profeta
Nel cap. vi del Principe l’attenzione di M. è rivolta alle capacità e alle risorse di coloro che sappiano aprire strade nuove e, in particolare, ai costruttori di principati e di Stati, diremmo, modernamente, di regimi e di sistemi politici. Costoro meritano il nome di profeti poiché suggeriscono percorsi non ancora esplorati e vi si incamminano. Lo fanno guidando popoli verso una meta agognata. I principati si acquisiscono con armi proprie e con la virtù. Né le une né l’altra sono sufficienti e riescono ad avere successo in assenza di una condizione preliminare. Affinché i profeti esercitino la loro opera è indispensabile un’occasione. Talvolta sono i profeti stessi che creano l’occasione propizia al dispiegarsi della loro virtù. Talvolta, semplicemente, l’occasione si presenta e deve essere colta. Facendo tesoro, come aveva programmaticamente dichiarato, della lezione appresa dai classici, ovvero della storia, M. menziona quattro profeti: Mosè (→), Ciro (→), Teseo (→), Romolo (→ Romolo e i re di Roma). Tuttavia, soltanto uno di questi, Ciro, fondatore dell’impero persiano, è sicuramente un personaggio storico. Non lo sono altrettanto sicuramente né Teseo né Romolo, mentre incerta e dubbia è la qualificazione di Mosè come tale. Comunque, M. specifica per ciascuno di tali personaggi quali furono le occasioni sostanzialmente decisive che diedero loro modo di mostrare la propria virtù. Per Mosè fu l’oppressione decennale e la schiavitù che il popolo di Israele soffriva in Egitto. Per Ciro il malcontento dei Persiani nei confronti dei Medi, ma anche l’effeminatezza e la mollezza dei Medi causata da troppi anni di pace. Per Romolo il suo essere stato abbandonato poco tempo dopo la nascita. Infine, per Teseo l’occasione di manifestare la sua qualità di costruttore di principato venne dalla condizione di dispersione degli Ateniesi. «Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta». Nel cap. vi M., pur senza scrivere la parola profeta, ma richiamando le gesta di Mosè, di Ciro e di Teseo, indica a Lorenzo de’ Medici l’esistenza dell’occasione che può renderlo un p. vittorioso. La conquista dei principati e il loro mantenimento non si presentano mai facili poiché gli oppositori del nuovo, intuendo che cosa rischiano di perdere – il potere, lo status, le ricchezze, fors’anche la vita – si pongono in contrasto, mentre coloro che potrebbero trarre vantaggio dal nuovo temono di ingaggiare una battaglia difficile dall’esito incerto. M. mette in guardia gli innovatori suggerendo sia che facciano leva e affidamento sulle loro forze sia che facciano effettivamente uso della forza. Se gli innovatori si limitano a «pregare» (ovvero, forse, a predicare e a cercare di convincere) «sempre capitano male e non conducono cosa alcuna; ma quando dependono da loro propri e possono forzare, allora è che rare volte periclitano» (§ 21). In maniera tanto imperiosa quanto possente M. conclude con una lezione che è, al tempo stesso, un’affermazione in assoluta coerenza con il suo realismo e una brillante generalizzazione: «di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno» (§ 21). Dopodiché, l’esemplificazione di questa tanto secca quanto assertiva generalizzazione non è, però, affatto abbondante. Non v’è nessun richiamo a Mosè, Ciro, Teseo e Romolo che sembrano i più adatti a esemplificare casi concreti di profeti armati vincenti. Piuttosto, M. menziona il caso di Ierone (→ Ierone e gli altri tiranni della Sicilia greca), stratega di Siracusa, eletto dai Siracusani loro capitano che «meritò di essere fatto loro principe» (§ 27). L’archetipo del p. disarmato che ruinò è costituito da fra Girolamo Savonarola (→). Qui l’insegnamento non viene dalla storia antica, ma ricorrendo al metodo che nelle scienze sociali viene definito osservazione partecipante. Per M. Savonarola è un contemporaneo del quale ha certamente osservato l’ascesa, la predicazione, la battaglia e la sconfitta fino alla morte sul rogo. Nelle non molte righe dedicate a Savonarola, «il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli» (§ 23), M. esprime un atteggiamento ambiguo senza dire nulla sulla natura della ‘occasione’ che avrebbe potuto favorire l’agire di Savonarola. Non c’è nelle sue parole apprezzamento, ma neppure una critica esplicita del disarmato p. ferrarese. Appare, piuttosto, una presa d’atto: i profeti disarmati – e Savonarola lo fu per scelta e per necessità –, non essendo in grado di vincere, vanno comprensibilmente in rovina, in maniera ineluttabile, senza eccezione alcuna. Non c’è fortuna che tenga. Realisticamente, i costruttori di principati e Stati debbono avere acquisito la consapevolezza che per loro è necessario, anzi decisivo, essere attrezzati, ovvero essere armati. A nessun p. sarà mai sufficiente saper usare soltanto l’astuzia della volpe. È indispensabile che egli possegga la forza del leone e sia disponibile a usarla e capace di farlo.
Fra i riferimenti più significativi alla contrapposizione fatta da M. fra p. armati e p. disarmati va annoverata la biografia in tre volumi del grande rivoluzionario russo Lev D. Trockij (1879-1940) scritta dallo storico comunista polacco Isaac Deutscher (1907-1967): The prophet armed. Trotsky 1879-1921, The prophet unarmed. Trotsky 1921-1929 e The prophet outcast. Trotsky 1929-1940, pubblicati rispettivamente nel 1954, 1959, 1963. In un certo senso, Deutscher arricchisce e storicizza il discorso machiavelliano. La tragica fine di Trockij, morto assassinato in Messico nel 1940, può, infine, essere letta come una chiara conferma che i p. che hanno perso le armi non soltanto ‘rovinano’, ma, in molte circostanze, finiscono per perdere la vita. Indirettamente, Deutscher suggerisce anche la possibilità di una sequenza che non si ritrova in M., più interessato alla contrapposizione netta. C’è un tempo in cui un p. può essere armato. Un altro tempo in cui si troverà disarmato. La sua rovina, il terzo tempo, dipenderà dall’isolamento.