Profitto del reato e confisca
La nozione e i criteri di quantificazione del profitto del reato rappresentano le principali questioni applicative poste dalle ipotesi speciali di confisca – anche per equivalente – progressivamente introdotte nel nostro ordinamento. Le Sezione Unite nel 2008 avevano coniato, limitatamente ai reati commessi nell’ambito di relazioni contrattuali a prestazioni corrispettive, una “terza via” interpretativa, secondo cui dal profitto, quale vantaggio patrimoniale di diretta derivazione causale dal reato, va scomputata l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato. Come rivela la più recente prassi giurisprudenziale, ciò non è bastato ad assicurare un’applicazione sufficientemente stabile dei nuovi strumenti ablativi. Il contributo che segue prospetta, quale possibile soluzione a questo impasse interpretativo, una nozione di profitto quale “utile netto a base parziale”.
L’istituto della confisca, com’è noto, trova collocazione nel codice penale tra le «misure di sicurezza patrimoniali» (art. 240 c.p.). L’idea che spinse i conditores ad optare per questa qualificazione giuridica era che lo strumento ablatorio in esame dovesse servire a rimuovere una pericolosità di tipo obiettivo derivante da cose che, provenendo da illeciti penali o essendo collegate in qualche modo all’esecuzione di essi, manterrebbero «viva l’idea e l’attrattiva del reato»1.
Nel corso degli ultimi lustri, però, il legislatore ha disseminato nell’ordinamento penale una miriade di ipotesi speciali di confisca che, sul piano del regime giuridico, divergono sotto svariati aspetti dall’archetipo codicistico2. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla confisca di cui agli artt. 322 ter, 474 bis, 600 septies, 640 quater, 644 e 648 quater c.p.; art. 2641 c.c.; art. 187 d.lgs. 24.2.1998, n. 58; art. 44, co. 2, d.P.R. 6.6.2001, n. 380; art. 1, co. 143, l. 24.12.2007, n. 244.
Le specificità delle nuove “confische”, che ne rendono poco plausibile la collocazione nel genus delle misure di sicurezza patrimoniali, sono così compendiabili: l’obbligatorietà dell’ablazione anche rispetto a cose – si pensi, soprattutto, al profitto del reato – che, alla stregua dell’art. 240 c.p., sarebbero facoltativamente apprensibili; la possibilità di irrogazione anche nei casi di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.3; la confiscabilità, nella maggior parte delle figure ablative, di beni di valore equivalente a quelli direttamente derivanti dal reato, prescindendo così da un rapporto di pertinenzialità diretta tra la res e l’illecito penale 4.
Il rinnovato interesse, a livello internazionale5, per l’istituto ablativo in esame si fonda sulla riconosciuta capacità di contrastare due tra le più temibili manifestazioni criminose dei nostri tempi: la criminalità organizzata (associazioni criminali, riciclaggio di denaro sporco, traffico di stupefacenti, traffico di migranti, ecc.)6 e la criminalità di impresa, ciascuna delle quali ha assunto, nel mondo globalizzato in cui viviamo, una dimensione anche transnazionale. Oggetto di reiterati obblighi normativi assunti dal nostro Paese in svariati contesti europei ed internazionali, la confisca per equivalente dei proventi illeciti punta, così, ad aggredire quello che rappresenta il movente razionale di queste forme di criminalità.
Nonostante si inseriscano in una lungimirante strategia politico-criminale, le nuove ipotesi ablative non paiono ancora presidiate da un solido recinto di garanzie, in grado di assicurare un equilibrio accettabile tra efficacia preventiva e prevedibilità/ragionevolezza applicativa. La principale quaestio riguarda la nozione di “profitto del reato” che, in assenza di una precisazione legislativa, si presta, nella sua incoercibile elasticità semantica, alle più svariate declinazioni interpretative.
Conseguentemente, come rivela anche la più recente prassi applicativa, restano controversi il significato e i criteri di computo del profitto illecito suscettibile di confisca anche per equivalente, con un inevitabile intreccio tra le questioni di diritto sostanziale (nozione) e quelle di natura processuale-probatoria (quantificazione)7. Da ultimo, in particolare, alcune sentenze della seconda sezione della Cassazione, pur richiamando formalmente il fondamentale arresto delle Sezioni Unite del 2008, ne hanno in realtà rovesciato alcuni assunti di fondo, a cominciare dal ripudio del criterio dell’utile netto quale referente contenutistico del profitto confiscabile8.
Ad amplificare i risvolti problematici di questo stato d’incertezza giuridica sono state, evidentemente, anche le enormi potenzialità espansive della confisca per equivalente. Tanto più che, quando se ne anticipano gli effetti in funzione cautelare (sequestro preventivo – art. 321 c.p.p., art. 53 d.lgs. 8.6.2001, n. 231), essa può condurre, inaudita altera parte e in assenza di un accertamento pieno di responsabilità, all’immobilizzazione provvisoria di somme anche ingentissime, con conseguenze potenzialmente esiziali per il patrimonio e/o l’operatività aziendale delle persone fisiche o giuridiche coinvolte9.
La questione della precisazione del concetto di profitto suscettibile di confisca e quella dei relativi criteri di quantificazione si sono immediatamente poste sia nel campo della responsabilità penale individuale, che in quello della responsabilità “amministrativa” degli enti collettivi ex d.lgs. n. 231/2001. I malfermi esiti cui è finora pervenuta la giurisprudenza non riflettono solo le peculiarità dei reati di volta in volta contestati (truffa, corruzione, riciclaggio, indebita percezione di erogazioni pubbliche, reati tributari, ecc.), ma anche veri e propri contrasti di vedute, che hanno imposto un immediato intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione10.
2.1 L’elaborazione giurisprudenziale. La nozione di profitto del reato secondo le Sezioni Unite
Chiamata a precisare il concetto di profitto confiscabile, la Corte regolatrice ha esercitato il suo magistero postulando, almeno nell’ambito di attività imprenditoriali lecite e connotate dalla presenza di un rapporto sinallagmatico con il danneggiato, una terza opzione rispetto alla classica dicotomia “ricavo lordo/utile netto”. In termini generali, l’identificazione del profitto con l’utile netto della gestione aziendale è stata perentoriamente respinta, essendosi esclusa «l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico», per dare concreto significato operativo alla nozione in esame. Così, il profitto del reato ex artt. 19 e 53 del d.lgs. n. 231/2001 è stato definito come il «vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto». Un concetto la cui latitudine si estende ad abbracciare l’intero compendio dei benefici patrimoniali derivanti dall’illecito, con l’unico filtro garantistico della diretta derivazione del profitto – in forma di “res” o di “valore equivalente” – dal reato.
Il giudice di legittimità, però, non ha voluto disconoscere completamente le peculiarità dei rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive, nei quali al disvalore del reato fa da contraltare, di norma, la densa dinamica dei costi leciti diretti all’attuazione del programma negoziale: costi di produzione, imposte e tasse, oneri previdenziali, ecc. Di qui la fissazione di una regola accessoria, derogatoria del principio generale, rilevante esclusivamente nei casi in cui la fonte genetica della locupletatio sia un rapporto sinallagmatico intercorso con il danneggiato dal reato. In questi casi, infatti, «il profitto confiscabile va concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato»11. Infatti, secondo la Suprema Corte a Sezioni Unite, in un regolamento contrattuale viziato, nella formazione della volontà negoziale o nella successiva esecuzione, dalla commissione di un illecito penale, il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita dal soggetto responsabile in favore della controparte non può dirsi di diretta derivazione criminosa; ergo, non può essere imputato al profitto espropriabile.
In ogni caso, la “derogabilità” del Bruttoprinzip è stata vincolata a due precise condizioni: 1) il rapporto contrattuale deve collegarsi alla sfera negoziale di un’impresa “lecita”, cioè non dedita – esclusivamente o prevalentemente – alla perpetrazione di reati; 2) la condotta criminosa non deve aver contaminato integralmente d’illiceità l’attività negoziale. Breve: il contratto deve essere in sé lecito, ancorché annullabile a causa di un fatto penalmente sanzionato (cd. “reato in contratto”). In questi casi, infatti, «è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto …, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente». Al contrario, ove l’illecito penale rifletta l’ordinaria proiezione criminosa dell’attività imprenditoriale (cd. “impresa criminale”), ovvero si immedesimi con il negozio giuridico (ad es. vendita di sostanze stupefacenti), dando luogo ad un cd. “reato contratto”, non v’è spazio per prestazioni lecite rese in attuazione del programma negoziale. Per l’effetto, qualsiasi vantaggio economico scaturente dall’esecuzione del contratto dovrà essere ritenuto conseguenza immediata e diretta di quel reato, legittimandone l’integrale adprehensio. Rispetto alla precedente dialettica dottrinale e giurisprudenziale, il mutamento di prospettiva appare evidente. Cambiano in particolare i referenti soggettivi dei valori scomputabili dal profitto suscettibile di ablazione. A parte subiecti, infatti, l’utilitas deducibile secondo le Sezioni Unite è l’effettivo vantaggio che il danneggiato ottiene dall’esecuzione, ancorché parziale, delle pattuizioni contrattuali; i costi, invece, costituiscono gli esborsi sostenuti dal reo-danneggiante, i quali non si traducono automaticamente in risultati positivi per il soggetto danneggiato.
È da rammentare, ancora, che il dictum delle Sezioni Unite verte specificamente sulla confisca/sequestro contra societatem. In ogni caso, il tracciato argomentativo delineato da questo arresto è astrattamente estensibile alle analoghe tipologie ablatorie destinate ai responsabili individuali di illeciti penali12.
2.2 Residue incertezze ed ambiguità del decisum delle Sezioni Unite
Lo stesso pronunciamento delle Sezioni Unite ha generato, però, nuove difficoltà ed incertezze interpretative. Innanzitutto, vanno evidenziate le incognite lasciate aperte dalla stessa nozione di “utilità” eventualmente conseguita dal danneggiato. La principale attiene, anche questa volta, al metodo di computo cui attenersi. Volendo sfogliare, senza pretese di completezza, la rosa delle possibili opzioni, meritano di essere segnalati soprattutto i seguenti parametri:
a) il corrispettivo pattuito, decurtato della parte di utilitas eventualmente non corrisposta in caso di adempimento parziale o inesatto;
b) il valore di mercato della prestazione effettivamente eseguita;
c) l’entità dei costi congrui ed inerenti sostenuti per l’adempimento delle obbligazioni contrattuali, maggiorata del margine di guadagno medio determinato statisticamente13.
Probabilmente, non v’è una “one best way”, un metodo ottimale per qualsiasi concreta situazione. Sicuramente, però, il primo dei criteri indicati, cioè quello che assume a parametro il corrispettivo pattuito, è del tutto insoddisfacente laddove il reato abbia proprio consentito di ottenere condizioni negoziali indebitamente più vantaggiose (v. sul punto § 3.2).
Nella maggior parte dei casi il criterio del valore di mercato appare il più congruo per calcolare l’effettiva utilitas conseguita dal danneggiato. Purtroppo è anche il più oneroso in chiave probatoria14 e richiede, altresì, la previa fissazione del momento cui far riferimento per effettuare la stima: data di stipula del contratto ovvero di esecuzione della prestazione?
Un’altra potenziale smagliatura logica della sentenza Impregilo riguarda la questione della quantificazione del profitto confiscabile in un contesto di regolare esecuzione di un contratto pur viziato, in fase di costituzione, da un illecito penale. In particolare, v’è un passaggio logico-argomentativo della sentenza Impregilo che si presta a letture eccessivamente benevole per i responsabili di un illecito “amministrativo” ex d.lgs. n. 231/2001 o di un illecito penale individuale: «il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure». Orbene, nel caso, ad esempio, di un contratto pubblico ottenuto mediante un pagamento corruttivo, adottando il gross revenue method (ricavo complessivo del reato)15, siccome esso è stato ottenuto con mezzi illeciti, l’intero corrispettivo andrebbe acquisito al patrimonio dello Stato16. Viceversa, applicando alla lettera le summenzionate direttive delle Sezioni Unite, il quantum confiscabile si ridurrebbe a zero, non essendo identificabile un “profitto da reato”. Sennonché, un simile approdo sarebbe francamente troppo benevolo per l’autore dell’illecito, e in definitiva inaccettabile alla luce degli obiettivi di efficacia preventiva perseguiti dal legislatore con l’introduzione dell’istituto della confisca per equivalente17. Infatti, anche la societas o l’imprenditore individuale responsabili di un reato di corruzione, i quali abbiano interamente adempiuto alle obbligazioni contrattuali, avranno, in condizioni di ordinaria redditività, incamerato un guadagno. Si tratta proprio dell’utile aziendalistico ripudiato dalla sentenza Impregilo come base di calcolo del profitto confiscabile.
Nell’articolazione sillogistica delle Sezioni Unite si annida quindi il germe di un paradosso: la vaporizzazione del profitto confiscabile ad onta della fruttuosità dell’affare illecitamente acquisito. Come vedremo, però, una recente sentenza della seconda sezione della Cassazione ha legittimato il ricorso al criterio definitorio dell’utile netto (ricavi meno costi) per determinare la locupletazione derivante da un fatto corruttivo che aveva consentito ad una società di aggiudicarsi illecitamente un contratto (appalto di gestione di residenze sanitarie assistenziali nella regione Puglia), poi regolarmente adempiuto18.
Infine, va rilevata la problematica distinzione tra “reati in contratto” e “reati contratto”, la quale si basa su una categorizzazione di matrice essenzialmente dottrinale, ancora priva di basi teorico-dommatiche solide ed incontroverse. Non è rinvenibile in alcun testo legislativo un inventario formale di “reati in contratto” e di “reati contratto”, da cui il giudice possa attingere, selezionando così la regola da applicare al caso concreto mediante meccaniche operazioni di sussunzione19. Neppure, però, la legge detta i criteri da seguire per decidere dell’inquadramento di un illecito penale, in qualche modo legato ad un rapporto negoziale, nell’una o nell’altra delle categorie in discorso. I contrastanti approdi cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità, anche sotto questo profilo, confermano la sostanziale violazione del principio di legalità, in punto di tassatività/determinatezza, rispetto alla modellistica ablatoria in esame. Le Sezioni Unite, nel leading case sopra ripercorso per sommi capi, avevano qualificato la truffa aggravata ai danni dello Stato come “reato in contratto”. Invece, piuttosto sorprendentemente, un successivo arresto della seconda sezione della Cassazione ha ricondotto il tipo penale in questione nell’alveo dei “reati contratto”, concludendo che «essendovi la totale immedesimazione del reato con il negozio giuridico, l’intero prezzo è sequestrabile, senza fare alcun riferimento alla distinzione fra questo ed il profitto»20. Analoghe incertezze avvolgono un’altra figura cardine nella sistematica della responsabilità ex crimine degli enti collettivi: la corruzione. La giurisprudenza civilistica tende a descrivere tale ipotesi di reato come “reato contratto”21, almeno avuto riguardo al pactum sceleris, intrinsecamente illecito e pertanto nullo. A diverse conclusioni, però, potrebbe pervenirsi, in tema di confisca, rispetto all’esecuzione del rapporto contrattuale discendente dall’implementazione dell’accordo corruttivo, nel senso cioè della sua riconduzione allo schema del “reato in contratto”. Proprio questa opzione ricostruttiva è stata fatta propria, di recente, dalla seconda sezione della Cassazione, nella citata sentenza 29.3.2012, n. 11808 (di seguito anche “sentenza Angelucci”), in materia di sequestro preventivo funzionale alla confisca ex art. 322 ter c.p.
2.3 Il recupero del criterio dell’utile netto nella più recente giurisprudenza di legittimità
Merita sottolineare che la sentenza Angelucci, pur formalmente allineandosi all’arresto delle Sezioni Unite, ne ha nella sostanza superato il nucleo dispositivo22, patrocinando il criterio dell’utile netto quale addentellato contenutistico del profitto confiscabile. In particolare, secondo la seconda sezione: «se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica». Di qui la conclusione: «Tale vantaggio corrisponde, quindi, all’utile netto dell’attività d’impresa».
A ben vedere, questo epilogo ermeneutico ha le sembianze di un enunciato assertivo, più che di una deduzione logica. La sua base dimostrativa, infatti, non si ricava dalle premesse indicate, ma da un autonomo postulato politico-criminale che sfocia in una definizione stipulativa: in presenza di un’attività di impresa che si svolge in un contesto lecito di base, è giusto e congruo identificare il profitto confiscabile con l’utile netto dell’operazione economica corrotta dall’illecito.
Va, altresì, notato che sebbene la decisione in questione abbia fissato questo innovativo principio di diritto con specifico riferimento ad un’ipotesi di corretta attuazione di un contratto ottenuto con modalità corruttive, le argomentazioni sviluppate sembrano conferire al criterio dell’utile netto una portata più ampia, tale da abbracciare cioè tutte le situazioni di cd. “reato in contratto”. In effetti, una visione generalizzane traspare dal seguente passaggio: «rilevato che il delitto per cui si procede è un’ipotesi di corruzione propria e che questa si configura chiaramente come un ‘reato in contratto’, è corretto aver limitato l’oggetto del sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente al solo profitto netto del contratto posto a valle dell’attività corruttiva», scomputando, così, i «costi sostenuti per l’effettuazione della prestazione di cui ha fruito la P.A.».
In quest’ordine d’idee, la confisca per equivalente del profitto manterrebbe la fisionomia di congegno “a due velocità”, alla stregua della summa divisio, tracciata dalle Sezioni Unite, tra “reati contratto” e “reati in contratto”. Tuttavia, rispetto a questi ultimi, nell’impostazione della seconda sezione si passa dalla deduzione delle utilità percepite dal danneggiato al diretto scomputo dei costi sostenuti dal reo per l’esecuzione del contratto.
Abbiamo già avuto modo di osservare come il criterio – coniato dalle Sezioni Unite – dell’utilità tratta dal danneggiato sia di limitata applicabilità (riguardando solo le ipotesi in cui il danneggiato dal reato coincida con la controparte contrattuale del reo), di dubbio fondamento teorico e spesso anche di ridotta funzionalità pratica, basandosi su parametri incerti e di scomoda gestione processuale23. Si pensi, tra l’altro, alle difficoltà di calcolare l’utilitas in un contratto di appalto pluriennale, di determinare il valore economico di prestazioni complesse, per le quali non sia disponibile un “listino” di mercato facilmente accessibile, o, ancora, di distinguere tra profitto rinveniente da un cattivo adempimento del contratto inquinato da un illecito penale e profitto direttamente derivante da tale reato.
Al riguardo, il metodo del “prelievo netto” appare senz’altro più fruibile sul piano applicativo. È indubbiamente più agevole misurare, con l’ausilio di una perizia contabile, i costi di esecuzione di un contratto, tanto più nelle situazioni particolarmente complesse testé segnalate. Rispetto al criterio del ricavo lordo, inoltre, l’ancoraggio all’effettivo guadagno riduce il rischio di overdeterrence e di pregiudicare irrimediabilmente gli interessi di terzi innocenti: lavoratori, soci incolpevoli, creditori, ecc.
Anche il criterio dell’utile netto, però, necessita di una specificazione per quanto concerne la sua base di calcolo, vale a dire i costi cui attribuire rilievo nella quantificazione del profitto confiscabile.
3.1 La base di calcolo dell’utile netto
Sotto il profilo appena evocato, il paradigma esplicativo in esame si ramifica ulteriormente, a seconda che si attribuisca rilevanza, a fini della sottrazione dal ricavo conseguito:
a) a tutti i costi o spese sostenuti nell’ambito dell’operazione economica (costi tout court), così da arrivare all’utile netto in senso aziendalistico;
b) a tutti i costi lecitamente sostenuti per l’esecuzione del contratto: in breve, i costi leciti;
c) oppure, ancor più restrittivamente, ai soli costi funzionali alla “regolare” esecuzione del contratto, scilicet quelli congrui e strumentali all’attuazione del programma negoziale, con esclusione delle spese lecite ma del tutto inutili nella prospettiva della controparte negoziale: deduzione dei soli costi utili24.
A nostro avviso, il metodo da privilegiare è quello che potremmo denominare dell’“utile netto a base parziale”25. In quest’ottica, andrebbero ammessi in deduzione dai vantaggi direttamente derivanti dal reato i soli costi/spese lecitamente sostenuti per l’attuazione del programma negoziale. Sarebbe, infatti, assolutamente contraddittorio dal punto di vista della prevenzione generale positiva – aggregazione di consensi attorno ai valori penalmente tutelati26 – che l’ordinamento da un lato vietasse un comportamento, e dall’altro valorizzasse in sede di quantificazione del profitto confiscabile anche gli investimenti illeciti o strumentali alla commissione del reato. Così, va escluso che possano intaccare il compendio confiscabile le tangenti versate per aggiudicarsi un affare (a prescindere dalla loro eventuale registrazione in contabilità sotto l’apparenza di spese legittime), la provvigione versata all’intermediario incaricato del pagamento corruttivo, le somme impiegate per ingannare la p.a. in ordine alla corretta esecuzione di un contratto, come ad es. quelle investite per una falsa analisi tecnica del materiale fornito, ecc. Per queste ragioni va rifiutata l’identificazione del profitto suscettibile di confisca con l’utile netto aziendalistico o “utile netto a base totale”.
Neppure ci sembra appagante e del tutto consono il criterio dei “costi utili”, che pure consentirebbe di escludere l’indiscriminata deducibilità di qualsiasi spesa sostenuta dal reo. L’utilità delle somme investite per eseguire una prestazione contrattuale è evenienza che merita di essere considerata nella sua sedes naturale, quella civilistica, dove i soggetti danneggiati da un’esecuzione inesatta, parziale o totalmente difforme, ben possono far valere le proprie ragioni risarcitorie e restitutorie27.
Espressa la nostra preferenza per il metodo della deduzione dei soli costi “leciti”28, va notato che l’analisi comparata svela come, pure entro il perimetro tracciato da tale parametro, siano prospettabili diverse soluzioni. Ad esempio nella prassi giudiziale danese, nell’applicare il criterio del prelievo netto in materia di corruzione attiva, prevale la tendenza a ritenere deducibili solo le spese direttamente legate all’esecuzione del contratto, vale a dire i costi di produzione, vendita e distribuzione, escludendo, così, oltre ai costi illeciti (per es. le tangenti mascherate come commissioni per “servizi post-vendita” e incorporate nel prezzo finale richiesto al cliente), le spese indirette, come i costi legati all’ammortamento delle attrezzature e quelli generali di amministrazione/finanza29.
3.2 Il criterio del “vantaggio eccedente”
Una precisazione si impone circa le situazioni in cui il fatto illecito, per es. una corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, abbia avuto incidenza causale non tanto sulla stipula del contratto in sé, quanto sull’ottenimento di condizioni contrattuali più vantaggiose: ad esempio la vendita di un bene ad un prezzo superiore a quello di mercato. In questi casi, ancor prima di quantificare il profitto confiscabile, occorrerebbe aver chiaro che il “vantaggio di diretta derivazione causale dal reato” non s’identifica con l’intero importo contrattuale, ma solo con il “differenziale ingiustificato”, e cioè con la plusvalenza impropriamente lucrata: differenza tra prezzo pattuito e quello generalmente praticato30.
Ai fini della determinazione del quantum apprensibile dallo Stato ci si potrebbe arrestare qui, come in effetti fa la giurisprudenza, adottando il metodo dell’“extra-vantaggio”. Occorre chiedersi, però, se ciò sia del tutto lineare allorché l’impresa coinvolta nell’illecito non sia stata in grado di eseguire la prestazione ai costi standard, da cui dipende, essenzialmente, il valore di mercato di un bene. In questa situazione, il guadagno effettivo ben potrebbe essere assai inferiore allo scarto tra il prezzo di mercato e il corrispettivo negoziale. Pertanto, sarebbe più corretto, anche per ragioni di uniformità di trattamento rispetto alla casistica sopra considerata, applicare pure nelle ipotesi ora in esame il suddetto criterio dell’utile netto a base parziale, così da dedurre dalle somme effettivamente incassate tutti i costi sostenuti per l’esecuzione della controprestazione (ad es. per ottenere la fornitura di beni). Ciò, ovviamente, senza pregiudizio del diritto dell’Amministrazione di ottenere, in sede civilistica, la restituzione dell’intera eccedenza rispetto a quanto avrebbe versato in assenza dell’illecito.
In ogni caso, il metodo del “profitto eccedente” è stato applicato dalla Suprema Corte anche in materia di truffa nel conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.). In quest’ambito, secondo la Corte regolatrice, l’entità del profitto muta a seconda dell’intensità dell’attività fraudolenta. Così, ove sia stata prospettata una realtà che abbia permesso alla società “soltanto” di ottenere arbitrariamente erogazioni maggiori di quelle a cui avrebbe avuto diritto, l’illecito arricchimento non copre l’intero importo corrisposto alla societas, ma solo la differenza tra il percepito e ciò a cui si aveva titolo31. Diversamente, qualora in assenza della frode il rapporto contrattuale non si sarebbe in nessun caso perfezionato, l’intera erogazione ricevuta deve ritenersi indebita e in quanto tale suscettibile di confisca32.
Infine, uno schema analogo la Suprema Corte ha seguito in materia di determinazione e quantificazione del profitto derivante da manipolazione del mercato33. Da un lato, infatti, il giudice di legittimità ha limitato il sequestro preventivo ai soli capital gains lucrati mediante le condotte illecite; dall’altro ha escluso la detraibilità delle competenze bancarie versate dall’indagato al fine di ottenere l’affidamento necessario per l’acquisizione dei titoli oggetto di aggiotaggio.
1 Cfr. Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale, I, n. 202, Lav. Rep. 1929, vol. V, 19, 245.
2 Cfr. Visconti, C., Dalla “vecchia” alle “nuove” confische penali: recenti tendenze di un istituto tornato alla ribalta, in Studium Iuris, 2002, 960 ss.; Fondaroli, D., Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale, Bologna, 2007, spec. 227 ss.; Grasso, G., Art. 240 c.p., in Romano M.-Grasso G.-Padovani T., a cura di, Commentario sistematico del codice penale, III, Milano, 2011, 628 ss.; Nicosia, E., La confisca. Le confische. Funzioni politico-criminali, natura giuridica e problemi ricostruttivo-applicativi, Torino, 2012.
3 Peraltro, la modifica dell’art. 445 c.p.p. realizzata dall’art. 2 della l. 12.6.2003, n. 134 ha esteso anche alla misura di sicurezza reale di cui all’art. 240 c.p. la possibilità di sottoporre a confisca, in caso di patteggiamento, gli instrumenta sceleris e le altre cose suscettibili di confisca facoltativa.
4 La confisca per equivalente consente, così, di rimediare all’impossibilità di apprensione diretta dei beni costituenti il prezzo o il profitto originario del reato, ad es. perché consumati, confusi nel patrimonio dell’ente, ceduti a terzi di buona fede, reinvestiti o anche solo artatamente occultati dall’agente. Cfr. Fornari, L., Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale «moderno», Padova, 1997, 105 ss.; Fiandaca, G., Legge penale e corruzione, in Foro it., 1998, V, 6; in giurisprudenza, v. Cass. pen., S.U., 25.6.2009, n. 38691, Caruso, in CED Cass., n. 244189, in Dir. pen. e processo, 2010, 433 ss., con nota di V. Maiello, La confisca per equivalente non si applica al profitto del peculato.
5 Per un’analisi comparatistica in ambito UE, cfr. Vettori, B., Tough on Criminal Wealth: Exploring the Practice of Proceeds from Crime Confiscation in the EU, Dordrecht, 2006; Maugeri, A.M., Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001, 165 ss.; Maugeri, A.M., La lotta contro l’accumulazione di patrimoni illeciti da parte delle organizzazioni criminali: recenti orientamenti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, 557 ss. Con specifico riferimento al problema dell’identificazione e quantificazione dei proventi della corruzione, v. il documento elaborato dall’Ocse, in collaborazione con la World Bank e l’Unodc: OECD-StAR, Identification and Quantification of the Proceeds of Bribery: A Joint OECD-StAR Analysis, 30.3.2012.
6 Cfr. Maugeri, A.M., Relazione introduttiva. I modelli di sanzione patrimoniale nel diritto comparato, in Id., a cura di, Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine organizzato, Milano, 2008, 1 ss.
7 V., per un quadro generale, Alessandri, A., Criminalità economica e confisca del profitto, in Dolcini E.-Paliero C.E., a cura di, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Milano, 2006, 2103 ss.; Maugeri, A.M., Le moderne sanzioni, cit., spec. 539 ss., 564 ss.; Mongillo, V., Profili critici della responsabilità da reato degli enti alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale (seconda parte: misure cautelari interdittive e sequestro a fini di confisca), in Resp. amm. soc. enti, n. 1, 2010, 167 ss. V. anche i contributi raccolti nel volume collettaneo a cura di Bargi A.-Cisterna A., La giustizia patrimoniale penale, t. I e II, Torino, 2011. Nella dottrina processualpenalstica v., da ultimo, Varraso, G., Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2012, spec. 86 ss., 99 ss., 241 ss.
8 Cass. pen., sez. II, 29.3.2012, n. 11808 e Cass. pen., sez. II, 31.5.2012, n. 20976, entrambe in www.penalecontemporaneo.it, 13.9.2012, con nota di Bontempelli, N., L’accertamento del profitto nel sequestro preventivo, fra contratto di appalto e reati di corruzione e truffa.
9 Cfr. Fondaroli, D., Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale, cit., spec. 351 ss; Manna, A., Corso di diritto penale. Parte generale, vol. II, Padova, 2008, 238. Merita segnalare, al riguardo, un revirement della Suprema Corte che con la sentenza Cass. pen., sez. VI, 10.9.2012, n. 34505, in www.penalecontemporaneo.it, 19.9.2012, con nota di G. Caneschi, ha stabilito che l’applicazione del sequestro preventivo di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231/2001 richiede, come per l’applicazione delle misure cautelari interdittive, un’accurata valutazione del presupposto del fumus delicti.
10 Cass. pen., S.U., 2.7.2008, n. 26654, Impregilo s.p.a. e altre, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1750 ss., con note di Mongillo, V., La confisca del profitto nei confronti dell’ente in cerca d’identità: luci e ombre della recente pronuncia delle Sezioni Unite, ivi, 1758 ss. e Lorenzetto, E., Sequestro preventivo contra societatem per un valore equivalente al profitto del reato, ivi, 1788 ss.
11 Come puntualizzato da Cass. pen., sez. V, 2.3.2011, n. 14225, il principio secondo cui «non può essere considerata profitto, nel caso in cui il reato venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione del contratto», non si attaglia a fattispecie come la confisca del profitto derivante da un reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c., «nella quale tra gli indagati e il danneggiato non è intercorso tale tipo di rapporto, essendo i contratti intervenuti invece tra gli indagati e terzi soggetti».
12 Ad es. ha applicato i principi di diritto scolpiti dalla sentenza delle Sezioni Unite in materia di confisca ex art. 640 quater c.p., e relativo vincolo cautelare reale, Cass. pen., sez. VI, 15.2.2011, n. 17064.
13 Sia consentito, sul punto, il rinvio a Mongillo, V., La confisca del profitto, cit., 1784; Id., Profili critici, cit., 75. V. anche Epidendio, T.E., La nozione di profitto oggetto di confisca a carico degli enti, in Dir. pen. e processo, 2008, 1278, il quale fa riferimento ai costi più una quota di utile da determinare secondo equità o, in alternativa, al valore di costo della prestazione eseguita.
14 Si pensi alla complessità di monetizzare le prestazioni rese, nel corso di vari anni, in esecuzione di un contratto avente ad oggetto il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani in una determinata regione, come nel caso Impregilo.
15 Sul piano comparatistico, tale metodo è quello normalmente utilizzato, ad es., dalle corti inglesi, nel caso di contratti acquisiti con modalità corruttive. Esso si fonda sull’assunto che, in assenza dell’illecito, il contratto non sarebbe stato ottenuto, cosicché nessuna deduzione andrebbe concessa al reo: cfr. OECD-StAR, Identification and Quantification, cit., 30, 50 s.
16 In tal senso, nella dottrina italiana, Amato, G., La confisca “per equivalente» del profitto del reato nella responsabilità degli enti e delle persone fisiche: un sistema normativo non coordinato, in Resp. amm. soc. enti, n. 3, 2009, 150.
17 Cfr. su questa potenziale incongruenza, Maugeri, A.M., La confisca nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, in Relazioni tenute nell’incontro 2924, 17.9.2008, 87; Bassi, A., La determinazione del profitto confiscabile ai sensi dell’art. 19, d.lgs. 231/2001, in Resp. amm. soc. enti, n. 3, 2012, 184, che per questa ragione propende per il criterio dello «scomputo dei costi effettivamente sostenuti per dare esecuzione alla prestazione»; e, volendo, anche Mongillo, V., La confisca del profitto, cit., 1786.
18 Cass. pen., sez. II, 29.3.2012, n. 11808, cit.
19 Sulla distinzione tra “reati-contratto” e “reati in contratto” v. Leoncini, I., Reato e contratto nei loro reciproci rapporti, Milano, 2006, passim, spec. 3 ss., 20 ss., 438 s.; Liberati, A., Reati-contratto e in contratto, Roma, 1998; da una prospettiva civilistica, Di Amato, A., Contratto e reato. Profili civilistici, Napoli, 2003. Spunti già in Grispigni, F., Diritto penale italiano, II, II ed., Milano, 1952, 234 ss.; Mantovani, F., Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966, 37 ss.; Vassalli, G., In tema di norme penali e nullità del negozio giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 467 ss.
20 Cass. pen., sez. II, 31.5.2012, n. 20976, cit.
21 Cfr. Pelissero, M., Il sequestro preventivo e la confisca anche per equivalente. Ricadute sulla responsabilità dell’ente derivante da reato, relazione tenuta al C.S.M., 9.7.2009, 35. Definisce «la corruzione – almeno nel nostro ordinamento – … un tipico reato-contratto bilateralmente illecito», Mannozzi, G., Combattere la corruzione: tra criminologia e diritto penale, in Dir. pen. e processo, 2008, 780. Nella dottrina civilistica, sulla corruzione come “reato-contratto” perché illecito nel motivo, v. Di Marzio, F., La nullità del contratto, Padova, II ed., 2008, 448.
22 Neppure l’altra sentenza citata adesivamente dalla seconda sezione (Cass. pen., sez. VI, 29.4.2009, n. 17897, Ferretti, rv. 243319), concernente un caso di corruzione finalizzata alla proroga di una concessione di lavori di manutenzione, sembra aver sposato il criterio dell’utile netto. In essa può, infatti, leggersi che «il profitto del reato di corruzione consiste nella differenza tra quanto dovuto e quanto effettivamente corrisposto. Vale a dire: ‘differenza tra corrispettivo (e non costo) dell’appalto e reale prezzo di mercato’, pur dovendosi riconoscere (SS.UU. 27 marzo 2008 citata) che tale differenza non può essere conteggiata in termini strettamente aziendalistici».
23 Di quest’avviso sono anche Bottalico, F., Confisca del profitto e responsabilità degli enti tra diritto ed economia: paradigmi a confronto, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 1746 s.; Bevilacqua, F., La natura problematica del profitto confiscabile nei confronti degli enti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 1135; Santoriello, C., La confisca e la criminalità d’impresa, in Bargi A.-Cisterna A., a cura di, La giustizia patrimoniale, II, cit., 883 ss.
24 Cfr. su quest’ultima opzione Grasso, G., Art. 240 c.p., cit., 618.
25 Ci siamo espressi in questo senso in Mongillo, V., La confisca del profitto, cit., spec. 1172-1175. Analogamente già Fornari, L., La confisca del profitto nei confronti dell’ente responsabile di corruzione: profili problematici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 71, 74 ss., 81 ss. A conclusioni sostanzialmente coincidenti arrivano, partendo dal principio del “lordo”, ad es., Maugeri, A.M., La confisca per equivalente – ex art. 322-ter – tra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze di razionalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 804; Epidendio, T.E., La nozione di profitto, cit., 1278 ss.
26 Su questo concetto v., all’interno di una sistematica teleologica di derivazione costituzionale, Moccia, S., Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, 96 ss., 109 ss.
27 Non si dimentichi poi, in relazione alla responsabilità da reato degli enti, il disposto dell’art. 19, comma 1, seconda parte, d.lgs. n. 231/2001, a norma del quale non può essere sottoposta a confisca la parte di profitto illecito «che può essere restituita al danneggiato».
28 Il criterio del lordo, in quest’ottica, potrà dispiegarsi in modo incondizionato in relazione ad attività svolte in un contesto illecito di base o comunque radicalmente contrarie alla legge penale. Si pensi alla commissione di fatti di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, alle operazioni di mutilazione di organi genitali femminili eseguite da una clinica dietro versamento di denaro (artt. 583 bis c.p. e 25 quater d.lgs. n. 231/2001), ad una società cinematografica che realizza filmati pedo-pornografici in violazione degli artt. 25 quinquies d.lgs. n. 231/2001 e 600 ter c.p., alle fattispecie di riciclaggio e ricettazione.
29 V. OECD-StAR, Identification and Quantification, cit., 31.
30 In tal senso, in applicazione dell’art. 322 ter c.p., Cass. pen., sez. II, 13.4.2007, n. 15082, rv. 236468; sez. VI, 13.11.2008, n. 44995, rv. 242136; sez. VI, 14.10.2009, n. 46215, rv. 246495.
31 In questo senso, Cass. pen., sez. II, 12.5.2011, n. 35355, Meraglia, rv. 251178. V. anche Cass. pen., sez. VI, 23.11.2010, n. 45504, Marini, in Cass. pen., 2012, 2211.
32 Così, Cass. pen., sez. III, 10.5.2012, n. 17451.
33 Cass. pen., sez. V, 18.12.2008, n. 47983.