PROGETTO.
– Il progetto architettonico nel 21° secolo. La presentificazione assoluta. Il primato della tecnica. La pervasività dei media. Gli specialismi. L’architettura come arte figurativa e l’influenza della moda. Ripensare l’architettura. Bibliografia
Il progetto architettonico nel 21° secolo. – La cultura del p. architettonico e urbano sta vivendo da qualche anno una situazione singolare in cui una grande articolazione tematica, risolta in un’accentuata proliferazione di tendenze disciplinari fortemente distinte, se non proprio opposte, non esclude il loro convergere in orientamenti riconosciuti come prevalenti. In breve, il panorama dell’architettura appare per un verso erratico, dispersivo, alla ricerca di punti di vista che si vorrebbero sicuri mentre sono invece caratterizzati da visioni soggettive e transitorie; per l’altro si configura come un sistema di posizioni sostanzialmente omologate.
Si tratta quindi di una situazione sempre più complessa e contraddittoria – per usare due aggettivi resi da Robert Venturi quasi obbligatori per definire l’architettura – che è all’origine di reazioni diverse. Alcuni storici, critici e architetti contrastano questa situazione in quanto vedono in essa la fine di un autentico pensiero teorico capace di fondare il p. su principi dotati di un’apprezzabile oggettività e di una consistente durata; molti altri addetti ai lavori leggono invece questo fenomeno dalla duplice natura come l’occasione di scoprire nuovi orizzonti problematici nonché, l’opportunità di produrre importanti innovazioni linguistiche, tecniche e comunicative. Esiste infine un territorio intermedio nel quale si cercano motivazioni ragionate su ciò che si progetta nel momento stesso in cui si introducono nella scrittura architettonica elementi casuali, diversioni improvvise, innesti analogici.
Per procedere in questa analisi, che per necessità sarà labirintica e a volte ripetitiva, occorre fare un piccolo passo indietro. A partire dal 1989, l’anno del crollo del Muro di Berlino, alcuni fattori tra loro indipendenti sono intervenuti nella cultura di p. con esiti sempre più determinanti. La globalizzazione; la concentrazione nelle città, nelle metropoli e nelle megalopoli della maggioranza degli abitanti del pianeta; la rivoluzione digitale; la questione ambientale; l’idea del corpo umano come una realtà mutante, che ha per inciso fatto nascere la categoria del postumano, sono i principali tra questi fattori. Il loro intrecciarsi ha moltiplicato l’effetto da essi prodotto sulla progettazione, creando quella situazione duplice, peraltro in rapida evoluzione, che è stata appena sintetizzata nei suoi tratti essenziali. Una situazione che si proietta a sua volta su una profonda trasformazione avvenuta nell’architettura alla fine del secolo scorso.
Per tutto il Novecento la dialettica tra la forma e l’informalità aveva dominato la ricerca. Alla volontà di rappresentare l’istituzione attraverso espressioni che si collocavano in una continuità, seppure contrastata, con la memoria dell’arte del costruire, nell’intenzione di definire segni architettonici organici e duraturi – si pensi, tra le tante, alle opere di Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Louis Kahn, Oswald Mathias Ungers, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Paolo Portoghesi – si contrapponevano composizioni ispirate a un dinamismo plastico animato da compenetrazioni spaziali, da slittamenti assiali, da destabilizzazioni volumetriche. Il tutto in un immediato vitalismo che dissolveva la forma in una serie frammentaria di episodi autonomi. Anche in questa seconda linea permaneva comunque un residuo significativo della forma, sebbene questa fosse intesa come un’antipolarità rispetto alla prestabilita accidentalità della composizione. Nel passaggio dal Novecento al nuovo millennio l’architettura ha quasi improvvisamente abbandonato questa dialettica tra completezza e incompletezza, tra chiusura e apertura, tra finitezza e processualità scegliendo di secolarizzarsi del tutto. In una completa adesione all‘imprevedibile fenomenologia del reale essa ha deciso infatti di non rappresentare più l’istituzione, considerando questo obiettivo arretrato, statico e accademico, configurandosi come l’esito di un pensiero architettonico che in un relativismo totalizzante, coinvolto in dialogo incessante e velocizzato con i flussi energetici che attraversano il territorio e la città, intende intercettare l’istante, l’effimero e il metamorfico. In questo modo, categorie come la tipologia e la morfologia sono state ritenute definitivamente superate a favore di una progettualità entusiasticamente dedita alla riaffermazione di tematiche che vanno da un funzionalismo ingenuo, riprendendo una valutazione di Aldo Rossi, alla riscoperta di un immaginario naturalistico tratto dagli sterminati archivi immateriali della rete. Questa deriva incidentale, interscambiabile e superficialmente situazionista ha comunque trovato recentemente un argine efficace nell’emergere, all’interno del dibattito architettonico, del ‘nuovo realismo’, teorizzato, dal filosofo Maurizio Ferraris come alternativa alla dissipazione autoreferenziale causata dal tardo postmodernismo.
La presentificazione assoluta. – La situazione attuale della cultura di p. è contraddistinta da una serie di primati, vale a dire di nuclei argomentativi che polarizzano in modo monopolistico la discussione sull’architettura e sul suo ruolo. Il primo di questi è la prevalenza indiscussa e invasiva del presente. Solo ciò che avviene nella più stringente attualità sembra avere un senso. Il passato e il futuro sono esclusi a causa di un’idea del tempo che vuole annullarsi nel vissuto immediato a danno sia della profondità storica, sia della coscienza di ciò che è stato, sia, ancora, di ciò che si pensa possa avvenire. Questa presentificazione assoluta impedisce quella distanza critica rispetto alla realtà che giustamente compare come una necessità primaria nelle riflessioni teoriche di Vittorio Gregotti. Pensarsi solo nell’oggi, immergendosi nell’infinito numero di sollecitazioni che agiscono su ciascun individuo nella società di massa comporta la perdita di sé come soggetto in grado di agire consapevolmente. Un soggetto condizionato nel suo rapporto con il mondo, nelle sue scelte, nelle sue possibilità non solo di portare a termine i propri progetti di vita, ma soprattutto di conoscerli.
La prevalenza del presente nella sua accentuazione estrema non ha molto a che fare con il contemporaneo. Un concetto, per inciso, quanto mai ambivalente, significando infatti ciò che avviene all’interno della consapevolezza diretta che sta avvenendo, e insieme il mutamento intercettato nell’oggi di sistemi di pensiero che precedono e seguono il momento che si sta vivendo. È proprio l’estrema ed esclusiva evidenza del presente che nega il contemporaneo assumendo la fisionomia negativa della sospensione del tempo, un vuoto in cui nulla di veramente reale sembra accadere.
Il primato della tecnica. – Il secondo primato è quello della tecnica, a proposito della quale bisognerebbe parlare di una vera e propria dittatura. Il Novecento è stato il secolo nel quale il sapere tecnico ha assunto una rilevanza assoluta, che si è manifestata in tutte le sue risorse, a volte terribili nei loro effetti, nei due conflitti mondiali, nella scienza, nella trasformazione dei paesaggi e delle città, facendo sì che questo potere non fosse più uno strumento a servizio delle esigenze umane, ma diventasse fine a se stesso, un’entità dalla crescita incontrollata e inarrestabile. Trasformandosi in tecnologia, ovvero in un plusvalore discorsivo, la tecnica ha cercato di assimilare ogni altro aspetto dell’operatività umana. Essa è infatti un insieme di pratiche che consentono di realizzare interventi infrastrutturali, progetti architettonici, manufatti di ogni genere, mentre la tecnologia è l’ideologizzazione di tali pratiche. Ovviamente la tecnica ha anche molti aspetti positivi, che hanno senz’altro permesso di migliorare l’abitare umano in tutte le sue espressioni, ma è indubbio che il suo trasformarsi in tecnologia rivela la presenza in essa di una volontà dominante che nega, per es., la memoria del fare a vantaggio di un nuovo considerato senza alcun dubbio sempre più avanzato e necessario di ciò che è già conosciuto.
La pervasività dei media. – Il terzo primato riguarda i media, divenuti una sorta di paradigma primario chiamato a orientare in tutte le sue manifestazioni sia la vita individuale sia quella sociale. Essi si configurano oggi come una presenza talmente pervasiva e così vasta da porsi come un universo autonomo, dotato di una propria volontà di esistere e di evolvere. Non a caso è lo stesso funzionamento del sistema mediatico che finisce con il produrre un’amplificazione e una valorizzazione della realtà generando un fenomeno che ha come principale conseguenza la falsificazione di ciò che esiste e avviene.
Negli ultimi decenni l’architettura ha scelto di appartenere ai media. Nella sua storia essa è stata anche comunicazione – si pensi, per es., all’architettura barocca –, ma non si era mai prima d’ora identificata totalmente con questa funzione. Il suo essere spazio, struttura, decorazione, organismo, elemento di definizione di un luogo, segno nel paesaggio prevalevano sempre sugli aspetti referenziali, seppure questi fossero importanti. Attualmente invece in tutte le metropoli e le megalopoli l’architettura è pubblicità, spettacolo, messaggio, celebrazione dell’ebbrezza consumistica e del dominio incontrastato della finanza. Pressoché tutti gli edifici che possono essere identificati come espressioni della globalizzazione, quasi esistesse già uno stile architettonico relativo a questa nuova condizione del pianeta, sono concepiti non tanto come oggetti fisici, ma come altrettanti loro simulacri da inviare al circuito mondiale dei media come emblemi di una nuova, ma ingannevole, età dell’oro.
Gli specialismi. – Il quarto primato è quello degli specialismi. Il sistema dei saperi parziali ha in effetti riportato una vittoria totale e apparentemente definitiva sul pensiero generale o, come si preferisce dire oggi, generalista, vale a dire rivolto alla comprensione di ciò che tiene assieme in un’unità, seppure conflittuale e temporanea, le componenti conoscitive, creative e operative di qualsiasi impresa umana. Da questo punto di vista non esiste più l’architettura come qualcosa alla cui definizione partecipano alcuni suoi aspetti parziali, alimentati da una corrispondenza durevole con l’idea di un’organicità strutturale e formale dell’edificio. Ribaltando questa concezione storica si tende a ritenere da qualche tempo che l’architettura sia l’esito spesso imprevedibile di un’interazione tra saperi specialistici che agiscono separatamente, sommando meccanicamente i loro contributi in un processo faticoso di montaggio non governato da un principio ordinatore. Quel principio la cui formulazione era tradizionalmente affidata all’architetto.
Il primato degli specialismi non può essere ovviamente superato direttamente, perché esso è il risultato di una mutazione genetica della gerarchia dei saperi. Ciò che appare invece possibile è risalire a una visione generalista a partire dagli specialismi, invertendo quel precedente percorso che da una visione già in se stessa compiuta perveniva gradualmente a conoscenze settoriali. Sono molti oggi i tentativi di giustificare questa frammentazione della conoscenza, ritenendola il luogo ideale per una riformulazione del processo progettuale, in particolare alla luce della teoria della complessità. Si tratta di tentativi senz’altro di un certo interesse, ma che rivelano un limite consistente nel fatto di non considerare l’opera architettonica come qualcosa di unitario che può raggiungere tale qualità solo da un suo inizio anch’esso completo e definitivo, ovvero da un principio autoriale.
L’architettura come arte figurativa e l’influenza della moda. – Il quinto primato che oggi contribuisce assieme agli altri quattro a configurare il «territorio dell’architettura», usando un’espressione di Vittorio Gregotti, è quello dell’arte e della moda. Anche l’architettura è un’arte, ma un’arte particolare la quale, rispetto alla pittura, alla scultura, all’installazione, alla performance e alle tante forme che la ricerca figurativa ha proposto negli ultimi decenni, si pensa e si realizza prima di tutto per ospitare una funzione. Questa necessità non è però un limite, ma qualcosa che orienta e finalizza la sostanza artistica dell’architettura, non diminuendo la libertà creativa di chi la progetta, ma al contrario esaltandola contribuendo alla sua tematizzazione.
Attraverso la programmatica eliminazione della componente fondamentale della funzione, si è diffusa recentemente la convinzione che l’architettura sia un’arte figurativa e non una costruzione che possiede valori estetici propri. Dimenticando che per Walter Benjamin l’architettura si vive all’interno di una percezione distratta, ma anche tralasciando un dato strutturale che la caratterizza, cioè il suo doversi conformare a generi riconoscibili, dove cercare la propria espressione in una tessitura semantica più interna e indiretta, si pretende da essa la stessa assolutezza iconica che si chiede a un quadro, a una scultura o a un’istallazione. Agli effetti negativi di questa assimilazione si sommano quelli che derivano dal fatto che l’architettura ha incorporato motivi e atteggiamenti tipici della moda. Questa deve registrare i cambiamenti, anche quelli minimi, che si verificano nell’ambito del gusto, mentre per l’architettura questa esigenza non si pone, o almeno non ha la stessa importanza. L’architettura si oppone infatti allo scorrere del tempo eliminando da sé tutto ciò che la legherebbe troppo a una determinata stagione storica. Un’architettura barocca non può non portare i segni dell’epoca in cui è stata costruita; al contempo deve però trascenderli se vuole non solo che il suo significato sia duraturo, ma che abbia anche un valore universale.
I cinque primati che sono stati sinteticamente esposti nei paragrafi precedenti moltiplicano la loro influenza sull’architettura attuale a causa della presenza di tre condizioni che la accompagnano, per così dire, in parallelo. La prima è una critica al p. moderno ritenuto troppo dogmatico, costrittivo e totalizzante. Si tratta di una critica che si è configurata come un vero e proprio rifiuto. L’alternativa agli aspetti rigidi e autoritari del p. moderno si è delineata come una strategia di compromesso settoriale e di livello intermedio, per la quale il costruire non deve cercare più espressioni forti e durature, ma risolversi in formulazioni deboli, per più versi effimere, accordate totalmente con il contesto. Inteso però, tale contesto, non più nei suoi significati più autentici o in quelli impliciti, spesso i più determinanti, ma tradotto in soluzioni ambientali politicamente corrette, vale a dire rispettosamente convenzionali, strettamente condizionate dalle contingenze.
Il fondamentalismo al quale è approdata una parte notevole della cultura ambientalista, anch’essa per molti versi un esito della critica al p. moderno, sta provocando da tempo vistosi equivoci nella concezione del ruolo dell’architettura nella vita umana. Equivoci da rimuovere senza esitazioni, beninteso senza omettere di evidenziare la responsabilità dell’architettura nell’aver causato fenomeni degenerativi.
La seconda condizione è la crisi dell’umanesimo. Prodotta da una visione neopanica, determinata contraddittoriamente dall’enfatizzazione della tecnologia, essa tende a porre tutto ciò che è vivente sullo stesso piano, togliendo tra le altre rimozioni alle arti, prima di tutte l’architettura, ogni aspetto che non sia di natura strettamente immediata e funzionale. Contemporaneamente, l’essere umano non è più il nodo attraversato da ogni componente del mondo e della vita, ma una di queste componenti, che peraltro non hanno più un centro.
La terza condizione, che amplifica assieme alle prime due i cinque primati, è l’individualismo di massa di cui ha scritto Alain Touraine come di un paradosso oggi centrale. Un paradosso che negli ultimi anni ha visto convivere la scomparsa delle classi sociali storiche, atomizzate in singoli soggetti, con il confluire di queste cellule autonome in una massa che amalgama tutto e tutti.
Ripensare l’architettura. – Il quadro della cultura del p. architettonico e urbano che è stato delineato in queste note, seppure schematicamente, non deve essere considerato come una lettura pessimistica di ciò che sta accadendo oggi nell’architettura. Al contrario, la situazione duplice di cui si diceva all’inizio – duplice perché contemporaneamente luogo di polarizzazione e di dispersione – può offrire agli architetti risorse e possibilità nuove. Permane però una difficoltà. L’ottimismo tecnologico rischia infatti di oscurare altri aspetti importanti dell’architettura, così come il prevalere dell’atopia o dei non luoghi sull’esigenza di un radicamento degli edifici nei loro contesti è la causa principale del disorientamento che suscitano pressoché tutti i recenti interventi urbani. Gli architetti si trovano oggi a fronteggiare alcuni fenomeni piuttosto preoccupanti. La crisi della critica, ormai solo uno strumento di informazione e spesso di pubblicità diretta o indiretta; il tramonto della centralità decisionale dell’architetto o, in altre parole, del suo ruolo autoriale, messo in discussione sia dalla sempre maggiore complessità dei programmi edilizi, sia dalla moltiplicazione dei controlli pubblici sul percorso progettuale, sia, ancora, dalle pratiche partecipative; la totalizzazione della questione ambientale, che soprattutto sul piano della sostenibilità sta causando un accentramento di interessi, di conoscenze e di soluzioni talmente consistente da desertificare il campo tematico dell’architettura, che si sta facendo sempre più unidirezionale; la genericità che accompagna la nozione di paesaggio, che mentre sta velocemente sostituendosi a quella di ambiente, di territorio e di città, e persino a quella di architettura, si mantiene a un livello indeterminato, denso di imprecisioni e di più di un’approssimazione generando un diffuso senso di confusione e di incertezza. Da qui la necessità di vivere questa conflittuale molteplicità tematica come una possibilità unica di pensare l’architettura in modo più libero, attivo e avanzato.
Non è certo possibile né forse utile prevedere in che modo la situazione descritta si evolverà. Molto dipenderà dalla volontà degli architetti di ritrovare quel ruolo sociale che a partire dalle avanguardie era stato ridefinito e amplificato volta per volta per gran parte del Novecento. Un ruolo che oggi appare fortemente attenuato, se non proprio esaurito del tutto. Ciò che per ora si può dire è che la riaffermazione di un ruolo sociale per l’architettura nell’età globale potrà avvenire solo se e quando la rivoluzione digitale sarà riassorbita nella storicità dell’architettura, non certo esaurendo la sua carica innovativa, ma facendola semplicemente reagire, nella prospettiva di una continuità dialettica, con la memoria operante dell’arte del costruire. Un’arte la cui età, è bene ricordarlo, è la stessa dell’umanità.
Bibliografia: A. Vidler, The architectural uncanny. Essays in the modern unhomely, Cambridge (Mass.)-New York 1992 (trad. it. Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino 1992); G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma 2008; P. Lovero, La progettazione critica. Un tipo di procedimento progettuale, Venezia 2008; C. Botticini, G. Rovetta, Città antica. Architettura contemporanea, Santarcangelo di Romagna 2011; R. Moneo, L’altra modernità. Considerazioni sul futuro dell’architettura, Milano 2012; A. Touraine, La fin des sociétés, Paris 2013; L. Benevolo, L’architettura nel nuovo millennio, Bari-Roma 2014; V. Gregotti, Il possibile necessario, Milano 2014; C. Ratti, Architettura open source. Verso una progettazione aperta, Torino 2014.