Produzione
di Piero Tani
La trasformazione sempre più complessa e articolata di risorse naturali, al fine di renderle più adatte a soddisfare le esigenze di vita dell'uomo, è un fenomeno che ha segnato profondamente l'evoluzione dell'umanità: tale trasformazione, consapevolmente gestita dall'uomo, che vi impiega la propria energia fisica e intellettuale (lavoro) e anche strumenti a loro volta prodotti, costituisce la sostanza del fenomeno della produzione, nell'accezione di questo termine più comunemente usata in economia e nelle scienze sociali in genere.
Perché si possa parlare di produzione non è necessario che si verifichi una trasformazione di tipo fisico-chimico. Poiché si può avere vantaggio per l'utilizzatore anche solo dal trasferimento nello spazio o dalla conservazione nel tempo o dal rendere disponibile un bene in dimensioni e confezioni più adeguate al consumo del bene medesimo, tutte le operazioni corrispondenti sono considerate atti di produzione.Soprattutto con riferimento al fatto che la produzione richiede tempo (v. § 4e), essa viene interpretata come un processo. Nell'analisi economica, tale processo è solitamente rappresentato con il criterio della scatola nera, ossia come una entità della quale interessa osservare e misurare ciò che entra (input) e ciò che esce (output), in quanto si ritiene che i fenomeni interni alla scatola nera medesima non siano di competenza di un'analisi economica della produzione, ma soltanto di un'analisi strettamente tecnica.
Fenomeno sociale in quanto fenomeno umano, la produzione ha visto accentuato il suo collegamento con l'organizzazione della società man mano che è aumentata la complessità delle trasformazioni e, conseguentemente, man mano che si è sviluppata la divisione del lavoro, intesa come divisione tecnica (ossia la specializzazione dei lavoratori in specifiche parti o operazioni del processo di produzione) e come divisione sociale (ossia la situazione per cui non vi è coincidenza fra i beni che un soggetto produce o contribuisce a produrre e quelli che consuma). La divisione del lavoro richiede che si istituisca un qualche meccanismo che consenta a ciascun individuo di non godere solo dei beni e servizi alla cui produzione ha direttamente contribuito, ma di avere accesso anche a beni e servizi prodotti da altri. Tale meccanismo può essere gestito collettivamente, ovvero può avvenire attraverso la libera contrattazione degli individui in mercati più o meno organizzati e strutturati.I sistemi produttivi contemporanei sono sistemi complessi, con molte unità di produzione (fattorie, fabbriche, stabilimenti industriali), ciascuna delle quali produce uno o, più spesso, molti tipi di beni o servizi; queste unità sono collegate tra loro da passaggi di beni e servizi che le une producono e le altre impiegano. Peraltro, ragioni tecniche, ragioni economiche e anche ragioni sociali possono essere alla base di differenti gradi di integrazione verticale dei processi produttivi che si svolgono all'interno di una stessa unità, con situazioni in cui una sola fase del processo è svolta in una singola unità e situazioni in cui vi si svolge invece la maggior parte del processo integrato di produzione, dalle risorse naturali al prodotto finito.
Di un sistema produttivo di grandi dimensioni, che può coincidere con l'intero sistema economico di una nazione e, al limite, con l'intero sistema economico mondiale, non è facile determinare - e ancor meno misurare - quale sia la produzione complessiva in un certo arco temporale. La principale ragione della difficoltà sta proprio nel fatto che una parte dei beni prodotti è destinata a essere impiegata nella produzione di altri beni: anche la semplice elencazione dei beni prodotti, con le rispettive quantità, ha perciò in sé un vizio di duplicazione.
Una prima sistemazione del problema si ha con la classificazione dei beni in risorse primarie, beni intermedi e beni finali: risorsa primaria è qualunque input di un processo di produzione che non sia a sua volta il risultato (output) di un altro processo; bene finale è un output che non sia impiegato come input in alcun processo (beni destinati direttamente al soddisfacimento di bisogni dei consumatori); sono beni intermedi i beni prodotti che vengono utilizzati come inputs in altri processi di produzione (v. Koopmans e altri, 1951, pp. 115 ss.). Queste definizioni sono tuttavia incomplete e potenzialmente contraddittorie a causa della natura ambivalente di alcuni beni (il pane è bene finale in quanto acquistato e utilizzato da una famiglia, ma è input di un processo di produzione di servizi di ristorazione in quanto acquistato da un albergo) e a causa della dimensione temporale della produzione. È allora necessario fare riferimento a un dato intervallo di tempo: bene finale sarà quello che, nell'intervallo di tempo considerato, non sia stato impiegato come input in alcun processo; analogamente per le altre due definizioni.
Utilizzando questa classificazione, la produzione complessiva di un dato sistema produttivo può essere fatta coincidere, senza sostanziali vizi di duplicazione, con l'output di beni finali. Se si stabilisce un sistema di valutazione (i prezzi ai quali questi beni sono stati venduti agli utilizzatori finali; il costo di produzione per i beni e servizi che non transitano per il mercato), il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti può costituire una misura aggregata del risultato produttivo del sistema considerato: con riferimento all'intero sistema economico, entro i confini di un dato territorio (Stato, Regione), è questa la definizione di Prodotto Interno Lordo (PIL), dove l'aggettivo 'lordo' indica che non si è tenuto conto del deperimento dei beni strumentali durevoli (costruzioni, macchinari, impianti) impiegati nella produzione.
La definizione di PIL appena indicata non è agevole da applicare direttamente per il calcolo. In ciascuna unità di produzione è però possibile calcolare il valore aggiunto, definito come differenza tra il valore di tutti i beni e servizi prodotti e il valore dei beni intermedi impiegati. A livello di ciascuna unità produttiva non vi è nessuna corrispondenza tra valore dei beni finali prodotti e valore aggiunto; a livello dell'intero sistema produttivo, invece (purché si tenga conto in modo opportuno dei beni importati da altri sistemi produttivi), il PIL coincide con la somma dei valori aggiunti delle singole unità.
È utile misurare anche il contributo (valore aggiunto) proveniente da singoli settori produttivi, costituiti dall'insieme delle unità che producono uno stesso tipo di beni. La classificazione per settori può essere più o meno fine; la disaggregazione più semplice considera i settori Agricoltura, Industria e Servizi (distinguendo eventualmente i servizi destinati alla vendita da quelli che non passano attraverso il mercato).
L'evoluzione dei sistemi economici, a partire da una prima fase di netta prevalenza del settore agricolo, passa attraverso una sua progressiva perdita di peso, mentre aumenta quello del settore industriale, che diventa prevalente. In una terza fase dell'evoluzione, anche il settore industriale vede ridurre il proprio peso, essendo sopravanzato dal settore terziario (servizi). Il succedersi di queste tre fasi è spesso indicato come 'legge dei tre settori' o di Colin Clark.
Nel fenomeno della produzione, intesa in senso economico, possiamo individuare alcuni elementi fondamentali: la natura; il lavoro umano; gli strumenti prodotti dall'uomo per rendere più efficiente il lavoro (capitale); la tecnologia; il tempo di produzione; l'organizzazione dell'attività produttiva.
Finché la produzione agricola è stata prevalente, il contributo della natura al risultato dell'attività di trasformazione è apparso determinante. Nella concezione della scuola fisiocratica - che si affermò nel XVIII secolo soprattutto ad opera di François Quesnay (1694-1774) - solo l'attività agricola è capace di dar luogo a un prodotto netto. Nella visione dei fisiocratici, è il lavoro umano ad attivare questa potenzialità, e per questo la classe degli agricoltori è la sola classe produttiva.Anche nei classici (Smith, Ricardo, Malthus) è ben presente la limitazione che la natura impone a ciò che può essere prodotto e quindi allo sviluppo stesso della ricchezza, anche se lavoro umano e accumulazione del capitale acquistano un peso prevalente.
David Ricardo (1772-1823) prevedeva che il sistema economico dovesse convergere verso una situazione di tipo stazionario, in corrispondenza della completa utilizzazione di tutta la terra adatta all'agricoltura. Questo non può essere evitato neppure applicando alla produzione agricola tecniche con intensità crescente di lavoro e capitale; anche in questo caso, la legge dei rendimenti decrescenti comporta che, in presenza di un input fisso (la terra, nella fattispecie), l'incremento di produzione dovuto all'impiego di successive unità di inputs variabili è decrescente.
Per Thomas Robert Malthus (1766-1834) la limitazione nella possibilità di crescita della produzione dovuta a fattori naturali è destinata a entrare in conflitto con una crescita della popolazione potenzialmente molto più rapida.
Ma la crescita della produzione industriale, con le grandi innovazioni tecnologiche che l'hanno accompagnata e la corrispondente continua crescita della produttività del lavoro, ha portato a una progressiva perdita di rilievo, nella teoria economica, del problema della limitazione dovuta alle risorse naturali. Anche la teoria neoclassica, nonostante la sua attenzione al problema della 'scarsità', ha prodotto modelli di sviluppo del sistema economico caratterizzati da una crescita indefinita nel tempo.
Dagli anni sessanta, il manifestarsi di particolari emergenze (questione ambientale, crisi energetica) ha riproposto la questione dei limiti allo sviluppo (v. MIT-Club di Roma, 1972) e il dibattito tra ottimisti e pessimisti si è fatto acceso (v. Bresso, 1993), con esplicito ritorno a ipotesi di 'crescita zero' (stato stazionario) (v. Daly, 1977).
Un'impostazione generale del problema di grande profondità è stata proposta da Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994), in particolare attraverso l'introduzione del concetto di entropia nell'analisi economica (v. Georgescu-Roegen, 1971).
L'energia fisica e mentale dell'uomo e la sua capacità di sovrintendere ai processi di trasformazione hanno portato a considerare il lavoro umano, nelle sue varie forme, come la determinante essenziale della trasformazione produttiva, fino a giungere, con David Ricardo e Karl Marx (1818-1883), alla individuazione del valore di scambio dei beni nella quantità di lavoro impiegata, direttamente o indirettamente nella loro produzione (teoria del valore-lavoro). In Marx, in particolare, se il lavoro umano è l'unica fonte di valori economici, il fatto che questo valore si trasmetta al prodotto, in parte attraverso il lavoro che è direttamente impiegato in un certo processo e in parte attraverso il valore già incorporato nei mezzi di produzione prodotti (i beni intermedi), è la condizione per cui, in un sistema capitalistico, i lavoratori sono 'espropriati' di una parte del valore prodotto. L'analisi economica è stata particolarmente interessata a studiare come accada che la stessa quantità fisica di lavoro sia in grado, in tempi e condizioni diversi, di produrre differenti quantità di beni e servizi. Adam Smith (1723-1790), nella sua opera principale, pubblicata nel 1776, individua le "cause dei miglioramenti del potere produttivo del lavoro" principalmente nella divisione del lavoro, a sua volta resa possibile in sempre maggior misura dall'ampliamento delle dimensioni del mercato.
La stessa divisione del lavoro è d'altra parte alla base sia di differenti possibili organizzazioni del lavoro stesso, sia della utilizzazione di strumenti che aumentano la produttività del lavoro, fino a sostituirlo quasi completamente.
Ma, con l'accrescersi della complessità dei processi produttivi, hanno acquistato sempre maggior importanza la qualificazione del lavoro, le conoscenze di base, ottenute attraverso il sistema formativo, e quelle acquisibili attraverso la stessa attività produttiva (learning by doing). Per l'importanza di questo aspetto, si parla di capitale umano con riferimento all'insieme delle conoscenze acquisite dai lavoratori (v. Becker, 1975).
Fin dalle 'innovazioni' primordiali, l'uomo ha utilizzato strumenti per potenziare il proprio lavoro. Poiché gli strumenti sono a loro volta prodotti, si pone il problema di dedicare una parte delle risorse disponibili (e in particolare il lavoro stesso) per produrre strumenti anziché per produrre beni direttamente e immediatamente consumabili.
Già con William Petty (1623-1687) prende avvio un'analisi della produzione che, accanto agli inputs primari (non prodotti), terra e lavoro, considera il ruolo fondamentale svolto da beni prodotti come inputs del processo di produzione. Questi possono essere strumenti (beni durevoli), ma può anche trattarsi di beni intermedi non durevoli. Prende così forma una rappresentazione della produzione che la identifica con un processo circolare che, a partire dai beni (intermedi) disponibili (durevoli e non), attraverso l'impiego di risorse naturali e di lavoro, ottiene beni in quantità superiore a quelli impiegati. Il concetto di sovrappiù ottiene una formulazione più precisa con l'individuazione dei settori produttivi e dei rapporti di interdipendenza che li collegano. Attraverso questa formulazione, che si traduce anche in una analisi empirica (il Tableau économique), François Quesnay precorre la teoria moderna delle interdipendenze settoriali e lo stesso concetto di equilibrio generale del sistema.I classici sviluppano questa impostazione, sempre più soffermandosi sul processo che porta all'ottenimento del sovrappiù e sulle connesse condizioni che ne determinano la distribuzione tra le classi sociali. La connessa teoria del valore, pur differenziandosi nelle formulazioni dei diversi autori, fa prevalente riferimento alle condizioni di produzione (e in particolare alle quantità di lavoro impiegate e ai costi) nella determinazione dei prezzi.
Nella formulazione ricardiana, e poi in quella marxiana, il contributo delle risorse naturali (terra) non entra nella determinazione di tali valori, anche se la quantità e la qualità della terra disponibile li influenza attraverso le quantità di lavoro richieste nelle diverse possibili situazioni.La rivoluzione marginalista concentra inizialmente la sua attenzione sul comportamento del consumatore, sulle sue preferenze e quindi sull'utilità come prima determinante dei prezzi relativi dei beni. L'analisi della produzione riacquista però presto un peso rilevante: Alfred Marshall (1842-1924), ricollegando l'analisi marginalista alla tradizione classica, fa riferimento sia all'utilità sia alle condizioni di produzione nella determinazione dei prezzi.
L'introduzione della funzione di produzione e l'importanza del concetto di produttività marginale (v. sotto, § 6a) per la teoria marginalista della distribuzione del reddito riportano l'analisi della produzione in posizione significativa. Il problema centrale diviene quello della utilizzazione efficiente di risorse scarse, del quale Vilfredo Pareto (1848-1923) offre una sistemazione rigorosa. Il modello di equilibrio generale di Arrow e Debreu (1954), superando il concetto di funzione di produzione, conterrà una rappresentazione insieme semplice e molto generale del problema (v. Debreu, 1959; v. sotto, § 6d).Sulla strada di questo modello vi erano stati contributi importantissimi, di discussa collocazione rispetto alla teoria marginalista o neoclassica: il modello input-output di Leontief, il modello di von Neumann, il modello di analisi delle attività (v. sotto, § 6c).
Attraverso la reinterpretazione dell'opera di Ricardo proposta nell'Introduzione a The works and correspondence, tramite la tradizione orale sviluppata a Cambridge, e soprattutto con la pubblicazione, nel 1960, di Produzione di merci a mezzo di merci, Piero Sraffa (1898-1983) ha contribuito in modo determinante alla ripresa, in epoca moderna, della teoria del sovrappiù, che si è posta in forte contrapposizione critica con la teoria prevalente, di impostazione neoclassica (v. Pasinetti, 1989).
La trasformazione dei beni che costituisce l'essenza del fenomeno produttivo richiede un insieme di conoscenze che l'uomo ha via via acquisito, per ottenere di più in termini di prodotto e per ottenere prodotti sempre più diversificati e complessi: l'acquisizione di queste conoscenze ha seguito strade diverse e si è manifestata, nelle varie epoche, con velocità molto differenziate.In molti casi, l'innovazione tecnologica si incorpora in nuovi tipi di beni strumentali e la sua introduzione si accompagna a un aumento del grado di intensità capitalistica dei processi.
Questa sostituzione di beni strumentali durevoli al lavoro ha dato origine a un dibattito ricorrente sulla desiderabilità sociale di tali innovazioni, soprattutto nella prospettiva delle difficoltà che tale introduzione genera, almeno in una prima fase, per l'occupazione di manodopera. La 'questione delle macchine' ha visto contrapporsi visioni pessimistiche a visioni ottimistiche - che, finora, nel lungo periodo, sembrano confermate dalla storia - circa la possibilità che un aumento della quantità e, soprattutto, della varietà dei beni prodotti dal sistema, insieme a una progressiva riduzione dell'impegno di lavoro umano, forniscano una soluzione ai problemi inizialmente creati dalla sostituzione di capitale a lavoro.
Qualsiasi processo di produzione richiede tempo: nella produzione agricola, questo tempo è ordinariamente scandito anche dal calendario e dal succedersi delle stagioni. Nella produzione artigianale, vi è ancora una possibilità di identificare il tempo che intercorre tra il momento in cui si avvia la produzione del singolo 'pezzo' e il termine del processo. Nella produzione manifatturiera di massa, molti processi elementari possono parzialmente sovrapporsi, così che la produzione può apparire, nel suo complesso, quasi istantanea: con un esempio famoso, nel trasporto di un liquido mediante tubazioni (rete di distribuzione dell'acqua potabile, oleodotto), nello stesso istante in cui si immette il liquido in una estremità della tubazione, una uguale quantità del liquido esce all'altra estremità.
Peraltro, a livello dell'intero sistema produttivo, al tempo di produzione corrisponde un tempo di 'attesa': i lavoratori (ma più in generale ogni persona impegnata nell'attività produttiva) devono poter disporre di quanto serve per vivere e lavorare durante lo svolgimento del processo di produzione; i beni necessari a questo scopo, così come tutti i beni intermedi impiegati nella produzione, devono perciò essere il frutto di atti di produzione precedenti.
L'utilizzazione di macchine, impianti, costruzioni introduce un ulteriore tipo di riferimento al tempo: si tratta infatti di beni intermedi 'durevoli', i quali cioè possono essere usati in più atti di produzione successivi, anche se i successivi impieghi determinano un logoramento, ovvero rendono necessario procedere a manutenzioni e rinnovi; al logoramento fisico si accompagna poi quello derivante da innovazioni sopraggiunte, che rende opportuno sostituire la macchina anche prima del suo completo logoramento fisico (obsolescenza o logoramento economico).
Il collegamento tra tempo di produzione, concetto di 'capitale' e sua misurazione costituisce uno dei nodi della teoria austriaca (Carl Menger, 1840-1921; Eugen von Böhm-Bawerk, 1852-1914; Knut Wicksell, 1851-1926), ripresa nella versione neoaustriaca di John R. Hicks (1904-1989) (v. Screpanti e Zamagni, 1989, pp. 194 ss.; v. Amendola, 1976). In queste teorie, si fa riferimento a processi di produzione verticalmente integrati, ossia a processi che impiegano solo risorse primarie per produrre beni finali. Il tempo (medio) intercorrente tra l'input di lavoro e l'output di prodotto (periodo medio di produzione) è interpretato come riconducibile alla maggiore o minore presenza di passaggi intermedi, e quindi alla produzione e utilizzazione di beni intermedi e quindi ancora alla intensità capitalistica del processo.
Nicholas Georgescu-Roegen (v., 1970) ha introdotto una rappresentazione del processo di produzione che include, in modo essenziale, l'analisi della successione temporale degli eventi (inputs e outputs) che descrivono il processo. All'interno di tale impostazione, questo autore ha anche proposto una classificazione generale degli elementi che intervengono in un processo di produzione che è direttamente collegata con la dimensione temporale della produzione.Georgescu-Roegen distingue gli elementi in flussi, fondi e stocks: l'elemento flusso, misurato con riferimento a un intervallo di tempo, riguarda gli inputs non durevoli e gli outputs in cui questi inputs si trasformano in conseguenza del processo. Agenti di questa trasformazione sono gli elementi-fondo (la terra, i lavoratori, i beni strumentali durevoli), i quali operano attraverso la loro presenza all'interno del processo, provvedendo un servizio che è misurato dal tempo di tale presenza.
Gli stocks sono accumuli di flussi (materie prime e prodotti finiti in magazzino) e hanno in comune con i fondi il riferimento temporale a un istante anziché a un intervallo di tempo. Tuttavia, mentre gli stocks sono decumulabili con una qualunque velocità (uno stock di materie prime può essere impiegato nel corso di un anno o di un giorno, se la produzione lo richiede), i fondi possono cedere il loro servizio solo condizionatamente al passare del tempo (secondo un illuminante esempio di Georgescu-Roegen, una camera di albergo può ospitare in un anno una persona al giorno per 365 giorni ma non 365 persone in un giorno solo).
L'utilizzazione efficiente dei fondi pone perciò dei problemi di organizzazione della produzione (produzione in linea, produzione congiunta) che hanno natura economica, oltre che tecnica. In questa impostazione, trova anche una più corretta collocazione il problema delle indivisibilità (v. Morroni, 1992, p. 25; v. Tani, 1986).
Le conoscenze tecnologiche condizionano ma non determinano completamente la struttura organizzativa di un sistema produttivo complesso, la sua suddivisione in unità produttive di varie dimensioni, il grado di integrazione verticale realizzato all'interno di ciascuna di queste unità, la loro differente organizzazione interna della produzione, le relazioni e i meccanismi di coordinamento delle decisioni relative all'attività svolta da ciascuna unità produttiva.
D'altra parte, i risultati conseguibili, a parità di risorse, dal sistema produttivo sono fortemente dipendenti da questi aspetti organizzativi (v. Morroni, 1992, pp. 44 ss.). Può anche verificarsi che il cambiamento organizzativo preceda e stimoli un successivo cambiamento tecnologico. Quale che sia di volta in volta la spinta iniziale, un circuito virtuoso di durata indefinita può svilupparsi dal successivo verificarsi di: aumento delle dimensioni del mercato, aumento della produzione, riorganizzazione dell'attività produttiva basata su una maggior divisione del lavoro, introduzione di strumenti specifici per singole fasi, aumenti di produttività, aumenti di reddito.
Non sempre effetti del tipo descritto sono però destinati a generare economie di scala a livello delle singole imprese e quindi a incentivare la concentrazione della produzione in poche grandi imprese, con potere monopolistico o oligopolistico. Se il processo di produzione è tecnicamente scomponibile in fasi, è possibile che l'aumento della quantità complessivamente prodotta avvenga attraverso un numero anche molto grande di imprese che svolgono solo una di queste fasi, collegate fra loro attraverso un sistema di scambi. Situazioni di questo tipo possono più facilmente ed efficacemente verificarsi quando le imprese tra loro collegate godono di vantaggi (economie esterne) in conseguenza della comune localizzazione su un dato territorio: per questo, l'analisi dei distretti industriali, di origine marshalliana, ha contribuito molto alla interpretazione delle condizioni di sviluppo della piccola impresa (v. Becattini, 1987).
I sistemi di piccole imprese hanno spesso dimostrato anche una maggiore capacità di reazione rispetto alle variazioni del mercato. Questa capacità di realizzare una produzione flessibile non è d'altra parte esclusiva di questi sistemi. La crescente importanza di tale flessibilità e le possibilità offerte dalla rivoluzione microelettronica hanno indotto anche grandi imprese, soprattutto nei settori dei beni di largo consumo, a introdurre tecnologie e strutture organizzative che consentissero una produzione flessibile, superando le vecchie concezioni della produzione di massa.
Un concetto centrale nell'analisi della produzione è quello di efficienza; la teoria neoclassica dedica una particolare attenzione alla efficienza allocativa, con l'obiettivo di analizzare i meccanismi attraverso i quali, in un sistema produttivo complesso, le risorse disponibili possano essere utilizzate al meglio per ottenere beni e servizi (finali), con particolare riferimento ai meccanismi di mercato e alle scelte dei singoli produttori guidate dal criterio della massimizzazione del profitto.L'efficienza è raggiunta quando, a parità di risorse utilizzate, la quantità prodotta di uno qualunque dei beni e servizi non potrebbe essere aumentata se non diminuendo la quantità di qualche altro prodotto: l'enfasi sulla condizione di parità delle risorse utilizzate sembra opportuna, essendo viziata da errore logico una versione molto popolare di questo concetto che vede realizzata l'efficienza quando si ottiene il massimo di prodotto con il minimo di risorse impiegate. Una definizione diversa, ma corretta, anche se non completamente equivalente alla precedente, è quella che definisce efficiente una situazione produttiva quando, a parità di output, non sarebbe possibile ridurre la quantità di alcun input senza contemporaneamente aumentare la quantità impiegata di qualche altro input.
Il concetto di efficienza produttiva è ben illustrato attraverso la frontiera delle possibilità di produzione. Nel diagramma cartesiano della fig. 1 sono rappresentate, sui due assi, le quantità di due beni nella cui produzione sono utilizzate risorse date. Ciascuno dei punti della zona tratteggiata corrisponde, in ipotesi, a una situazione ammissibile (ossia tecnicamente possibile e compatibile con le risorse). Nella fig. 1 il punto B rappresenta una situazione inefficiente. Il punto A rappresenta invece una situazione efficiente, e così è per tutti i punti della linea che segna il confine di nord-est della zona tratteggiata, linea che prende appunto il nome di frontiera delle possibilità di produzione.
La frontiera è anche denominata curva di trasformazione: il cambiamento nella utilizzazione delle risorse che dà luogo a uno spostamento lungo la curva può essere interpretato infatti come una trasformazione di un bene finale nell'altro. La misura in cui ciò può verificarsi (nell'esempio della figura, quanti spettacoli in più si possono produrre con le risorse liberate dalla rinuncia a produrre un chilo di pane) è detta saggio marginale di trasformazione: in una situazione di equilibrio efficiente del sistema esso dovrà essere uguale al rapporto esistente tra i prezzi dei due beni.Il concetto di efficienza ha natura strumentale, essendo definito a partire da un dato obiettivo. In questo senso può essere fuorviante indicare l'efficienza come un obiettivo in sé, alternativo rispetto ad altri possibili.
Nella fig. 2, la stessa situazione, rappresentata con il punto A, verrebbe a essere rappresentata con il punto C qualora si decidesse di considerare soltanto la produzione di prodotti agricoli e non anche quella di 'aria pulita'. Ma mentre il punto A risulta formalmente efficiente, non altrettanto può dirsi del punto C.
Se si suppongono date le risorse primarie per l'intero sistema produttivo, affinché si realizzi una situazione efficiente non basta che ciascuna delle unità produttive operi in modo tecnicamente efficiente (ottenga cioè il massimo di prodotto dalle risorse da essa impiegate); è necessario anche che si realizzi una allocazione efficiente, ossia che le singole unità produttive scelgano una specifica tecnica di produzione corrispondente a certe proporzioni tra le risorse impiegate. A tale scopo occorre (e basta) che le imprese realizzino anche l'efficienza economica (minimizzazione del costo, massimizzazione del risultato netto) e che questo avvenga a prezzi non condizionati dalle scelte di singoli agenti economici e tali da uguagliare domanda e offerta, quali sono i prezzi di equilibrio in mercati di concorrenza perfetta (v. Tani, 1993, pp. 39 ss.).
La condizione di concorrenza perfetta risulta assai restrittiva; in particolare, con riferimento alle condizioni relative alla produzione, essa è incompatibile con l'esistenza di economie di grande scala. Un tentativo interessante, anche se non completamente riuscito, di estendere il risultato (teorema della mano invisibile) a situazioni di mercato non concorrenziali, in cui possono essere presenti anche imprese di grandi dimensioni, è costituito dalla teoria dei mercati contendibili (contestable markets), sviluppata a partire dalla seconda metà degli anni settanta da un gruppo di studiosi americani, guidato da William Jack Baumol (v. Baumol e altri, 1982). Riproponendo una definizione di concorrenza centrata non sulla numerosità e le piccole dimensioni delle imprese ma sulla possibilità di entrata nel mercato, viene dimostrata la possibilità di raggiungimento dell'efficienza come conseguenza della possibilità di entrata ultralibera (ultra free entry), ossia della possibilità per le imprese di entrare in un mercato, anche temporaneamente (politiche hit and run), senza costi rilevanti di entrata e senza perdite aggiuntive conseguenti all'uscita. L'entrata può essere dovuta anche solo a differenziazione nella produzione di una impresa multiprodotto già esistente. Per questo, l'analisi dei mercati contendibili ha richiesto l'introduzione di nuovi strumenti di analisi della produzione congiunta: subadditività del costo, coefficiente di scala, costo medio lungo il raggio, economie di varietà (economies of scope), cross subsidization (v. Tani, 1993, pp. 48 ss.).
Anche in presenza di mercati contendibili, il raggiungimento dell'efficienza richiede la presenza sul mercato di almeno due imprese e quindi richiede che si escluda il caso del monopolio: il monopolio naturale (v. Petretto, 1993, cap. 5), ossia il caso in cui la situazione produttiva tecnicamente più efficiente in grado di soddisfare la domanda di un prodotto è quella che prevede una sola impresa (monopolista), resta una situazione in presenza della quale il mercato non è in grado, senza interventi, di raggiungere l'efficienza.
Per una parte considerevole dei risultati di efficienza sopra ricordati è necessaria l'ipotesi che gli atti di produzione realizzati dalle diverse unità siano fra loro tecnicamente indipendenti. Quando ciò non avvenga (l'altezza della ciminiera di una fabbrica può avere influenza sulla produzione agricola della zona, attraverso l'emissione dei fumi a più o meno alto livello) si parla di effetti esterni (esternalità) che, anche quando siano di segno positivo (come nel classico esempio dell'allevamento delle api e della coltivazione di un frutteto), sono tra le cause di fallimento del mercato (v. Arrow, 1969).
L'enfasi sul concetto di efficienza allocativa è stata sottoposta a critiche. Da parte di studiosi che si richiamano alle teorie del sovrappiù, la critica riguarda soprattutto l'idea di scarsità delle risorse che vi è implicita: l'ipotesi di scarsità non è applicabile ai beni prodotti impiegati nella produzione, se non in una analisi di breve periodo, nella quale d'altronde la sostituibilità è assai limitata (v. Pasinetti, 1989, pp. 231 ss.).Un altro tipo di critica proviene da impostazioni comportamentistiche, che mettono in evidenza la maggiore importanza di altri aspetti del perseguimento dell'efficienza e dell'attività di produzione in genere, la quale non dipende solo dalla tecnologia, ma anche da procedure, istituzioni, relazioni umane, e quindi da comportamenti e aspetti organizzativi. Molti di questi aspetti sono conglobati da Leibenstein (v., 1978) sotto l'etichetta di X-efficienza.
Anche nella impostazione neoclassica, possibili rigidità tecniche, che si traducono in effetti di complementarità tra inputs, rendono compatibile l'efficienza produttiva con situazioni in cui qualche risorsa disponibile risulta sottoutilizzata. In tali casi, tuttavia, la risorsa, pur essendo limitata, non ha più la qualifica di risorsa scarsa, non essendo imputabile alla sua limitatezza alcuna restrizione nei livelli di produzione. Il prezzo ombra di tale risorsa (v. § 6c) (e quindi anche il suo prezzo di equilibrio generale) sarebbe nullo.Proprio per questo, una delle principali difficoltà che si oppongono alla utilizzazione del concetto di efficienza allocativa, e della interpretazione dei prezzi che vi è connessa, è legata alla esistenza di situazioni di persistente disoccupazione di manodopera, che costringerebbero o a riconoscere il lavoro come risorsa non scarsa (e quindi a non disporre più di una teoria in grado di giustificare il livello di retribuzioni non nulle) o a ricercare le ragioni, essenzialmente di tipo macroeconomico, per le quali il sistema può persistere in una situazione di inefficienza, con un livello effettivo della produzione inferiore a quello potenziale, raggiungibile con la piena utilizzazione della manodopera disponibile.
Questo secondo tipo di problema è stato oggetto di studio soprattutto nell'ambito della teoria dei cicli economici e ha ricevuto grande impulso, in questo secolo, soprattutto con l'opera di John Maynard Keynes (1883-1946). Nonostante il recente forte recupero di posizioni prekeynesiane, determinatosi soprattutto con l'affermazione della nuova macroeconomia classica e della teoria delle aspettative razionali, sono presenti diverse posizioni teoriche che argomentano circa la possibilità che la produzione aggregata tenda a permanere su livelli inferiori a quelli compatibili con le risorse disponibili. Molte di queste spiegazioni, come del resto quella keynesiana, sono strettamente collegate al ruolo svolto dalla moneta nei sistemi economici complessi (v. Graziani, 1994).
Coerentemente con una visione del problema economico come problema di scelta, la teoria neoclassica ha dato grande importanza alla rappresentazione delle alternative tecniche; in relazione, poi, alle condizioni per l'efficienza allocativa, le alternative tecniche vengono prevalentemente rappresentate in termini di sostituibilità tra inputs. Lo stesso concetto di produttività marginale, così centrale nella teoria neoclassica, può avere un'applicazione significativa e non puramente formale solo se si ammetta questa sostituibilità.
Anche se nella prima formulazione del modello di equilibrio economico generale (v. Walras, 1874) la produzione fu rappresentata con un modello lineare (v. § 6c), il concetto di funzione di produzione, introdotto nel 1894 da Philip Henry Wicksteed (1844-1927) trovò subito favorevole accoglienza. A rafforzarne l'adozione fu poi soprattutto il concetto, strettamente collegato, di produttività marginale e la sua utilizzazione nell'ambito della teoria della distribuzione del reddito.La funzione di produzione è definita come la relazione che lega quantità disponibili di n inputs (x₁, x₂,...,xn) con la massima quantità Q di prodotto che è possibile ottenerne applicando la tecnologia a disposizione del sistema produttivo considerato (unità produttiva, impresa, o sistema produttivo complesso):
Nel caso di massima aggregazione degli inputs, si considerano solo la quantità di capitale, K, la quantità di lavoro, L, ed, eventualmente, la quantità di terra, T:
L'incremento di produzione che si ottiene aumentando di una unità uno degli inputs (per esempio, il lavoro) e lasciando invariata la quantità degli altri inputs definisce la produttività marginale di quell'input (del lavoro); produttività media di un input è invece il rapporto tra la produzione complessiva e la quantità complessivamente impiegata dell'input stesso.
Per il caso di due soli inputs, si possono rappresentare alcune caratteristiche della funzione di produzione mediante le curve di isoquanto (v. fig. 3). Ciascun isoquanto è il luogo dei punti le cui coordinate rappresentano quantità dei due inputs che consentono di ottenere, con tecniche alternative, una data quantità di prodotto.La pendenza dell'isoquanto corrisponde a una grandezza significativa per la teoria marginalista della produzione, il saggio marginale di sostituzione tra due inputs variabili, che è definibile come la minima quantità di input necessaria a compensare la riduzione di una unità dell'altro, il prodotto ottenuto dovendo rimanere invariato.In termini di funzione di produzione, i vantaggi (o gli svantaggi) di una produzione su larga scala vengono rappresentati attraverso i rendimenti di scala. Se la funzione è tale che, per ogni incremento proporzionale di tutti gli inputs, il prodotto ottenibile subisce un incremento nella stessa proporzione (oppure, rispettivamente, in proporzione maggiore o in proporzione minore), si dice che la produzione è caratterizzata da rendimenti costanti (o, rispettivamente, crescenti o decrescenti) di scala.
Alla funzione di produzione vengono comunemente attribuite proprietà forti, prima fra tutte la differenziabilità. Sotto tale ipotesi, la produttività marginale è misurata dalla derivata parziale della funzione rispetto all'input considerato.
Se la produttività marginale è riferita al valore del prodotto, essa misura di quanto aumenta il ricavo per la vendita del prodotto stesso se si aumenta di una unità l'impiego dell'input considerato, ferme restando le quantità impiegate degli altri inputs. Vi sarà perciò convenienza a variare (in aumento o in diminuzione) la quantità impiegata di un input fino a quando la sua produttività marginale in valore non uguagli il suo prezzo (se l'input è acquistato sul mercato).
Estendendo questa condizione a tutti gli inputs e a tutte le produzioni, in una situazione di equilibrio di un sistema produttivo complesso di tipo competitivo, la remunerazione di ciascun input sarà uguale alla sua produttività marginale in valore, la quale sarà perciò la stessa in tutte le produzioni, garantendosi così una utilizzazione efficiente della quantità complessivamente disponibile dell'input considerato.
L'uguaglianza tra produttività marginale in valore e prezzo di ciascun input costituisce la base della prima versione analitica della teoria marginalista della distribuzione del reddito.Il successo della funzione di produzione è dovuto anche alle applicazioni econometriche che essa ha consentito. Per questo tipo di applicazioni sono state necessarie opportune specificazioni della funzione medesima. La più famosa è quella utilizzata nel 1928 dall'economista Paul Howard Douglas, con la collaborazione del matematico Charles Wiggins Cobb. La funzione, a lungo conosciuta e citata come Cobb-Douglas, era già stata introdotta da Knut Wicksell, ed è oggi spesso più correttamente indicata come funzione di Wicksell-Cobb-Douglas; essa ha la forma analitica seguente: dove il parametro A dipende solo dalle unità di misura utilizzate per le tre variabili e i parametri α e β esprimono la variazione percentuale del prodotto che può essere ottenuta variando dell'1% la quantità impiegata del corrispondente input; la funzione può quindi presentare rendimenti di scala decrescenti (α+β⟨1), costanti (α+β=1) o crescenti (α+β>1).Molte altre importanti specificazioni della funzione di produzione sono impiegate (v. Nadiri, 1982, pp. 456 ss.).
Il forte peso per molto tempo assunto dalla funzione di produzione nella teoria neoclassica ha fatto sì che molte critiche a tale teoria si siano accentrate sul concetto di funzione di produzione e sulle grandezze che vi sono connesse, soprattutto con riferimento a funzioni di produzione aggregate (riferite a singoli settori produttivi o anche all'intero sistema economico).A partire da un saggio di Joan Robinson (v., 1954), le critiche si sono accentrate soprattutto sull'input 'capitale' e sul collegamento fra funzione di produzione e teoria della distribuzione del reddito.
Negli anni sessanta e settanta molte critiche sono state basate sulla possibilità del verificarsi del cosiddetto ritorno delle tecniche, un risultato presente, anche se in forma non del tutto esplicita, in Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa e sviluppato dagli economisti che si sono maggiormente ricollegati a questo autore: in situazioni molto generali (sono falliti diversi tentativi di ricondurre il fenomeno a casi particolari) può accadere che la tecnica più conveniente a un dato saggio di remunerazione del capitale non lo sia più per saggi più alti (come ci si aspetta che debba accadere), ma 'ritorni' a essere nuovamente conveniente quando il saggio di remunerazione cresce ulteriormente. Il prezzo dell'input 'capitale' non appare quindi più connesso con la scarsità relativa della risorsa medesima; e, d'altra parte, nessuna funzione di produzione aggregata può conformarsi a questo comportamento (v. Garegnani, 1970).
L'accoglimento di molte di tali critiche ha ridotto l'importanza della funzione di produzione nei modelli teorici, dove è stata sostituita da concetti più generali, quale quello di insieme di produzione (v. § 6d). Nelle applicazioni econometriche la funzione ha però mantenuto un peso rilevante.
Un diverso tipo di critiche (che investono anche formulazioni più moderne della teoria della produzione) riguarda il fatto che la funzione di produzione è una rappresentazione statica della tecnologia, vista come insieme di alternative tecniche che le conoscenze raggiunte fino a un certo momento offrono alla scelta delle singole unità produttive. Questa interpretazione della scelta della tecnologia è imputata di deformare la realtà in almeno due direzioni: da un lato, essa enfatizza in modo ritenuto eccessivo le alternative tecniche offerte all'impresa in un dato momento; dall'altro non offre alcuno spazio alla rappresentazione dell'azione innovativa realizzata dalle imprese.
Attraverso la funzione di produzione, infatti, l'innovazione - e, più in generale, la variazione della tecnologia disponibile - è rappresentata come un fatto totalmente esogeno rispetto al sistema produttivo, che amplia l'insieme delle scelte tecniche a disposizione delle imprese e che, conseguentemente, determina una modificazione della funzione di produzione. Di conseguenza, la tecnica di produzione risulta totalmente definita da una 'ricetta di fabbricazione', da cui sono assenti procedure, metodi ed esperienze che possono aver condotto, anche attraverso errori e fallimenti, a certi risultati e che si deve ritenere facciano parte della tecnologia in quanto conoscenza (v. Dosi, 1984, pp. 13-14).
È evidente, d'altra parte, la difficoltà di fornire una rappresentazione analitica di un fenomeno (l'innovazione) che per definizione non può essere codificato in anticipo. Come soluzione a questo difficile problema viene proposta una rappresentazione di tipo essenzialmente evolutivo, nella quale sono soprattutto oggetto di analisi le modalità con cui l'innovazione si manifesta e nella quale trovano posto, insieme ai cambiamenti tecnologici in senso stretto, anche fenomeni di natura non tecnica, quali le modificazioni organizzative interne alle imprese, l'attività di ricerca svolta dalle imprese stesse, i collegamenti fra imprese e istituzioni di ricerca esterne, l'apprendimento per esperienza (v. Morroni, 1992, cap. 2).
L'analisi più approfondita della tecnologia ha inoltre messo in evidenza due diverse tipologie di cambiamenti. Quelli del primo tipo hanno natura incrementale e si manifestano con sostanziale continuità all'interno di quasi tutte le attività produttive, attraverso innovazioni diffuse di limitata entità, fenomeni imitativi, apprendimento per esperienza, azioni di riorganizzazione della produzione che possono dar luogo a cambiamenti tecnologici. Ai cambiamenti incrementali della tecnologia si contrappongono i cambiamenti radicali, che si manifestano saltuariamente e spesso inaspettatamente, determinando una frattura rispetto alla situazione precedente, e che generano anche un nuovo regime di cambiamenti di natura incrementale (v. Nelson e Winter, 1982, pp. 258 ss.; v. Dosi, 1984, pp. 13 ss.).
Il desiderio di produrre una teoria della produzione più vicina alle modalità reali di decisione è all'origine del modello di analisi delle attività (activity analysis), nato e sviluppato, nella prima metà degli anni quaranta, dal gruppo di ricercatori (matematici, statistici, economisti) che operava alla Cowles Commission (presso l'Università di Chicago e poi a Yale), sotto la guida di Tjalling C. Koopmans (v. Introduzione all'ed. italiana di Koopmans, 1951).
La rappresentazione 'lineare' della produzione e delle corrispondenti scelte che veniva proposta da questa impostazione aveva dei precedenti: Léon Walras l'aveva utilizzata per la prima edizione degli Éléments (1874), passando successivamente a utilizzare la funzione di produzione. Maggiori elementi di contatto, anche a livello di analisi, si ritrovano nel modello di crescita di John von Neumann, pubblicato in tedesco nel 1937 e in traduzione inglese nel 1945. Infine, un modello di teoria della produzione in larga parte corrispondente all'analisi delle attività era stato sviluppato nell'Unione Sovietica da Leonid Kantorovich, senza che Koopmans e il suo gruppo ne avessero avuto conoscenza (nel 1975 il premio Nobel per l'economia fu conferito congiuntamente a Koopmans e a Kantorovich).
Nel modello di analisi delle attività, dato un elenco di n beni o servizi, ogni processo di produzione è rappresentato da una n.pla ordinata: il cui elemento generico zi indica la quantità in input (se zi⟨0) o in output (se zi>0) dell'i.esimo bene nel processo considerato. Se vi è più di una componente positiva, si ha produzione congiunta di più beni o servizi; se vi è almeno una componente positiva, dovrà esservene almeno una negativa ("Non siamo nella Terra della Cuccagna"). Le diverse possibili alternative tecniche sono rappresentate da altrettante n.ple. È anche introdotto un postulato di "possibilità di distruzione senza costo" (free disposal) di tutti i beni.Il modello di Koopmans ipotizza rendimenti costanti di scala e additività (ossia la possibilità di attivare insieme due processi qualsiasi). Un numero finito di processi base può allora generare un numero infinitamente grande di processi diversi, ottenuti sia alterando il livello di attivazione di un processo base, sia combinando due processi base differenti.
Nella fig. 4 sono rappresentati due isoquanti, in una ipotesi semplificata di un solo output e due inputs. Ciascuna delle semirette tratteggiate uscenti dall'origine corrisponde a uno dei processi di base, attivato a livelli via via crescenti man mano che ci si allontana dall'origine (per l'ipotesi di rendimenti costanti di scala, la dimensione dell'output è proporzionale alla distanza dall'origine). I segmenti dell'isoquanto compresi tra due di tali semirette corrispondono a processi misti, ottenuti attivando, in opportune proporzioni, due processi di base; il tratto verticale e il tratto orizzontale di ciascun isoquanto derivano dall'applicazione dell'ipotesi di free disposal.Più in generale, l'insieme di tutti i processi ammissibili è rappresentato da un cono poliedrale convesso e tutte le informazioni che servono per individuarlo sono incluse in una matrice che contiene i coefficienti di input e di output dei processi base.Le proprietà attribuite ai processi (in particolare le ipotesi di rendimenti costanti di scala e additività) fanno sì che il problema della determinazione delle tecniche che debbono essere attivate per una utilizzazione efficiente di date quantità disponibili di risorse possa essere impostato e risolto in termini di programmazione lineare, anche se Koopmans fece scarso riferimento a questo metodo. La soluzione del corrispondente problema duale fornisce inoltre una valutazione delle risorse disponibili, attribuendo loro un prezzo ombra o prezzo implicito; questi prezzi sono interpretabili sia come prezzi di equilibrio generale competitivo, sia come strumenti di trasmissione di informazioni in un sistema di produzione pianificato, con decentramento delle decisioni.
Una generalizzazione del modello di analisi delle attività è stata proposta soprattutto all'interno della teoria dell'equilibrio economico competitivo (v. Debreu, 1959; v. Arrow e Hahn, 1971).In questa generalizzazione si mantiene la rappresentazione di un processo di produzione mediante una n.pla di numeri reali, ma si indeboliscono alcuni dei postulati del modello di analisi delle attività. Non si impongono le ipotesi di rendimenti di scala costanti, additività, numero finito di processi base. La tecnologia è rappresentata attraverso un insieme Z (insieme di produzione), sottoinsieme di Rn, i cui elementi rappresentano tutti i processi tecnicamente possibili in un certo contesto (uno stabilimento, un'impresa, un'industria, o, più in generale, un qualunque sistema produttivo complesso in cui ogni impresa, esistente o potenziale, abbia accesso alla stessa tecnologia). Nella fig. 5 è rappresentato un ipotetico insieme di produzione i cui elementi hanno due sole componenti: ciascun punto della zona tratteggiata rappresenta un processo possibile.
Se la scelta del processo di produzione avviene a prezzi dati, se (p₁, p₂, ..., pn) sono tali prezzi e se il criterio di scelta è la massimizzazione del risultato netto (profitto), il problema di scelta sarà espresso nella forma: sotto il vincolo che (z₁, z₂,...,zn) rappresenti un processo possibile.Nella figura, le rette rappresentano linee di isoprofitto ai prezzi dati (in tutti i punti di una stessa linea il valore netto di output e input è lo stesso), e per conseguenza il punto P rappresenta il processo ottimale, le cui coordinate risolvono il problema (5).
Nell'analisi basata sull'insieme di produzione, si attribuiscono, per assioma, a tale insieme alcune proprietà, che facilitano l'analisi (Z non vuoto; Z chiuso in Rn, Z compatto, Z convesso) o che sono intese a garantire il 'realismo' della rappresentazione (irreversibilità, "non siamo nella Terra di Cuccagna"), o ancora che sono utilizzate per rappresentare condizioni particolari di produzione (rendimenti costanti o crescenti o decrescenti di scala, additività, free disposal). Anche all'interno di questa rappresentazione della tecnologia possono essere definiti, per una data situazione produttivamente efficiente, i prezzi impliciti nella situazione (ossia quelli che guiderebbero a sceglierla). Tuttavia, non per tutte le situazioni efficienti ciò è possibile. Il teorema dell'iperpiano separatore garantisce che prezzi impliciti siano definibili per ogni situazione efficiente purché l'insieme di produzione sia un insieme convesso: per questo, l'ipotesi di convessità di Z ha un ruolo centrale nell'analisi, anche se tale ipotesi introduce limitazioni pesanti (in particolare, la sostanziale impossibilità di trattare il caso di rendimenti crescenti di scala).L'introduzione esplicita del tempo di produzione è possibile, in questa rappresentazione, definendo le singole componenti del vettore che rappresenta un processo di produzione anche mediante la data alla quale il bene è considerato disponibile. In questo caso, però, il problema (5) resta significativo solo a condizione che sia possibile acquistare e vendere beni e servizi per consegna futura (futures).
Soprattutto le applicazioni econometriche hanno dato grande impulso all'analisi della dualità, sviluppata da Ronald Shephard (v., 1970), da Daniel McFadden (v., 1978), da Erwin Diewert (v., 1981) e da altri autori.
Supponendo che la tecnologia sia data, attraverso una qualunque rappresentazione della relazione tra input e output (funzione di produzione, insieme di produzione: rappresentazioni dette principali o primali), è possibile determinare la funzione di costo C(y₁, y₂, ..., ym; w₁, w₂, ..., wn), ossia la relazione che lega le quantità degli outputs y₁, y₂, ..., ym e i prezzi (positivi) degli inputs w₁, w₂, ..., wn al minimo costo C necessario per acquisire, ai prezzi dati, gli inputs necessari a produrre i dati outputs. Sotto ipotesi molto deboli sulla tecnologia, la funzione di costo è non decrescente, omogenea di primo grado e concava (e quindi continua) rispetto ai prezzi degli inputs.
È possibile dimostrare (v. Tani, 1993, pp. 27 ss.) che una funzione che goda di queste proprietà può sempre essere interpretata come una rappresentazione alternativa (rappresentazione duale) della tecnologia; la rappresentazione è totalmente equivalente a una rappresentazione primale purché si attribuiscano alla tecnologia alcune caratteristiche, che corrispondono peraltro alle ipotesi normalmente utilizzate per la funzione di produzione (tecnologia convenzionale). Analoghe (anche se più deboli) proprietà ha anche la funzione di profitto.
Nel modello di Sraffa (v., 1960) la rappresentazione analitica della produzione non riguarda una ipotetica 'tecnologia disponibile' quanto piuttosto le interdipendenze di fatto esistenti, in un certo momento, tra i settori produttivi di un dato sistema. Nel caso più semplice in cui ogni settore produca un solo tipo di merce, per ogni settore vengono date le quantità provenienti da altri settori e utilizzate come input, la quantità ottenuta come output, le quantità di lavoro utilizzate. Facendo coincidere l'unità di misura di ciascuna merce con la produzione totale del settore, una matrice A, ciascuna colonna della quale contiene gli inputs del corrispondente settore, e un vettore l degli inputs di lavoro esauriscono i dati del problema. Sotto le ipotesi: che il periodo intercorrente tra l'istante di impiego (o, più correttamente, di pagamento) degli inputs e l'istante di ottenimento (del ricavo della vendita) degli outputs sia uniforme per tutte le produzioni; che il saggio di rendimento (profitto) r sul capitale investito sia uniforme; che il lavoro sia retribuito, a un saggio di salario w uniforme, al momento dell'ottenimento (del ricavo della vendita) degli outputs, il vettore p dei prezzi (prezzi di produzione) che rispetta le condizioni suddette è definito dall'equazione seguente:
Essendo per ipotesi A una matrice 'osservata', la (6) ammette soluzione positiva per p, in funzione di w e r. Scelto un numerario, il grado di libertà residuo dell'equazione (6) può essere tradotto in una relazione (decrescente) tra w (saggio di salario, espresso in termini del numerario prescelto) e r (saggio di profitto) (v. Pasinetti, 1989, pp. 107 ss.).
Non è esclusa dal modello la possibilità di cambiamento delle tecniche di produzione: il passaggio da una tecnica all'altra è però valutato considerando gli effetti che esso ha sull'intero sistema produttivo, mettendo cioè a confronto due rappresentazioni del tipo di quelle sopra indicate che differiscono per la tecnica utilizzata in uno dei settori. A ciascuna di queste rappresentazioni corrisponde una relazione tra r e w (avendo scelto lo stesso numerario): la scelta della tecnica, per ogni possibile livello di saggio di profitto, corrisponde alla scelta del sistema che dà luogo al più alto saggio di salario reale (v. Pasinetti, 1989, pp. 195 ss.).
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