Progettare oggi
Architettura industriale e architettura agricola
Sono sempre stato molto interessato al rapporto tra architettura e società; più che rapporto si potrebbe definire sguardo, il momento in cui la società guarda all’architettura; e tale sguardo si riflette anche sul progetto architettonico. Ma qual è la relazione che s’instaura e come potrà modificarsi?
Si tratta di una questione che ha suscitato molto interesse, soprattutto negli ultimi vent’anni, ossia nel periodo immediatamente successivo, almeno in Giappone, alla cosiddetta bubble economy (bolla speculativa). In questo lasso di tempo, la società ha guardato all’architettura sempre in modo molto severo: è il punto di vista di chi la considera come la principale responsabile della distruzione dell’ambiente e dello spreco del denaro pubblico. Ancora oggi è questa l’opinione generalmente più diffusa. Ma ciò non significa che sia sempre stato questo il modo in cui l’architettura è stata percepita, né che debba continuare a essere per sempre l’unico, possibile punto di vista. Perché dunque, e da quando, questa disciplina è stata considerata in maniera così critica, se non addirittura apertamente disprezzata?
Tale cambiamento d’opinione nei confronti dell’architettura trae origine, probabilmente, dal fatto che quest’ultima, nel contesto delle diverse attività produttive, viene percepita come un’emanazione del mondo industriale. In altre parole, la visione che la società possiede dell’architettura dipende forse dalla relazione che si instaura tra la società nel suo insieme e il mondo dell’industria, e quindi dal modo in cui la società giudica l’industria. Se utilizziamo questa prospettiva, i numerosi sviluppi delle diverse questioni relative all’architettura sembrano trovare una buona chiave di lettura. Mi pare sia questa l’impostazione più efficace anche al fine di riflettere su quale possa essere la strada migliore per l’architettura del futuro.
Per dirla più semplicemente, nella società preindustriale l’architettura costituiva l’unica attività di tipo tecnico-industriale, e per questo motivo era tenuta in grande considerazione e ritenuta degna di stima. Anche quella egiziana e quella romana furono civiltà che conferirono all’architettura la massima importanza: nell’ambito della prima la struttura delle piramidi rappresenta l’esempio più emblematico, mentre Roma creò una rete stradale capillare – testimoniata dal motto ‘tutte le strade portano a Roma’ – e accrebbe progressivamente il proprio dominio, utilizzando come ‘motore’ l’edificazione di splendide città. All’interno di queste società fondamentalmente agricole, l’architettura godette sempre di grande stima in quanto rara attività di carattere tecnico-industriale, e per tale preziosa attività si spesero, senza mai risparmiarsi, le migliori energie intellettuali del tempo.
In Egitto, per es., le conoscenze dell’epoca sugli astri e sul cosmo vennero applicate, nei limiti del possibile, alla progettazione delle piramidi. Anche la collocazione e la destinazione d’uso degli edifici erano scelte basandosi sulle conoscenze dei movimenti degli astri e cercando di rendere coerenti fra loro, da una parte, i sistemi di misurazione del cosmo e dei pianeti e, dall’altra, quelli dell’architettura.
In Grecia, dove esisteva un interesse del tutto peculiare per la matematica, ci fu sempre grande attenzione per le misure e le proporzioni in architettura; infatti gli architetti si dedicavano con passione a calcolare in modo rigoroso le misure di tutte le pietre e i giusti rapporti necessari all’edificazione dei templi. Si trattava del preciso tentativo di riflettere nell’architettura la parte migliore dell’ingegno e della cultura dell’epoca, con un impegno così estremo da essere talvolta visto come una forzatura. Si stabilì di tramandare la conoscenza attraverso le pietre con la stessa passione con cui si riportavano i testi sulla carta: tutto il sapere veniva registrato per mezzo dell’architettura. Lo stile architettonico che si fa risalire alla Grecia antica, in cui è la conoscenza matematica a influenzare la disposizione delle pietre, è ciò che in fondo definiamo classicismo. Il fatto poi che il classicismo sia rimasto lo stile che ha dominato in tutto il mondo occidentale fino all’inizio del 20° sec. è certamente suggestivo, e dimostra in modo evidente come, fino all’affermazione della società industriale, l’architettura abbia continuato a godere di una grande considerazione in quanto pregevole attività tecnica.
È tale caratteristica ad aver nobilitato l’architettura e ad aver fatto sì che la società continuasse a tenerla in grande considerazione. E, per mantenere nel tempo tale rispetto, la matematica, che è la parte migliore dell’attività intellettuale dell’uomo, ha continuato a essere riflessa in essa.
Il paradosso del modernismo
All’inizio del 20° sec. si affermò una nuova tendenza progettuale, il modernismo, e da allora i rapporti tra architettura e classicismo si dissolsero a una velocità sorprendente. Il modernismo fu una corrente non priva di aspetti paradossali. Una delle finalità di questo movimento era quella di preservare lo status dell’architettura in quanto attività di tipo tecnico-industriale. Nel periodo preindustriale, l’architettura costituiva, come si è detto, l’unica forma di industria. Al tempo in cui l’attività produttiva nel suo complesso era approssimativamente suddivisa in produzione agricola e produzione industriale, la norma per misurare e stabilire tale suddivisione era la distanza dalla natura. Le attività produttive di tipo agricolo e la natura avevano un legame evidentemente diretto, mentre le attività produttive di tipo industriale, tecnologico e manifatturiero erano solo indirettamente collegate alla natura: l’industria aveva una posizione di massima distanza dalla natura e di forte antagonismo nei suoi confronti. Dal Novecento in poi, essa cominciò a prevalere sull’agricoltura e diventò l’attività produttiva dominante nella società mo-derna. A quel punto l’architettura, che proprio in quanto unica attività tecnico-industriale aveva sempre goduto di una posizione privilegiata, iniziò progressivamente a decadere verso un ruolo via via sempre più arretrato, forse non dissimile, sotto certi aspetti, da quello svolto storicamente dall’agricoltura.
Da quel momento mostrò una sorta di doppio volto: gli architetti, che fino ad allora avevano goduto della stima della società in quanto artefici di una nobile attività, si sforzarono di difendere e mantenere il proprio status, insistendo proprio sulle componenti tecnico-industriali della loro disciplina. Decisero allora di eliminare gli elementi che più direttamente rimandavano alla na-tura e a un fare troppo semplice, di tipo arcaico come appunto la pietra, i mattoni e il legno, ritenendo indispensabile l’impiego di materiali che fossero di origine chiaramente industriale: il cemento armato, i metalli, il vetro. Così, all’inizio del 20° sec., si affermò una nuova progettualità architettonica. La tradizione architettonica europea, basata com’era su attività artigianali molto semplici, per non rimanere indietro rispetto alle nuove, sempre più progredite realtà industriali, cercò quindi la strada del rinnovamento. La principale tendenza architettonica del 20° sec., il modernismo, ebbe origine proprio in questo contesto. Lo stesso, affascinante suono del termine modernismo risultava carico di opposte contraddizioni: nel momento di massima crescita dell’industrializzazione, il modernismo risvegliava l’impazienza di giungere a una società che superasse di getto sé stessa.
Invero la società, anche posta di fronte a materiali di derivazione industriale, non poteva non riconoscere che si trattava di un’industria mascherata: la realtà dell’industria era sicuramente ben altra cosa. Per quanto si volesse usare il cemento, l’acciaio o il vetro, le regole essenziali della creazione architettonica rimanevano di per sé semplici e radicate piuttosto in un passato artigianale fortemente legato all’agricoltura e alla stessa natura. Innanzitutto, l’architettura non può fare a meno di crescere dalla terra, proprio come fanno le piante, né può muoversi liberamente sopra la terra come fa un’automobile, e a maggior ragione non è in grado di volare nel cielo staccandosi da terra come un aeroplano e così via.
Nonostante tutto, Le Corbusier (pseud. di Charles-Edouard Jeanneret-Gris, 1887-1965), il principale esponente del modernismo francese, sostenne la necessità di staccare l’architettura dalla terra e sollevarla fino al cielo, utilizzando una serie di pilastri sottili, i pilotis. Ma anche i pilotis erano costretti ad avere solide fondamenta e restavano radicati al terreno come un daikon (ossia una pianta; il termine giapponese significa letteralmente «rapa bianca», ma qui è poi utilizzato anche nel senso metaforico di progetto). Per sua natura il daikon non è in grado di muoversi. Le Corbusier s’impegnò al massimo perché l’architettura potesse essere considerata un’industria, e questo è forse il motivo principale per cui viene considerato un maestro del 20° secolo. Grazie ai pilotis egli non solo ha elaborato la sua dottrina sui principi generali dell’architettura, ma si è servito, a volte in modo spregiudicato, dei media per far apparire l’architettura come un’industria, utilizzando spesso il metodo di allineare e fotografare oggetti diversi di produzione industriale quali aerei, transatlantici, automobili e altro, a fianco delle sue creazioni architettoniche. Ma in definitiva, un progetto rimane un progetto, un daikon è soltanto un daikon, e la natura dell’architettura, da sempre simile a quella delle piante, non poteva essere a lungo nascosta.
Di conseguenza, verso la fine del 20° sec., si è iniziato a definire, non senza disprezzo, semplice impresa di costruzioni questa forma arretrata di industria, che continuava ad avere una componente arcaica così forte e così radicata alla terra. La vera industria della contemporaneità, rappresentata dalla information tech-nology, si andava sempre più raffinando, mentre la natura arcaica e ‘terrestre’ dell’architettura diventava sempre più evidente. L’architettura, non solo era un daikon che non poteva sfuggire al legame con la terra dalla quale si ergeva, ma restava anche un’attività industriale dalla resa incredibilmente scarsa. Si iniziava poco a poco a disprezzare questa forma ibrida e sospetta di industria, e tale disprezzo era destinato ad accelerare lo sviluppo di un’industria sempre più sofisticata. Alla fine del 20° sec., l’atteggiamento della società nei confronti dell’architettura era diventato estremamente duro e severo: il grande rispetto nei confronti dell’architettura classica, una volta considerata la massima espressione tecnico-industriale, non era più nemmeno lontanamente immaginabile. I politici, da parte loro, sapevano bene che biasimando e attaccando l’architettura contemporanea avrebbero certamente acquisito consensi e popolarità tra la gente. Questi attacchi divennero addirittura un requisito necessario al momento delle elezioni. Gli occhi della società potevano essere crudeli fino a questo punto.
La fine del 20° secolo
Di fronte a un tale stato di cose, gli architetti generalmente hanno adottato due diversi tipi di strategie. Infatti, da un lato, vi erano coloro i quali insistevano nel continuare a mascherare l’architettura come un’attività industriale avanzata. Si trattava di rendere ancora più radicale l’idea dei pilotis-daikon; i pilotis non erano realmente in grado di librare in aria l’architettura, ma l’uso sapiente di vetro e trasparenze poteva comunque dare l’impressione, mai raggiunta con i soli pilotis, che un’architettura fosse effettivamente sospesa nell’aria. Grazie alle più recenti tecnologie informatiche, era anche possibile delineare forme completamente nuove, le cosiddette organic forms; non si aveva più a che fare con i materiali della realtà, ma si godeva della più completa libertà sullo schermo di un computer. La grafica digitale, sostituendosi ai sistemi tradizionali, ha dunque reso possibile, pressoché d’improvviso, la più totale libertà compositiva e formale. Il mondo dell’architettura, sempre spaventato dall’essere distanziato e abbandonato dall’industria, ha accolto ovviamente con entusiasmo questa nuova tecnologia. Negli anni Novanta, l’architettura della trasparenza, dalle forme morbide create sugli schermi dei computer ha avuto un enorme successo. Il tentativo, per molti aspetti commovente, di realizzare con materiali reali le forme libere create al computer sarà forse ricordato come l’ultima fase del mascheramento dell’architettura da attività industriale avanzata. Ma, nel momento in cui si è iniziato a usare i materiali reali, la palese contraddizione tra le tecniche di computer graphics e l’essenza arcaica e terrena dell’architettura è venuta immediatamente alla luce. Non appena ha provato a cogliere e utilizzare l’avanguardismo proprio dell’industria, l’architettura si è trovata a lottare contro la sua stessa essenza, che è e rimane fondamentalmente ancorata alla terra. Come, agli inizi del 20° sec., si ipotizzava un’architettura che fosse in grado di librarsi in aria sopra i suoi pilotis, così, alla fine dello stesso secolo, si è arrivati a credere alla possibilità di un’architettura come forma organica libera sullo schermo di un computer.
Alla fine del secolo scorso, e questa è la seconda strategia e la sola rimasta all’architettura, l’unica via percorribile era quella di gettare via, apertamente, la propria maschera e fare di ciò il tema centrale della stessa espressione architettonica contemporanea. Questa via era in stretta relazione con la corrente filosofica diffusasi in quegli anni: il decostruzionismo. L’essenza della filosofia decostruzionista risiede proprio nell’adesione a un’attività costruttiva distaccata dalla natura, una creazione autoreferenziale di edifici sospesi nel cielo, ovvero finzione priva di fondamento. Si tratta della definitiva autonegazione del carattere industriale e artificiale o, per dirla in modo più diretto, di un elegante suicidio architettonico. Tale comportamento suicida, che prende il nome di postmodernismo o manierismo, può essere considerato la manovra di una élite intellettuale che, appunto alla fine del secolo scorso, ha affermato, in modo forse nichilista, il definitivo distacco dell’architettura dalla natura, e per un certo periodo è riuscita effettivamente a monopolizzare l’attenzione sulla scena architettonica internazionale. Di fatto da allora in poi l’attività architettonica non è stata più in grado di procedere senza autoironia e senza ammettere il carattere falsamente industriale del proprio operare. Questa può essere considerata un’autonegazione coscienziosa e, se si cambia prospettiva, ha rappresentato una piccola soddisfazione per chi scrive.
Una nuova ‘architettura della terra’
Tuttavia, sia che si trattasse di nichilismo decostruzionista sia di libertà sullo schermo di un computer, ideazione creativa e tecnica costruttiva sono sempre state considerate come un tutt’uno, mentre in quegli anni il radicamento alla terra era ritenuto antitetico a ogni logica architettonica. Ma dopo che il decostruzionismo aveva finito per negare qualsiasi valore intellettuale alla tecnica, ciò che rimaneva era in pratica soltanto un’architettura naturale e terrena. Non è forse meglio ridefinirsi in tal modo, lasciando da parte il tentativo di fingere che l’architettura sia un’attività industriale? Non è meglio affidarsi alla terra e trattarla con il dovuto rispetto? Subito dopo aver fatto questa considerazione, mi è sembrato tutto molto più facile; significava prendere atto di che cosa è un daikon. Così facendo, un daikon può crescere in modo naturale e rassicurante.
Un tempo, durante l’epoca della cosiddetta architettura industriale, l’ingegno e la tecnica rimanevano in realtà costantemente al di fuori dell’architettura. Si chiamava progetto ciò che di queste due sfere si rifletteva e si imprimeva nell’architettura. Invece, nell’epoca dell’architettura della terra, la creatività risulta direttamente connessa e serenamente collegata alla sostanza costruttiva. I progettisti sono coloro che svolgono, all’interno di questo processo, il ruolo degli intermediari; in altre parole, la profonda saggezza racchiusa nella terra mostra la propria forma in superficie attraverso l’espressione architettonica. Similmente l’architettura, per recuperare la propria essenza terrena, deve fare ritorno alla terra: legno, terra, carta, ciascun materiale naturale può diventare un vero e proprio medium tra il suolo e il progetto che cresce radicandosi al suo interno. La cosa più importante è avere la pazienza di raccogliere con calma i frutti; dopo aver seminato in un terreno sul quale non c’è niente, ci viene soltanto chiesto di aspettare. La qualità essenziale in agricoltura è aver pazienza; basta aspettare ciò che farà la terra, fidandosi di lei.
Spettacolarità radicata alla terra?
Rimane però aperta una questione importante. E cioè se un’architettura siffatta sia in grado di offrire alla città contemporanea quelle caratteristiche di spettacolarità oggi così richieste. A partire dal 1990, il dibattito sul carattere simbolico dell’architettura è entrato decisamente in una nuova fase. La grande occasione è stata offerta dalla realizzazione del Guggenheim Museum (1997) a Bilbao, progettato da Frank O. Gehry. Questa spettacolare fabbrica, con il suo involucro esterno in rilucente titanio, è considerata l’espressione architettonica più spettacolare della seconda metà del 20° sec.; ha attirato turisti in numero straordinario e si è rivelata un enorme successo anche dal punto di vista economico. Una monumentalità ordinaria non poteva più essere considerata rappresentativa in una società in cui tutte le barriere stavano cadendo grazie alla globalizzazione: servivano forme estreme altamente spettacolari.
Le principali città del mondo hanno guardato tutte al nuovo museo spagnolo come a un esempio da imitare. Di conseguenza ne è scaturita una durissima competizione urbana: le città hanno promosso innumerevoli concorsi d’architettura e la spettacolarità ha assunto il ruolo di principale indicatore della qualità progettuale. Si sentiva scherzosamente ripetere il famoso dubbio amletico «to B or not to B?», ma in questo caso la B non stava per il be inglese, ma era la prima lettera di Bilbao; si trattava dell’alternativa tra vincere la competizione globale grazie a una spiccata spettacolarità e a grandi investimenti, come aveva appunto fatto la città dei Paesi Baschi, oppure non accettare la scommessa e aspettare passivamente il proprio declino. Naturalmente, poiché c’era anche la possibilità che, pur stanziando cospicui investimenti, i risultati ottenuti non fossero alla fine quelli sperati, ma anzi accelerassero il declino di cui sopra, tutte le città del mondo erano tormentate dai dubbi su come poter gestire la propria trasformazione da sedi industriali manifatturiere in sedi del terziario avanzato e, proprio come il personaggio della tragedia di William Shakespeare, le amministrazioni civiche più avvertite erano sottoposte a una forte pressione psicologica.
In ogni caso, l’atteggiamento critico della società nei confronti dell’architettura non era comunque cambiato. Né aveva cambiato parere chi sosteneva che l’architettura era, come sempre, un’attività arretrata, una delle prime cause della progressiva distruzione dell’ambiente, e fra i principali responsabili dello sperpero del denaro pubblico. Proprio per questo la domanda «to B or not to B?» ripetuta all’infinito, non faceva altro che aumentare la tensione.
Che tipo di architettura, o di pensiero architettonico, può sussistere in una tale situazione?
Ciò che m’interessa maggiormente è comprendere se sia o meno possibile una spettacolarità architettonica radicata alla terra, oppure se ci sia la possibilità di un’azione che ci porti lontano dalle grandi ondate dell’industrializzazione. In realtà si tratta di due interrogativi analoghi. La spettacolarizzazione dell’architettura ai tempi della bolla speculativa degli anni Ottanta era di tipo tecnico-industriale: a dirla in termini di marketing, si trattava di una spettacolarizzazione-marchio. L’identità formale, facilmente identificabile, si manifestava come i marchi del mondo della moda: indossarli significava serializzarne i significati. La logica di un prodotto, il cui marchio esce rafforzato proprio dalla sua reiterazione seriale, veniva così disinvoltamente applicata anche all’ambito architettonico. Alcuni progettisti di fama, che hanno con successo affermato il proprio marchio, sono diventati notissimi in tutto il mondo: si è così verificata la situazione per cui i finanziamenti globali si concentravano proprio su queste firme facilmente riconoscibili. Il risultato di tutto ciò è stato che, in ogni città, si è avuta una noiosa proliferazione di edifici tutti progettati da grandi architetti e tutti molto simili tra loro. Alla fine del periodo in cui si era cercato di distinguere in modo netto tra il sistema produttivo di tipo industriale e il sistema comunicativo, sono apparse le forme architettoniche più estreme.
Al contrario una forma di spettacolarizzazione radicata nella terra non può svilupparsi altro che in un determinato luogo, è una forma di monumentalità che proprio e soltanto in quel posto pianta le proprie radici. Proviamo a tornare su questo terreno, uscendo dal sistema di produzione industriale e dal sistema di circolazione delle informazioni. Se riusciamo a raggiungere un tipo di spettacolarità diverso, ci sarà un daikon che cresce proprio e solo in quel posto, e ogni città del mondo potrà forse ricostruire una propria individualità – nata e cresciuta dalla terra come una radice – così come l’aveva posseduta prima dell’industrializzazione. Ormai sappiamo che perfino uno stesso seme, se coltivato in terreni diversi, con climi diversi, genera piante completamente differenti. Se saremo in grado di acquisire le giuste tecniche di coltivazione, si aprirà forse la possibilità di realizzare un’architettura che non dipenda dal grande capitale globale e da grandi progetti che puntano a una spettacolarità globale come è avvenuto a Bilbao. Come l’erba dei campi, i piccoli progetti riprenderanno vigore partendo dalla terra, grazie alla forza e alla grande perseveranza delle persone: non si tratta solo di inseguire un nuovo tipo di qualità, ma del progetto di creazione di una qualità radicata nei luoghi.
I due daikon da me proposti partendo da queste riflessioni critiche sono fortunatamente risultati vincitori in due recenti concorsi, entrambi del 2007. Il primo è la Cité des arts et de la culture di Besançon in Francia, l’altro il Nuovo distretto ministeriale centrale di Budapest, in Ungheria. A Besançon, situata vicino al confine con la Svizzera in una zona ricchissima di alberi, il legno è stato suggerito come materiale per la realizzazione di un enorme tetto. Un gruppo di edifici vecchi e nuovi già presenti sulla sponda del fiume Doubs è stato unificato con cura e rigore sotto un’unica grande copertura. L’intelaiatura del tetto, che fa passare la luce nella parte sottostante, proprio come se si trattasse di raggi solari che filtrano tra i rami degli alberi, si pone come un possibile nuovo simbolo della città, ma non un simbolo monumentale, come poteva esserlo una grossa scatola architettonica cava simile alle tante realizzate in passato. L’apparizione di una nuova architettura lungo la sponda del fiume, che si presenta come un unico enorme albero sotto il quale filtra suggestivamente la luce, potrà essere molto apprezzata dal pubblico: diversa dalla monumentalità tipica dei prodotti industriali, si tratta di un’opera dal sapore molto particolare.
A Budapest, mi è stato chiesto un progetto per la piazza antistante la Stazione Ovest, progettata nel 1877 da Alexandre-Gustave Eiffel. Il mio suggerimento è stato di portare sotto terra i binari esistenti e creare un grande parco pubblico. Questa enorme area verde è in grado di diventare il nuovo simbolo della città. Ho immaginato che nel parco ci potessero crescere progetti eterogenei, come le diverse piante di un giardino. Mi sono rivolto a un gruppo di giovani architetti ungheresi (Péter Janesch and team), e abbiamo pensato a un assetto in cui il progetto potesse evolversi nel tempo in modo naturale. Non sono in grado di dire quali saranno effettivamente i frutti che raccoglieremo da questi due daikon. Dal mio punto di vista, sono convinto che contengano dei buoni semi. Bisogna avere la pazienza di aspettare che maturino. In architettura, come in agricoltura, la cosa più importante è avere fiducia nella terra.
Versione modificata e accresciuta dell’articolo pubblicato su «Kagaku» (Scienze), agosto 2007, della casa editrice Iwanami.