Professioni
Nel linguaggio corrente il termine professione viene usato spesso per indicare una qualunque occupazione lavorativa. Talvolta, tuttavia, allo stesso termine e ai suoi derivati (professionista, professionale ecc.) viene dato un significato più ristretto, con l'intenzione di distinguere una p. dalle altre generiche occupazioni e in particolare dai 'mestieri'. Questo processo di attribuzione di un significato esclusivo, che tende a individuare le p. come un sottoinsieme delle 'occupazioni', ha condotto nella lingua inglese alla distinzione tra profession e occupation. Secondo A.M. Carr Saunders e P.A. Wilson (1954), il termine profession compare in Inghilterra nel 16° sec., a designare l'attività lavorativa nei tre campi della teologia, del diritto e della medicina. Ciò si può spiegare con le trasformazioni che l'esercizio delle tre attività aveva subito nel corso del Medioevo, in particolare con la nascita e lo sviluppo delle università. Nelle tre facoltà superiori di teologia, legge e medicina i candidati alle tre p. subivano un processo di formazione prolungato e formale che conferiva loro non soltanto e non tanto un patrimonio di conoscenze specialistiche, quanto una cultura generale di carattere elitario. Se si tiene presente l'assoluto predominio della Chiesa sulla cultura dell'epoca, ben espresso dalla prescrizione per studenti e professori universitari di prendere almeno gli ordini minori, si comprende come l'esercizio di tali attività tendesse quasi a confondersi con la 'professione' della propria fede.
Con il processo di secolarizzazione che investì il mondo della cultura e le università il termine professione perse progressivamente i suoi connotati religiosi, ma mantenne un significato elitario ed esclusivo con il quale penetrò, nel corso del 19° sec., nel nascente sistema capitalistico, subendo contemporaneamente un'estensione a nuove occupazioni. Questo passaggio pone innanzitutto il problema della continuità ovvero della discontinuità nell'evoluzione di lungo periodo delle p., questione assai discussa da storici e sociologi, ma solleva anche altri interrogativi importanti: quali sono le occupazioni che vengono definite professioni? In qual modo nasce e si sviluppa il fenomeno dell'attribuzione di uno status elitario ed esclusivo? Il punto da spiegare non è soltanto la posizione elevata che le p. occupano nella scala del prestigio sociale. Il loro esercizio è regolato dallo Stato con meccanismi diversi da quelli delle altre occupazioni. In Italia ciò è particolarmente evidente: gli artt. 2229 e segg. del Codice civile (raccolti sotto il titolo Delle professioni intellettuali) nonché una serie di leggi specificamente dedicate a una o più p. ne determinano le condizioni di esercizio, a cominciare dall'obbligo di iscrizione in albi o elenchi tenuti da ordini e collegi professionali. La prima legge di questo tipo, relativa alla p. forense, risale al 1874. Alla fine del 2006 le p. risultano più di trenta, così regolate. Tra di esse si trovano medici e infermieri, notai e consulenti del lavoro, geometri e biologi, giornalisti e agrotecnici. Alcune sono p. molto ristrette, nelle quali gli iscritti agli albi sono poche centinaia (attuari, agenti di cambio), ma altre contano decine o centinaia di migliaia di praticanti. In totale gli iscritti agli albi nel 2005 risultavano oltre 1,8 milioni. Numerose sono le occupazioni che premono per ottenere un analogo riconoscimento: amministratori di condominio, interpreti, sociologi e così via. I giuristi hanno ampiamente discusso la peculiare natura giuridica delle p. intellettuali, ma dal punto di vista sociologico sorgono numerosi interrogativi. Quali sono le reali funzioni svolte dagli ordini e dai collegi professionali? Come mai alcune occupazioni ottengono questa forma di riconoscimento statale, mentre altre (la maggioranza) ne sono escluse? Quali effetti sociali ed economici sono generati da tali meccanismi regolativi?
Le difficoltà che le p. sollevano per l'analisi economica emergono già nell'opera di A. Smith. An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776) contiene infatti una critica dei monopoli occupazionali, considerati come ostacoli al libero movimento della forza lavoro. Curiosamente tale critica, diretta principalmente contro le corporazioni e contro l'istituto dell'apprendistato, non si estende alle professioni. Nel caso dei medici e degli avvocati le restrizioni all'accesso e le limitazioni della concorrenza sono considerate necessarie per assicurare ai professionisti ricompense adeguate alla delicatezza delle loro funzioni e alla fiducia che i clienti ripongono in loro. Viene così individuato da Smith un tema che sarebbe stato analizzato a fondo solo molto più tardi: quello della fiducia, necessaria affinché le relazioni di mercato, almeno in alcuni settori (i servizi professionali), possano funzionare. Meno riguardi di Smith hanno avuto per le p. gli economisti liberisti contemporanei. In loro l'avversione per ogni forma di limitazione della concorrenza e di restrizione nell'accesso alle occupazioni coinvolge esplicitamente anche le professioni. Già negli anni Quaranta una rigorosa analisi condotta negli Stati Uniti da M. Friedman e S. Kuznets (1945) poneva a confronto i redditi dei professionisti con quelli dei non professionisti, dimostrando empiricamente che la posizione privilegiata dei primi è da ricondursi all'azione di due potenti fattori di distorsione del mercato: da una parte i meccanismi di abilitazione professionale, dall'altra le discriminazioni nell'accesso agli studi (costo elevato, disponibilità di informazioni e di reti sociali adeguate). Anche senza sposare la posizione estrema di Friedman, completamente favorevole a una totale abolizione delle leggi di abilitazione, non sono pochi gli economisti che ritengono che gli interessi dei clienti sarebbero meglio tutelati attraverso l'indebolimento dei monopoli professionali.
Come altri fenomeni sociali, anche il professionalismo non è sfuggito a interpretazioni contrastanti circa la sua evoluzione nel tempo. Dapprima si è affermata l'interpretazione positiva o ottimistica dei sociologi funzionalisti, ripresa, con argomenti assai simili, anche da qualche storico. H. Perkin, per es., nell'opera significativamente intitolata The rise of professional society (1989) scrive che "viviamo in una società sempre più professionale" e che tra il 1945 e il 1970 la società professionale ha raggiunto la sua massima espansione (pp. 2, 405). Di fronte alla rilevante crescita numerica, comune a tutti i Paesi avanzati, delle p., dei professionisti e delle occupazioni che premono per ottenere lo status di p., alcuni autori pervengono a una sorta di universalizzazione del modello professionale, facendo delle 'forze professionali' uno dei fattori propulsivi di un mutamento epocale: la transizione alla 'società postindustriale' (Bell 1973). Posizioni di questo genere vanno incontro a serie difficoltà di varia natura. La crescita numerica delle p. e dei professionisti è incontestabile, ma non equivale di per sé a una universalizzazione del modello professionale. In Italia, per es., il numero complessivo degli iscritti agli albi professionali nel 2005 è oltre il doppio di quello del 1985, ma la sua percentuale sul totale della popolazione occupata, pur essendosi in tale periodo quasi raddoppiata, supera di poco l'8% (CENSIS 2006, p. 264); senza contare il fatto che non tutti gli iscritti agli albi esercitano effettivamente la professione. Per di più, si tratta di un insieme di p. alquanto eterogenee tra loro, e anche al loro interno, sotto molti profili: forme di esercizio della p. (dipendenti pubblici, dipendenti privati, liberi professionisti, forme miste), titolo di studio (laurea oppure diploma), tipo di protezione statale (monopolio assoluto dell'esercizio della p., monopolio parziale, poteri di 'firma', mera protezione del titolo professionale), livelli di reddito, di potere, di prestigio sociale. Tutto ciò crea non poche difficoltà agli organismi di governo e di rappresentanza degli interessi delle singole p. e spiega la scarsissima incidenza degli organismi di collegamento interprofessionali. Quanto alle 'aspiranti professioni', infine, si può osservare che anche questo è un insieme assai eterogeneo. Non tutte queste occupazioni riusciranno a ottenere il riconoscimento statale e lo status di 'professione intellettuale', e non tutte lo vogliono: per alcune di esse (per es., consulenti aziendali, pubblicitari, informatici) il luogo privilegiato dell'azione sociale non è lo Stato o il sistema politico, ma i mercati del lavoro professionali, la formazione di competenze si giova più della pratica che delle istituzioni scolastiche, le barriere all'ingresso non sono formali ma informali (Arti maggiori, 1989).
D'altra parte, è stata espressa anche una prospettiva pessimistica sull'evoluzione delle professioni. Una prima forma utilizza il concetto di proletarizzazione, che fa parte della teoria marxista delle classi sociali, e può essere ulteriormente distinta in due versioni, una 'forte' e una 'debole'. Secondo la versione forte i professionisti sono ormai dei lavoratori dipendenti e in quanto tali hanno perso sia il controllo delle finalità generali e delle scelte politiche concernenti il loro lavoro, sia il controllo del contenuto tecnico dei loro compiti. Analogamente a quanto era accaduto in precedenza agli operai, il loro lavoro è stato progressivamente burocratizzato e dequalificato, e le loro condizioni di lavoro sono sempre più simili a quelle della classe operaia, inclusa l'esperienza della disoccupazione (McKinlay, Arches 1985). Questa ipotesi appare semplicistica e manca di un'adeguata evidenza empirica che la sostenga. La realtà del lavoro quotidiano dei professionisti, benché poco studiata, non sembra manifestare una tendenza alla degradazione e alla dequalificazione, il management (pubblico o privato) dal quale i professionisti dipendono è riuscito a controllare la sostanza del loro lavoro solo in misura assai limitata. Inoltre, l'ipotesi forte della proletarizzazione confonde la specializzazione del lavoro, molto spinta in alcune p. (come nella medicina), con la sua dequalificazione: non sembra davvero il caso di considerare dequalificato un chirurgo che si specializza in trapianti di cuore. Di fronte a queste difficoltà, alcuni marxisti hanno attenuato l'ipotesi della proletarizzazione formulandone una versione debole: il lavoro dei professionisti sarebbe stato assoggettato al controllo dei capitalisti per quanto riguarda le finalità generali, ma non è stata tuttavia intaccata la loro autonomia tecnica. Si può così distinguere una 'proletarizzazione tecnica' da una 'proletarizzazione ideologica': mentre il proletariato ha sperimentato entrambe, i professionisti hanno evitato la prima e subito soltanto la seconda (Professionals as workers, 1982).
Anche questa seconda versione, tuttavia, appare poco convincente: il tipo di controllo al quale sono sottoposti i professionisti, anche quando lavorano come dipendenti, non è assimilabile a quello subito da operai e impiegati esecutivi; la loro partecipazione alle scelte organizzative è in genere rilevante (specialmente per quanto riguarda le questioni tecnologiche) e non di rado essi ricoprono ruoli gerarchici di rilievo, dai quali vengono spesso cooptati nel top management. Infine, entrambe le versioni della proletarizzazione concentrano la loro attenzione sulla posizione lavorativa dei professionisti come singoli, trascurando, da un lato, il potere delle p. in quanto soggetti sociali organizzati e istituzionalizzati, e, dall'altro, la dimensione della relazione tra professionisti e clienti.
Più attente alle diverse dimensioni del problema e, almeno nelle intenzioni, all'evidenza empirica, sono le altre ipotesi di tipo pessimistico sul destino delle professioni. L'ipotesi della deprofessionalizzazione si fonda sulla crescente importanza e diffusione dei seguenti fenomeni: frammentazione del lavoro professionale; erosione del monopolio della conoscenza per effetto della tecnologia dei computer, che rende più facilmente accessibile tale conoscenza, e della divulgazione attuata dai mezzi di comunicazione di massa; rivolta dei clienti, sempre meno propensi ad atteggiamenti di tipo deferente verso l'autorità professionale e più inclini alla disobbedienza, anche in virtù dei crescenti livelli di istruzione; controlli sulla qualità delle prestazioni e fissazione di standard professionali (Haug 1988). Ancora più pessimistiche, ma con argomentazioni diverse, sono le conclusioni di una vasta ricerca comparata condotta sull'evoluzione di tre p. (medici, avvocati, ingegneri) in vari Paesi (Krause 1988): l'autore sostiene che la sorte delle p. potrebbe essere quella di una morte lenta, sotto il peso delle soverchianti forze del capitalismo organizzato e dello Stato, entrambi impegnati, anche se con qualche differenza tra un Paese e l'altro, in uno sforzo di razionalizzazione capitalistica. Anche queste ultime posizioni sono state criticate dagli studiosi che ribadiscono la capacità delle p., di fronte agli attacchi provenienti dallo Stato, dal capitalismo organizzato e dai clienti, di riorganizzarsi per conservare pienamente la loro autonomia e i loro privilegi.
Alla fine del 20° sec. vi è stata una ripresa di interesse per lo studio delle p. da parte degli storici, che hanno posto in dubbio innanzitutto l'idea, condivisa da molti sociologi, di una sostanziale discontinuità tra p. premoderne e contemporanee, e dell'esistenza di uno stretto legame tra la nascita delle p. moderne e l'avvento del sistema capitalistico. Su questo punto il dialogo tra storici e sociologi sembra bloccato dalle reciproche accuse: gli storici oppongono alle generalizzazioni dei sociologi le loro dettagliate ricostruzioni empiriche, che li inducono a sottolineare gli elementi di continuità con il passato e la complessità dei processi di mutamento, mentre ai sociologi i lavori degli storici appaiono semplici narrazioni di fatti, prive di qualunque preoccupazione concettuale e teorica. L'egemonia scientifica del modello di professionalismo angloamericano è stata spezzata dalla comparsa di studi più sistematici e approfonditi su altri casi nazionali dell'Europa continentale, in particolare sulla Germania e sull'Italia, Paesi nei quali i processi di professionalizzazione sono stati caratterizzati da un ruolo assai più incisivo, se non preponderante, dello Stato. Per il caso tedesco si è parlato di 'professionalizzazione dall'alto', avviata dallo Stato sin dalla fine del 18° sec. (in Prussia) mediante pesanti interventi di riforma dei meccanismi di formazione e di accesso alle p., interventi che si sono susseguiti per tutto il corso del 19° sec. (German professions, 1990; McClelland 1991). Comuni all'esperienza tedesca e a quella italiana sono il ruolo decisivo giocato dallo Stato nel promuovere l'espansione del mercato dei servizi professionali, e la relativa debolezza, in confronto all'esperienza angloamericana, dell'azione svolta dalle associazioni professionali.
In Italia, i primi anni del 21° sec. hanno visto una ripresa del dibattito sul riordino degli ordini professionali, sulla scia delle numerose decisioni del Parlamento europeo indirizzate a favorire la concorrenza e la competitività. In questo ambito vanno ricondotti la legge sulle liberalizzazioni del ministro dello Sviluppo economico P. Bersani (l. 11 ago. 2006 nr. 248), che prevede tra l'altro l'abolizione della tariffa minima dei professionisti e l'introduzione per questi ultimi della possibilità di pubblicizzare la propria attività, e il disegno di legge sulla riforma delle libere professioni del ministro della Giustizia C. Mastella (nov. 2006), che prospetta una riduzione degli ordini professionali e il ricorso alle associazioni registrate.
bibliografia
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