Progetti costituzionali: Mario Pagano
Le tendenze costituzionalistiche della cultura giuspolitica italiana, già cospicue all’inizio del Settecento, si accentuarono nel corso del secolo, rinnovandosi nei contenuti e negli obiettivi. La circolazione delle idee, la penetrazione di nuove dottrine, la conoscenza di modelli ed esperienze straniere allargarono e arricchirono l’orizzonte della riflessione sui principi del diritto pubblico e l’organizzazione dello Stato. Se nell’opera di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) la prospettiva del governo limitato si esprimeva ancora attraverso l’immagine della civitas romana; se pochi decenni dopo Scipione Maffei (1675-1755) si richiamava al modello inglese del governo misto; sarà più tardi la lezione americana ad attrarre Gaetano Filangieri (1753-1788) e a costituire il punto di riferimento empirico del suo pensiero costituzionale, che andò temperandosi nel fecondissimo clima intellettuale del tardo Illuminismo europeo.
Un clima carico di istanze di cambiamento, germinate da una visione della politica ancorata al paradigma del giusnaturalismo contrattualista e alla sua antropologia individualistico-egualitaria. Innalzato l’uomo a soggetto titolare di diritti inalienabili, riconosciutolo quale razionale artefice dell’universo politico, la dottrina giusfilosofica dei lumi elabora e propugna una nuova concezione dello Stato, che rovescia i termini tradizionali dell’obbligazione politica: all’ortodossa deontologia dell’obbedienza, che prescrive i doveri dei soggetti nei confronti del sovrano, è opposta la teorizzazione del dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti del soggetto.
Ogni giustificazione della potestas legibus soluta è conseguentemente rigettata. Di contro, si afferma la consapevolezza che per tutelare la vita, la libertà e la proprietà degli individui è necessario limitare e controllare il potere attraverso dispositivi giuridici e istituzionali idonei a regolarne l’esercizio e a frenarne gli abusi. È in questa prospettiva che si collocano, e variamente si declinano, le teorie della sovranità della legge, della divisione e del bilanciamento dei poteri, della rappresentanza politica, attraverso le quali si profila il modello di Stato che ispira la progettualità politica degli illuministi.
In un vivace e continuo confronto dialettico – influenzato dalle dottrine di John Locke, stimolato dalle tesi di Montesquieu, infiammato dalle idee di Jean-Jacques Rousseau –, il costituzionalismo settecentesco giunge così a sollevare il problema della codificazione costituzionale quale necessaria garanzia dei diritti soggettivi contro l’esercizio arbitrario dei poteri pubblici. L’Illuminismo giuridico italiano – dal Piemonte alle province napoletane – segue e alimenta il dibattito internazionale. La costituzione, intesa come legge fondamentale scritta, che stabilisce le norme del ῾diritto politico᾿, organizzando le istituzioni dello Stato e regolando i rapporti tra autorità e individuo, diventa oggetto di elaborazioni teoriche e di aspirazioni politiche.
Per quanto minoritari, tali orientamenti ideologici di segno antiassolutistico andarono diffondendosi e radicalizzandosi in seguito alle vicende rivoluzionarie dello scorcio del secolo. Già a partire dagli anni Ottanta, cominciarono a circolare nella Penisola le carte costituzionali degli Stati del Nord America. Nei primi anni Novanta l’attenzione si concentrò sugli accadimenti politici e gli esperimenti istituzionali d’oltralpe. L’abbattimento della monarchia borbonica e la creazione della Repubblica infusero coraggio alla volontà di eversione dello status quo. La costituzione dell’anno I (1793), con i suoi tratti democratico-egualitari, accese l’entusiasmo nei circoli politici clandestini, frequentati da quanti cospiravano a ῾fare come i francesi᾿. All’entusiasmo, tuttavia, non corrispose la capacità operativa: il sovvertimento dell’ordine costituito avverrà solo per effetto dei trionfi militari della Grande nation; che, tra il 1796 e il 1799, rivoluzionerà in senso repubblicano il regime politico degli Stati italiani.
Nell’Italia delle repubbliche sorelle la questione costituzionale catalizza il dibattito politico, che per la prima volta si dispiega liberamente attraverso la proliferazione di giornali, pamphlet, fogli volanti e la sperimentazione di nuove forme di associazionismo. A partire dalla comune adesione ai principi fondamentali del diritto pubblico rivoluzionario, i ῾patrioti᾿ (così si autodefiniscono i partigiani del nuovo ordine politico) discutono dell’assetto giuridico-istituzionale repubblicano, esprimendo posizioni differenti, che si articolano in una pluralità di proposte e di obiettivi.
Ineludibile, in tale fermento progettuale, è il confronto con la costituzione vigente nella Repubblica madre: quella termidoriana dell’anno III (1795), d’ispirazione ideologica e d’impianto istituzionale per molti versi antitetici rispetto al precedente modello giacobino. Modello che, ancora alla vigilia dell’occupazione francese, influenzava il disegno della «Costituzione politica d’ogni repubblica italiana» del robespierrista Filippo Buonarroti, e che, negli anni seguenti, continuerà a riverberare il suo fascino tra quei repubblicani della penisola meno soddisfatti dell’ultimo prodotto del prolifico costituzionalismo francese.
L’insistenza sul principio della sovranità popolare, la rivendicazione del suffragio universale (maschile), l’affermazione del primato politico dell’assemblea legislativa, l’istanza di giustizia sociale sono i motivi che ricorrono nella critica dei democratici radicali verso una costituzione caratterizzata, in senso antiassembleare, dall’indipendenza dell’organo del potere esecutivo – il Direttorio – rispetto al Corpo legislativo; dalla divisione di quest’ultimo in due Camere, investite di funzioni distinte; da un sistema elettorale a doppio grado, in cui la titolarità dei diritti politici è legata al censo; da una «Dichiarazione dei diritti e dei doveri» che non riconosce diritti sociali.
Pur difettando di una piena e unanime approvazione all’interno del composito fronte patriottico, la Costituzione dell’anno III è tuttavia consapevolmente accettata come necessario piedistallo della rivoluzione repubblicana. La linea politica dei libérateurs, del resto, non concede margini di autonomia. «Il Direttorio esecutivo della Repubblica francese, – proclama il generale Bonaparte l’8 luglio 1797 – […] dà al popolo cisalpino la propria costituzione, che è il risultato delle cognizioni della nazione la più illuminata» (Le Costituzioni italiane, 1958, p. 87). Parimenti eteronoma è la genesi della costituzione della Repubblica romana (20 marzo 1798), nel cui articolato normativo i redattori francesi si spinsero a formalizzare il dominio politico degli occupanti.
Là dove il processo di statuizione costituzionale segue vie più democratiche, l’esito non cambia: nel passaggio dai progetti discussi nei vari organi istituiti ad hoc ai testi definitivamente approvati dal voto popolare, le autorità francesi intervengono incisivamente riducendo gli scarti dal modello termidoriano. Particolarmente rilevante, sotto questo riguardo, è la vicenda costituzionale della Repubblica di Genova, ῾democratizzata᾿ – il neologismo è coniato in quegli anni –, senza subire l’occupazione militare dell’Armée d’Italie.
L’originario Progetto di Costituzione per il Popolo Ligure presentato al Governo provvisorio dalla Commissione legislativa nell’agosto del 1797, anziché limitarsi a ricalcare il testo francese, lo integrava e lo modificava. Introducendo il titolo «Codice criminale», i legislatori genovesi fissavano una serie di principi di diritto penale sostanziale e processuale, improntati al garantismo dei lumi. Sotto un altro nuovo titolo, dedicato al «Codice civile», dettavano «Disposizioni generali» in materia di diritto successorio e stabilivano il divieto di detenzione carceraria dei debitori «insolvibili senza loro colpa» (art. 264). Ai deputati, ai direttori e ai ministri, era imposto il giuramento «di non essere ricchi di un milione di lire» (art. 172). I beni ecclesiastici, «di qualunque natura», erano dichiarati «beni della nazione» (art. 398). Il clero ligure, dai parroci ai vescovi, era sottratto alla gerarchia della Curia romana.
Queste ultime disposizioni suscitarono reazioni tali da costringere il Governo provvisorio a ritirare il progetto. Intervenne allora Napoleone, che richiamò all’ordine i membri della Commissione legislativa, raccomandando di «non toccare le religione» e di «non somministrare argomento di inquietudine alle coscienze timorate, né arme agli uomini malintenzionati» (Le Costituzioni italiane, 1958, p. 159). Gli articoli controversi, insieme a numerosissimi altri previsti dal progetto, furono espunti dal testo. Così la Costituzione della Repubblica ligure – votata dal popolo il 2 dic. 1797 – risultò in larga parte una riproduzione fedele dell’originale francese, al pari di quelle precedentemente approvate dai cittadini di Bologna (4 dic. 1796) e della Repubblica cispadana (19 marzo 1797).
Tra i pochi elementi di difformità delle costituzioni promulgate nella Penisola rispetto alla loro cogente matrice comune spicca, per importanza politica, la disciplina dei diritti elettorali. Il modello del cittadino-contribuente – adottato dall’Assemblée nationale nel 1791 e recuperato dai costituenti dell’anno III – è abbandonato ovunque, fuorché nella Repubblica romana. La costituzione bolognese (mai attuata) e quella della Repubblica ligure non prevedono alcuna discriminazione di status socioeconomico nell’accesso al diritto di voto. Le costituzioni cispadana e cisalpina si limitano a precluderlo ai mendicanti e ai vagabondi. Resta invece elevata – sull’esempio termidoriano – la barriera censitaria alla titolarità dell’elettorato passivo, per i Comizi elettorali di Bologna, per i Comizi decurionali della Cispadana, per le Assemblee elettorali della Cisalpina. Si distinguono per maggiore inclinazione democratica, i legislatori genovesi, dichiarando ineleggibili ai Comizi elettorali esclusivamente quei cittadini che vivono solo «di una mercede giornale» (art. 48).
Altre modifiche normative non trascurabili riguardano lo statuto della religione cattolica (privilegiata dalle costituzioni cispadana e ligure), il sistema elettorale (nella cui articolazione le costituzioni bolognese e cispadana aggiungono un ulteriore livello assembleare) e il meccanismo di elezione dei direttori da parte dei deputati (variamente riformato in tutti gli statuti della penisola). Talune alterazioni sono presenti pure nella struttura e nel contenuto delle dichiarazioni dei diritti. Le più consistenti sono (ancora una volta) quelle del testo ligure, che, oltre a essere scandito in quattro rubriche – «Sovranità del popolo», «Diritti dell’uomo in società», «Doveri dell’uomo in società», «Doveri del corpo sociale» – stabilisce, nell’elenco di questi ultimi, che «la società deve i mezzi per sussistere agl’indigenti e l’istruzione a tutti i cittadini» (art. 3), incorporando così due principi qualificanti della dichiarazione giacobina dell’anno I.
L’organizzazione dei poteri pubblici delineata nelle carte costituzionali del triennio è invece una copia pressoché identica dell’archetipo francese. Soltanto i legislatori della Repubblica napoletana (che, a differenza delle altre repubbliche, non giunse mai a dotarsi di una costituzione, né di una carta ῾provvisoria᾿ come quella di Lucca) tentarono, sotto la guida di Mario Pagano (1748-1799), di elaborare un sistema istituzionale parzialmente diverso, nell’intento di assicurare la centralità della costituzione e la difesa dei principi repubblicani. Proprio in virtù dei suoi notevoli caratteri di originalità, il Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana rappresenta uno dei documenti più importanti del costituzionalismo italiano del Settecento. Pertanto – benché non sia mai entrato in vigore – merita un approfondimento particolare e un’analisi più dettagliata.
La Repubblica napoletana dovendo formare una costituzione e volendo ovviare alle dispute inutili, invita la Nazione Francese a mandare quattro o cinque legislatori perché, ad imitazione di Roma, le facciano un dono così prezioso (Leggi, atti, proclami ed altri documenti della Repubblica Napoletana 1798-1799, a cura di M. Battaglini, A. Placanica, 1° vol., 2000, p. 301).
Consegnato da Giuseppe Logoteta all’art. 13 del «Progetto di decretazione» del 22 gennaio 1799, questo invito non esprimeva un'aspettativa universalmente condivisa tra i patrioti napoletani. Secondo un diarista dell’epoca, infatti, già all’inizio di gennaio – nella situazione di anarchia seguita alla fuga del re – c’era chi attendeva il ritorno a Napoli di Pagano «con la costituzione della Repubblica vesuviana» (C. De Nicola, Diario napoletano 1798-1825, 1° vol., 1906, p. 13).
Esule politico, e prim’ancora prigioniero, sospettato di aver congiurato contro la monarchia borbonica, Pagano era, tra i partigiani della Repubblica, una delle personalità più prestigiose ed influenti. Philosophe, avvocato e professore universitario di diritto penale, era stato uno dei protagonisti del fermento culturale della Napoli degli anni Ottanta. Con i suoi scritti carichi di istanze radicali, aveva occupato le posizioni più avanzate dell’Illuminismo meridionale. Oltrepassando le frontiere ideologiche del dispotismo illuminato, era approdato a una dottrina giusnaturalistica dei diritti umani, sviluppata in una concezione costituzionalistica dello Stato, in una teoria del diritto penale come tecnica di garanzia della vita e della libertà personale, in una visione repubblicana della convivenza civile e della giustizia sociale.
Le opere paganiane attestano esemplarmente la curvatura antiassolutistica assunta, nel tardo Settecento, da una parte della cultura giuspubblicistica italiana. Quando apparve la prima edizione dei Saggi, Pagano fu accusato di «aver biasimato l’aristocratico e monarchico governo lodando soltanto la democrazia» (F.M. Pagano, Lettera a’ dottissimi signori, in Id., Saggi politici. Luoghi e varianti della prima edizione (1783-1785) rispetto alla seconda (1791-1792) e altri scritti etico-politici, a cura di L. Salvetti Firpo, 2004, p. 28). In effetti, la sua teoria dei regimi politici, nelle pieghe di una tipologia sistematica, calata nel movimento di una fenomenologia storica, racchiudeva un’assiologia spiccatamente repubblicana, ispirata a modelli classici e innervata di tensioni palingenetiche. Degradando la monarchia all’immagine di un regime spoglio di ogni carattere attrattivo, Pagano celebrava la repubblica democratica come dimensione politica dell’emancipazione umana: come spazio libero del vivere civile, secondo giustizia, virtù e conoscenza.
Anche la sua dottrina del diritto pubblico – imperniata sul nesso tra difesa della libertà civile e limitazione giuridica del potere – manifesta inclinazioni politiche nettamente eterodosse. Nella seconda («accresciuta») edizione dei Saggi, il monopolio monarchico della sovranità è obliquamente contestato attraverso la rivendicazione della titolarità dei diritti politici in capo a tutti i cittadini di condizione sociale e culturale adeguata alla gestione della cosa pubblica. Sotto l’evidente suggestione delle rivoluzioni contemporanee, Pagano afferma inoltre la necessità della codificazione costituzionale, per assicurare i diritti degli individui e disciplinare i poteri dello Stato. In tale prospettiva garantista, affronta infine il problema dell’effettiva normatività di una legge fondamentale così concepita, delineando la fisionomia di una nuova istituzione: un «tribunale supremo», eretto a «baluardo della costituzione», incaricato di sorvegliare la «linea, che non debbon oltrepassar coloro che esercitano le sovrane funzioni» (F.M. Pagano, Saggi politici. De’ principi, progressi e decadenza delle società (1791-1792), a cura di L. Firpo, L. Salvetti Firpo, 1993, pp. 356-57).
Forte di queste credenziali ideologiche, appena istituita a Napoli la Repubblica, Pagano fu cooptato nel governo provvisorio, come membro del Comitato di legislazione delegato a «prepara[re] la Costituzione, e le leggi riguardanti l’abolizione di tutt’i dritti, e di tutti gli usi contrari a’ principi della Libertà e del Governo democratico» (Leggi, atti, proclami, cit., p. 341). Da legislatore repubblicano, egli intervenne subito nel dibattito sull’abolizione dei fedecommessi, affermando il principio di uguaglianza tra primogenito e figli cadetti come canone del diritto ereditario. Nella successiva, lacerante discussione sulla legge feudale, si distinse tanto dal fronte oltranzista dei radicali quanto dalle posizioni prudenti dei moderati, proponendo, da un lato, di abolire tutti i diritti personali, proibitivi, fiscali e giurisdizionali connessi al feudo, dall’altro, di verificare caso per caso la titolarità dei diritti patrimoniali sulle terre infeudate.
Su entrambe queste materie le soluzioni legislative prospettate da Pagano risultarono minoritarie. Diversamente, egli riuscì a influenzare – in virtù della sua autorevolezza di giurista – la legge sull’abolizione della tortura e sulle prove nel processo criminale e la legge sull’organizzazione del potere giudiziario, nelle quali trovarono positivizzazione molte delle proposte riformatrici d’indirizzo garantistico propugnate nelle sue opere giuspenalistiche.
Il documento più rilevante della sua attività di legislatore è comunque il Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione nell’aprile del 1799. Pur modellato sulla carta francese dell’anno III, il testo approntato da Pagano, con i colleghi del Comitato, rivela un’autonoma ispirazione costituzionalistica. La sua peculiare identità politica si delinea attraverso le variazioni normative e le innovazioni istituzionali, integrate dalla «Dichiarazione dei diritti e dei doveri», dalle norme sulla «educazione pubblica», dall’introduzione del «tribunale di censura» e, soprattutto, dal titolo XIII relativo a «La custodia della Costituzione».
La più egregia cosa che trovasi nelle moderne costituzioni è la dichiarazione de’ dritti dell’uomo. Manca alle legislazioni antiche questa solida ed immutabile base. Noi giovati ci siamo della dichiarazione che porta in fronte la costituzione francese. Ma ci siamo pure avvisati che l’uguaglianza non sia già un dritto dell’uomo, secondo l’anzidetta dichiarazione, ma la base soltanto de’ dritti tutti ed il principio sul quale vengono stabiliti e fondati. L’uguaglianza è un rapporto e i dritti sono facoltà. […] Da tal rapporto di uguaglianza di natura avvi che tra gli uomini deriva l’esistenza e l’uguaglianza de’ dritti (Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, a cura di F. Morelli, A. Trampus, 2008, p. 122).
Muoveva da questo rilievo filosofico-giuridico, collocato nell’esordio della relazione di Pagano sul Progetto di Costituzione, la giustificazione e l’illustrazione dei «cangiamenti» proposti al «disame» dei «cittadini rappresentanti» del Governo provvisorio. Nella prospettiva paganiana, i diritti umani, costituendo il fine dell’associazione politica e il confine del potere pubblico, erano presi sul serio quali norme giuridiche fondamentali e inviolabili. La loro positivizzazione costituzionale rappresentava dunque un momento cruciale nell’edificazione dell’ordinamento repubblicano e non poteva ridursi alla recezione di un documento normativo giudicato imperfetto.
La «Dichiarazione» progettata da Pagano ha un’articolazione più complessa rispetto a quella francese. Alla distinta elencazione dei diritti e dei doveri, aggiunge infatti un’ulteriore suddivisione basata sul criterio soggettivo della titolarità dei primi e dell’imputazione dei secondi. Il testo si presenta quindi ripartito in sei rubriche, anziché due: «Dritti dell’uomo», «Dritti del cittadino», «Dritti del popolo», «Doveri dell’uomo», «Doveri del cittadino», «Doveri de’ pubblici funzionari». Ordinati in questa struttura (che sembra sviluppare l’impostazione del Progetto di Costituzione per il Popolo Ligure), compaiono vari articoli impregnati di un contenuto ideologico estraneo allo spirito della «Dichiarazione» termidoriana.
Il catalogo dei diritti dell’uomo traduce in disposizioni normative le idee espresse da Pagano nei Saggi, fondando l’ordine costituzionale sul diritto di ogni individuo alla conservazione e al miglioramento di «tutte le sue facoltà fisiche e morali» (art. 2). Da questo postulato giuridico sono poi dedotti i diritti di libertà e quello di proprietà privata, la cui giustificazione è individuata nel lavoro individuale: «l’uomo che impiega le sue facoltà nella terra, la rende propria», stabilisce l’art. 8, riflettendo la riformulazione radicale della teoria di Locke, diffusa nella filosofia dei lumi e condivisa da Pagano.
Il diritto di resistenza, consacrato dai rivoluzionari del 1789 e del 1793, ma rigettato dai costituenti francesi dell’anno III, è riaffermato, nella «Dichiarazione» napoletana, quale «baluardo di tutti i diritti» (art. 15). Pagano – consapevole della sua problematica dimensione giuridica – tenta di fissarne il contenuto e le condizioni di esercizio:
Come […] segnare quel giusto punto tra la passiva pazienza, base del dispotismo, e l’anarchica insorgenza? Abbiamo creduto dar la risoluzione di questo interessante problema, fissando che ogni cittadino abbia il diritto d’insorgere contro le autorità ereditarie e perpetue, tiranniche sempre: ma che il popolo tutto possa solamente insorgere contro gli abusivi esercizi de’ poteri costituzionali (Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, cit., p. 124).
La «Dichiarazione» paganiana si mostra indipendente da quella termidoriana anche negli artt. 18, 19 e 20. Il primo assegna a «ogni uomo» il dovere di «soccorrere gli altri uomini, e sforzarsi di conservare e migliorare l’essere de’ suoi simili». Il secondo ne costituisce una specificazione imponendo «il sacro dovere dell’uomo di alimentare i bisognosi» (art. 19). Insieme rappresentano la costituzionalizzazione di quel dovere di solidarietà sociale che aveva trovato la sua prima espressione giuridica nella dichiarazione dei diritti giacobina del 1793. Tuttavia, mentre quest’ultima imputava alla «società» l’obbligo di provvedere alla sussistenza dei «cittadini sfortunati, sia procurando loro un lavoro, sia assicurando i mezzi di sostentamento a coloro che non sono in condizioni di lavorare» (art. 21) (Les Constitutions de la France, a cura di Ch. Debbasch, J.M. Pontier, 1989, p. 46), le disposizioni previste da Pagano si limitavano ad attrarre la filantropia nella sfera dei doveri giuridici soggettivi, senza prefigurare la dimensione deontica dei diritti sociali.
Lo stesso slittamento dalle obbligazioni del corpo sociale verso i cittadini a quelle reciproche tra i singoli individui si registra nell’art. 20 della «Dichiarazione» napoletana rispetto all’art. 22 di quella giacobina. Laddove questa, riconoscendo l’istruzione come «bisogno di tutti», ascriveva alla «società» il dovere di «favorire con tutto il suo potere i progressi della ragione pubblica, e di mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini», il testo redatto da Pagano imputava a «ogni uomo» il dovere «d’illuminare e d’istruire gli altri» (art. 20).
Pur non configurandosi nell’articolato della «Dichiarazione» come diritto soggettivo, l’istruzione assurgeva tuttavia al livello di una questione costituzionale di primaria importanza. Fatta la Repubblica, bisognava fare i repubblicani; ovvero, formare cittadini dediti alla patria, amanti dell’uguaglianza, coscienti del bene comune. Così, trapassando nel Progetto napoletano, il titolo X sull’«Istruzione pubblica» della costituzione termidoriana mutava in modo considerevole: aumentavano gli articoli (da 6 a 27), cambiava l’intitolazione («Della educazione ed istruzione pubblica»), compariva una nuova rubrica («Della censura»). A differenza che in Francia, lo Stato non si limitava a dotarsi di istituzioni scolastiche e scientifiche: si prefiggeva lo scopo di plasmare la personalità morale e la coscienza politica dei suoi membri.
Nella visione di Pagano e dei patrioti napoletani, la costruzione del nuovo ordine politico non poteva che passare per l’edificazione e la condivisione di un’etica repubblicana centrata sulla pratica delle virtù civili. Il modello costituzionale francese, sotto questo profilo, appariva deficitario, poiché contemplava il problema dell’istruzione soltanto nella sua «parte intellettuale» e non in quella «morale». Occorreva invece seguire l’esempio «degli antichi» e stabilire i «principi delle leggi» relative all’«educazione» come «parte integrale della Costituzione» (Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, cit., p. 127). Per questo, il Progetto paganiano non solo prevedeva l’istituzione di «teatri repubblicani» come strumenti di promozione dello «spirito di libertà» (art. 299) e di «feste nazionali» destinate a «eccitare le virtù repubblicane» (art. 300), ma spingeva il diritto pubblico nell’ambito privato dell’educazione familiare, al fine di omologarla all’indirizzo pedagogico dello Stato: l’art. 293 stabiliva infatti che «l’educazione fisica, morale ed intellettuale privata, che debbono i padri di famiglia dare a’ loro figliuoli fino all’età di sette anni, è prescritta dalla legge».
Acquisiva rilievo costituzionale anche la funzione etico-pedagogica del «catechismo repubblicano». L’art. 301 sulle scuole primarie prescriveva che i «giovanetti» dovessero apprendere «a leggere, a scrivere, e gli elementi dell’aritmetica, ed il catechismo repubblicano». L’art. 298 decretava che «in ogni giorno festivo» i bambini «maggiori di sette anni» dovessero intervenire «ne’ luoghi dalla legge stabiliti a sentire la spiega del catechismo repubblicano». In base, poi, al dettato dell’art. 13, la conoscenza del catechismo repubblicano assumeva il rango di requisito di accesso ai diritti di cittadinanza: «non possono i giovani essere ascritti sul registro civico, se non provano di saper leggere, scrivere, esercitare un mestiere, e render conto del catechismo repubblicano».
Ad avviso di Pagano, dunque, chi non dava prova di essere un buon repubblicano non doveva essere ammesso alla vita politica della Repubblica: coerentemente con questa convinzione, l’art. 12 della «Dichiarazione» prevedeva che «il dritto di eleggere e di essere eletto» spettasse ai soli cittadini dotati delle «qualità morali richieste dalla legge». Correlativamente, chi dava prova di non essere un buon repubblicano, doveva essere escluso dalla vita politica della Repubblica. È in questo orizzonte ideologico e normativo che si colloca l’istituzione del «tribunale di censura», investito del potere di castigare, proprio con la sospensione dall’esercizio dei diritti elettorali, «coloro che non vivessero democraticamente» (p. 127), ovvero i refrattari alla pedagogia della virtù. Spiegava Pagano nella sua relazione:
Ad imitazione delle antiche repubbliche abbiamo richiamata la censura alle sue nobili funzioni di emendare i costumi, correggendo i vizj. […] Una vita soverchiamente voluttuosa, una sregolata condotta tenuta nel governo della propria famiglia, costumi superbi ed insolenti mal si confanno col vivere democratico e scavano insensibilmente una voragine nella quale presto o tardi corre a precipitarsi la libertà. La censura […] deve vegliare sulla privata e pubblica educazione. La pubblica morale, tanto coltivata dagli antichi quanto negletta dai moderni, le istituzioni repubblicane esser debbono il principale oggetto delle sue cure (p. 127).
Nella Censura trovava coronamento il progetto costituzionale di pedagogia politica disegnato da Pagano. Lo Stato imponeva ai suoi membri un determinato stile di vita, penalizzando gli atteggiamenti devianti. I principi morali del repubblicanesimo, provvisti di una garanzia giurisdizionale, acquisivano forza cogente. La rivoluzione politica si dotava degli strumenti giuridici per realizzare una rigenerazione etica. Una rigenerazione che, considerata necessaria per la vita della repubblica, diventava obbligatoria per i cittadini repubblicani.
Nel giudizio storiografico sul Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana si possono registrare due tendenze conflittuali. Su un fronte, si attestano gli studiosi che ne sottolineano la dimensione etico-statalistica e l’estraneità all’orizzonte democratico aperto dalla Rivoluzione francese; sul fronte opposto, si trovano coloro che ne valorizzano la dimensione garantistica e l’estraneità alla visione legicentrica prevalsa nell’esperienza costituzionale d’oltralpe. Se la valutazione dei primi trova motivazione nei profili classicheggianti del repubblicanesimo di Pagano, che propone l’imitazione delle istituzioni politiche e dei costumi morali degli antichi, compresa quell’istituzione guardiana dei costumi che è la Censura, l’attenzione dei secondi è invece attratta dal titolo XIII su «La custodia della Costituzione», dove l’alterità del Progetto napoletano rispetto al modello francese si manifesta in tutto il suo rilievo.
È indubbio, in effetti, che «lì stavano il suggello definitivo e la cifra autentica di un modo completamente differente di intendere il costituzionalismo» (Ferrone 2003, p. 240), che – derivando dalla concezione giusnaturalistica dei diritti umani come norme anteriori e superiori al diritto positivo – si scontrava con il dogma rivoluzionario del primato della legge come espressione della volontà generale. Se la «Dichiarazione dei diritti», secondo quanto affermato da Pagano nella sua relazione, costituiva la «base immutabile» dell’ordinamento giuridico, la sovranità del popolo non poteva che essere limitata, nel suo esercizio legittimo, alla produzione di «leggi conformi alla costituzione».
Questa locuzione compare nell’enunciato normativo dell’art. 14 della «Dichiarazione», dietro cui è chiaramente riconoscibile l’idea della superiorità vincolante delle norme costituzionali rispetto alla legge ordinaria. Per assicurare tale superiorità, Pagano recuperava, nell’organizzazione dei poteri del suo progetto costituzionale, la proposta garantista avanzata nella seconda edizione dei Saggi politici, definendo la struttura e le funzioni di un «tribunale supremo» posto a «custodia della costituzione e della libertà»: il «corpo degli Efori» (Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, cit., p. 129).
Il problema della garanzia della costituzione era già emerso nei dibattiti che avevano segnato il rinnovamento istituzionale nelle esperienze rivoluzionarie degli Stati Uniti e della Francia. La consapevolezza – minoritaria – che l’effettivo vigore di una costituzione scritta necessitasse di una tecnica istituzionale di controllo del rispetto delle disposizioni e dei principi in essa stabiliti, aveva trovato espressione in progetti e norme costituzionali sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Nel 1795 Joseph-Emmanuel Sieyès, manifestando un radicale scetticismo circa la spontanea e leale osservanza, da parte dei poteri pubblici, dei limiti fissati dalla costituzione, aveva proposto alla Convenzione l’istituzione di un organo destinato a vigilare sul «deposito costituzionale», in modo da garantirne la salvaguardia. «Una costituzione – aveva osservato – o è un corpo di leggi obbligatorie, o non è niente. Se si tratta di un corpo di leggi, ci si domanda dove sarà il custode, dove sarà la magistratura di un tale codice?» (J.-E. Sieyès, Opinione sulle attribuzioni e l’organizzazione del giurì costituzionale [1795], in Id., Opere e testimonianze politiche, 1° vol., a cura di G. Troisi Spagnoli, 1993, p. 814).
Circa vent’anni prima, il problema sollevato da Sieyès era stato affrontato dai costituenti della Pennsylvania, che erano giunti a elaborare un’originale soluzione istituzionale, apprezzata da molti repubblicani del vecchio continente. «Affinché la libertà della repubblica» potesse essere «per sempre inviolabilmente conservata», essi avevano istituito una corte, denominata «consiglio dei censori», eletta ogni sette anni con mandato di un solo anno e investita di una pluralità di funzioni, tra le quali: «esaminare se la costituzione» fosse stata «conservata in tutte le sue parti senza la menoma infrazione»; controllare «se i corpi incaricati del potere legislativo ed esecutivo» avessero adempiuto «alle loro funzioni come guardiani del popolo, o se» si fossero arrogati e avessero esercitato «altri o maggiori diritti di quelli loro accordati dalla costituzione»; «raccomandare al corpo legislativo l’abrogazione delle leggi» contrarie «alla costituzione»; promuovere il processo di revisione costituzionale nel caso avesse ravvisato la «necessità assoluta di correggere qualche articolo difettoso della costituzione, spiegarne alcuno non espresso chiaramente o aggiungerne che fossero necessari alla conservazione della prosperità e dei diritti del popolo» (art. 47 cost. Pennsylvania [1776], Raccolta di tutte le Costituzioni antiche e moderne, 2° vol., 1848, pp. 144-45).
I principali elementi della fisionomia funzionale del consiglio dei censori sono adottati nel Progetto di Pagano e riplasmati nella modellatura del corpo degli Efori, concepito come istituzione di garanzia della costituzione e dell’equilibrio dei poteri. Spiega Pagano nella relazione al Governo provvisorio:
Esso farà rientrare il potere esecutivo nella sua linea ove l’abbia oltrepassata. Esso opporrà un veto al Corpo legislativo, se in qualche caso usurpi l’esecuzione; e nel tempo stesso richiamerà l’uno e l’altro corpo, quando faccia mestieri, all’adempimento de proprii doveri, riparando insieme agli eccessi di commissione ed a’ difetti di omissione. […] Ma perché sia baluardo di libertà e non già seme d’arbitrario potere, ei conviene, che sia spogliato d’ogni altra funzione legislativa, esecutiva e giudiziaria, perché non abbia interesse alcuno d’inceppare le altrui funzioni per estendere le proprie. […] Egli è stato mestieri limitare i poteri di questo imponente collegio il più che fosse possibile (Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, cit., pp. 129-30).
Il progetto paganiano prevedeva che il corpo degli Efori fosse composto da 17 membri – tanti quanti i dipartimenti della Repubblica – eletti ogni anno dai cittadini riuniti nelle assemblee elettorali. L’elettorato passivo spettava agli ex componenti degli organi del potere legislativo ed esecutivo, di età superiore ai 45 anni, sposati o vedovi, domiciliati nel territorio della Repubblica nel decennio precedente all’elezione. Era espressamente stabilita l’incompatibilità della carica di eforo con l’esercizio di qualsiasi altra funzione pubblica. L’art. 368 del Progetto attribuiva al tribunale le seguenti competenze:
1. Di esaminare se la costituzione è stata conservata in tutte le sue parti. 2. Se i poteri hanno osservato i loro limiti costituzionali, oltrepassando o trascurando ciòcche la costituzione stabilisce. 3. Di richiamare ciascun potere ne’ limiti e doveri rispettivi, cassando ed annullando gli atti di quel potere che li avesse esercitati oltre le funzioni attribuitegli dalla costituzione. 4. Di proporre al Senato la revisione di qualche articolo della Costituzione, se per esperienza non si trovasse conveniente. 5. Di rappresentare al corpo legislativo l’abrogazione di quelle leggi che sono opposte ai principii della costituzione.
Paragonato al consiglio dei censori della costituzione della Pennsylvania, il corpo degli Efori progettato da Pagano risulta dotato di funzioni più incisive. Oltre a dare impulso al processo di revisione costituzionale, a esercitare un controllo sui poteri costituiti, a proporre l’abrogazione delle leggi in contrasto con la costituzione, poteva procedere all’annullamento degli atti contrari alla costituzione con decreto sovrano. L’art. 373 tipizzava la formula del decreto in termini assai significativi: «la costituzione riprova ed annulla l’atto del potere ecc.». I decreti degli Efori costringevano i rappresentanti dei poteri pubblici a «uniformarvisi» (art. 374) e gli atti da essi annullati perdevano ogni forza obbligante nei confronti dei cittadini.
Dal novero degli atti annullabili – alla luce di quanto disposto dal punto 5 dell’art. 368 – sembrerebbero escluse le leggi. Tuttavia, le intenzioni normative di Pagano non sono agevolmente decifrabili. Il testo costituzionale e la relazione che lo illustra autorizzano almeno un’altra ipotesi interpretativa, in base alla quale, mentre il contrasto tra leggi e norme costituzionali non poteva essere risolto dagli Efori, che dovevano limitarsi a segnalare al Corpo legislativo la legge incostituzionale senza poterla annullare, nel caso di conflitto tra poteri la potestà di annullamento era esercitabile contro tutti gli atti lesivi dell’equilibrio costituzionale, comprese le leggi, allorché il potere legislativo travalicava i propri limiti invadendo il campo del potere esecutivo.
Come che sia di ciò, le funzioni del tribunale costituzionale ideato da Pagano restano rilevantissime e consentono di misurare tutta l’originalità del suo Progetto. Sotto questo riguardo va rimarcata la duplice dimensione del sindacato ispettivo attribuito agli Efori, i quali erano abilitati a richiamare all’osservanza delle norme costituzionali gli organi dello Stato che avessero «oltrepassa[to]» o «trascura[to] ciòcche la costituzione stabili[va]» (art. 368.2). Per Pagano, infatti, il dettato costituzionale andava garantito nel suo pieno valore giuridico, «riparando» non solo a «gli eccessi di commissione» ma altresì a «i difetti di omissione» (Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, cit., p. 129). Si tratta di un’impostazione del tutto innovativa del controllo di costituzionalità degli atti dei poteri costituiti, nella quale si rispecchia un’esigente concezione della costituzione quale legge fondamentale, la cui funzione non si esaurisce nell’istituzione e nella limitazione del potere: «ella deve contenere i germi dell’intera legislazione e deve rassomigliare il tronco dell’albero, da cui sbucciano i rami che sono segnati nei suoi nodi» (p. 127).
Il Progetto paganiano intendeva così stabilire un organo di garanzia corrispondente all’esigenza di assicurare la natura precettiva e l’effettività delle norme costituzionali nella concreta vita dell’ordinamento giuridico e politico. Nella Napoli del 1799, tuttavia, la vita dell’ordinamento repubblicano fu assai breve e la costituzione progettata da Pagano non fece in tempo neppure ad affacciarsi al mondo del diritto positivo. Ebbe però un futuro il suo nucleo filosofico-politico: l’idea di una legge sulle leggi, finalizzata alla garanzia dei diritti e protetta dalla «naturale tendenza di ogni potere all’ingrandimento» (p. 129). Una concezione forte dello Stato costituzionale che solo nel secondo Novecento troverà in Italia la sua realizzazione.
Saggi politici. Luoghi e varianti della prima edizione (1783-1785) rispetto alla seconda (1791-1792) e altri scritti etico-politici, a cura di L. Salvetti Firpo, Napoli 2004.
Considerazioni sul processo criminale (1787), a cura di F.M. Paladini, Venezia 2009.
Saggi politici. De’ principi, progressi e decadenza delle società. Edizione seconda, corretta e accresciuta (1791-1792), a cura di L. Firpo, L. Salvetti Firpo, Napoli 1993.
Sulle costituzioni repubblicane dell'Italia del triennio francese:
C. Ghisalberti, Le costituzioni «giacobine» (1796-1799), Milano 1957.
Le Costituzioni italiane, a cura di A. Aquarone, M. d’Addio, G. Negri, Milano 1958.
M. Da Passano, Il processo di costituzionalizzazione nella Repubblica ligure (1797-1799), «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1973, 1, pp. 79-260.
A. Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi, Roma-Bari 2009.
Sul progetto costituzionale della Repubblica napoletana:
M. Battaglini, Mario Pagano e il Progetto di costituzione della Repubblica napoletana, Roma 1994.
V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari 2003.
Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione, a cura di F. Morelli, A. Trampus, Venezia 2008.
D. Ippolito, La costituzione napoletana del 1799 e la dimensione etica della cittadinanza repubblicana, «Clio», 2010, 4, pp. 629-48.
Su Francesco Mario Pagano:
F. Venturi, Francesco Mario Pagano. Nota introduttiva, in Illuministi italiani, t. 5, Riformatori napoletani, Milano-Napoli 1962, pp. 783-833.
G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Torino 1963.
D. Ippolito, Mario Pagano. Il pensiero giuspolitico di un illuminista, Torino 2008.