profitto
L’economia classica (in partic., A. Smith, D. Ricardo e K. Marx) definì p. la differenza, in una determinata attività produttiva, tra il valore complessivo dei prodotti e i costi di produzione per materie prime, fonti energetiche, strumenti di produzione, forza lavoro, e attribuì a esso carattere residuale e tendenza alla diminuzione nel tempo. Su questo presupposto Marx fondò la sua teoria dello sfruttamento della classe lavoratrice, assumendo che il lavoro fosse l’unica «sostanza valorificante» e che quindi il valore dei beni economici dipendesse solo dalla quantità di lavoro in essi incorporata. Ne discendeva che il p. o «plusvalore» era un reddito sottratto abusivamente ai salariati, in definitiva un furto. Successivamente l’analisi e la teoria economica cominciarono a distinguere all’interno del profitto residuale dell’economia classica elementi diversi che potevano apparire come tutt’uno soltanto in un’epoca in cui la direzione delle imprese era in genere nelle mani di chi possedeva tutto o quasi tutto il capitale in esse investito. In seguito con la scuola neoclassica, o marginalista, si tese ad affermare la liceità del profitto. In particolare quando la figura dell’imprenditore si staccò da quella del capitalista attraverso la diffusione delle società anonime e lo sviluppo del credito e del mercato dei capitali, ci si rese conto della precedente confusione tra interesse e p. e di come occorresse depurare quest’ultimo dell’interesse del capitale dell’imprenditore stesso investito nella sua impresa. Il capitale fu pertanto inteso da L. Walras e da E. von Böhm-Bawerk come un ulteriore fattore di produzione e l’interesse come il costo a esso attribuito, mentre il compenso spettante all’imprenditore per il tempo e il lavoro dedicati all’impresa come se avesse natura di salario di direzione e non di profitto. In aperto contrasto con le definizioni residuali di p., F.H. Knight e G.L. Shackle lo hanno a loro volta considerato come il premio per il rischio assunto dall’imprenditore. Nella teoria neoclassica l’impresa competitiva tende a massimizzare il proprio p. e la ricerca del p. costituisce lo stimolo alle innovazioni e la molla dello sviluppo economico. Particolare importanza ha avuto l’andamento del saggio di p. inteso come rapporto tra p. e capitale anticipato. Da un punto di vista macroeconomico, M. Kalecki, N. Kaldor e L. Pasinetti considerano come esso sia legato al ciclo economico che determina margini di p. in relazione al livello produttivo dell’intero sistema. Le rilevazioni statistiche relative all’andamento del saggio del p. mostrano tendenze di variazione non univoche. Se da un lato non appare provato fino ad anni recentissimi, come invece per il livello dei salari reali, un aumento di lungo periodo del saggio del p., dall’altro non appare in alcun modo realizzata la previsione di alcuni economisti classici secondo i quali il saggio del p. avrebbe inevitabilmente seguito un’inarrestabile parabola discendente (Ricardo, Marx). Nei Paesi sviluppati la crescita del capitale è stata in effetti superiore a quella demografica, tuttavia lo stesso aumento del costo della manodopera e la diversificazione e la dilatazione della domanda di nuovi prodotti ha richiesto investimenti crescenti in tecnologie per aumentare la produttività e potenziare le nuove produzioni, che hanno tenuto alta anche la richiesta di ulteriore capitale e quindi hanno sostenuto il livello del saggio del profitto. Recentemente, con lo sviluppo di holding imprenditoriali, nelle quali vi è la scissione tra proprietà e controllo dell’impresa, l’obiettivo di massimizzazione del p. è stato sostituito da obiettivi più vicini alla direzione manageriale di massimizzazione dell’utilità e del potere (R. Marris, R. Cyert, J.B. Baumol, J.K. Galbraith).