PROFITTO (fr. profit; sp. ganancia: ted. Unternehmergewinn; ingl. profit)
Lo studio del problema del profitto segna una vera e propria fase del più ampio studio della dinamica economica. A esso contribuirono con un lavoro di critica, durato oltre un secolo, i più grandi economisti di ogni scuola; lavoro enorme che era assolutamente necessario, data la "diversità" dei varî punti di vista, espressa soprattutto dalle distinzioni tra periodi brevi e lunghi di tempo, tra statica e dinamica, tra profitti generici e profitti puri, tra íunzione produttiva e funzione distributiva e ancora, importantissima, tra imputazione e distribuzione. Per intendere i problemi odierni del profitto è assolutamente necessario accennare alle fasi più importanti di tale successione di momenti teoretici.
Secondo il pensiero dei classici, il profitto era inteso come un reddito specifico, che per taluni (F. A. Walker, W. Bagehot, A. Schäffle) consisteva in un puro interesse del capitale investito dall'imprenditore, mentre per altri invece abbracciava anche la rimunerazione che va al lavoro di direzione (teoria salariale del profitto) oltre al premio per il rischio di perdita del capitale (A. Smith, A. Cherbuliez, R. Malthus, J. R. M'Culloch, J. Stuart Mill, e poi, tra gl'Italiani, E. Nazzani e A. Graziani). I neoclassici confermarono sostanzialmente queste vedute; però ritennero generalmente che la retribuzione dell'imprenditore dovesse considerarsi come unica, non essendo essa concretamente riferibile all'uno o all'altro dei singoli elementi astratti della produzione (A. Marshall, H. Sidgwick, S. Newcombe).
Altri concepirono il profitto come reddito corrispondente a singoli e indipendenti elementi economici. Così si pensò fosse puro salario di direzione, da J.-B. Say, J.-Ch. Sismondi, W. Roscher; oppure un compenso per l'idée productrice, da B. Lavergne; o esclusivamente un premio per il rischio, secondo J.-G. Courcelle-Seneuil, R. Cantillon, V. Mataja, T. N. Carver (e implicitamente L. Walras), e lo si giustifica talvolta col supporre che la società paghi un tanto a chi le assicura il rischio delle trasformazioni economiche (F. J. Edgeworth, E. Cannan, F. Hawley, A. H. Willett).
Si parlò ancora del profitto come di un reddito residuale, il quale risulterebbe dopo aver pagato l'interesse, la rendita e il salario - con ciò seguendo la tendenza dei fisiocratici e degli scrittori americani (F. A. Walker), i quali spiegavano la rendita e il salario come un reddito residuo.
Ciò che più colpisce in quest'ultima teoria sono le oscillazioni nella ricerca della ragione del reddito residuale: chi infatti la trovò nella compensazione per certi rischi non economicamente assicurabili (come, ad es., i cambiamenti di valore nel tempo); chi invece nell'extraproduttività del lavoro di direzione (che può solo essere sfruttato dal proprietario); chi, infine, in certe forme speciali di "sforzi" del capitale e del lavoro di direzione e nei premî per certe limitazioni dei servizî produttivi (J. H. Thünen, H. K. Mangolt, R. Malthus, W. N. Senior, F. B. Hermann).
Dal fatto che il profitto risulta dalla differenza contrattuale tra costi e ricavi, o più generalmente dalla differenza tra due prezzi, derivò infine una nuova teoria. Si pensò infatti che il profitto dovesse risultare da forza contrattuale eccezionale (F. A. Walker, F. W. Taussig, R. T. Ely, F. A. Fetter), fosse, cioè, effetto di un numero complicato d'indeterminati soprappiù. Questa indeterminazione puramente formale non poteva tuttavia arrestare la ricerca delle cause, tanto più che essa avrebbe importato, ove fosse rimasta, una distinzione odiosa e scientificamente infondata tra profitti giustificabili e profitti ingiustificabili da un punto di vista sociale. Fu per questo che le ricerche si volsero all'esame del rischio, che era il punto ultimo toccato, sebbene per varî scrittori (tra i quali J. B. Clark e in genere gli americani) il rischio non potesse essere l'elemento unico del profitto; e dai più spinti, come J. Schumpeter, il rischio non fosse ritenuto, in alcun caso, un elemento della funzione d'imprenditore (perché il premio andrebbe al capitalista e non già all'imprenditore, che non può essere portatore di rischi, dato che non ha nulla da perdere, osservazione con cui si trascura tuttavia la responsabilità personale che l'imprenditore può sempre assumere). Dall'esame del concetto di rischio sbocco per diretta derivazione la teoria oggi prevalente (V. Mataja, G. Gross, J. B. Clark, J. Schumpeter, G. Del Vecchio), e secondo la quale il profitto può spiegarsi da un punto di vista dinamico.
Per questa teoria dinamica il profitto è definito come il soprappiù rispetto al costo che va all'imprenditore per la sua opera tipica di organizzatore della produzione. Questo reddito è pertanto diverso dalle tre rimunerazioni fondamentali considerate dall'economia statica, come sono diverse sostanzialmente le funzioni organizzative nella teoria statica e nella realtà dinamica: le prime, essendo semplice lavoro di routine, non dànno luogo a nulla oltre l'interesse, il salario per la direzione e il compenso per il rischio economicamente assicurabile; le seconde, invece, determinando innovazioni continue della produzione secondo le mutevoli necessità dell'economia in trasformazione, producono un reddito autonomo che è il profitto dell'economia dinamica.
Punti fondamentali della teoria del profitto sono i seguenti:
I. Il profitto è indipendente dalla forma concreta dell'organizzazione economica della società perché l'essenza sua non è in relazione a ciò che avverrà del maggior reddito, ma ai cambiamenti dinamici. Perciò anche in un'economia comunista il profitto esisterebbe (ossia i fattori produttivi sarebbero sottopagati) se ivi avvenissero cambiamenti dinamici.
II. Il profitto non è un elemento del costo, bensì del prezzo. Il che si spiega col fatto che il prodotto presenta un'utilità finale e marginale maggiore di quelle corrispondenti all'attività dei servizî produttivi, in seguito al sopravvenuto aumento dei bisogni che è l'essenza dell'economia dinamica. Solo nel caso in cui i futuri cicli produttivi fossero eguali ai precedenti, l'imputazione del prodotto si farebbe a esclusivo vantaggio dei fattori della produzione (attraverso un aumento del loro prezzo), ma allora esisterebbero le condizioni dell'economia stazionaria senza profitto.
III. Il profitto deriva dal progresso. In primo luogo per l'esistenza di cambiamenti dinamici, i quali, per essere né rigorosamente periodici, né regolarmente costanti, appaiono a priori come incerti o indeterminati. È per questa incertezza che la teoria del rischio fu strettamente legata a quella del profitto. I cambiamenti incerti avvengono per via di variabili sempre nuove (come la popolazione, i gusti, i capitali, le invenzioni, gli attriti, ecc.) le quali trasformano di continuo le curve dei costi e della domanda. La sola esistenza dei cambiamenti dinamici non creerebbe tuttavia il profitto se l'imprenditore non raggiungesse costi minori di quello che altri pensano. E generalmente ci vuole - perché ci sia profitto - un prezzo p tanto maggiore del costo c da corrispondere "alla minore utilità marginale (e totale) di quanto l'imprenditore percepisce eventualmente quale profitto confrontata con la maggiore utilità marginale (e totale) corrispondente a quanto egli eventualmente avrebbe perduto ove l'esito dell'operazione economica non fosse stato fortunato per lui" (Del Vecchio).
Per arrivare al soprappiù realizzato, varie circostanze contribuiscono, attraverso il processo essenzialmente dinamico dell'imputazione (in contrapposto a quello statico della distribuzione), ad accrescere o diminuire il profitto in concreto. Così gl'imprenditori si fanno concorrenza e imputano ai fattori produttivi più o meno di quanto a loro spetterebbe. Con questo però il profitto come reddito fondamentale e puro della dinamica non sparisce affatto, perché mentre nell'imputazione perfetta resta nella forma di profitto puro, in quella imperfetta della pratica esso si trasforma in un profitto generico.
Se nelle società progressive alcuni imprenditori guadagnassero e altri perdessero correlativamente, si potrebbe anche supporre che per i profitti mancasse il fatto distributivo delle perdite (che è la funzione delle compagnie di assicurazioni) e nulla vieterebbe anche che lo stato li rendesse economicamente assicurabili con un atto d'imperio. Questo tuttavia non è possibile giacché, a differenza dei redditi di fortuna, di gioco e di quelli derivanti da sottrazione e da furto, l'insieme dei profitti è, a lungo andare (terzo momento del progresso), notevolmente superiore alle perdite. Il progresso economico non è pertanto una trasformazione meccanica, ma si concreta in un complesso di utilità nuove e superiori di numero a quelle prima esistenti.
Dai tre punti precedenti sorgono tre conseguenze importanti: 1. che il profitto non esiste in una società uniformemente progressiva perché l'uniformità delle trasformazioni eliminerebbe ogni incertezza e perciò l'imputazione si farebbe scontando matematicamente e non economicamente il futuro; 2. che il profitto non è necessariamente un guadagno di monopolio, anche se gli elementi monopolistici e quasi monopolistici costituiscano in misura più o meno notevole i guadagni concreti; il guadagno di monopolio è, dal punto di vista produttivistico, connesso con il pagar meno i fattori fondamentali della produzione; 3. che il profitto di ciascun imprenditore dipende dalle sue capacità di prevedere l'indeterminato futuro. Questo fatto si può anche mettere in termini di offerta e di domanda di "attività d'imprenditore". La prima è, unitariamente, l'esposizione di un'unità di moneta a un certo schema d'incertezza; e perciò variando la produzione qualitativa e quantitativa d'individui disposti ad assumersi il carico d'incertezza (numero loro, abilità di prevedere, specializzazione, fortuna, ricchezza personale), varia l'offerta.
D'altra parte la domanda (che è di natura specialissima in quanto è impersonale perché portata genericamente dallo stesso progresso) dipende dalla rapidità delle trasformazioni e dal loro grado di aspettazione. Per questo lo stato, se disciplinasse la produzione e riducesse quindi i rischi, potrebbe diminuire il prezzo dell'attività d'imprenditore.
Faremo ancora due osservazioni. La prima è che le condizioni da cui dipende il profitto spiegano perché non esista una tendenza marcata al pareggio dei profitti. Al margine si può concepire un imprenditore con profitto zero e tra gli elementi intramarginali si può anche pensare a tanti imprenditori con profitti diversi, ma è tuttavia dubbio che sia applicabile all'imprenditore la teoria della produttività marginale valida per gli altri fattori della produzione, come sostennero gli autori inglesi e americani. La seconda osservazione è che è errato concepire, come sostenevano i classici, l'esistenza di una tendenza dei profitti a zero. Se un significato deve avere questa pretesa legge, si può dire soltanto ch'essa vale come espressione del fatto che, se si arrestassero i cambiamenti dinamici, i profitti cadrebbero a zero.
Le ricerche statistiche confermano in generale i punti principali della teoria dinamica. Una migliore prova della teoria si potrà tuttavia raggiungere solo precisando le tendenze a lungo andare dei profitti e non solo quelle di breve periodo che portano necessariamente a sopravvalutare i profitti nella fase ascendente del ciclo economico (in gran parte rimborsi di capitali e a sottovalutarli in quella discendente.
Bibl.: H. v. Mangoldt, Die Lehre vom Unternehmergewinn, Lipsia 1855; J. Pierstorff, Die Lehre vom Unternehmergewinn, Berlino 1875; V. Mataja, Der Unternehmergewinn, Vienna 1884; G. Gross, Die Lehre vom Unternehmergewinn, Lipsia 1884; A. Graziani, Saggio sulla teoria del profitto, Milano 1887; J. B. Clark, The distribution of Wealth, New York 1900; id., Essentials of Economic Theory, ivi 1907; E. Lorini, Il profitto, Roma 1901; C. Jarach, Lo sviluppo e i profitti della società per azioni italiane, Torino 1905; G. Borgatta, Le società per azioni italiane, Roma 1916; F. H. Knight, Risk, Uncertainty and Profit, Boston e New York 1921; J. Schumpeter, Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Lipsia 1926; G. Del Vecchio, Untersuchungen zur Theorie des Unternehmergewinnes, in Die Wirtschaftstheorie der Gegenwart, Vienna 1928; C. F. Foreman, Efficiency and Scarsity Profits, Chicago 1930.