professore
professóre s. m. (f. -réssa). – La figura del p. nel primo scorcio del 21° secolo appare definita da alcune caratteristiche oggettive e soggettive che la rendono sempre più problematica. Tali caratteristiche sono nei loro tratti più generali comuni a tutta l’area OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ma assumono nel caso italiano particolari accentuazioni quantitative e qualitative. Il completamento del processo di massificazione della scuola secondaria si è intrecciato con la fine dell’ideologia ottimista che vedeva nello sviluppo quantitativo di questa uno dei fattori di sviluppo economico e civile. L’erosione delle basi demografiche e la crisi politica e simbolica del welfare state hanno avuto nel caso italiano echi ed effetti relativamente ritardati. In particolare, la confusa stagione delle dalla metà degli anni Novanta del 20° secolo se talvolta è sembrata la riforma della scuola finalmente realizzata, è stata in realtà la rappresentazione della crisi dello stato nazionale, e in particolare della sua declinazione in forma di welfare scolastico, che nel caso italiano non è stata priva di contraddizioni. Il processo di femminilizzazione iniziato poco dopo l’unificazione, si è ulteriormente accentuato col paradossale aspetto soggettivo che quello stesso ruolo professionale vissuto dalle madri come un traguardo, viene oggi non di rado vissuto dalle figlie come un’amara delusione. Il tasso di femminilizzazione del corpo docente italiano nel suo insieme è stabile intorno al 75% e dagli inizi del 21° sec. è il più alto sia nell’UE sia nell’OCSE. Accentuato dal sommarsi degli effetti dei trend demografici, dei tassi di abbandono e dei recenti tagli è il rilevante invecchiamento di cui ci sembra patologica non tanto la percentuale di over 50 (da quasi il 60% nella secondaria superiore a circa il 45% nella scuola primaria) quanto la bassissima percentuale di under 30. Il percorso di formazione iniziale e reclutamento è, più di altri aspetti della professione docente, plasmato da un insieme di decisioni politiche e soprattutto di atti amministrativi che da esse discendono (concorsi, percorsi abilitanti, immissioni in ruolo). Se la stessa legge Casati (1859) affermava un principio, la laurea e l’assunzione per concorso, la successiva storia scolastica italiana è stata in buona parte quella delle deroghe, dapprima per mancanza di laureati e successivamente per sporadicità dei concorsi. L’intera vicenda del secondo dopoguerra è stata una storia di abilitazioni e concorsi almeno in parte riservati a particolari categorie: dal recupero di graduatorie repubblichine a norme speciali per ex combattenti fino a norme riguardanti la gestione di un precariato, a partire almeno dai corsi abilitanti previsti dal 1974, risultante da una crescita quantitativa delle scuole che non si è saputa (o voluta) programmare e gestire. Lo stesso fenomeno del precariato ha assunto dimensioni patologiche soprattutto per durata: i cosiddetti neoimmessi in ruolo hanno negli ultimi anni mediamente più di quarant’anni, circostanza che trasforma una situazione giuridica in una condizione esistenziale. La formazione iniziale universitaria degli insegnanti ha ormai generato nel settore della scuola dell’infanzia e primaria una realtà istituzionale abbastanza consolidata, come il corso di laurea in scienze della formazione primaria; anche se il ritorno al maestro unico rischia di provocare un passo indietro rispetto a quel tanto di serio investimento scientifico in almeno alcune specifiche didattiche disciplinari che era stato avviato. L’esperienza della Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS; 1999-2009) presenta maggiori chiaroscuri. Attraverso essa sono passati abilitandi molto diversi per esperienze ed età e c'è stato un equilibrio variegato a seconda delle sedi tra componenti pedagogico-didattiche, componenti di didattiche disciplinari e fraintendimenti disciplinaristi nella formazione da dare agli specializzandi. Tali vicende si sono intrecciate con il nuovo ordinamento universitario conseguente alle normative del 1998-2008 (cosiddetto tre più due), che rendeva non chiara la collocazione della SSIS nel sistema: non è la stessa cosa specializzare laureati quadriennali di un vecchio ordinamento generalista oppure laureati di un nuovo ordinamento con ambizioni di razionalizzazione e di efficientismo professionalizzante, alquanto problematico almeno negli ambiti umanistici. Ne sono derivate incertezza sul ruolo sociale e professionale, almeno parziale centralizzazione della valutazione delle performance degli studenti (con atteggiamenti reattivi che oscillano tra il boicottaggio politico e il cheating) e crescente disomogeneità delle caratteristiche degli studenti; senza dire del trattamento economico del tutto inadeguato all’impegno richiesto. In tale contesto influisce pesantemente il mutato atteggiamento delle famiglie, che anzitutto constatano come la scuola abbia perso qualità e che contemporaneamente sono passate da un prevalente atteggiamento di concordanza con l’insegnante a uno opposto, che mette in crisi quel rinforzo familiare a lungo presupposto dall'istituzione scuola come requisito contestuale di una positiva performance. Un cambiamento si è verificato anche nella conformazione della rappresentanza sindacale: se il suo pluralismo e la sua articolazione si sono confermati una caratteristica strutturale della scuola italiana, hanno però in parte cambiato aspetto per il mutare delle associazioni più innovative, e per certi aspetti più corporative, nate dal contraddittorio susseguirsi di riforme che hanno generato categorie bisognose di rappresentanza e formate da generazioni ormai estranee alla cultura postsessantottina e alle conseguenti culture della rappresentanza generalista. Non stupisce dunque che le ultime generazioni di precari siano cresciute intorno a siti informativi e a (possibili) ricorsi piuttosto che a tesseramenti e assemblee.