PROFETA e PROFETISMO
. Nell'accezione oggidì più comune del termine profeta, l'idea del prevedere e predire il futuro prevale, pur senza eliminarla del tutto, su quella del parlare a nome altrui, specialmente della divinità, in quanto il profeta è l'organo della rivelazione divina. Infatti nel greco προϕήτης (femm. προϕῆτις) la preposizione ha valore sostitutivo ("in luogo di" qualcuno) piuttosto che temporale ("prima"); e presso i Greci chi prediceva il futuro era detto μάντις ("invasato"; cfr. μαίνομαι), mentre il "profeta" era colui che esponeva e spiegava gli oracoli dell'"invasato", del dio, ecc., parlando invece di essi. In tal senso, p. es., Pindaro presenta se stesso come "profeta" delle Muse.
Storia delle religioni. - I due sensi del termine "profeta" (v. sopra), piuttosto che essere in assoluto contrasto tra loro, stanno a indicare due aspetti diversi, ma connessi: l'autenticità del messaggio divino, da lui proclamato, è garantita dall'ispirato mediante predizioni. Nell'uno come nell'altro caso, ciò che caratterizza il profeta è una vocazione particolare, soprannaturale e imperativa, che lo rende atto, mediante un commercio diretto con la divinità a penetrarne i disegni e il pensiero e che lo obbliga a renderli noti. Il profeta è essenzialmente un mistico. Così definita, la missione profetica, soprattutto nella sua seconda forma, costituisce una delle manifestazioni più chiare dell'individualismo religioso: l'esaltazione d'una personalità invasa dallo spirito religioso. Non c'è dunque da stupire se l'importanza del fenomeno varia molto, secondo i tipi di religione. Il profetismo si adatta male al principio di autorità in religione e, in modo più generale, alla rigidità di una religione essenzialmente sociale e tradizionalista, come anche al formalismo religioso d'ogni specie; esso suppone al contrario, con il libero giuoco dell'ispirazione spontanea, un certo stato d'individualismo religioso e caratterizza, in genere, quello che si può dire lo stadio giovanile delle religioni. Il contrasto, che sovente è messo in evidenza, tra le religioni cosiddette d'autorità e quelle cosiddette d'ispirazione, cioè a forma profetica, esprime forse, più che un'opposizione fondamentale e irriducibile tra i sistemi religiosi considerati, momenti diversi dell'evoluzione religiosa.
Di fatto anche nelle religioni con carattere soprattutto sociale o nazionale (religioni dell'antichità classica e dell'Oriente antico) il profetismo sussiste, ma sotto una forma che si potrebbe chiamare del profetismo diretto. Invece che un dono, essenzialmente individuale e gratuito, esso è una funzione, spesso collettiva, detenuta sovente in maniera esclusiva da una casta sacerdotale, talvolta perfino ereditaria in essa. Lungi dall'opporsi al principio d'autorità e di conservazione, il profetismo è in tal caso messo al suo servizio, sia come una fra le attribuzioni d'un corpo sacerdotale unico - come i druidi nella religione dei Celti - sia come funzione particolare di un corpo specializzato e generalmente subalterno: è il caso degli auguri e degli aruspici della religione romana. Allo stesso tipo appartiene, in moltissime religioni, il personale addetto a un santuario particolare e incaricato dell'interpretazione d'un oracolo (come a Dodona, Delfi, Tebe d'Egitto) o di un documento rivelato (Libri sibillini); come anche, in maniera più generale, tutte le forme di divinazione e di mantica. Ma in tutti questi casi vien meno ciò che è l'essenza del vero profetismo, la libertà e la spontaneità dell'ispirazione e del vaticinare, il carattere personale e imperativo della missione. L'acquisto e l'uso di una tecnica suppliscono alla vocazione; un oggetto s'interpone tra il dio e il suo araldo, che, invece di ricevere per comunicazione diretta i disegni celesti, deve penetrarli e interpretarli come dall'esterno; che non è più profeta, ma indovino. Allorché, in questo stadio dell'evoluzione religiosa, sorge un vero profeta, il più delle volte ciò accade ai margini della religione ufficiale o contro di essa.
Nelle religioni dei cosiddetti primitivi, il profetismo, anche se non si possono citare grandi nomi, è pur tuttavia un fenomeno importantissimo. In generale, in tale stadio, il profeta non predica una dottrina, ma piuttosto una prassi religiosa; spesso esercita un'azione politica. Così, tra gl'indigeni dell'America, profeti avrebbero, secondo la tradizione, annunciato la venuta degli Spagnoli; e nelle stesse regioni, fino al sec. XIX, il profetismo è stato una manifestazione del sentimento nazionale indiano, e ha eccitato la rivolta contro i Bianchi. Il profetismo è in questi casi una reazione di difesa della comunità nazionale.
Ma gli aspetti più caratteristici del profetismo si devono ricercare alle origini delle varie religioni. L'antichità classica, p. es., in mancanza di fondatori di religioni, ha fissato nelle opere letterarie figure di profeti leggendarî appartenenti alla preistoria religiosa e nazionale. Il più celebre è Orfeo, ma si possono ricordare le Sibille ed Epimenide: tutti hanno conosciuto i segreti divini e ricevuto la missione di comunicarli ai mortali. Alla stessa categoria, ma legati ad avvenimenti meno favolosi, appartengono Tiresia, Calcante, Mopso. Attraverso queste figure, in tutto o in parte leggendarie, s'intravvede un'epoca in cui, anche presso i Greci, il delirio sacro era diffuso. Una preoccupazione patriottica ha indotto Virgilio a creare, mediante una finzione letteraria, la funzione profetica di Anchise, preannunziatore dell'Impero romano.
Ma i profeti per eccellenza sono i grandi fondatori o riformatori di religioni. Maometto è venerato a tale titolo nell'Islām; e del profeta egli ebbe il temperamento fortemente mistico, la foga e la capacità di agire. Altrettanto caratteristica è la figura di Zarathustra, secondo la tradizione rapito in estasi fino al cielo, dove ricevette dalla bocca stessa di Ahura Mazda la nuova dottrina e la missione di predicarla nell'Iran.
Quanto al contenuto delle profezie, allorché esse sono state fissate per iscritto, esso è talvolta l'annuncio di avvenimenti particolari o, il più spesso, della fine dei tempi, talvolta prescrizioni rituali, talvolta una cosmogonia (Voluspa; profezia di Vola nell'Edda), talvolta una dottrina propriamente detta; e, per lo più, una combinazione di questi diversi elementi.
Per i profeti ebrei e cristiani, v. sotto.
Profeti nell'islamismo. - Maometto accolse dal cristianesimo e dal giudaismo il vocabolo nabī (dall'ebraico), ma con esso intese personaggi dell'Antico e del Nuovo Testamento o anche arabi che ebbero da Dio testi rivelati con l'incarico di farli conoscere ai rispettivi popoli. Primo della serie è Adamo, penultimo Gesù ultimo Maometto, che chiude per sempre le serie dei profeti; v. islamismo, (vol. XIX, pp. 608-609).
Bibl.: E. Fascher, Προϕήτης, eine sprach- und religionsgesch. Untersuchung, Giessen 1927; articolo Prophecy, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, Edimburgo 1918; E. Rohde, Psyche, trad. ital., Bari 1928, voll. 2.
Il profetismo ebraico e cristiano.
Presso gli antichi Ebrei il profeta era designato con tre nomi: rō'eh, ḥōzeh, nābhī'. I primi due termini non offrono difficoltà, essendo due regolari participî attivi dal significato rispettivamente di "veggente" e "scorgente"; il profeta cioè era una persona, uomo o donna, che aveva facoltà di "vedere" e "scorgere" cose comunemente occulte, ad es., il luogo dove si trovavano delle asine smarrite, (cfr. I Samuele [Re], IX, 6). L'ultimo termine, nābhī', è di derivazione dubbia; e quantunque esistano in ebraico forme verbali della stessa radice (nibbā', hithnabbē', "agire da nābhī'"), oggi i filologi ammettono comunemente che queste forme siano verbi denominativi, e la loro prima radice non sia ebraica, ma entrata nell'ebraismo da altre lingue.
Una radice naba'a, ebraico si trova in altre lingue semitiche: in arabo, alla II forma, significa "addurre" (specialmente una notizia); in assiro si ha nabū, "annunziare", "nominare", da cui proviene il nome di Nabū, il dio "oratore" che bandisce l'"oracolo" divino. Qualche filologo è ricorso invece alla radice naba‛a, ebraico che ha il senso fondamentale di "essere in effervescenza", "traboccare", e che è adoperato anche nell'ebraico biblico sia nel significato materiale (di una fonte che faccia traboccare acqua; cfr. Proverbî, XVIII, 4), sia in quello morale (di persona che effonda parole); taluno poi ha trovato in questa radice, presa nel suo significato materiale, un'allusione al trabocco di spuma e bava che emettevano gli antichi indovini quando entravano in stato mantico. Sennonché, dal punto di vista puramente etimologico, la prima radice (naba'a) con la sua gutturale finale debole è più vicina al nome in questione, che ha egualmente una gutturale finale debole (nābhī'), di quanto non sia la seconda radice. (naba‛a), che ha una gutturale finale forte.
Quanto all'uso storico di questi termini ebraici si ha una importante indicazione nella nota redazionale di I Samuele (Re), XI, 9, la quale dice che colui che ai tempi del redattore era chiamato "profeta" (nābhī'), ai tempi del re Saul (cui si riferisce la nota) si chiamava "veggente" (rō'eh). Stando quindi a tale indicazione, verso la seconda metà del sec. XI a. C. il "profeta" era ancora chiamato presso gli Ebrei "veggente", e la sostituzione di questo termine col precedente avvenne più tardi. Quando precisamente avvenisse, non è possibile dire: due punti tuttavia sembrano assicurati, che cioè verso il sec. VIII a. C. essa era già usuale, perché da quell'epoca abbiamo scritti di profeti che la testimoniano; d'altra parte, la sostituzione non fu certamente né subitanea né assoluta, com'è dimostrato, fra altro, dal fatto che il tardivo cronista (v. cronache) impiega ancora ai suoi tempi il termine "veggente".
Sarebbe però ingiustificato concludere dall'indicazione suddetta che prima dell'epoca di Saul il termine "profeta" (nābhī') era sconosciuto presso gli Ebrei. Già ai tempi di Mosè è descritta una manifestazione di profetismo collettivo, di tipo "entusiastico", e designato col termine di nābhī' (Numeri, XI, 24 segg.), che è affine al profetismo dei tempi di Saul (I Samuele [Re], X, 5 segg.; XIX, 20 segg.). Bisognerà piuttosto ritenere che ambedue (o tutti e tre) i termini erano già noti agli Ebrei, e che poco dopo l'istituzione della monarchia, sotto Saul e specialmente sotto David, cominciò a prevalere l'uso di "profeta" (nābhī'), senza dubbio in relazione con i mutamenti sociali-religiosi che subiva contemporaneamente il popolo ebraico.
Manifestazioni semitiche analoghe. - Manifestazioni affini al profetismo ebraico si riscontrano presso altri popoli semitici dell'antichità. Babilonia aveva il bārū (v. babilonia e assiria, V, pp. 749, 756), cioè il "veggente" che praticava la divinazione e annunciava il volere del dio, e di cui esistevano corporazioni ereditarie costituenti una vera professione abituale; l'Arabia antichissima aveva il kāhin, "divinatore", (differente quindi per significato dall'ebraico kōhen, "sacerdote"), il quale parimente prediceva il futuro e annunciava l'oracolo divino. Sennonché queste manifestazioni si presentano allo storico come veri mestieri o professioni, esercitati per lo più ereditarimente, e in stato psichico normale lungi da ogni stato di condizione entusiastica o parossistica.
Se ci volgiamo invece ai Cananei, semiti anch'essi, troviamo egualmente siffatte manifestazioni ma in forma diversa. A mezzo il sec. IX a. C. i "profeti" di Baal, contro cui scese in lizza il profeta ebraico Elia, esercitavano il profetismo in stato di esaltazione psichica fino a incidersi la viva carne e spargere sangue (cfr. I [III] Re, XVIII, 28). Anche prima, ai tempi di Mosè, la maniera come l'"indovino" (qōsem) Balaam agisce contro gli Ebrei svela chiaramente uno stato mantico o entusiastico, pur non essendoci ricordato spargimento di sangue (Numeri, XXII-XXIV). Uno stato entusiastico o estatico ci è pure attestato, verso il 1100 a. C., dalla relazione che l'egiziano Wenamôn fece in quel tempo sulle coste della Palestina-Fenicia, essendosi egli imbattuto a Biblo in un paggio che veniva invasato dal dio in un tempio di quella città e che rimaneva nottetempo in tale condizione (Testo della relazione in H. Gressmann, Altorientalische Texte zum Alten Testament, 2ª ed., Berlino e Lipsia 1926, p. 72).
È pertanto chiaro che le persone soggette a siffatte manifestazioni erano "profeti" nel preciso senso etimologico, cioè "parlatori in luogo" del dio rispettivo, di cui essi si presentavano come interpreti o strumenti vocali. La previsione e predizione del futuro poteva entrare nella loro professione, ma non era che una delle sue conseguenze, giacché essi si affermavano gli araldi della divinità tanto per il futuro, quanto per il presente o per il passato.
Profetismo ebraico. - Nella lunga e documentata storia del profetismo ebraico troviamo manifestazioni varie e tipi differenti, pur in epoche uguali. Mosè è definito dalla tradizione ebraica come il sommo profeta in Israele (cfr. Deuteron., XXXIV, 10) e viene da essa presentato come il legislatore calmo e lucido della prima organizzazione nazionale; eppure ai suoi tempi la stessa tradizione riporta la suddetta manifestazione di profetismo collettivo di tipo "entusiastico" (Numeri, XI, 24 segg.). All'epoca dei Giudici appartengono sia la profetessa Debora sia il profeta. Samuele che compaiono anch'essi come dettanti norme occasionali o generali in stato psicologico calmo e lucido; eppure ai loro stessi tempi vi erano le corporazioni profetiche (vedi appresso), i cui membri profetizzavano collettivamente esaltandosi con musiche e canti, compiendo atti di una eccentricità rilevata anche da contemporanei, e le cui manifestazioni erano presiedute dallo stesso Samuele (cfr. I Samuele [Re], X, 5 segg.; XIX 20 segg.). Più tardi ancora, negli stessi profeti rimasti classici nella tradizione ebraica, o anche in quelli di cui possediamo gli scritti (e attraverso questi possiamo analizzare l'animo in chiara luce storica), permangono innegabili tracce di stato profetico "entusiastico" o testimonianze nettissime di atti giudicati eccentrici anche dai contemporanei. Elia, l'avversario dei frenetici profeti di Baal, percorre velocemente la distanza di molte miglia dal Carmelo a Iezrael facendo da battistrada al cocchio del re Acab (I [III] Re, XVIII, 46); alla musica ricorreva anche il profeta Eliseo per entrare in stato profetico (II [IV] Re, III, 15). Le azioni eccentriche, poi, erano così abituali in profeti anche di solito calmi e lucidi - basti ricordare le azioni di significato simbolico compiute da un Osea, da un Geremia e perfino dal tardivo Ezechiele - che più volte è testimoniato nella Bibbia l'uso di chiamare mĕshuggā', "forsennato", "squilibrato", un profeta del resto autorevole e rispettato (II [IV] Re, IX, 11; Geremia, XXIX, 26; cfr. Osea, IX, 7).
In linea di congettura, data la scarsezza di documenti per i tempi più antichi, si potrà pensare che originariamente il profetismo ebraico fosse di tipo calmo e lucido, secondo le analoghe forme in fiore presso i Babilonesi e gli Arabi primitivi. È verosimile, benché non testimoniato, che di tale tipo fosse anche il più antico profetismo dei Cananei; presso i quali, invece, il tipo "entusiastico" e "frenetico" non sarebbe che un effetto dell'influenza esercitata su essi dal culto orgiastico della Gran Madre (v. cibele), il quale a nord del Canaan, in Asia Minore e nella Siria occidentale, era predominante in tempi remotissimi. In tal caso anche il cambiamento di terminologia presso gli Ebrei, per cui l'appellativo di "veggente" (rō'eh) fu usualmente sostituito con quello di "profeta" (nābhī; v. sopra), potrebbe esser messo in relazione con le nuove condizioni sociali degli Ebrei; in quanto cioè questo popolo, divenuto sedentario da nomade che era prima, ed entrato in contatto diretto con i Cananei e col loro profetismo, in parte subì l'influenza di quest'ultimo, e in parte reagì contro di esso in virtù del suo proprio jahvismo.
La storia del profetismo ebraico è oggi comunemente divisa in due periodi: quello del profetismo antico, e quello successivo dei profeti scrittori dei quali ci sono giunte composizioni letterarie. Del primo periodo, che va fino circa al sec. VIII a. C., siamo informati naturalmente con minore precisione; le grandi figure che campeggiano in esso sono psicologicamente appena sbozzate, nè sappiamo alcunché del processo spirituale interno che accompagnava il loro ministero profetico. Ci consta, invece, che era prevalente in questo periodo il tipo di profeta "entusiastico", quale si ritrova anche in Elia ed Eliseo (v. sopra). Un'istituzione, poi, caratteristica a questo periodo e prolungatasi anche al successivo, è quella delle corporazioni di profeti.
I membri di queste corporazioni sono designate nella Bibbia con l'appellativo di "figli di profeti", in cui il termine "figlio" ha il significato, frequente in ebraico, di "appartenente a" una casta, corporazione, ecc. (cfr. in Neemia, III, 8, 31, i "figli dei profumieri", i "figli degli orefici", cioè i membri delle rispettive corporazioni). Molti studiosi moderni, a proposito di tale espressione, parlano di "scuole di profeti"; ma il termine è inadatto, giacché non si trattava di adunanze che mirassero ad apprendere o diffondere il fenomeno del profetismo, bensì di una corporazione, o congrega, o casta sociale, che faceva da parallelo a quelle puramente economiche dei varî mestieri (profumieri, orefici, fornai, ecc.) e ad altre di tipo parentale-congregazionalista quale quella dei Recabiti. Questi "figli di profeti" infatti vivevano con le loro mogli e figli (cfr. II [IV] Re, IV, 1), e a quanto sembra anche in una specie di comunanza economica (ivi, 38 segg.). È certo, tuttavia, che in queste corporazioni i membri si esercitavano nel fenomeno profetico, e lo provocavano o favorivano - come anche Eliseo (v. sopra) - mediante la musica (I Samuele [Re], X, 5). Inoltre, i fenomeni psichici che accompagnano le manifestazioni profetiche collettive di queste corporazioni, non solo sono "entusiastici" e spingono ad azioni eccentriche, ma sono anche "contagiosi" e si propagano a spettatori estranei e alieni dal parteciparvi; i messi di Saul, e Saul stesso, sono "contagiati" contro loro voglia dal fenomeno psichico di una manifestazione profetica collettiva, e Saul si spoglia nudo "profetizzando" con tanta veemenza che resta poi nudo giacente a terra, per la prostrazione di forze, per un giorno e una notte interi: alla quale manifestazione era presente con funzioni direttive lo stesso Samuele (I Samuele [Re], XIX, 20 segg.).
Le corporazioni dei "figli di profeti" appaiono nella storia dell'ebraismo antico come grandemente potenti anche nel campo civile, tanto che nel regno settentrionale la dinastia di Jehu poté avere il sopravvento su quella precedente, di Amri, e soppiantarla grazie all'appoggio esplicito dei circoli profetici. Questo periodo di potenza provocò naturalmente affluenza di profittatori; questi, senza essere investiti del vero fenomeno profetico, si spacciavano per motivi d'interesse pratico quali veri profeti, imitando empiricamente le varie manifestazioni psichiche, e in particolare quelle più eccentriche e più adatte a colpire la fantasia. Furono costoro i molti pseudo-profeti che rappresentarono l'ostacolo massimo per l'attività di genuini profeti, e in particolare di Geremia. Poteva darsi il caso infatti che un "figlio di profeta" non risultasse mai investito del vero fenomeno profetico, pur essendone presumibilmente in attesa per lo meno in virtù della sua appartenenza all'omonima corporazione; ma, all'opposto, poteva darsi il caso in cui il vero fenomeno profetico si manifestasse inaspettatamente in chi non era "profeta né figlio di profeta", come dice di sé Amos, il quale cioè come mandriano e scortecciatore di sicomori non aveva mai pensato a esercitare la professione profetica né a entrare nella relativa corporazione. È intuitivo che gli pseudo profeti dovevano in gran parte uscire dalle file di quei "figli di profeti" che restavano delusi nella loro aspettativa. Nel periodo successivo, quello dei profeti scrittori, il fenomeno va perdendo sempre più il carattere "entusiastico" e sembra scomparire l'uso d'impiegare la musica e altri mezzi artificiosi per provocarlo: rimane invece fino all'epoca più tarda, con Geremia ed Ezechiele, l'uso di ricorrere ad azioni eccentriche di significato simbolico (v. sopra).
Carattere del profetismo ebraico. - Sull'intima natura di questo fenomeno psicologicamente oscuro e storicamente incontrollabile ben poco possiamo oggi dire, specialmente riguardo al periodo antico, dei cui profeti non possediamo alcuno scritto e le cui storie ci sono pervenute attraverso redazioni posteriori, che possono aver risentito della nuova terminologia e dei nuovi aspetti del profetismo. Ma il carattere morale, sia dell'antico profetismo sia del nuovo, appare sostanzialmente lo stesso, e si può riassumere nei due seguenti capisaldi: fede e culto spirituale dell'unico dio Jahvè; pratica della giustizia individuale e sociale in virtù di questa religione di Jahvè.
Del primo caposaldo fanno testimonianza moltissimi episodî dell'antico profetismo: ne è una prova, ad es., quasi tutta l'attività di Elia. Ma anche del secondo caposaldo, nello stesso profetismo antico, vi sono prove eloquenti: solo il profeta Nathan ardisce rinfacciare al re David il suo adulterio con Bethsabea e la sua ingiustizia verso Uria; solo il profeta Elia osa redarguire il re Acab per il suo misfatto ai danni di Naboth; ecc. Spesso poi i due motivi si compenetrano a vicenda: come avviene, ad es., nell'episodio del profeta Achia, il quale predice a Geroboamo che succederà a Salomone nella maggior parte dei suoi dominî, in punizione certamente dell'idolatria di Salomone, ma anche del suo fiscalismo oppressivo che gli aveva alienato gli animi di moltissimi sudditi (I [III] Re, XI, 29 segg.). Per il resto di questo antico periodo, v. ebrei, XIII, p. 341 seg.
Per il successivo periodo, dal sec. VIII a. C. in poi, siamo meglio informati mediante gli scritti del contemporaneo profetismo pervenuti fino a noi, e nei quali troviamo preziose allusioni alle vicende individuali - sia storiche esterne, sia psicologiche interne - della missione profetica. Raccogliendo da questi scritti i dati comuni, o che si possono a buon diritto presumere tali, risulta che la figura generica del profeta del nuovo periodo è più precisa, più matura, di quella del profeta dell'antico periodo, ma i suoi capisaldi sono sempre i due tradizionali: monoteismo jahvistico e giustizia morale. A questo solenne binomio si riduce, in ultima analisi, l'attività del profeta.
Di questa legge, nel suo duplice aspetto, il profeta era il banditore fra la società ebraica e l'applicatore ai singoli casi. In mezzo a quella società, essenzialmente teocratica, si faceva avanti il profeta, affermando che veniva da parte di Jahvè e per "parlare in luogo di lui", come già enunciava il nome del suo ufficio (nābhī'; v. sopra): di qui anche la sua autorità presso i suoi ascoltatori, i quali, come membri di una società teocratica, non potevano negar credito - almeno in teoria - al "parlatore in luogo del" dio nazionale. Nulla perciò - sempre in teoria - sfuggiva all'autorità di questo dittatore spirituale. Davanti a lui i re e i sacerdoti di Jahvè non valevano più dell'ultimo pastore della steppa che adorava Jahvè pascendo il suo gregge; la reggia e il tempio di Gerusalemme potevano echeggiare delle fiere invettive d'un profeta rinfacciante abusi e corruzione, come analoghi rimproveri poteva egli far risonare nel tugurio dell'operaio e del contadino; il dittatore spirituale si presentava improvvisamente in una festività pubblica a proclamarvi castighi divini per i comuni delitti, come fece un Amos, ovvero a rinfacciarvi ai maggiorenti e alla plebe la colpevole negligenza per il decoro del tempio, come fece un Aggeo.
Il profeta era infatti l'"uomo di Dio" ('īsh-hā'ĕlohīm). Ciò che diceva egli, era un detto di Dio stesso, era un "oracolo di Jahvè" (nĕ'um Yahweh), era la "parola di Jahvè" (dĕbhar Xahweh). Siffatte espressioni sono frequentissime negli scritti dei profeti, quasi insistente appello al principio che giustificava la loro missione e su cui si fondava la loro autorità. I profeti erano i portatori della "parola di Jahvè", epperciò chi ascoltava loro ascoltava Dio (cfr. Luca, X, 16).
Ma se tutto ciò era ben chiaro in teoria, sia nella coscienza dei profeti sia in quella di quasi tutti i loro ascoltatori, in pratica le cose potevano andare, e difatti spessissimo andavano, assai diversamente. I profeti autentici, a differenza degli pseudoprofeti, furono quasi sempre in netto contrasto con l'opinione pubblica, e in forza appunto della loro missione. Quando la purità della religione iahvistica veniva inquinata da culti sincretistici e altre allettanti pratiche idolatriche, s'avanzara il profeta a maledire in nome di Jahvè quelle pratiche; quando il superstizioso popolino riponeva una fiducia feticistica su oggetti e riti liturgici - quali l'Arca, il tempio, i sacrifici, la circoncisione, ecc. - il profeta al contrario proclamava che tutte queste cose non valevano nulla per sé stesse e potevano essere distrutte e abolite da Jahvè, il quale ricercava attraverso esse lo spirito e la purità di cuore, e preferiva al sacrificio di animali il soccorso alla vedova e all'orfano, e alla circoncisione materiale quella morale del cuore; quando a scapito del carattere nazionale-religioso del popolo di Jahvè si brigavano alleanze con potenti regni idolatrici, e quando agli austeri costumi del puro jahvismo sottentrava sempre più la corruzione morale dell'individuo e della società, il profeta interveniva esecrando quelle alleanze, additando quella corruzione, annunciando gl'imminenti castighi divini sugl'individui e sulla società.
Ora, questa incessante censura del profetismo dava naturalmente fastidio; perciò, nonostante la sua indiscussa autorità sociale, il profeta finiva assai spesso ucciso. Infatti, anche incontratosi con l'ostilità pubblica, il "parlatore in luogo di" Dio seguiva imperturbabile a parlare, minacciando ed esecrando: il popolo a un certo punto fingeva dimenticare il carattere di quel parlatore, e lo lapidava in un momento di furiosa reazione o per lo meno lo rendeva oggetto di continue persecuzioni. "Quale dei profeti i vostri padri non perseguitarono?" domanda Stefano ai Giudei di Gerusalemme (Atti, VII, 52), né alle sue parole si può attribuire altro valore che storico (cfr. Matteo, XXIII, 29 segg.; Ebrei, XI, 36 segg.).
Notoria era questa prospettiva che attendeva il profeta nella sua missione, e ciò forse spiega la titubanza e anche la precisa riluttanza di qualche profeta ad assumere la missione profetica. Se Amos mostra soltanto stupore di essere stato scelto come profeta, mentre era semplice mandriano, nel caso di Giona si riflette una vera riluttanza alla missione profetica (Giona, I, 1-3); la quale poi è nettissima in Geremia, che si lamenta della gravosità del suo ufficio, vorrebbe quasi liberarsene, e arriva al punto di chiamare Dio il suo "seduttore" (Geremia, XX, 7-9). Ma tutti poi si arrendono, perché la "parola di Jahvè" che costituiva l'impulso e l'oggetto della loro missione, era "nel cuore come un fuoco divoratore, racchiuso dentro le ossa" (Ger., XX, 9), a cui nessuno poteva sottrarsi. Poiché "se il leone rugge, chi non tremerà? se il Signore Jahvè parla, chi non profetizzerà?" (Amos, III, 8).
Giudicando quindi storicamente, bisogna concludere che i profeti furono gl'incessanti rettificatori dell'incessante tralignamento che allontanava il popolo ebraico dal suo genuino iahvismo. Al complesso della loro opera si può applicare quanto fu detto a uno di essi proprio al principio della sua attività: "Ecco, io [Jahvè] ti pongo oggi quale città munita e quale colonna di ferro e qual muro di bronzo contro tutta la regione, di fronte ai re di Giuda, ai suoi principi, ai suoi sacerdoti e al popolo della regione" (Geremia, I, 18). Quanto vi fu di più nobile nell'ebraismo fu salvato principalmente dai profeti e da essi trasmesso a epoche successive.
Di questa somma importanza spirituale furono consci sia i profeti, pur frammezzo alle continue persecuzioni subite, sia le plebi, fra l'uno e l'altro di quei loro scatti furiosi che finivano con la lapidazione di un profeta. Come i profeti più volte avevano rassomigliato la loro missione riguardo alla vita sociale-religiosa della nazione a quella delle vedette che dall'alto delle torri spiano il nemico, o delle sentinelle notturne che vigilano sulla sicurezza dell'accampamento; così a sua volta il popolo sapeva ormai per esperienza che nei momenti più decisivi della vita nazionale compariva l'inesorabile profeta a redarguire, a minacciare, a correggere, a esortare, e si era abituato a udire il tono iroso delle sue rampogne. Cosicché, quando col tramonto del profetismo quelle autorevoli voci si udirono sempre più raramente e poi tacquero, il popolo si trovò come smarrito, ripensò con desiderio accorato a quei dittatori spirituali, ne venerò sempre più la memoria e ne adornò i sepolcri.
L'ultimo profeta di cui ci sono pervenuti gli scritti con la loro attribuzione è Malachia, che agì in Gerusalemme a mezzo il secolo V a. C. Non è senza una ragione che i suoi scritti siano messi nel Canone all'ultimo posto dei Profeti Minori (v. bibbia; profeta minori). A quel tempo infatti il profetismo ebraico era certo non ancora tramontato, sibbene in pieno declino, poiché il posto del profeta era sempre più occupato dallo scriba e l'ufficio del dittatore spirituale era sempre più sostituito da quello del legista codificatore.
Ai tempi del risorgimento maccabaico (v. maccabei) il profeta era del tutto scomparso in Israele. Se ne conservava però, non soltanto il ricordo passato, ma anche la speranza futura, in quanto cioè si riteneva che Jahvè non avrebbe lasciato la sua prediletta nazione priva per sempre del dittatore spirituale; anzi era comune credenza che il massimo fra essi, il "profeta" per eccellenza, sarebbe riservato per la maturità dei tempi messianici, e si ripromettevano da esso grandiose restaurazioni nazionali (v. apocalittica, letteratura; messianismo). Nel 140 a. C. il popolo di Gerusalemme, adunato in solenne assemblea, volle mostrare la sua riconoscenza alla famiglia dei Maccabei per tutto ciò che essa aveva fatto per il bene della nazione: elesse perciò Simone, allora unico superstite della famiglia, a "egumeno e sommo sacerdote in eterno, fino a che sorgesse un profeta fedele" (I Maccabei, XIV, 41). A Simone, cioè, fu concessa la somma potestà civile e religiosa; tuttavia non gli fu concessa la dignità regia, perché era tradizione nel giudaismo che di tale dignità fosse depositaria la stirpe di David, da cui doveva uscire il futuro "profeta fedele", cioè il Messia. Per l'elenco dei profeti di cui ci sono pervenuti gli scritti, v. bibbia, VI, pp. 884-885; profeti minori; cfr. pure le singole voci ai nomi di detti profeti.
Il profetismo nel cristianesimo. - Nel cristianesimo primitivo era chiamato "profeta" colui che era insignito del carisma della profezia (v. carismi). Le manifestazioni di questo carisma consistevano in ciò, che nelle adunanze della chiesa il profeta, mosso dallo Spirito, diceva cose non incomprensibili - come nel carisma della glossolalia - bensì d'immediata comprensione e destinate alla "edificazione ed esortazione e consolazione" degli ascoltatori (I Corinzi, XIV, 3). In che maniera nelle adunanze della chiesa si dovesse regolare questo ministero edificativo e parenetico del profeta, è stabilito dallo stesso S. Paolo (I Corinzi, XIV, 29 segg.). Talvolta il profeta preannunciava anche avvenimenti futuri (Atti, XI, 27 segg.; XXI, 10 segg.). Potevano essere investite di questo carisma anche le donne (Atti, XXI, 9; I Corinzi, XI, 5).
A motivo della sua efficacia di edificazione pubblica, S. Paolo preferisce il carisma della profezia a quello della glossolalia (I Corinzî, XIV, 5, 39). Dalla Didachè, 10, risulta che il profeta aveva grande campo di attività nel rito dell'Eucaristia, come pure (ibid., 11) nelle opere di carità verso i poveri; perciò ai profeti si dovranno offrire aiuti e primizie, essendo essi i "sommi sacerdoti" (ibid., 13). In I Giovanni, IV, 1, sono nominati gli pseudoprofeti, e nella Didachè, 11, si stabilisce che dai rispettivi costumi si devono distinguere il profeta e lo pseudoprofeta. Poi i profeti scompaiono nelle comunità ortodosse, mentre conservano grande importanza, p. es., nel montanismo (v.).
Bibl.: Molto si è scritto sui profeti, ma fino al sorgere della critica biblica essi furono considerati quasi esclusivamente sotto l'aspetto teologico; dal secolo XIX, in poi invece sono stati studiati anche sotto l'aspetto storico e comparativo-religioso: ci limitiamo, fra quest'ultima abbondante produzione, ad alcune opere più recenti, in cui si troveranno anche citazioni di lavori più antichi: W. Caspari, Die israelitischen Propheten, Lipsia 1914; B. Duhm, Israels Propheten, Tubinga 1916 (2ª ed. 1922); H. Gunkel, Die Propheten, Gottinga 1917; J. M. Gray, A text-book on prophecy, Londra 1919; G. Ch. Aalders, De Profeten des Ouden Verbonds, Kampen 1919; W. A. C. Allen, Old Testament Prophetes. A study in Personalities, Cambridge 1919; J. G. Hill, The prophets in the light of to-day, New York 1919; E. Tobac, Les prophètes d'Israel, I, Lierre 1919 (2ª ed., Malines 1932); II-III, Malines 1921; C. E. Cornill, I profeti d'Israele (traduz. dal tedesco), Bari 1923; A. Eberharter, Die soziale und politische Wirksamkeit des alttestamentlichen Prophetentums, Salisburgo 1924; R. C. Gillie, The story of the Heberw prophets, Londra 1923; Th. H. Robinson, Prophecy and prophets in ancient Israel, New York 1923; H. . Wiener, The prophets of Israel in history and criticism, Londra 1923; J. W. Povah, The new psychology and the Hebrew prophets, ivi 1925; J. M. P. Smith, The Prophets and their times, Chicago 1925; M. Micklem, Prophecy and Eschatology, Londra 1926; M. A. van der Ouderjin, ebraico De prophetiae charismate in populo israel., Roma 1927 (con bibl. anche antica); H. Junker, Prophet u. Seher in Israel, Treviri 1928; J. Darmesteter, Les prophètes d'Israël, Parigi 1931; J. Chaine, Introd. à la lecture des prophètes, ivi 1932; F. Häussermann, Wortempfang u. Symbol in der alttestam. Prophetie. Eine Unters. zur Psychol. d. prophet. Erlebnisses, Giessen 1932.
Iconografia. - Nella tradizione del giudaismo non si conoscevano raffigurazioni di profeti sino al ritrovamento della sinagoga di Dura Europo (v.; App. p. 166), dove qualcuno dei personaggi raffigurati negli affreschi potrebbe essere un profeta, almeno nel senso in cui anche Mosè è designato nell'ebraismo come tale (v. sopra); in ogni modo uno degli affreschi rappresenta Samuele nell'atto di ungere Davide come re.
Nell'arte cristiana dei primi secoli sono accertate soltanto le rappresentazioni di alcuni profeti: Isaia in atto di annunciare la Natività (affresco delle catacombe di Priscilla), Giona liberato dal mostro e Daniele fra i leoni; questi ultimi, ispirati alle preghiere della liturgia funebre, alludono evidentemente alla futura resurrezione delle anime (sarcofago n. 119, n. 55, nel Museo Lateranense a Roma). Dal sec. V i profeti cominciano ad apparire nell'arte monumentale, mentre le loro figure ornavano prima i libri sacri. Essi sono raffigurati sovente a riscontro con gli apostoli o altri personaggi del Nuovo Testamento, a significare la rispondenza fra l'Antica e la Nuova Legge: parallelismo, che si ritrova non solamente nell'iconografia bizantina, la quale improntò le figure profetiche a un senso di profondo e ieratico misticismo, ma che, attraverso una ininterrotta tradizione, si riflette pur nell'arte dei secoli successivi (rilievi in stucco del battistero degli Ariani a Ravenna e musaici in S. Vitale a Ravenna, Codice Rossanense, musaico della cupola del coro in S. Marco a Venezia, musaici della Martorana e della Cappella Palatina a Palermo).
Nell'età romanica e gotica i profeti si allineano sui portali istoriati delle cattedrali, oggetto d'insegnamento e di fede. Essi recano fra le mani attributi che ricordano le particolarità simboliche della loro vita o che direttamente rappresentano le parole profetiche (cattedrali di Modena, Ferrara, Parma, Bamberga, Chartres, Bourges, Reims).
Il tema compare assai spesso anche nella decorazione degli amboni, ove i profeti si accompagnano talvolta alle sibille (pulpito di Ravello, di Sessa Aurunca, di Nicola Pisano nella cattedrale di Siena, di Giovanni Pisano in S. Andrea di Pistoia). La sua fortuna, determinata specialmente dalla liturgia e dalle sacre rappresentazioni, si prolungò nel Rinascimento unitamente alle figurazioni delle Sibille (rilievi di Agostino di Duccio nel tempio malatestiano a Rimini, affreschi del Pinturicchio nell'appartamento Borgia al Vaticano, affreschi della Sala del Cambio a Perugia di P. Vannucci) e trova la sua più mirabile espressione negli affreschi di Michelangelo alla Sistina. (V. tavv. LXIX e LXX).
Bibl.: M. Sepet, Les prophètes du Christ, in Bibliothèque de l'École des Chartes, XXXVIII (1877); F. Kraus, Geschichte der christlichen Kunst, Friburgo 1897-1908, voll. 2; H. von der Gabelentz, Die kirchliche Kunst im italienischen Mittelalter, Strasburgo 1907, p. 41 segg.; E. Mâle, L'art relig. de la fin du moyen-âge en France, Parigi 1908; id., L'art rel. du XIIIe siècle en France, Parigi 1910; K. Künstle, Ikonogr. der christl. Kunst, I, Friburgo 1928, p. 303 segg.