Professioni
di Gian Paolo Prandstraller
Professioni
sommario: 1. Introduzione. 2. L'economia e la scienza negli anni novanta: l'avvento del lavoro professionale nei processi produttivi. 3. Professionisti come knowledge workers. 4. Le burocrazie professionali. 5. La professionalizzazione del management. 6. La professionalizzazione dell'imprenditore. 7. Professionalismo e capitalismo. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione
In questo articolo ci occuperemo dello sviluppo delle professioni intellettuali nell'ultimo decennio del XX secolo, nel quadro dell'economia e della cultura di quel periodo. Partiremo da un esame sommario del tipo di economia che ha contraddistinto gli anni novanta e, parallelamente, dai caratteri del progresso scientifico che è stato realizzato nella medesima epoca. È questo lo sfondo in cui si afferma il lavoro professionale nell'ultimo scorcio del secolo, sostituendo in larga misura il lavoro manuale, ormai secondario e di scarso rilievo funzionale. Esso è costituito, oltre che dalle cosiddette professioni riconosciute, molte delle quali in piena espansione, anche da un numero crescente di 'nuove' professioni, nonché da altre attività intellettuali che aspirano a rientrare nel 'professionalismo'.
Verranno indicate le linee di un processo che appare fondamentale per il futuro delle professioni: la confluenza di queste ultime nel 'ceto' dei knowledge workers, cominciata nel XX secolo e realizzatasi sempre più concretamente nei primi anni del nuovo secolo. Si tratta di un fenomeno di gran lunga più importante di quanto sia stata la creazione, avvenuta da molto tempo, di un 'mercato' delle prestazioni professionali (nel senso indicato da Magali Sarfatti Larson: v., 1977) o della nascita di un terzo principio, una 'terza logica', nella divisione del lavoro (differente da quella che domina nel mercato e nella burocrazia), come ipotizzato da Eliot Freidson (v., 2001). È importante sottolineare che tale fenomeno porta tendenzialmente le professioni nell'ambito della politica. Ciò significa che i problemi che assillano i knowledge workers si configurano ormai non solo come problemi di mercato e di funzione, ma anche come istanze di collocazione politica dei ceti intellettuali nel sistema socio-politico generale.
La confluenza delle professioni nel ceto dei knowledge workers sarà considerata, a livello dei suoi effetti, sia come rafforzamento del nuovo ceto, sia come attrazione esercitata dai professionisti nei riguardi di altre forze sociali che, pur non essendo in se stesse professionali, cercano di assimilare i caratteri sociologici ed etici che sono propri dei professionisti. Tali forze sono costituite da ampi settori del management, da parti considerevoli delle burocrazie civili e militari, nonché da frange significative del ceto imprenditoriale. Oltre che, naturalmente, da quei lavoratori manuali che vedono nel lavoro professionale un miglioramento auspicabile della propria condizione e per i quali si apre un cospicuo processo di professionalizzazione del lavoro (v. Prandstraller, La professionalizzazione..., 2001).
Come risultato di questa assimilazione vengono a costituirsi, accanto ai professionisti, figure sociali come il manager professionale, il buro-professionista (ossia il membro della cosiddetta 'burocrazia professionale') e l'imprenditore che utilizza largamente scienze e tecnologie, impersonando in tal modo un modello imprenditoriale distinto da quello dell'uomo d'affari e dello speculatore finanziario, il cui scopo non è il miglioramento della produzione ma il profitto che può derivare da certe combinazioni affaristiche e finanziarie.
Il professionalismo - definibile come il complesso di professioni che fa da polo di attrazione per varie figure produttive - rappresenta ormai un 'ceto' posto accanto all'altro 'ceto' (quello degli imprenditori) che domina la scena sociale nelle società avanzate alla fine del XX secolo. Sono dunque presenti due ceti produttivi principali, non uno solo. L'emergere del secondo ceto sollecita la seguente domanda: quale sarà, nel prossimo futuro, il rapporto tra l'insieme dei professionisti e dei lavoratori della conoscenza, da un lato, e la struttura del capitalismo, dall'altro?
Si tratta di un tema tuttora poco esplorato, al quale verrà dedicata l'ultima parte dell'articolo, che cercherà di rispondere all'interrogativo: come si porranno reciprocamente nei decenni a venire professionalismo e capitalismo, quali saranno le loro interazioni? Verrà introdotta, a questo proposito, una distinzione importante, quella tra 'capitalismo cognitivo' e 'capitalismo finanziario-speculativo', allo scopo di spiegare le ragioni per cui solo il primo tipo di capitalismo può 'andare d'accordo' col mondo delle professioni e - parallelamente - con la scienza e la ricerca scientifica. Non è troppo ardito presumere che questa distinzione possa contribuire alla discussione di una delle più delicate problematiche che il XXI secolo dovrà affrontare, quella del rapporto reale tra la scienza e il sistema capitalistico.
2. L'economia e la scienza negli anni novanta: l'avvento del lavoro professionale nei processi produttivi
Il fenomeno economico che connota più di ogni altro gli anni novanta viene in genere indicato col termine 'globalizzazione'. Con questa espressione ci si riferisce al fatto che la creazione dei beni e dei servizi - riguardo alle idee produttive, ai principî, alle nozioni, alle informazioni, ecc. - può essere attuata in qualsiasi parte del mondo, trascendendo i confini degli Stati nazionali, e che la stessa cosa accade per lo scambio di oggetti e servizi, nonché per le transazioni economiche e finanziarie. Il fattore globalizzazione, molto significativo nella storia del periodo, ha risentito non solo di esigenze e di abitudini economiche, ma anche di un dato politico, l'egemonia planetaria degli Stati Uniti. Le vicende e le tendenze di politica internazionale appaiono perciò legate all'aspetto economico della globalizzazione. Analogamente, anche la scienza produce conseguenze importanti in termini di globalizzazione, perché il carattere universale delle sue acquisizioni la porta a estendersi pervasivamente impedendole di rimanere circoscritta a certi ambiti privilegiati.
Tenendo conto di ciò, sembra legittimo affermare che a partire dagli anni novanta i principali fenomeni economici abbiano seguito i seguenti orientamenti: 1) le imprese si sforzano di diventare soggetti transnazionali, con tendenza a trasformarsi in grandi anonime operanti nei più vari contesti senza dipendere da nessuno di essi. L'apertura di nuovi mercati diventa la preoccupazione dominante dell'impresa capitalistica. Nel suo sforzo di creare valore aggiunto, l'impresa afferma la propria supremazia su tutte le istituzioni, pretendendo di concentrare in sé le maggiori istanze di sviluppo economico e sociale. Hanno preso a cadere le barriere protettive dello Stato nazionale, dato che il capitalismo non ha più bisogno di quest'ultima entità e anzi cerca di liberarsi dalle leggi, dai vincoli, dalle imposte che derivano da essa. Le imprese vengono trasferite in luoghi vantaggiosi, dove il costo del lavoro è basso o dove esiste un regime tributario mirato ad attirare i capitali. Viene osteggiato il keynesismo - che ha fornito l'ossatura teorica del sistema sociale europeo tra le due guerre mondiali e oltre - dato che esso implica l'esistenza di uno Stato pronto a intervenire nell'economia e capace di dare un robusto stimolo ai consumi; 2) si constata la rivincita ideologica del liberismo sulle altre dottrine economiche. Il liberismo, per così dire vittorioso, declassa l'idea di uguaglianza ed esalta quella di libertà. Il modello di libertà nel commercio pretende di diventare universale, ma le conseguenze sono gravi per quasi tutti i paesi che non hanno percorso la strada dello sviluppo scientifico-tecnologico e anche per i paesi caratterizzati da un capitalismo protetto dallo Stato, come quelli dell'Asia sudorientale.
Durante gli anni novanta e all'inizio del nuovo secolo il fattore globalizzazione è stato criticato da molti autori, non tanto per se stesso, quanto per le conseguenze che a esso sono state ricondotte: da una parte, accentuazione della ricchezza e privilegi concessi alle élites finanziarie (soprattutto attraverso l'intraprendenza e la spregiudicatezza delle grandi anonime); dall'altra, difficoltà insormontabili, crisi e povertà dei paesi non industrializzati, incapaci di riversare sul mercato prodotti vendibili e pertanto privi degli introiti derivanti dai processi produttivi.
Dalla fine del decennio la critica più aspra alla globalizzazione viene dai movimenti no global, attivi da Seattle (1999) in poi; sul piano teorico, tale critica proviene da una serie di autori, i cui argomenti possono essere raggruppati in quattro linee principali: 1) proposta di 'sostituire' il sistema economico capitalistico con qualche nuova forma di socialismo (v., per esempio, Hobsbawm, 1994 e 1999; v. Amin, 1997); 2) esigenza di superare l'egemonia planetaria statunitense, alla quale alcuni autori riconducono la responsabilità degli effetti perversi della globalizzazione (v. Johnson, 2000; v. Bello, 2001; v. Hardt e Negri, 2000), mentre altri autori ne criticano i tratti estremistici proponendo al posto di un hard power un soft power statunitense (v. Nye jr., 2002); 3) individuazione di campi e settori in cui intervenire attraverso politiche mirate, al fine di attenuare gli effetti nocivi della globalizzazione (v. Beck, 1997 e 1999; v. Gilpin, 2000; v. Ikenberry, 2001; v. Del Debbio, 2002); 4) allargamento della democrazia a tutti i paesi, nella speranza che essa, con le politiche che rende possibili, elimini gli effetti più gravi della globalizzazione (v. Barber, 1995; v. Soros, 1998 e 2002).
Gli stessi contenuti di queste proposte rivelano che negli anni novanta si è manifestata una crisi del capitalismo globale, crisi che si è poi approfondita nei primi anni del nuovo secolo attraverso episodi come il crollo delle economie argentina e uruguaiana, le cadute di cui sono state protagoniste le borse, soprattutto nel comparto dei titoli tecnologici, e i fenomeni di malcostume economico resi visibili dal crollo di grandi aziende, dal diffondersi dell'insider trading, dalla manipolazione dei bilanci, ecc.; episodi che, anche in seguito alla denuncia fattane dal presidente statunitense George W. Bush nell'estate del 2002, hanno suscitato viva preoccupazione nell'opinione pubblica mondiale. La crisi del capitalismo globale viene denunciata esplicitamente da commentatori come George Soros (v., 1998) e Walden Bello (v., 2001), i quali, pur riconoscendo la sostanziale inevitabilità della globalizzazione, ne sottolineano i guasti.
Questo preoccupante scenario economico è stato tuttavia affiancato, negli anni novanta, da un'espansione enorme delle scienze e delle tecniche. In progressione, si ha l'exploit degli anni settanta, con l'introduzione della miniaturizzazione dei circuiti integrati (1971), realizzata negli Stati Uniti mediante una piccola lamina di silicio monocristallino (chip), che ha permesso di migliorare la potenza del computer e di ogni macchina o meccanismo automatico; sempre negli anni settanta si registra anche il decollo della robotica e della biologia molecolare; negli anni novanta si sviluppa Internet e in generale il sistema delle telecomunicazioni, viene lanciato il programma per la mappatura del DNA, si espandono le biotecnologie, inizia l'utilizzazione delle cellule staminali per costituire nuovi tessuti, si mettono a punto alcune tecniche di clonazione, si realizzano vari organismi transgenici, si dà un forte sviluppo all'ingegneria genetica, si impostano varie terapie geniche per malattie come il diabete, l'Alzheimer, ecc. Inoltre, si fanno rilevanti progressi nella conoscenza del sistema solare (nell'approccio scientifico al sistema solare viene introdotta la planetologia comparata) e si avvia la sperimentazione delle celle a combustibile alimentate a idrogeno, nel tentativo di creare un'economia dell'idrogeno al posto di quella che dipende dal petrolio. Jeremy Rifkin (v., 2002) ipotizza che "la rete energetica mondiale dell'idrogeno (HEW, Hydrogen Energy Web) sarà la prossima grande rivoluzione economica, tecnologica e sociale della storia".
La rilevante avanzata delle scienze, accompagnata dallo sviluppo di numerose nuove tecnologie, asseconda e convalida il sorpasso da parte del lavoro professionale di quello manuale, il quale viene gradualmente ridotto a funzioni secondarie, spesso fungibili attraverso macchine e meccanismi automatici. L'enorme importanza assunta dal lavoro professionale, attraverso la sua concreta applicazione a comparti specifici (rappresentati appunto dalle singole professioni intellettuali), propizia l'emergere di un nuovo ceto che la teoria sociologica definisce knowledge workers, un ceto che si affianca con funzioni di alto livello a quello degli imprenditori, cioè di coloro che creano e possiedono le imprese.
Nel 2002 viene pubblicata l'opera di Richard Florida, The rise of the creative class, nella quale i lavoratori creativi (termine che comprende in senso lato scienziati, ricercatori, architetti, medici, giornalisti, scrittori, stilisti, artisti, designers, musicisti, esperti di finanza e di varie tecnologie, di banca, borsa, direzione di aziende, ecc.) vengono considerati come una forza sociale in piena ascesa, la cui consistenza rappresenterebbe secondo le stime il 30% della forza lavoro statunitense. Sembra essere questo il gruppo sociale che, come espressione del più alto livello intellettuale dei knowledge workers, concentra su di sé le maggiori funzioni, derivanti dalla creazione, distribuzione e uso della conoscenza scientifica, affiancata dalle tecniche più avanzate, nonché dall'arte nelle sue varie manifestazioni.
Il dinamismo dei gruppi professionali in Europa nel periodo finale del secolo viene d'altronde segnalato da Claude Dubar e Pierre Tripier, con particolare riferimento alle professioni indipendenti (v. Dubar e Tripier, 1998, cap. 10), nonostante esse si dichiarino minacciate e sottostimate dalle legislazioni nazionali. In Italia, nella seconda parte degli anni novanta, si ha il tentativo dei governi di centro-sinistra di abolire gli ordini professionali. Il tentativo fallisce per la decisa reazione dei professionisti, che potenziano un organo unionistico come il Comitato Unitario Professioni (CUP), il quale raggruppa venticinque professioni; essi chiedono inoltre che sia varata una legge-quadro idonea a disciplinare tutto il lavoro professionale. L'unionismo professionale si manifesta in Italia come il tentativo di trasformare le professioni nella terza forza sociale, accanto alle forze imprenditoriali e dei lavoratori dipendenti (v. Prandstraller, 2000), si pone cioè apertamente sul piano della rappresentanza degli interessi.
Sullo sfondo dei fenomeni economici degli anni novanta si delinea dunque un mutamento importante della base sociale, determinato dalla presenza attiva di un ceto nuovo (i knowledge workers) che si attesta come elemento determinante sulla scena produttiva. Le professioni intellettuali che ne sono parte essenziale, nello scorcio del secolo, devono confrontarsi con questa nuova situazione, assumendo una connotazione politica per far sentire la loro presenza a livello delle decisioni di fondo del sistema economico. Il professionalismo passa così da fenomeno puramente sociologico a fenomeno socio-politico e comincia ad auspicare una propria collocazione nella dinamica delle forze sociali che hanno voce in capitolo nella conduzione dei processi fondamentali dell'economia e della politica.
3. Professionisti come knowledge workers
L'origine dei 'lavoratori della conoscenza' è coeva all'avvento della società postindustriale ed è legata all'attestarsi del lavoro professionale come alternativa storica al lavoro manuale. Le principali opere che per prime hanno indicato i caratteri di fondo di quel tipo di società, rendendola altresì comprensibile a se stessa, sono: The new industrial State di John Kenneth Galbraith (v., 1967), Future shock di Alvin Toffler (v., 1970), La société postindustrielle di Alain Touraine (v., 1969) e The coming of the post-industrial society di Daniel Bell (v., 1973). Le virtù maieutiche di queste opere si colgono identificando le idee che esse hanno introdotto (v. Prandstraller, Knowledge..., 2001).
Nel caso di Galbraith si tratta del concetto di 'tecnostruttura', l'insieme del personale tecnico che costituisce la risorsa umana della grande impresa industriale. È questo nucleo di esperti, collegato con consulenti esterni come scienziati, professori universitari, ricercatori, specialisti di vario genere, giornalisti, ecc., che - secondo Galbraith - fa dell'impresa un'entità competitiva; la tecnostruttura è dunque più importante del capitale, che all'epoca era ancora ritenuto il vero motore della produzione. Oggi, a distanza di molti anni, è agevole capire che il concetto di tecnostruttura ha ispirato quello di 'capitale umano' e di 'capitale intellettuale', centrale quest'ultimo nella letteratura sui knowledge workers sviluppatasi negli anni novanta soprattutto grazie ad autori come Lester C. Thurow (v., 1996), Thomas A. Stewart (v., 1997 e 2001) e Peter F. Drucker (v., 1993). "Il capitale intellettuale e la gestione della conoscenza - ha scritto Stewart (v., 2001) - sono divenuti i temi più scottanti nel mondo degli affari" e "le aziende che padroneggiano l'agenda della conoscenza sono quelle che trionferanno nel XXI secolo". Sarebbe ingiusto non collegare simili affermazioni con la nozione di tecnostruttura elaborata da Galbraith circa quarant'anni fa: il discorso di Stewart riguarda infatti il ruolo rilevante che l'organizzazione della conoscenza (e degli uomini che la creano e la gestiscono) gioca nel successo delle imprese.
Future shock di Toffler fu opera pionieristica perché mise in primo piano l'idea di 'impermanenza', riferendola esplicitamente a qualsiasi prodotto industriale. Toffler osservò che, dopo gli anni sessanta, si era determinato un clima di mobilità e di complessità al quale l'intero mondo della produzione doveva adattarsi. Tale carattere costituisce oggi uno dei capisaldi della mentalità dei knowledge workers, come accettazione consapevole del mutamento inarrestabile, come rifiuto degli assoluti nella produzione e nella vita. Si oscuravano, attraverso simili concetti, i tratti tipici della società industriale, basata, secondo Toffler, sulle idee di standardizzazione, specializzazione, sincronizzazione, concentrazione, massimizzazione, centralizzazione - tutte idee ancorate alla nozione di stabilità e a una visione rigida della struttura sociale.
Con i saggi sulla società postindustriale, Touraine ha lanciato l'idea che la società industriale fosse ormai superata da un nuovo tipo di società, definita dal sociologo francese postindustriale o tecnocratica o programmata. In essa il capitale non rappresenta più il fattore centrale della produzione, così come la classe operaia non svolge più un ruolo fondamentale. Nasce invece un ceto nuovo, formato da ricercatori, esperti, professionisti, i quali applicano le conoscenze scientifico-tecnologiche ormai indispensabili per far funzionare i meccanismi produttivi e sono, più degli altri attori sociali, disponibili al cambiamento e all'innovazione continua.
Bell realizza infine la più importante sintesi concettuale sulla società postindustriale, di grande rilievo ancor oggi per lo studio della genesi dei knowledge workers. Secondo Bell, la produzione è ora dominata da un principio 'assiale', diverso da quello che reggeva la società industriale: questo principio è la 'conoscenza teorica' (cioè l'insieme dei principî e delle astrazioni sui quali si fonda la ricerca scientifica). La produzione manifatturiera, nella nuova fase, cede il passo alla produzione di servizi. Appare un ceto di professionisti e di tecnici che diventa il protagonista fondamentale dei processi di produzione. La tecnologia assume un carattere intellettuale e viene applicata per risolvere i più importanti problemi della vita umana, attraverso l'incremento incessante della ricerca scientifica. Questo aspetto della nuova società implica che devono essere valorizzate le istituzioni attraverso cui viene elaborata e trasmessa la cultura, in primo luogo l'università.
Attraverso queste opere - apparse tra la fine degli anni sessanta e l'inizio dei settanta - erano, per così dire, già disponibili le idee-base che avrebbero prodotto la genesi sociale dei knowledge workers. Negli anni novanta l'elaborazione di queste idee si è fatta molto intensa. Con l'eccezione di alcuni contributi apparsi nella seconda parte degli anni ottanta (v., ad esempio, Zuboff, 1988; v. Prandstraller, 1988) è appunto nell'ultimo decennio del secolo che si sviluppa la maggior parte della letteratura sulla nuova figura sociale, attraverso autori come Robert B. Reich (v., 1991), Stephen R. Barley (v., 1991, e i contributi del 1996), e i già citati Rifkin (v., 1995, 1998 e 2000), Thurow (v., 1996), Stewart (v., 1997) e Drucker (v., 1993 e 1999).
Questi contributi segnalano sostanzialmente l'avvento di un nuovo ceto, che viene a porsi come forza trainante per la produzione accanto a quello degli imprenditori, soggetti a loro volta - ma in modo diverso - al fattore conoscenza. Il successivo allargamento di questo ceto rappresenta un fenomeno importante nell'ultimo scorcio del XX secolo. Il rilievo sociale assunto dai knowledge workers è legato a fattori molto concreti che conferiscono a questo gruppo la capacità di incidere profondamente sulla vita pratica, sia dal punto di vista funzionale, sia da quello culturale. Vediamo perché.
In primo luogo, le funzioni assunte dal nuovo ceto si identificano in larga parte con la gestione dei 'servizi': si tratta di performances fondate su conoscenze specifiche a favore di individui e di gruppi umani, le quali sostituiscono gradualmente i più semplici processi di trasferimento di beni da un produttore a un acquirente tipici del periodo precedente. Il nuovo ceto è in grado di far funzionare i grandi servizi (sanità, istruzione, comunicazioni, urbanistica, trasporti, tutela del territorio, ricerca scientifica, esplorazione spaziale, ecc.) attraverso attività immateriali fondate su studi di tipo universitario e su un'esperienza pratica idonea a risolvere i problemi nel quadro della triade classica 'bisogno-problema-soluzione'. Nel suo sviluppo il nuovo ceto si mostra capace di attuare il knowledge management per le imprese, il che significa gestire l'impiego della conoscenza a livello generale nella produzione industriale.
In secondo luogo, la cultura dei knowledge workers non è una cultura qualsiasi: non deriva da posizioni ideologiche, né da istanze mistiche, e neppure da mitologie, teologie, religioni o fondamentalismi di qualsiasi genere. La base culturale di questo nuovo raggruppamento è rintracciabile nei principî e nelle leggi elaborati dalla scienza nell'accezione non deterministica che si afferma nella seconda metà del XX secolo. Il fondamento culturale dei knowledge workers è lo scientismo moderno, con la sua convinzione che l'unica fonte valida di conoscenza sia appunto la scienza; unico sapere in grado di soddisfare i bisogni fondamentali dell'uomo e nello stesso tempo unico mezzo per garantirgli una ragionevole probabilità di permanere come specie sulla Terra. La scienza è anche, per i knowledge workers, la causa sostanziale grazie alla quale essi sono in grado di realizzare i fini presupposti secondo un rapporto razionale mezzi/fini. Si tratta di un rapporto che si fonda sulle 'leggi naturali' scoperte dal XVII secolo in poi, pur con la modificazione in senso probabilistico formulata nella seconda parte del Novecento. Il successo sociale dei knowledge workers è legato alla loro capacità di realizzare gli obiettivi produttivi e sociali che via via si pongono, partendo, appunto, dalla scienza e dai principî o leggi che quest'ultima elabora. La sfida sugli obiettivi, che ha riguardato le economie più avanzate del XX secolo, ha trovato nella capacità di realizzazione di tale raggruppamento uno dei suoi capisaldi, sotto forma di garanzia razionale dell'attuabilità degli scopi e dei progetti.
Il nuovo raggruppamento presenta un nucleo centrale, che agisce da punto di attrazione per una serie di altri segmenti: esso è costituito da professionisti appartenenti alle professioni riconosciute, dotati quindi di abilità specifiche fondate su corpi teorici alle quali l'ordinamento giuridico ha dato il proprio assenso, manifestando in modo formale (con leggi, atti amministrativi o altro) l'accettazione di una data professione nel sistema ufficiale del professionalismo (v. Abbott, 1988). Nella massa dei soggetti che basano i propri introiti sulla conoscenza, i professionisti occupano un posto centrale, dato che il riconoscimento storico delle rispettive specialità fa parte ormai dei caratteri della struttura sociale. Come hanno dimostrato Alexander M. Carr-Saunders e Paul A. Wilson (v., 1933) nell'opera The professions - dedicata allo sviluppo delle professioni in Inghilterra nel XIX secolo -, il riconoscimento delle singole forme professionali è un fenomeno tipico che col suo stesso accadere costituisce una struttura e uno stato di fatto. È naturale, pertanto, che nell'affermazione graduale dei knowledge workers i professionisti riconosciuti abbiano occupato una posizione privilegiata. Le professioni dotate di riconoscimento sono state invero le prime attività intellettuali cui è stato attribuito un ruolo sociale preciso, differenziandosi poi rispetto alle attività intellettuali generiche attraverso un lento processo di ampliamento e gestione di campi circoscritti dello scibile. Ora esse occupano una posizione più solida e determinata (nel ceto globale dei knowledge workers) di quanto accada alle attività che aspirano tuttora a essere riconosciute e ancor più a quelle attività che, pur non essendo tipicamente professionali, sono attratte dal modello professionale e pongono in essere forme di imitazione delle professioni riconosciute. In questo senso esiste un'evidente pervasività del professionalismo rispetto ad altre attività sociali che ne subiscono l'attrazione.
Tale processo è ancora in atto. Ciò significa che l'azione attrattiva delle professioni riconosciute determina una serie di movimenti da parte di varie forze sociali. L'effetto 'calamita' è particolarmente visibile nei seguenti campi: 1) nella burocrazia, con la nascita e la progressiva affermazione delle burocrazie professionali; 2) nel management, attraverso la comparsa del manager professionale che assume caratteri diversi dal manager burocratico; 3) nell'imprenditorialità, con l'emergere delle figure dell'imprenditore-professionista e del professionista-imprenditore.
Ognuno dei settori indicati richiede una breve trattazione, dato che i rispettivi fenomeni hanno conseguenze rilevanti sul piano sociale ed economico.
4. Le burocrazie professionali
In un saggio uscito qualche anno fa (v. Prandstraller, 1988) sono state esposte le ragioni fondamentali della trasformazione della burocrazia e della sua probabile conversione in un corpo efficiente e capace di realizzare i propri fini; in particolare, si sosteneva che all'interno della burocrazia andava emergendo un nuovo attore sociale, il 'buro-professionista', avente caratteristiche peculiari. Innanzitutto, il buro-professionista ha una formazione specialistica di tipo professionale, basata su conoscenze scientifico-tecniche apprese nelle università o in altre scuole superiori. Perciò, la formazione burocratica deve convivere nel buro-professionista con quella professionale, dando luogo a un soggetto che è nello stesso tempo burocrate e professionista (medico, giurista, chimico, biologo, ingegnere, contabile, veterinario, informatico, ecc.). È ovvio che questa figura è molto meno 'devota' a regole formali di quanto lo fosse il burocrate classico; è infatti incline a risolvere i casi che gli vengono sottoposti sulla base delle discipline che ha appreso nelle università o in altre sedi di formazione, anziché sulla linea di regole stabilite dall'alto. È convinto del valore sociale dei servizi che gli sono affidati, e di conseguenza tende a effettuarli in modo corretto e preciso. In secondo luogo, benché il buro-professionista operi entro organizzazioni gerarchiche, si discosta dal burocrate tradizionale nell'approccio all'autorità e alla disciplina: ritiene necessario e presuppone un grado elevato di conoscenza da parte degli altri membri dell'organizzazione, specialmente se ricoprono posizioni di comando; esclude che, nell'ambito dell'organizzazione, sia ancora possibile un tipo di autorità che prescinda dalla motivazione dei propri atti. Questa interpretazione non conformistica del principio di gerarchia implica che ai suoi occhi il ruolo del leader non si fondi tanto su concetti come tradizione o carisma, quanto sull'esame accurato delle 'situazioni'.
Tutto ciò influisce sul carattere della burocrazia professionale, nella quale il rapporto di autorità è profondamente mutato rispetto a quello che esisteva nella burocrazia classica, aprendo ampi spazi alla collaborazione, alla discussione, alla differenza di opinioni sugli scopi da perseguire e sulla loro realizzabilità. Infine, il buro-professionista introduce nella burocrazia un'esigenza di responsabilità e di merito che richiede una trasformazione del concetto di 'carriera'. Non corrispondono alle sue aspirazioni gli avanzamenti dovuti a fattori estranei alla capacità, abilità e competenza: per esempio, le influenze politiche che facilitano la carriera, gli scatti automatici dovuti all'età o a qualche fattore extra-professionale. L'idea di competizione non gli è estranea; approva anche l'esistenza di un legame tra il grado e la natura delle funzioni.
Il consolidarsi dei buro-professionisti come gruppo sociale produce dunque una trasformazione importante nella struttura della burocrazia, una modernizzazione che ha conseguenze sull'uso che l'autorità politica può fare dell'apparato burocratico, nonché una relativa autonomia di tale apparato, pur nell'ambito strutturale, con riguardo alla realizzazione degli scopi e all'attuazione dei programmi.
Per una migliore comprensione del fenomeno buro-professionale è utile soffermarsi brevemente sulla sua probabile origine storica. La professionalizzazione dei membri della gerarchia militare - avvenuta quando agli ufficiali amateurs subentrarono ufficiali formati nelle accademie militari mediante un curriculum di tipo universitario - contiene già i segni del buro-professionalismo. Con la costituzione, nel XIX secolo, dei primi eserciti moderni, diviene importante, per la formazione degli ufficiali, l'apprendimento di discipline scientifiche (appartenenti all'ingegneria: calcolo, analisi matematica, geometria, logistica, balistica; strategia, studio del territorio; conoscenza delle armi; ecc.) che rientrano nel compendio cognitivo delle professioni intellettuali. Nella fondamentale analisi della professione militare effettuata da Samuel P. Huntington (v., 1957), viene fissato il concetto secondo cui gli ufficiali delle forze armate sono veri e propri professionisti, perché dotati di una specialized skill appresa nelle accademie e nelle scuole militari, anche se la loro professione non può essere svolta come libera professione ma deve attuarsi nell'ambito di una burocrazia militare. Per Huntington, lo specifico professionale dei membri delle forze armate moderne consiste nel cosiddetto management of violence, che si basa sulle conoscenze e sulle abilità che sono necessarie per gestire la violenza nell'interesse dello Stato mediante armamenti ad alto contenuto tecnologico. È già chiara in Huntington la concezione secondo cui in numerosi corpi appartenenti alle forze armate esiste una sovrapposizione di ruoli militari e di ruoli civili, il che fa ritenere che le carriere militari non siano molto diverse da quelle professionali civili. Questa sostanziale identità emerge anche in autori successivi, in particolare in Morris Janowitz (v., 1960) e in Gwyn Harries-Jenkins (v., 1970), che sviluppano il concetto di 'burocrazie ascrittive', intendendo con ciò quelle burocrazie che formano in apposite scuole i propri membri per utilizzarli in carriere interne all'organizzazione.
Il concetto di burocrazia ascrittiva è molto utile per comprendere perché la figura del buro-professionista si sia diffusa velocemente passando dall'assetto militare a quello civile. Questo tipo di burocrazia educa al suo interno i soggetti che entrano a farne parte, affinché possano impiegare le proprie energie nella stessa organizzazione che li ha formati. Anche molte burocrazie civili cercano di formare i propri membri e di utilizzare per i propri scopi le abilità di cui sono portatori. Per ottenere una loro buona professionalizzazione, essi vengono sottoposti a veri e propri processi di formazione, e il numero delle burocrazie civili in cui ciò accade si è molto accresciuto. Perciò anche nel campo civile molte burocrazie - nei ministeri, negli apparati regionali, provinciali e comunali, nei grandi servizi pubblici e privati, negli istituti di welfare, nelle agenzie di trasporto e di navigazione, nelle istituzioni di controllo e ispezione, nelle agenzie di ricerca, nelle polizie, ecc. - sono diventate professionali. Le burocrazie un tempo governate secondo i principî weberiani (applicazione continuativa del funzionario a funzioni specifiche; rigida applicazione del principio gerarchico; conformità a regole e regolamenti, in modo che tutti i casi trattati abbiano un'unica soluzione) sono oggi investite dai principî del professionalismo, subendo in tal modo una trasformazione così profonda che è prevedibile la graduale sostituzione della burocrazia classica con una struttura nella quale le esigenze conoscitive siano prevalenti o parallele rispetto a quelle gerarchiche. La mentalità rigidamente burocratica nei contesti più moderni volge al tramonto, e i suoi residui sono considerati anacronistici e controproducenti. L'allargamento del modello professionale oltre i propri naturali confini ha dunque prodotto il superamento di uno dei fenomeni più impressionanti del XX secolo, la strutturazione degli uomini e delle iniziative mediante forme di autorità rigide e centralizzate. La linea di tendenza è oggi in favore di organizzazioni più democratiche, acculturate e comunque più elastiche di quanto potesse essere la burocrazia classica.
5. La professionalizzazione del management
Il professionalismo agisce sulla figura del manager facendo uscire quest'ultimo dalla rete burocratica in cui era originariamente imprigionato e avviandolo a una identità sostanzialmente professionale, caratterizzata dalla tendenza all'autonomia, dall'assimilazione dei saperi, dalla sollecitudine per il cliente. Il punto di partenza è la natura tipicamente burocratica del manager anni cinquanta e sessanta. Nato, nel periodo tra le due guerre mondiali, dall'esigenza di tenere distinta la proprietà dell'impresa dalla gestione della medesima (specialmente a livello di grandi anonime), il manager per parecchi decenni è stato un membro dotato di potere della burocrazia aziendale, la cui autorità dipendeva direttamente dall'elevata collocazione nel line (o linea di comando aziendale). In questa veste, consona alle esigenze del taylorismo (dottrina della direzione scientifica del lavoro introdotta da Friederick W. Taylor negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo), il manager è tipicamente un 'direttore' che impartisce ordini al personale subordinato. È utile, per comprendere la configurazione corrispondente del management, l'analisi sviluppata da William H. Whyte jr. (v., 1956), che descrive il manager come un individuo situato a un livello elevato dell'organizzazione aziendale, il quale trae il proprio potere non da particolari qualità personali, ma dalla collocazione che è riuscito a ottenere nella struttura dell'impresa. La carriera del manager è, in questa fase, dipendente dalla sua capacità di ascesa lungo la scala del potere aziendale; i suoi rapporti rilevanti sono quelli che lo legano agli azionisti; le sue strategie corrispondono ai desiderata dei rappresentanti diretti di questi ultimi. Sostanzialmente si tratta di una figura che si adegua ai principî e alle regole della burocrazia classica.
Una prima sfida a tale modello di management proviene, negli anni sessanta, dall'esperienza giapponese del miglioramento continuo (v. Imai, 1986) e della conquista dei mercati attraverso la qualità del prodotto, la quale richiede che il manager sia capace di conseguire questo risultato, piuttosto che di diventare un'autorità nella burocrazia aziendale (v. Abegglen e Stalk, 1985). La tendenza ad abbandonare il culto della piramide aziendale a favore di organizzazioni più orizzontali favorisce l'oscuramento della figura manageriale di tipo strutturale e facilita l'avvento di una nuova figura di manager. Il fenomeno è individuato da John Naisbitt (v., 1982) - che include il cambiamento nello stile del management tra i grandi mutamenti che si stavano verificando in quella fase storica - ed è, per così dire, definitivamente analizzato da Drucker (v., 1993), per il quale il management è ormai diventato 'management della conoscenza', cioè gestione dei saperi di cui l'impresa ha bisogno per realizzare i propri scopi. È chiaro che, a questo livello, l"uomo dell'organizzazione' si trasforma nel manager professionista necessario all'impresa per realizzare effettivamente i propri obiettivi produttivi e commerciali.
Il manager comprende dunque che la possibilità di permanere sulla scena economico-produttiva dipende dalla sua capacità di professionalizzarsi. Anzitutto, egli deve concepire il management come complesso di discipline scientifiche che si apprendono nelle università o in scuole specializzate. Ciò determina il formarsi di un management articolato in molte specialità, come gestione del personale, marketing, organizzazione, strategia, brand management, auditing, ecc. In secondo luogo, il manager avverte l'esigenza dell'autonomia in una forma prima sconosciuta; dunque maggiore libertà di azione rispetto alla dirigenza formale dell'impresa, maggiore discrezionalità nell'approccio verso la clientela. Infine, il manager comprende l'importanza di assumere un'etica di servizio, cioè la disposizione morale a servire bene coloro che utilizzano le performances che egli viene realizzando.
Accogliendo queste linee di tendenza il manager modifica profondamente se stesso e si pone il problema: come mantenere una funzione importante nella società futura? L'orientamento verso la professione sembra ormai acquisito. Le modalità concrete di questo difficile cammino sono in corso di elaborazione. Rimane però aperta la domanda: potrà il manager diventare un giorno un libero professionista? La domanda è importante; esiste infatti la possibilità che le attività manageriali diventino performances di una professione autonoma esercitata in favore di determinati clienti: le aziende.
6. La professionalizzazione dell'imprenditore
L'avvento della conoscenza scientifica come fondamentale mezzo di produzione ha avuto importanti conseguenze sulla figura imprenditoriale. In sintesi, questa figura - le cui qualità tipiche erano l'intuito per le opportunità produttive, l'iniziativa, l'intraprendenza, ecc. - subisce la sfida del sapere. Dagli anni ottanta diventa gradualmente sempre più chiaro che senza un'adeguata base conoscitiva è difficile fare l'imprenditore. Le opere che escono all'epoca sottolineano tale svolta: parlano di un imprenditore 'preparato' anziché di un imprenditore 'spontaneo', che si basa cioè solo sul proprio istinto imprenditoriale (v. Hickman e Silva, 1984; v. Naisbitt e Aburdene, 1985; v. Pinchot III, 1985; v. Hornaday e Aboud, 1971). Negli anni seguenti la tendenza si accentua fino ad arrivare all'imprenditore ormai convinto che sta avanzando una nuova rivoluzione industriale (v. Hawken e altri, 1999), molto più sofisticato e acculturato dei suoi predecessori.
In che cosa consiste questa preparazione? Nell'acquisizione di una cultura generale che non può più essere di infimo grado, nella conoscenza specifica del settore in cui l'imprenditore agisce e, infine, nella conoscenza del territorio, dell'ambiente, dei rapporti sociali propri del suo campo d'azione. In sostanza la figura imprenditoriale si fa più vicina a quella professionale. Negli ultimi due decenni del XX secolo essa non ha più nulla del personaggio coraggioso e intuitivo, del dilettante estroverso che costituiva buona parte dei titolari d'impresa dell'epoca precedente. È al contrario un soggetto attento e impegnato che - passando attraverso business schools, masters, corsi di preparazione, esperienze di aggiornamento, ecc. - assomiglia in modo non superficiale al professionista. Quando diventa chiaro che l'imprenditore destinato al successo è quello decisamente 'innovativo', la somiglianza si accentua. Lo spirito del professionalismo a questo punto prevale sul vecchio istinto imprenditoriale, dato che sovrappone a quest'ultimo la conoscenza, l'informazione, a livello di tutti i settori che sono essenziali per tenere in piedi un'impresa.
Il professionalismo agisce anche in un altro modo sulla trasformazione dell'imprenditore, separando l'attività produttiva da quella speculativa, la creazione di prodotti dal mero profitto derivato da manipolazioni finanziarie, giochi di borsa, compravendita di beni, acquisto e smembramento di aziende in crisi, e simili. La separazione dei due campi è ardua perché l'abitudine a fare affari era tradizionalmente collegata alla mentalità dell'imprenditore vecchio stampo. Ma la pressione del fattore conoscitivo porta a distinguere due tipi di azione, intrinsecamente diversi. Nell'ultimo scorcio del XX secolo, nelle aree avanzate, l'imprenditore non è più confondibile con l'uomo d'affari, con lo speculatore finanziario che non produce nulla, ma guadagna sulle oscillazioni e i giochi di borsa. La crisi economica degli anni novanta e dei primi anni del nuovo secolo mette in evidenza, anche a causa degli scandali di quel periodo, l'alterità delle due figure.
L'impatto del mondo professionale su quello imprenditoriale determina anche situazioni di osmosi, a causa delle quali i due aspetti finiscono col convivere. A questo proposito possono essere distinte due alternative principali: quella del professionista che si fa imprenditore e quella dell'imprenditore che diventa professionista. Se un esperto, o un inventore, mette a frutto le proprie conoscenze creando un'impresa, si realizza la prima ipotesi. Un'altra possibilità è che un professionista, che ha lavorato come dipendente in un'impresa, crei a sua volta un ente produttivo nel quale riversa l'esperienza che ha acquisito come dipendente. Più difficile è che un imprenditore si trasformi in professionista, ma si danno anche casi di questo tipo: per esempio quando un soggetto passa attraverso un'esperienza imprenditoriale per diventare poi consulente, esperto accreditato di un dato settore, che opera come professionista. Il mondo dei creativi è ricco di esempi di come si possa passare da un settore all'altro, tanto che diventa difficile capire se la vocazione prevalente di un dato soggetto sia quella imprenditoriale o professionale. Così nella moda, nello spettacolo, nel design, nell'esperienza dei cantautori e dei direttori di complessi musicali, ecc.
7. Professionalismo e capitalismo
Nella società postindustriale, l'assetto delle professioni diventa molto più importante (di quanto fosse anteriormente) per la produzione capitalistica. Se si guarda al rapporto tra professionalismo e capitalismo dal punto di vista degli attori sociali, si può dare per scontato che non è più possibile una produzione affidata ai soli possessori di un capitale. La conoscenza scientifico-tecnica diviene necessaria per qualunque processo produttivo avanzato.
Prende avvio così il 'capitalismo cognitivo', una forma di capitalismo del tutto nuova, la cui sussistenza è legata alla capacità di basare sulla conoscenza scientifica estesa alle scienze fisiche, biologiche, comportamentali, psicologiche, comunicative, ecc. una larga parte della propria capacità d'innovazione. Anche se alcuni hanno parlato di 'capitalismo intellettuale' (v. Stewart, 1997 e 2001), sembra più corretta la definizione 'capitalismo cognitivo', perché il capitalismo ha bisogno dell'aiuto della conoscenza scientifico-tecnica a sua volta incorporata e gestita dai knowledge workers. La capacità d'innovazione viene a dipendere quasi interamente dal pensiero scientifico, col suo immenso corredo di tecnologie, e dai professionisti impegnati nei meccanismi produttivi. Anche la capacità d'innovazione artistica risente largamente di tale elemento. Il capitalismo cognitivo può esistere solo in simbiosi con la scienza e con il perfezionamento tecnologico a essa collegato: se il processo interattivo venisse bloccato, il capitalismo diventerebbe fenomeno secondario e non influente. Per delineare una sintesi teorica del nuovo capitalismo facendo ricorso ad alcune opere portanti, si dovrebbe pensare a The work of nations di Reich (v., 1991), Post-capitalist society di Drucker (v., 1993), The future of capitalism di Thurow (v., 1996), Intellectual capital di Stewart (v., 1997) e, appunto, The wealth of knowledge dello stesso Stewart (v., 2001). Quest'ultimo libro ha una notevole importanza teorica perché indica in cosa consistono gli assets legati alla conoscenza scientifica, cioè i campi cognitivi nei quali le imprese devono investire per poter produrre ricchezza.
La combinazione tra capitalismo e conoscenza subisce tuttavia negli anni novanta l'attacco del capitalismo finanziario e speculativo, che lascia largamente prevalere l'aspetto affaristico su quello produttivo. Al capitalismo finanziario vengono attribuiti, da molti studiosi, gli squilibri, in termini di globalizzazione e di politica aggressiva delle grandi società internazionali, che si sono manifestati dall'inizio degli anni novanta in poi. Per ricostruire i caratteri di questo tipo di capitalismo si può fare riferimento all'opera di George Soros (v., 1998), che ne offre una descrizione piuttosto efficace. La crisi dell'equilibrio introdotta dalla società postindustriale tra le componenti capitalistica e scientifica del processo produttivo è aggravata, negli anni novanta, da spinte di politica internazionale derivate in larga parte dall'egemonia militare statunitense, la quale dà luogo alla dottrina dell'intervento militare preventivo formulata dal presidente George W. Bush nel settembre 2002. Questo fattore aggiunge una componente politica e strategica (la forza militare, l'appoggio dato a determinate forze economiche e la possibile distruzione di altre) alle caratteristiche globalizzanti del sistema economico. Un'altra deroga a quell'equilibrio è imposta dalla politica di strumentalizzazione del lavoro professionale subordinato, adottata da molte imprese (v. Dubar e Tripier, 1998, cap. 12), e dall'opposizione delle associazioni imprenditoriali al consolidarsi del movimento delle professioni.
La distinzione tra i due tipi di capitalismo è significativa e gravida di conseguenze, benché sia difficile in certe circostanze stabilirla in modo del tutto chiaro e senza sovrapposizioni. Il rapporto tra professionalismo e capitalismo viene impostato in maniera diversa da parte del capitalismo cognitivo e da parte di quello finanziario-speculativo, essendo quest'ultimo, tra l'altro, più esposto del primo a influenze di politica internazionale. Nel caso del capitalismo cognitivo, è indispensabile la partecipazione del movimento delle professioni allo sviluppo capitalistico, tanto a livello dei contributi intellettuali legati alla scienza, quanto delle applicazioni pratiche derivanti da questa. Negli ambiti economici in cui si realizza una sinergia tra capitale e professioni, l'incontro dei due termini è positivo dal punto di vista dei risultati. Dove invece prevale la tendenza a concepire il progresso economico come una conseguenza della mentalità speculativa e della forza militare, diventa altissima per il capitale la tentazione di usare la scienza come semplice strumento di un potere che si serve di tutti i mezzi per raggiungere le proprie finalità. In questo secondo caso, il rapporto tra professionalismo e capitalismo tende a sbilanciarsi a tutto favore del capitale, sacrificando la componente professionale e strumentalizzando la scienza.
Una previsione intorno a quello che sarà il rapporto tra professionalismo e capitalismo nei primi decenni del XXI secolo è subordinata al modello reale al quale si ispirerà il capitalismo nel suo sviluppo. Stante la possibile contaminazione delle due forme di capitalismo - e il differente modo in cui esse si disporranno nei nuovi ambiti territoriali nei quali il capitalismo verrà messo alla prova - le previsioni su questo punto sono oggi molto ardue sia in termini economici, sia per quanto riguarda la componente politica, giacché quest'ultima dipende in larga misura dalla riuscita o meno del processo di egemonia planetaria statunitense e dall'eventuale comparsa di altre forme di capitalismo in paesi nei quali è in atto una rilevante trasformazione economica. La distinzione tra i due modelli può tuttavia essere utile, dato che il paradigma ideale della società postindustriale (in virtù del ruolo essenziale conferito alla conoscenza scientifico-tecnica) è molto più vicino al capitalismo cognitivo che a quello speculativo.
Un'eventuale sconfitta del capitalismo cognitivo potrebbe quindi dar luogo alla strumentalizzazione su vasta scala delle forze professionali e alla loro subordinazione alle strategie dei grandi operatori economici; mentre una convincente prevalenza del capitalismo cognitivo potrebbe dar forza alle componenti intellettuali che svolgono ormai funzioni importanti nelle attuali società, ma non sanno ancora usare pienamente il proprio potere a livello politico.
Un fattore ulteriore sembra destinato a giocare un ruolo importante nella direzione che prenderà il rapporto tra professionalismo e capitalismo nei prossimi decenni. Esso riguarda l'autorganizzazione delle professioni e in genere del lavoro professionale. Attualmente la rappresentanza degli interessi nel campo delle professioni è poco sviluppata. La struttura che può rappresentare adeguatamente questo tipo di lavoro è l"associazione professionale'. Dato che le professioni sono costituite da segmenti formati dagli addetti alle varie specialità, si pone l'esigenza di una unione delle associazioni che rappresenti unitariamente i diversi segmenti. Sulla realizzabilità di tale processo, volto a fare delle professioni vere forze sociali, permangono tuttora molte incognite. La storia culturale ed economica dei prossimi venti-trent'anni darà probabilmente una risposta all'importante problema dell'organizzazione delle professioni nei confronti del capitalismo, soprattutto a livello della capacità dei professionisti di affrontare il rapporto capitale-lavoro (professionale) come operatori dotati di conoscenze specialistiche di alto livello, decisi a difendere i propri interessi in modo altro e diverso rispetto ai lavoratori manuali.
Se il fattore organizzativo non sarà tenuto nel debito conto dalle professioni, il capitalismo impegnato nel profitto potrà prevalere sulle forze professionali sparse e atomizzate. Se - e in che misura - sia possibile l'unione delle professioni, è difficile prevedere: è sperabile tuttavia che i professionisti interessati allo sviluppo prendano parte con impegno a questa problematica.
Dall'auspicata prevalenza di un capitalismo di tipo cognitivo cui sia associata l'autorganizzazione delle professioni può derivare la definitiva legittimazione sociale di tutto il lavoro intellettuale e il fatto che a quest'ultimo siano riservate funzioni determinanti nelle società avanzate che aspirano a un ulteriore sviluppo.
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