profetismo
Il p. di D., che si addensa, soprattutto, come tensione profetica nella Commedia, non è certo atteggiamento isolato dello spirito del poeta, ma va, piuttosto, considerato come un momento, di eccezionale rilievo e importanza, di un aspetto fra i più significativi e vistosi della sua epoca.
Per tutto l'Alto Medioevo nei secoli XI e XII, il p. si era espresso come il momento di predicazione e di ammonimento dell'attesa escatologica, ora più ora meno operante, ma sempre viva dai tempi del primo cristianesimo in poi. Su questo piano è profetica la coscienza pastorale di Gregorio Magno: dalla consapevolezza, per lui certa, dell'imminente ritorno di Cristo per il giudizio universale, egli ricava l'esigenza spirituale e, insieme, pastorale, della predicazione ammonitrice e, quindi, profetica. Egli si considera lo " speculator ", la vedetta che guarda lontano e ha perciò il dovere di avvertire chi non può vedere o non vede. Ne consegue l'incessante suo impegno nelle lettere, nelle Omelie, poi, qua e là, nella sua stessa grande opera teologica, i Moralia in Hiob.
Da Gregorio dipende, largamente, il successivo p. medievale, ripensato, ora su di un piano speculativo e teologico, da Oddone di Cluny, nel sec. X, ripreso, poi, in modo pessimistico da Bernardo di Morlay nel suo De Contemptu mundi all'inizio del sec. XII, alimentandosi prima dei terrori provocati dall'espansione degli Arabi e, più tardi, dalle incursioni ungariche: si oscilla sempre, tuttavia, tra una tensione escatologica che si eleva, di tanto in tanto, a p. e una paura di questo o quell'evento minaccioso o sconvolgente, che offre allora motivo di ammonimenti pii o di consigli alla conversione per evitare più terribili punizioni dall'ira di Dio; non si supera, in ogni caso, l'orizzonte culturale e spirituale della consueta e, alla fine, stanca o fiacca tradizione paleocristiana.
La stessa prima crociata, alla fine del sec. XI, non riuscì a rinnovare le idee e le forme di questo p. divenuto, ormai, di maniera.
Solo il sec. XII, nel rinnovamento generale di tutte le forme della vita religiosa che lo caratterizza, vedrà un nuovo p., che si articola in due aspetti fondamentali: l'uno nasce dalla coscienza di un rapporto immediato e diretto con Dio mediante una serie di visioni, da cui il profeta - come già quelli dell'Antico Testamento - ricava gli elementi per il suo messaggio ammonitore; l'altro, invece, prende le mosse da un esame della realtà del proprio tempo, colto nella sua complessa varietà di bene e di male, per avvertire, esortare e correggere gli altri sotto l'impulso di un'irrefrenabile carità fraterna, che non esita, se necessario, a entrare in lotta e a battersi contro chiunque, purché il proprio messaggio sia rispettato e abbia seguito.
Al primo tipo va ricondotto il p. della grande monaca renana Ildegarde di Bingen, mentre del secondo la personalità di maggior rilievo è, senza dubbio, Bernardo di Clairvaux. In entrambi, tuttavia, le idee fondamentali restano nell'ambito, ancora, della tradizione legata, appunto, all'attesa della fine dei tempi o all'imminenza del castigo divino.
Tutto ciò pone in particolare rilievo e accresce importanza al p. di Gioacchino da Fiore, che arricchisce di nuovi elementi e trasforma i dati consueti, causando perciò una modificazione profonda all'attesa escatologica del cristianesimo medievale. Egli, infatti, appropriava le età della storia umana a ognuna delle persone della Trinità e distingueva perciò un'età del Padre, dalla creazione del mondo all'incarnazione di Cristo; un'età del Figlio, dall'incarnazione in poi, sempre in corso mentre Gioacchino scriveva; e infine un'età dello Spirito Santo, ancora da venire e con un inizio malcerto, che si veniva a frapporre prima della seconda venuta di Cristo per il giudizio universale. Questa doveva avere come sua caratteristica la formazione di una Chiesa rinnovata da un ordine monastico giubilante e salmodiante, che avrebbe sorretto e fraternamente guidato la gerarchia ecclesiastica e tutti gli altri fedeli agli eventi degli ultimi tempi e al giudizio finale. È questo il messaggio della terza età, quella appunto dello Spirito, che si viene poi sempre più concretando in un messaggio di rinnovamento della Chiesa, e che segna una svolta decisiva per il p. precedente.
Mentre questo si rivolgeva ad ammonire e ricordare ai fedeli, in quanto tali, il loro personale dovere di pensare all'eterna salvezza e di agire in conseguenza, rivolgendosi anche a prelati e pontefici perché operino su questo piano e in questa direzione, il p. che Gioacchino rappresentò e che da lui prese le mosse è decisamente rivolto non ai singoli, ma alla Chiesa nella sua organica totalità, perché aderisca al rinnovamento, che il piano provvidenziale propone ed esige, perché si adegui alle nuove funzioni, che l'avvento della terza età immancabilmente le imporrà. Viene, perciò, in primo piano, il problema ecclesiologico, e si manifesta come imperiosa necessità di una Chiesa più rispondente all'esempio del Cristo e, insieme, alle esigenze delle masse, che a lei si rivolgono fiduciosamente, come guida ed esempio e non debbono, perciò, venir deluse.
Questo p. che suscitò assai presto le diffidenze della gerarchia ecclesiastica e dello stesso Papato, ebbe, comunque, notevole successo e vasta diffusione, animando di sé una parte non piccola del movimento francescano e ottenendo fra i fedeli larghi consensi.
Si venne così articolando, da una parte, in un atteggiamento di stimolo e di critica nei riguardi della Chiesa, che si concretò, appunto, in una serie di opere apocrife contenenti messaggi, attribuiti a Gioacchino da Fiore stesso o ad altri personaggi considerati, come lui, profeti; manifestandosi, dall'altra, come attesa e speranza in una nuova età che avrebbe appunto visto una Chiesa rinnovata; più povera, più pura e perfetta. Su questi due piani operò, come si è già accennato, l'ordine minoritico, che con un'adesione diversa e molteplice, ma nella base concorde, si considerò, sulla linea delle indicazioni del profeta calabrese, l'ordine religioso che doveva guidare i fedeli appunto alla terza età, di cui s. Francesco era stato il segno come ‛ alter Christus ' e angelo del sesto sigillo (su questo punto che non è possibile qui sviluppare, si veda Stanislao da Campagnola, L'angelo del sesto sigillo e l'" alter Christus ". Genesi e sviluppo di due temi francescani nei secoli XIII e XIV, Roma 1971).
Proprio da ciò nacquero anche i contrasti sia tra i francescani, sia tra questi e la gerarchia ecclesiastica, con un succedersi di conflitti in cui si complicarono e aggrovigliarono messaggi profetici, interpretazioni della regola minoritica, critiche e discussioni sulla realtà della Chiesa.
Nodo decisivo di questo groviglio fu, tra l'elezione e l'abdicazione, il breve pontificato di Celestino V (5 luglio - 13 dicembre 1294) la cui designazione era avvenuta sotto la spinta di speranze largamente diffuse in un ‛ papa angelico ' (il santo pontefice che avrebbe, col suo solo avvento, per l'aiuto della Provvidenza, sanato i mali della Chiesa): l'eremita del Morrone era sembrato appunto il portavoce e il realizzatore di queste esigenze rinnovatrici - si pensi a Iacopone da Todi -, ma aveva ben presto dovuto cedere agl'intrighi della politica e alle meschinità dei conflitti d'interesse, in seno alla curia. Ne nacquero altri e più profondi contrasti, specialmente quando una parte dell'ordine, francescano rifiutò obbedienza al nuovo papa Bonifacio VIII, di cui contestò la legittimità dell'elezione e negò, poi, l'autorità; il pontefice, da parte sua, cancellando tutte le decisioni, anche quelle di portata solo religiosa del suo predecessore, sembrò negare in pieno ogni adesione a quelle esigenze spirituali, profetiche e riformatrici della Chiesa, che avevano indotto i cardinali a volere come papa un santo monaco ed eremita.
Eppure proprio Bonifacio fu costretto a riconoscere queste esigenze agl'inizi del 1300, quando un'ansia profonda di rinnovamento e di speranza di redenzione spinse masse larghissime di fedeli a chiedergli un giubileo e cioè un perdono di tutti i peccati a chi avesse adempiuto, in Roma, a una serie di obblighi religiosi; a tal fine presunte tradizioni - in realtà inesistenti - vennero addotte dai pellegrini a giustificare una speranza in una nuova realtà, in cui la vita cristiana venisse pienamente realizzata.
Non, a caso D. colloca la sua visione oltremondana appunto nell'anno del giubileo; e neppure a caso nel 1297 il più grande esponente di queste aspettative profetiche, il francescano Pietro di Giovanni Olivi, consegnava le sue idee in un commento all'Apocalisse, che fu una delle opere più importanti per la vita della Chiesa, alla fine del sec. XIII, discussa tra ammirazione ed esecrazione per tutto il secolo successivo e oltre.
Del resto l'elezione di Clemente V e poi di Giovanni XXII, il trasferimento di fatto della sede papale ad Avignone, la serie di condanne delle idee dell'Olivi e del pauperismo francescano (iniziata nell'anno 1317, andò oltre la vita di D.) diedero nuovi motivi al p., che durò, del resto, nelle sue varie manifestazioni, fino al Cinquecento.
In questo p. D. si cólloca, con piena coscienza e con caratteristiche prepotentemente personali, ricollegandosi certo a tradizioni lunghe e lontane, ma con autonomia e indipendenza d'idee.
Si rende, allora, opportuno precisare il momento in cui D. è entrato in rapporto con questo p. e dove: né la risposta è difficile, se noi ricordiamo che Pietro di Giovanni Olivi visse in Firenze a Santa Croce dal 1287 al 1289, che ebbe intensi rapporti, sicuramente documentabili, col mondo dei francescani d'Italia, i più attenti e sensibili appunto al p., e che, infine, a Santa Croce lasciò di sé un ricordo duraturo, che si concretò nella copiatura e nello studio della sua opera sì che il convento francescano di Firenze va considerato, sulla base di prove indiscutibili, il centro della conoscenza dell'Olivi in Italia e della diffusione delle sue opere.
Se ciò non vuol dire, come pur è stato affermato, che D. abbia avuto come suo diretto maestro Pietro di Giovanni Olivi - il poeta frequentò da scolaro i francescani dopo il rimpatrio dell'Olivi in Linguadoca -, pure significa che egli ha potuto forse conoscerlo e ascoltarlo, ma certo ha avuto nella sua città natia l'opportunità di entrare in contatto con il mondo delle sue idee, d'incontrare i suoi discepoli - e uno fu Ubertino da Casale che D. ricorda -, di avvertire il fascino del p. e di riceverne infine la spinta morale a far qualcosa per diffonderne e affermarne i temi e le esigenze fondamentali. Quando questo impegno abbia mosso il poeta all'opera sua più grande, la Commedia, è connesso con il problema della data d'inizio del poema: è, in ogni caso, significativo che egli stesso abbia voluto fissarne l'inizio con una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei... Si che... io spero dicer di lei quello cha mai non fue detto d'alcuna (Vn XLII 1-2).
Altri casi di atteggiamenti profetici così espliciti, legati anzi a una visione, non esistono in altre opere di D. se non nella Commedia; ma non diremo che. un affiato profetico e ammonitore vi manchi, connesso com'è all'impegno umano psicologicamente profondo e viva d'indicare agli altri, in un'esigenza di miglioramento e di progresso culturale e spirituale, la via da seguire, al di là di propositi frigidamente didascalici o di un distacco di superiorità, priva di ogni senso di fraternità: basterà appena riferirsi a propositi di questo impegno, in Cv I I 9 E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete (del sapere). Ancor più aperti e dichiarati sono spunti profetici nella Monarchia e soprattutto nelle epistole, come quella ai cardinali italiani (XI) o a Enrico VII (VII): in queste le invocazioni, gli appelli e gli stessi artifici retorici sono espressioni vive e precise di questa volontà di avvertire e di mettere in guardia, che però è davvero dispiegata solo nella Commedia.
Qui soltanto convergono e si manifestano, in un'armonia psicologicamente perfetta tra profeta e poeta, gli aspetti esteriori e i contenuti del p. duecentesco, realizzandosi nella struttura del poema, che assume perciò l'aspetto della visione, e animando del suo sentimento l'opera tutta per incidere poi in modo più o meno vibrato e appassionato su questo o su quell'episodio o personaggio.
Ciò ci consente, in primo luogo, d'indicare in maniera più puntuale e precisa i caratteri distintivi della visione dantesca e di approfondire, sia pure con la rapidità qui necessaria, la questione dei precursori della Commedia. Infatti, non Alberico di Montecassino (v.), o Uguccione da Lodi (v.) o Bonvesin da la Riva (v.) o la Navigatio S. Brandani o il mussulmano Libro della Scala hanno davvero dato qualcosa a D.: questi ha ben ragione di richiamarsi al solo Virgilio, ché niente avevano da dirgli i banali racconti di un viaggio oltremondano. In questi, paure di diavoli o esaltazioni celesti sono accumulate solo per atterrire o stupire con finalità di mera edificazione moralistica e religiosa, mentre il poeta latino almeno gli additava, nel magistero dell'arte, un itinerario di purificazione individuale, quella di Enea, e di un messaggio profetico, quello dell'eternità di Roma e del suo Impero. E accanto a Virgilio, egli si richiama al calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato (Pd XII 140-141), ove la sottolineatura del dono profetico è ben più che la citazione filologicamente esatta dell'ufficiatura liturgica dei monaci florensi in onore del loro padre fondatore, ma vale piuttosto come la solenne affermazione del valore e del significato di un p. che aveva animato di sé un'epoca e che D. vuole coronato della beatitudine celeste.
Se perciò ci chiediamo, quanto alla struttura e all'andamento esteriore del poema, dove collocarlo nel p. del suo tempo, esso si sistema nella linea di Gioacchino da Fiore e del gioachimismo, anche se di un piano più generale si richiama alle visioni profetiche della Bibbia e, se vogliamo, ai ricordi dei libretti dei viaggi oltremondani correnti ai suoi tempi, ma che egli, dopo averne desunto un motivo iniziale, rielabora, amplia e dispone secondo appunto le esigenze del suo messaggio.
Qual è, allora, al di là della stessa impostazione di struttura, questo messaggio, donde nasce e si forma l'atteggiamento psicologico di fondo che anima di sé il poema e ne costituisce la premessa generale, il sentimento di base?
Com'è stato già notato dagli studiosi, e soprattutto dal Nardi negli ultimi anni della sua attività di dantista, e da chi scrive, la realtà del mondo in cui D. vive gli si manifesta profondamente sconvolta nei suoi valori fondamentali. Nulla infatti si salva: né la sua Firenze, né l'Italia, né l'Impero, come mostra il parallelismo evidentissimo che lega il VI canto dell'Inferno a quelli corrispondenti del Purgatorio e del Paradiso; e meno che mai la Chiesa, che non ha un posto in quel trittico non solo per ragioni estrinseche di parallelismi, ma, come ci sembra, perché tutto il poema si presenta come una meditazione, sempre più impegnata, sulla Chiesa stessa e sui suoi problemi, in cui anche l'Impero, pur con l'importanza eccezionale che ha nella Commedia, è visto in funzione appunto della Chiesa e non viceversa.
Qui la concordia tra il p. del francescanesimo gioachimitico e D. stesso è perfetta: per gli uni come per gli altri la Chiesa è al centro delle loro visioni, dei loro ideali, dei loro sentimenti, mentre identici sono i motivi della loro critica.
Alcuni si appuntano alle deficienze morali del clero, come la simonia, la cupidigia delle ricchezze, il desiderio della potenza mondana. E tocchiamo subito alcuni degli aspetti che più infiammano l'anima di D. e ne accendono il pathos profetico, dall'invettiva allo sdegno, alle invocazioni appassionate. Si pensi al canto XIX dell'Inferno, con la condanna decisa della simonia e della cupidigia di danaro, che la provoca e la sostiene; o al XIX del Purgatorio, ove si mostra in Adriano V come pesa il gran manto a chi dal fango il guarda (v. 104), facendogli dire: come fatto fui roman pastore, / così scoperai la vita bugiarda. / Vidi che lì non s'acquetava il core, / né più salir potiesi in quella vita (vv. 107-110) insieme con una decisa condanna dell'avarizia e dell'ambizione: Come avarizia spense a ciascun bene / lo nostro amore, onde operar perdési, / così giustizia qui stretti ne tene (vv. 121-123). E la pena è la più grave del Purgatorio, perché nulla pena il monte ha più amara (v. 117). Ma forse il culmine di questa condanna delle colpe del clero e degli stessi pontefici si ha nel Paradiso.
È in questo senso significativa la presentazione che s. Pier Damiano fa di sé stesso nel canto XXI del Paradiso, con le amare considerazioni, ove parla del cappello cardinalizio come di quel cappello / che pur di male in peggio si travasa (vv. 125-126) e dei cardinali come di pingui individui che per la loro grassezza van sorretti da ogni parte, e sono tanto lussuosi che con i loro mantelli coprono sé stessi e la bestia che li porta sì che due bestie van sott'una pelle (v. 134). Ancor più importante, tuttavia, è l'invettiva di s. Pietro in Pd XXVII 18-66, ove la critica del Papato e della curia è asperrima: Roma è cloaca / del sangue e de la puzza (vv. 25-26), ove si trova a suo agio quel Lucifero che Dio aveva espulso dal Paradiso; vi si desidera solo danaro, sì che i pastori son divenuti lupi rapaci (v. 55), e peggio ancora si attende dai futuri pontefici, mentre Bonifacio VIII si serve del potere papale per dividere i fedeli, per armare eserciti contro altri cristiani, per vendere privilegi. Solo la divina Provvidenza potrà porvi rimedio.
Non è il caso d'insistere sul fatto che al centro di questa critica della Chiesa è appunto Bonifacio VIII, colui che aveva reso ancor più grave e peggiore la condizione già tragica del Papato. Sarà, piuttosto, opportuno notare quale atteggiamento D. assuma nei suoi riguardi, perché è importante per la chiarificazione di quella che più oltre indicheremo come la speranza di Dante.
Il poeta, con una posizione che richiama quella dell'Olivi e che si distacca nettamente dall'altra di Ubertino da Casale e di molti francescani gioachimitici italiani, non nega la validità giuridica dell'elezione di Bonifacio VIII, che è per lui, dunque, formalmente pontefice e al quale, in quanto vicario di Cristo, si deve reverenza e rispetto (da ciò la condanna dello ‛ schiaffo di Anagni ' e di Filippo il Bello). Ma proprio s. Pietro nella sua invettiva precedentemente ricordata protesta contro quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio (vv. 22-24). S'indica con questo il punto più basso della decadenza della Chiesa, perché alla sua guida v'è un usurpatore, mentre dinanzi al Cristo il seggio del suo successore, in apparenza occupato, è in realtà vacante. Se a ciò si aggiunge l'asperrima condanna della Chiesa, abbassata al rango della Babilonia apocalittica, meretrice e peccatrice coi principi (If XIX 106-107 colei che siede sopra l'acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista) e la storia di decadenza e di peccato che viene indicata alla fine del Purgatorio, si avrà un quadro preciso della rappresentazione che D. aveva della Chiesa, della curia e del Papato e che coincide, come si è indicato, in moltissimi motivi critici, specialmente con l'Olivi, e in genere col francescanesimo gioachimitico e spirituale. Con questo movimento poi altre coincidenze e non meno significative si riscontrano in quella che con un sol termine s'indica qui come la ‛ speranza ' di D., quale egli ci ha lasciato nel suo messaggio e nella sua profezia.
Un punto è certo per D.: la profonda decadenza dei valori, la corruzione della sua Firenze, dell'Italia, dell'Impero, della Chiesa, non sono casuali e non bisogna accettarle con supina rassegnazione, ma capirle e interpretarle per poterle vincere e superare. Porge aiuto, in tal senso, la Bibbia e soprattutto l'Apocalisse, quale D. poteva conoscere e interpretare sulla scorta dei commentatori del suo tempo. Bisogna, infatti, evitare l'errore in cui è caduto, a esempio, perfino un M. Barbi, di credere che alla fine del Duecento o all'inizio del Trecento una persona colta si accostasse a un testo biblico senza il sussidio di un commento: ora se noi prendiamo i commenti all'Apocalisse correnti in quell'epoca, ne percorriamo le interpretazioni e le confrontiamo con quelle che D. ha accettato e fatte sue, ci accorgeremo senza possibilità di errori o di equivoci che egli segue un'interpretazione, che se non è quella precisa dell'Olivi (ci mancano, infatti, prove filologiche davvero persuasive per affermarlo o negarlo), le è, però, indubbiamente la più vicina possibile.
Identica la critica della Chiesa e la considerazione dolente, partecipe, ma non ribelle, nell'ambito di una rassegnazione alla volontà della Provvidenza, che ammette il male proprio perché umano e colpevole contributo a un piano divino, ma che lo rifiuta nell'esigenza e nella speranza di un rinnovamento profondo.
Garanzia e ragione di questa speranza sono la profondità stessa dei mali, la gravità dell'umiliazione e del dolore dei fedeli, rimasti aderenti a Cristo, la promessa del Cristo stesso di non abbandonare i suoi seguaci, la certezza, infine, di cui l'Apocalisse è rivelazione e garanzia, della punizione finale dei malvagi.
Si ricordi, in proposito, che D. ritiene abbastanza vicina la fine dei tempi, se nella mirabile rosa gli scalini sono sì ripieni, / che poca gente più ci si disira (Pd XXX 131-132). È, perciò, anche vicino il complesso di eventi che caratterizzano le vicende conclusive della storia umana: fra queste il gioachimismo francescano, l'Olivi e D. stesso collocano, senza dubbio, anche la punizione della Chiesa ‛ malignante ', dei cattivi chierici, della curia e dei papi colpevoli.
Su questo piano si collocano una serie d'invocazioni, di sollecitazioni, di espressioni di attesa e di speranza, come anche di assicurazioni, garanzie, affidamenti d'incarichi ed esortazioni, che il poeta riceve lungo il corso del suo viaggio: acquista, perciò, massimo rilievo e importanza l'appoggio morale e l'incoraggiamento di Cacciaguida al nipote angosciato e perplesso. Non a caso questi si rivolge all'avo morto nella crociata per la fede, chiedendogli come dovrà regolarsi: ho io appreso quel che s'io ridico, / a molti fia sapor di forte agrume, / e s'io al vero son timido amico, / temo di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico (Pd XVII 116-120). E la risposta è assai precisa, e nell'asprezza scabra della sua parte centrale, memore di certa biblica energia di espressione, dicendo Cacciaguida: Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur grattar dov'è la rogna (vv. 127-129). D., che non ha certo dubbi sulla validità e verità del suo messaggio profetico, esita, dunque, sulla sua opportunità: la risposta che esclude ogni indugio gli viene da chi ha avuto la difficile coerenza di sacrificare la vita per la fede, il quale, chiedendogli appunto di non esitare e di rivelare la sua visione, gli si è anche offerto come esempio di un coraggio spinto fino alla morte. D'altra parte, nella salda unità che la Commedia mantiene anche se la consideriamo dal punto di vista del p., emerge, tuttavia, la constatazione per cui man mano che dall'Inferno si passa alle altre due cantiche, si fa sempre più viva la tensione profetica, sempre più intenso il messaggio e impaziente l'attesa. Si precisano, anzi, alcuni canti, ove questi sentimenti si esprimono con particolare energia e vivacità espressiva.
Senza poterli indicare tutti, e dopo aver accennato all'importanza profetica del I canto dell'Inferno, ove, tra le tre fiere, ha speciale rilievo la lupa - avarizia, e il veltro, ci limiteremo a ricordare la maledizione della cupidigia nel canto XX del Purgatorio, che ritorna più volte, fino a tramutarsi nella speranza che Dio, finalmente, intervenga, nella sua ira, a colpire e a porre fine a tanta bramosa malvagità; e poi, sempre nel Purgatorio, il messaggio profetico degli ultimi canti, ove la successione delle età della Chiesa si traduce in una serie di simboli apocalittici, che raggiunge il suo culmine nell'immagine del carro, su cui il gigante e la puttana sciolta (XXXII 149) si scambiano segni di colpevole amore, mentre si annuncia la venuta del cinquecento diece e cinque / messo di Dio, che anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque (XXXIII 43-45). Del Paradiso si sono già ricordate le invettive di s. Pier Damiano e di s. Pietro.
A questo punto, se è ormai chiaro quel che D., nel suo messaggio, intendeva colpire e bandire, e cioè la decadenza e le colpe che rendevano la Chiesa carnale identificandola con la prostituta dell'Apocalisse, è necessario anche indicare l'ideale, al quale rivolgeva lo sguardo e che costituiva la sua speranza, il suo messaggio religioso e profetico. Esso può sintetizzarsi, come chi scrive già disse anni fa, nell'ideale dell'Ecclesia spiritualis, quale si delineò agli occhi del francescanesimo spirituale e che anche D. fece proprio, pur con le limitazioni e le accentuazioni particolari che lo precisano.
Per liberare la Chiesa dai suoi mali è necessaria un'opera profonda di trasformazione, che dovrà eliminare l'avarizia, la cupidigia cioè delle ricchezze e dei beni mondani, con quanto l'accompagna per appagarla (come le colpevoli complicità con i poteri politici), sia che si tratti d'inframmettenza nella vita delle città, come a Firenze, aggravata da traffici di commercio e di danaro, sia che si combatta l'imperatore e quanti operano per la realizzazione di una giustizia umana e civile, sia, infine, che si ricorra di continuo all'uso e all'abuso del diritto canonico e delle decretali (v.), mettendo da parte e accantonando l'Evangelo di Cristo, la sua vita e quella degli Apostoli.
La Chiesa di D. è - nel suo messaggio profetico e com'egli la vagheggia - una Chiesa povera, che realizzò in pieno il consiglio evangelico della totale rinuncia a ogni possesso, quella rinuncia che, dopo lo stesso Cristo, è riapparsa soltanto con s. Francesco, che il poeta, come i francescani, considera secondo Cristo e che, come gli spirituali, ritiene iniziatore di una svolta decisiva della storia cristiana.
A questo punto, però, D. prende una strada tutta sua e personale, che caratterizzerà fortemente e decisamente il suo messaggio profetico. Il gioachimismo, ivi compreso quello francescano e spirituale, riteneva che la redenzione e il rinnovamento della Chiesa sarebbero venuti da un nuovo ordine religioso, che avrebbe dato la spinta decisiva; oppure, se non proprio da un nuovo ordine, il processo di trasformazione della Chiesa sarebbe stato iniziato, come si è già detto, da un santo papa, da un ‛ pastor angelicus '.
D., invece, non crede a questa possibilità interna di rinnovamento da parte della Chiesa: se colui / che fece per viltade il gran rifiuto (If III 59-60) fosse davvero Celestino V, come vari indizi fanno ritenere, potremmo avere la prova che D. aveva ogni fiducia in un ‛ pastor evangelicus ', quando vide il debole comportamento dell'eremita abruzzese. Questa fiducia, inoltre, gli doveva venir meno anche per l'attento giudizio politico che gli faceva comprendere l'improbabilità, se non l'impossibilità, in cui si trovavano re, principi e città, legati da una massa enorme d'interessi alla gerarchia ecclesiastica, ad ammettere una Chiesa povera, da cui nessun appoggio più avrebbero potuto sperare alla loro attività politica.
Da questa mancanza di fiducia nasce in D. il messaggio profetico del veltro, che percorre la Commedia dal principio alla fine e che rimane la parte più inquietante del suo profetismo.
Bisogna, perciò, accennare, almeno, alla questione di che cosa significhi il veltro nell'ambito del p. di cui si è finora parlato.
Quanto già si è detto porta a escludere decisamente che D. abbia condiviso la speranza in un papa ‛ angelico ', che liberi la Chiesa dalle sue colpe e avvii i fedeli alla salvezza. Tutta l'impostazione della Monarchia e le numerose indicazioni della Commedia, con il dichiarato pessimismo sulla capacità riformatrice della gerarchia ecclesiastica, ai vari livelli, e degli ordini religiosi, nelle loro varie manifestazioni, non consentono di credere che il poeta attenda la punizione dei cristiani malvagi e, in particolare, della ‛ Babilon, meretrix magna ', da un uomo di chiesa; tanto più che nel mondo di violenza e di tracotanza in cui dovrebbe realizzarsi questo piano di rinnovamento occorrerebbe avere certo una forza spirituale provvidenzialmente guidata e diretta, ma soprattutto forza materiale capace di combattere, con la Chiesa carnale, anche le realtà politiche - e soprattutto la Francia - che con lei trescano in una complicità colpevole, immemori dei veri valori cristiani.
Proprio la necessità di questa forza capace d'imporsi a re e papi elimina la possibilità, pur assai suggestiva, la quale, avanzata da L. Olschki, è stata condivisa dal Getto, che il veltro possa essere lo stesso poeta, che verrebbe così a essere profeta e realizzatore della profezia. Si confonderebbe, in tal caso, mezzo e fine, l'opera di annunciatore degli eventi futuri, che è senza dubbio sentita come propria da D. (si ripensi, per un momento, alla fine del canto di Cacciaguida), ma che non coincide davvero con l'altra missione di agire come strumento della vendetta provvidenziale, voluta da Dio contro coloro che hanno dimenticato la sua legge e si son fatti operatori d'iniquità, scendendo a compromessi col mondo.
Per le stesse ragioni non è possibile accettare la designazione a veltro di questo o quel personaggio storico, contemporaneo del poeta e da lui ammirato: né Uguccione della Faggiuola a cui pensò, nell'età del Risorgimento, C. Troja, né Cangrande della Scala, che venne indicato con argomenti abbastanza consistenti da A. Scolari. Certo specialmente Cangrande con le impressionanti coincidenze fra le sue idee politiche e quelle dell'Alighieri, con l'elogio di D. stesso nel Paradiso, e col fatto che già nel Trecento venne ritenuto appunto il veltro dantesco, sembrerebbe avere buone probabilità d'incarnare il Redentore che il poeta attende; ma poi si rileva che lo Scaligero non è davvero in grado di realizzare - in una possibilità concreta - quella condanna della Chiesa carnale, quella lotta contro i suoi alleati politici, che pur costituisce il culmine di tutta l'attesa profetica di Dante.
A questo punto numerosi indizi che troviamo nella Commedia, fra cui lo scanno vuoto che attende nella candida rosa Enrico VII (Pd XXX 136-138), ma soprattutto le lettere che il poeta gl'indirizzò adoperando con potenza eloquente il cosiddetto stilus Salvatoris (utilizzando cioè per lui lo stesso frasario degli Evangeli per Cristo), fanno pensare che appunto l'imperatore sia stato avvertito come un possibile, provvidenziale realizzatore delle sue speranze profetiche; certo soltanto per il breve tempo della sua venuta in Italia. Ma prima e, specialmente, dopo?
Diremo, allora, che colui che profeticamente nella Commedia è il veltro, voluto da Dio provvidenzialmente e designato dall'attesa appassionata di D. come unica forza capace di realizzare quanto è ormai scritto nel piano eterno, svelato a D., corrisponde, nell'ambito della Monarchia, al ‛ monarca '. Se di quest'ultimo si è giustamente sottolineato che è un ‛ laico ' la cui necessità nasce da una considerazione solo naturale e razionale della concreta condizione del genere umano, è opportuno ricordare, d'altra parte, che, per la sua posizione unica e singolarissima di unico vertice di tutti i regni terreni, per le sue speciali qualità umane, per il collegamento, imposto dalla ragione ma anche dalla ‛ economia della salvezza ' tra lui stesso e il Papato, vertice religioso della cristianità, appunto il monarca ha, oltre a tutta la potenza necessaria, una sua implicita carismaticità spirituale. È perciò l'unico da cui possa scaturire quella redenzione che la Chiesa non riesce e non sa più dare, rinnovandola e purificandola, troncando, infine, i suoi colpevoli legami col mondo, coi re, coi potenti; riportandola alla povertà evangelica.
Questa speranza di D. nel monarca, veltro che caccia la lupa, non sembri profezia sognata, più che davvero ritenuta realizzabile nella concretezza storica: più volte infatti tra i secoli XII e XIII era riapparso il proposito di un ritorno alla povertà di Cristo, mentre l'autorità appunto imperiale avrebbe pensato a provvedere alle necessità di un clero senza più danaro e terre. Ciò si disse e si pensò al tempo di Pasquale II (cfr. P. Zerbi, Pasquale II e l'ideale della povertà della Chiesa, in " Annuario Univ. Catt. S. Cuore ". Anno accademico 1964-65, Milano 1965, 205-229), di Enrico VI di Hohenstaufen (cfr. G. Falco, Santa romana repubblica, Milano-Napoli 1963, 287-322, con molte indicazioni bibliografiche, fra cui è fondamentale J. Haller, Heinrich VI und die römische Kurie, Darmstadt 1962 [rist. anast.]) e soprattutto di Federico II. Anzi proprio sotto la penna di Pier della Vigna e di altri l'ideale della Chiesa povera con un Impero capace di rinnovare l'umanità aveva trovato forza di persuasione in un'atmosfera accesa di p. apocalittico.
Di questo mondo così vario e molteplice D. è, da molti punti di vista, il momento conclusivo e culminante, essendo egli riuscito a muoversi su due piani tra loro concordi e convergenti, quello della ragione e del pensiero politico nella Monarchia, quello della fede e del p. nella Commedia: non a caso D. aveva, del resto, ricordato per bocca di s. Pietro l'aiuto provvidenziale degli antichi Romani nella preparazione all'avvento del Cristo, proprio come la stessa Provvidenza avrebbe poi dovuto punire la corruzione della Chiesa: Ma l'alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo / soccorrà tosto, sì com'io concipio (Pd XXVII 61-63).
Monarchia e Commedia si pongono così come due momenti, o meglio due aspetti paralleli dell'anima dantesca, porgendo, la prima, la conclusione razionale a cui D. era giunto nel suo sforzo di meditazione politica, esprimendo l'altra la speranza, che nella visione e nella poesia trovava la voce e gli accenti della profezia. In tal modo, unitariamente, vicende di vita, esperienze di cultura, passione politica e religiosa, porgono alimento alla ragione creatrice di pensiero ma soprattutto animano e lievitano la poesia.
Bibl. - Quanto al p. medievale si veda J. Von Döllinger, Der Weissagungsglaube und das Prophetentum in Mittelalter, in Kleinere Schriften, a c. di H. Reusch, Stoccarda 1890; E. Benz, Ecclesia Spiritualis, ibid. 1934 (si parla di D., specialmente alle pp. 201-205); R. Manselli, La " Lectura super Apocalipsim " di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull'escatologismo medioevale, Roma 1955. Per il p. dell'età di D., e in quella immediatamente successiva, è importante E. Dupré Theseider, L'attesa escatologica durante il periodo avignonese, in L'attesa dell'età nuova nella spiritualità della fine del Medioevo, Todi 1962, 65-170. Per D. stesso abbiamo gli studi di C. Trova, Il Veltro allegorico di D., Firenze 1826; E. Buonaiuti, D. come profeta, Modena 1936², cui rivolse critiche vivaci quanto, spiace dirlo, in molta parte inconsistenti M. Barbi, Il gioachimismo francescano e il Veltro, in " Studi d. " XVIII (1934) 209-211; ID., L'apocalisse dantesca, ibid. XXII (1938) 195-197; B. Nardi, D. profeta, in D. e la cultura medioevale, Bari 1942, 258-334; C.T. Davis, D. and the Idea of Rome, Oxford 1957 (specialmente alle pp. 195-235 e 239-243). Su rapporti fra D., Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale si veda R. Manselli, D. e l'" Ecclesia Spiritualis ", in D. e Roma, Firenze 1965, 115-135; ID., Pietro di Giovanni Olivi ed Ubertino da Casale, in " Studi Medioev. " s. 3, VI (1965) 95-122. Della sterminata letteratura sul veltro basterà citare V. Cian, Oltre l'enigma dantesco del Veltro, Torino s.a. (ma 1945²); L. Olschki, D. " Poeta Veltro ", Firenze 1953; E. Von Richthofen, Veltro und Diana. Dantes mittelalterliche und antike Gleichnisse, Tubinga 1956; G. Getto, Il canto I dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 3-20; R.E. Raske, Dante's " DXV ", in " Traditio " XVII (1961) 185-254; A. Scolari, Verona e gli Scaligeri nella vita di D., in D. e Verona, Verona 1965. Opera vasta, attenta anche al problema del rapprto fra p. e poesia, è quella di N. Mineo, P. e Apocalittica in D. - Struttura e temi profetico-apocalittici in D.: dalla Vita Nuova alla D.C., Catania 1968.