla produttività, sia attraverso la relazione che sussiste con il rapporto salari-prezzi, illustrata nella equazione (9), sia a causa degli effetti depressivi delle politiche di contenimento e di repressione dell'inflazione.
In secondo luogo, gli anni settanta hanno registrato una netta flessione della profittabilità delle imprese, in parte come conseguenza della maggiore concorrenza internazionale e in parte come conseguenza di fattori sindacali. La naturale conseguenza di ciò è stato il rallentamento della crescita degli investimenti e della produzione, con ovvi riflessi sulla produttività.
È da rilevare, infine, che effetti analoghi sono stati determinati dalle distorsioni del prelievo fiscale indotte dall'inflazione e dalle politiche economiche accomodanti, che hanno influenzato il comportamento degli operatori economici.
In effetti, se gli operatori percepiscono che forti incrementi dei salari possono essere compensati da aumenti dei prezzi, resi possibili da una politica espansiva della domanda accompagnata da aggiustamenti del cambio, gli stimoli all'incremento della produttività per poter assicurare competitività alle imprese vengono meno. Si crea quindi la necessità di distruggere queste aspettative mediante una politica fortemente restrittiva.
Quanto al secondo gruppo di fattori, alcune circostanze che avevano concorso a mantenere elevata la crescita della produttività negli anni cinquanta e sessanta, come ad esempio la riallocazione di mano d'opera dal settore agricolo, nel quale la produttività marginale era virtualmente uguale a zero, al settore industriale, con produttività marginale elevata, possono considerarsi esaurite per sempre e dunque non offrono più opportunità da sfruttare per la crescita della produttività.
Quanto al terzo gruppo di fattori, cioè gli effetti di disturbo creati dalle politiche macroeconomiche, si può appena accennare al fatto che queste ultime sono state fortemente oscillanti nel corso degli anni settanta.
Da periodi durante i quali si registravano incrementi dei saggi salariali molto superiori alla crescita della produttività (1970, 1971 e ancora 1974-1975) si passava a periodi di severo controllo della domanda aggregata e quindi di profonda recessione.
Sarebbe del tutto fuori luogo azzardare una previsione circa le probabilità che in futuro le tendenze della produttività riprendano il passo veloce degli anni cinquanta e sessanta oppure si mantengano sui livelli meno elevati degli anni settanta. Per certo, invece, si può affermare che l'inflazione e l'instabilità del quadro macroeconomico tendono a deprimere gli incrementi di produttività e che la stabilizzazione delle politiche macro, e in particolare l'eliminazione dell'inflazione, può imprimere alla produttività un tasso di crescita più elevato, come le esperienze di Stati Uniti, Inghilterra e Germania nella prima metà degli anni ottanta dimostrano ampiamente.
6. Considerazioni conclusive. La relazione produttività - competitività - sviluppo
Per quanto il concetto di produttività soffra di importanti limitazioni e di forzose semplificazioni dal punto di vista della metodologia di calcolo, esso si trova comunque al centro dei fenomeni economici, in particolare dell'economia reale.
Sia nell'ottica micro, di impresa o di industria, come in quella macro, di sistema economico, la misura della produttività e il suo saggio di variazione sono determinanti per assicurare la competitività del soggetto, impresa o comunità nazionale, e conseguentemente il benessere di coloro che ne fanno parte.
Non pare necessario ripercorrere il legame fra produttività e sviluppo a livello di impresa, di cui si sono già visti gli elementi determinanti, se non per avvertire che lo sviluppo può essere un fattore di incremento della produttività, come conseguenza di economie di scala e dell'apprendimento, mentre la competitività, e quindi la produttività, sono l'unico presupposto economicamente accettabile per la crescita. Infatti la crescita di un'impresa, o di un'industria, potrebbe anche trovare fondamento, e/o motivo, nel cosiddetto potere di mercato, ovvero nell'alterazione degli equilibri concorrenziali mediante la costituzione di posizioni dominanti e il loro sfruttamento. Tuttavia queste tecniche, che pure in passato e ancora al presente sono frequentemente utilizzate, non sono né accettabili dal punto di vista del benessere sociale, e quindi vanno opportunamente contrastate, né trovano altro fondamento di quello di barriere protettive, di natura economica e istituzionale, che ugualmente debbono essere contrastate.
Più complessa è la natura della relazione in parola a livello macroeconomico. Il saggio di crescita di un paese sottoposto a un vincolo stringente di bilancia dei pagamenti, in ragione dell'apertura al commercio internazionale e delle dimensioni del paese medesimo, non può essere sostenuto senza limiti dalla domanda aggregata nazionale. La necessità di mantenere un ragionevole equilibrio nei conti con l'estero fa sì che le variazioni della domanda aggregata, e quindi di consumi, investimenti e spesa pubblica, debbano essere contenute entro limiti grosso modo equivalenti a quelli che caratterizzano i paesi con cui vi sono intensi scambi commerciali.
Se ne può quindi dedurre che il saggio di crescita di un paese corrisponde alla crescita dell'area di cui fa parte più, o meno, le variazioni che intervengono nella sua quota di commercio internazionale. Dato che queste ultime dipendono in definitiva dalla competitività, elevati incrementi di produttività possono assicurare uno sviluppo elevato, e quindi il sostegno dei redditi reali, e la piena occupazione dei fattori.
Per il complesso dei fenomeni che abbiamo considerato, e che potremmo definire in massima sintesi come gli effetti del progresso tecnico naturale, la misura media (da intendersi con tutte le limitazioni e le cautele del caso) dell'incremento annuale della produttività può essere rappresentata da una entità attorno al 3%. È questa quindi, a grandi linee, la frontiera che deve essere raggiunta da un paese come l'Italia, per mantenere in equilibrio la propria competitività nella sfera reale dell'economia.
I tassi di crescita delle economie occidentali negli anni ottanta, con l'eccezione degli Stati Uniti, tendono a mantenersi al di sotto della crescita della produttività. Ne deriva, per tutte le economie in parola, la tendenza a non creare posti di lavoro e anzi a ridurre il numero di quelli esistenti, almeno nei settori dell'industria e dei servizi tradizionali.
Tenendo conto della crescita demografica dei decenni scorsi, e del conseguente aumento dell'offerta di lavoro, le tendenze in parola provocano un aumento del tasso di disoccupazione nelle economie occidentali (con l'esclusione appunto degli Stati Uniti), aumento che risulta difficilmente tollerabile.
Secondo gli schemi classici della politica economica, la soluzione potrebbe essere trovata nella riduzione dei saggi reali di salario, che attenuerebbe la spinta verso una produttività sempre crescente; ma ciò, considerata la struttura sociale e sindacale dell'Europa, appare difficilmente praticabile e neppure auspicabile. Per altro verso lo stesso risultato potrebbe essere ottenuto per mezzo di una manovra di sostegno all'occupazione attraverso la domanda aggregata, che presupporrebbe, tuttavia, la possibilità di finanziare per periodi non brevi rilevanti disavanzi della bilancia commerciale. Data la divisione politica e monetaria dell'Europa, tale soluzione è per il momento da escludersi. Le tendenze della produttività, che riflettono il progresso scientifico e tecnologico, in conclusione, rendono antistorica, almeno nell'ottica delle leggi economiche, la frammentazione politica dell'Europa occidentale.
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