Abstract
Viene esaminato il procedimento della programmazione dei lavori: quello con cui la Camera e il Senato decidono come impiegare il proprio tempo, in Assemblea e nelle commissioni. Si analizzano i soggetti della programmazione (la conferenza dei capigruppo; il Presidente di Assemblea; il Governo) e gli strumenti con cui essa si realizza (programma dei lavori; calendario dei lavori; ordine del giorno).
Chiunque abbia esperienza di organi collegiali sa bene che le decisioni organizzative finiscono spesso per essere quelle politicamente più significative. In Parlamento è con tali decisioni che si stabiliscono le priorità (legislative e non solo), anche in rapporto al programma di Governo (e, eventualmente, al programma elettorale); si consente o meno il tempestivo inserimento di un dibattito parlamentare su una questione scottante; si può agevolare o ostacolare il raggiungimento del numero legale; ancora, si favoriscono o si impediscono le negoziazioni e gli accordi tra le forze politiche, che spesso si raggiungono non solo nell’ambito del medesimo provvedimento, ma anche tra provvedimenti (e procedimenti) diversi; infine, si determinano il peso relativo e i ritmi di lavoro dell’Assemblea e delle commissioni.
I regolamenti parlamentari del 1971, nell’adottare per le Camere – anche sulla scorta del lungo dibattito sui temi della programmazione economica svoltosi nel corso degli anni ‘60 (Manzella, A., Il Parlamento, III ed., Bologna, 2003) – il metodo della programmazione, hanno inteso superare la logica della definizione seduta per seduta dell’ordine del giorno. Questo era infatti tradizionalmente approvato alla fine della seduta precedente (anche in base al punto in cui si era arrivati in quella seduta), su proposta del Presidente, con decisione assunta a maggioranza dalla stessa Assemblea. Con il metodo della programmazione dei lavori, invece, si è inteso organizzare la produzione legislativa, evitando provvedimenti sporadici, occasionali e intermittenti, e altresì assicurare punti di riferimento essenziali per l’attività dell’Assemblea, delle commissioni, e anche del singolo deputato.
Tuttavia, l’adozione di tale metodo, pur importante in linea di principio, non si è rivelata sufficiente. Per un verso, infatti, si era ancorata la definizione del programma e del calendario dei lavori al raggiungimento di un accordo unanime in seno alla conferenza dei capigruppo, sulla base dell’idea che questo fosse il solo modo di individuare un punto di equilibrio tra le esigenze dei gruppi di maggioranza e quelle dei gruppi di opposizione (mentre le priorità governative venivano quasi completamente sottaciute: fino ad una modifica del regolamento del Senato intervenuta nel 1977, il Governo non era neppure invitato alle riunioni della conferenza). Per altro verso, si era sottovalutata l’importanza del momento attuativo del programma e del calendario, senza cioè prevedere, specie alla Camera, strumenti procedurali che consentissero l’effettivo rispetto dei tempi previsti in sede di programmazione dei lavori (De Caro, C., L’organizzazione dei lavori e dei tempi, in Martines, T.- Silvestri, G.-De Caro, C.-Lippolis, V.-Moretti, R., Diritto parlamentare, III ed., Milano, 2011, 155 ss.).
Alla luce dell’estrema difficoltà riscontratasi, in concreto, nel raggiungere l’unanimità in seno alla conferenza dei capigruppo, sono state, perciò, le soluzioni di ripiego quelle che hanno regolato, a lungo, la programmazione dei lavori. Quindi, mentre alla Camera si è continuato a procedere sostanzialmente come prima, ossia con la definizione dell’ordine del giorno seduta per seduta (o, al più, per due sedute consecutive), al Senato è stato possibile procedere per «schemi dei lavori» di durata settimanale, che il Presidente del Senato poteva predisporre «sulla base delle indicazioni emerse dalla conferenza», salvo poi comunicarli all’Assemblea (posta in condizione, comunque, di votare proposte di modifica: art. 54 reg. Sen.).
Con le modifiche del regolamento del Senato approvate nel 1988 il quadro si è completato. Non tanto per l’ambiziosa, ma sostanzialmente inattuata disciplina dell’articolazione dei lavori su base bimestrale (con quattro settimane dedicate alle commissioni, tre all’Assemblea e una all’attività dei gruppi e dei singoli senatori: art. 53, comma 2, reg. Sen.), quanto per la trasformazione – anche sulla scorta dell’esperienza delle sessioni di bilancio, introdotte a partire dal 1985 – da facoltativo in obbligatorio dello strumento del contingentamento dei tempi (art. 55, comma 5, reg. Sen.: su cui cfr. infra, par. 5). Il che ha reso possibile attuare, con relativa certezza, le indicazioni contenute nel programma e nel calendario.
Alla Camera il percorso è stato decisamente più tormentato, benché, nel suo complesso, sostanzialmente convergente rispetto a quello seguito dall’altro ramo. Le tappe principali sono costituite dalle novelle regolamentari del 1981, del 1990 e del 1997, tuttora in vigore.
Il quadro attuale, pur stabilizzatosi rispetto agli anni ‘90, non è comunque esente da profili critici, che in parte emergono dai paragrafi successivi. Non è un caso che la disciplina in questione sia tra quelle che è frequentemente oggetto di proposte di modifica, a loro volta ispirate da una certa visione dei rapporti tra maggioranza e opposizione e tra Governo e Parlamento (cfr. Griglio, E., La “riforma impropria” delle regole sulla programmazione dei lavori parlamentari, in La riforma dei regolamenti parlamentari al banco di prova della XVI Legislatura, a cura di E. Gianfrancesco-N. Lupo, Roma, 2009, 69 s. e Lippolis, V., Regolamenti parlamentari, forma di governo, innovazione istituzionale: il dibattito all’inizio della XVI legislatura, in Il diritto fra interpretazione e storia: liber amicorum in onore di Angel Antonio Cervati, a cura di A. Cerri-P. Häberle-I.M. Jarvad-P. Ridola-D. Schefold, Roma, 2010, vol. 3, 87 s.).
Dunque, la disciplina vigente nei due rami del Parlamento vede la programmazione dei lavori incentrarsi intorno a tre strumenti: il programma dei lavori (di orizzonte bimestrale al Senato; bimestrale o trimestrale alla Camera); il calendario dei lavori (a cadenza mensile al Senato; in teoria trisettimanale alla Camera, ma di fatto anche lì mensile); l’ordine del giorno (spesso detto «di seduta», per distinguerlo nell’ambito delle molteplici accezioni con cui questa espressione si impiega nel diritto parlamentare).
L’ordine del giorno è l’unico, tra questi tre strumenti, a essere determinato in via pressoché esclusiva dal Presidente di Assemblea, senza il coinvolgimento della conferenza dei capigruppo. Esso è annunciato alla fine della seduta precedente e, alla Camera, potrebbe essere oggetto di opposizione e di conseguente votazione da parte dell’Assemblea (art. 26, comma 1, reg. Cam.). Peraltro, il potere di formare l’ordine del giorno è fortemente condizionato, per non dire vincolato, dall’esistenza del programma e, soprattutto, del calendario (e, al Senato, dello schema) dei lavori. Gli strumenti della programmazione prevalgono, infatti, sull’ordine del giorno di seduta, che di questi tende a diventare mera attuazione.
Il calendario dei lavori è, per più ragioni, il documento cruciale. Esso, secondo quanto stabiliscono i regolamenti, fissa «il numero e la data delle singole sedute, con l’indicazione degli argomenti da trattare» (art. 55, comma 2, reg. Sen.); ovvero, «individua gli argomenti e stabilisce le sedute per la loro trattazione», specificando quali sono «i giorni destinati alle discussioni e quelli nei quali l’Assemblea procederà a votazioni» (art. 24, comma 5, reg. Cam.). Distinzione essenziale, quest’ultima, nella pratica della vita parlamentare , perché soltanto nelle sedute in cui sono previste votazioni vi è necessità della sussistenza del numero legale, nelle restanti bastando la partecipazione dei soli parlamentari direttamente coinvolti (oltre al Presidente di Assemblea, un segretario d’aula, il relatore, il rappresentante del Governo, e chi intenda prendere la parola). In realtà, però, è frequente che il calendario si spinga oltre, fissando cioè anche l’orario di inizio e fine della seduta o delle votazioni, e specificando l’ordine con cui i diversi provvedimenti dovranno essere iscritti all’ordine del giorno. Va poi considerato che è all’interno del calendario che viene pubblicato il contingentamento dei tempi.
Il programma dei lavori, infine, è il documento di taglio più astratto e generale. In esso ci si limita ad indicare, per ognuno dei due o tre mesi in esso ricompresi, i provvedimenti o gli argomenti che saranno presumibilmente oggetto di trattazione.
Il procedimento per la formazione del programma e del calendario dei lavori è, come si accennava, abbastanza articolato, essendone disciplinate accuratamente le diverse fasi dai due regolamenti: con particolare analiticità in quello della Camera (artt. 23 e 24 reg. Cam.); un po’ più sinteticamente in quello del Senato (artt. 53-56 reg. Sen.).
Ai fini della formazione del programma, si svolgono anzitutto «opportuni contatti» della presidenza di Assemblea con il Presidente dell’altro ramo del Parlamento e con il Governo (ossia, in genere, con il ministro per i rapporti con il Parlamento), in vista della convocazione della conferenza dei capigruppo. In questa fase, può altresì avere luogo l’eventuale convocazione della conferenza dei presidenti di commissione (alla Camera, ove peraltro la previsione è rimasta in larga parte sulla carta; nel regolamento del Senato si parla, invece, di «contatti» anche con i presidenti delle commissioni permanenti e speciali e si consente una convocazione da parte del Presidente di Assemblea dei presidenti di commissione, con l’intervento del rappresentante del Governo). Almeno due giorni prima della conferenza dei capigruppo, devono essere comunicate le indicazioni del Governo, in ordine di priorità, e, eventualmente, anche le proposte di ciascun gruppo.
Sulla base di questo lavoro preparatorio, ha poi luogo la riunione della conferenza dei capigruppo, nella quale, per prassi, il Presidente di Assemblea presenta una bozza di programma, approntata sulla base delle indicazioni del Governo e delle proposte dei gruppi. In esito alla riunione della conferenza, possono verificarsi due ipotesi: o il programma è approvato (all’unanimità al Senato; con la maggioranza qualificata già detta, alla Camera); o, in mancanza di tale approvazione, è definito dal Presidente. In ogni caso, il programma va poi comunicato all’Assemblea e, dopo questa comunicazione, diviene definitivo: al Senato, nel caso in cui sia stato predisposto dal Presidente, esso può essere discusso e, eventualmente, anche modificato.
Il procedimento per la formazione del calendario è analogo a quello appena descritto, ma un po’ semplificato nelle fasi preparatorie, non essendo necessari i contatti preliminari ed essendo sufficienti, alla Camera, 24 ore di anticipo nella comunicazione delle priorità da parte di Governo e gruppi. Inoltre, i regolamenti sono più espliciti riguardo alla fase d’Assemblea che segue la riunione della conferenza dei capigruppo: alla Camera si precisa che, in esito alla comunicazione del calendario, può aver luogo un breve dibattito «per svolgere osservazioni che potranno essere prese in considerazione ai fini della formazione del successivo calendario»; al Senato, invece, solo nel caso in cui il calendario non sia stato adottato all’unanimità, possono essere avanzate proposte di modifica, su cui decide l’Assemblea con votazione per alzata di mano.
Tra Camera e Senato vi sono dunque due differenze di non poco conto: riguardo al grado di consenso che deve raggiungersi in conferenza dei capigruppo perché la programmazione possa essere decisa in quella sede e, soprattutto, quanto ai poteri del Presidente di Assemblea nel caso in cui tale consenso non si raggiunga. Mentre alla Camera il Presidente è il protagonista della programmazione dei lavori, seppure in veste di mediatore delle diverse posizioni in campo, al Senato egli gode di minori poteri: le sue proposte possono essere “sbugiardate” attraverso il voto (a maggioranza semplice) dell’Assemblea (cfr., anche per ulteriori indicazioni, Lupo, N., voce Presidente di Assemblea, in Dig. pubbl., Aggiornamento, vol. IV, Torino, 2010, 444 s., spec. 468 s.).
I regolamenti prescrivono poi una serie di vincoli contenutistici alla predisposizione di programma e calendario. L’obiettivo, individuato seppure in modo un po’ tautologico e vago dal regolamento della Camera, e che dovrebbe guidare sia la programmazione sia il contingentamento dei tempi, è quello di «garantire tempi congrui per l’esame in rapporto al tempo disponibile e alla complessità degli argomenti» (art. 23, comma 4, e art. 24, comma 7, reg. Cam.): evitando cioè una compressione eccessiva dei tempi di esame, in rapporto alla complessità, tanto tecnico-materiale quanto politica, dei provvedimenti in discussione (Lasorella, G., La programmazione dei lavori alla Camera ed i suoi protagonisti: Governo, gruppi e Presidente: luci ed ombre, in Il Parlamento del bipolarismo: un decennio di riforme dei regolamenti delle Camere, Napoli, 2008, 57 s.).
La sequenza programma-calendario-ordine del giorno è, come si è visto, piuttosto rigida, ma non manca qualche elemento di flessibilità, che consente di tener conto delle «urgenze» che regolarmente irrompono nell’agenda politica e, conseguentemente, in quella parlamentare.
In primo luogo, sia il calendario sia il programma possono essere «aggiornati» seguendo le medesime procedure previste per la loro approvazione (art. 24, comma 6, reg. Cam. e art. 55, comma 4, reg. Sen.). Il calendario tende ad essere aggiornato con cadenza settimanale. Inoltre, secondo il regolamento della Camera, sarebbe necessario un aggiornamento (almeno) mensile del programma (in concomitanza con la definizione del calendario), «anche in relazione all’esigenza dell’effettivo svolgimento dell’istruttoria legislativa nelle commissioni» (art. 23, comma 9, reg. Cam.). Nella realtà, la decisione politica sulla programmazione dei lavori sta tutta nella definizione del calendario: il programma riducendosi ad un ruolo meramente ricognitivo, tanto che al Senato, qualche volta, se ne fa addirittura a meno.
In secondo luogo, in relazione a situazioni sopravvenute e urgenti (che quindi dovrebbero avere una qualche oggettività, e non derivare da un mero cambiamento delle priorità politiche, come invece spesso si verifica nella prassi: Dondi, S., Il “tempo ritrovato”: la programmazione dei lavori parlamentari, in Lezioni sul Parlamento nell’età del disincanto, a cura di G. De Cesare, Roma, 2011, 137 ss.), si possono inserire in calendario argomenti nuovi, non presenti nel programma: alla Camera, è sempre la conferenza dei capigruppo a farlo; mentre al Senato è l’Assemblea a decidere, per alzata di mano. Queste integrazioni sarebbero ammissibili, comunque, purché non rendano impossibile l’esecuzione del programma: a questo fine, si potrebbero svolgere anche sedute supplementari (art. 24, comma 6, reg. Cam.; art. 55, comma 7, reg. Sen.).
In terzo luogo, va considerato che vi sono alcuni provvedimenti i quali possono entrare «automaticamente» nel calendario (senza, dunque, necessità di essere indicati dal Governo o dai gruppi, e perciò senza essere conteggiati nelle quote della maggioranza o dell’opposizione). Il Senato (art. 55, comma 6, reg. Sen.) usa una formula generale: «argomenti che, per disposizione della Costituzione o del regolamento, debbono essere discussi e votati in una data ricadente nel periodo considerato dal calendario stesso». La Camera, invece (art. 23, comma 8, e art. 24, comma 4, reg. Cam.), li enumera, almeno in parte: disegni di legge finanziaria (ora, di stabilità) e di bilancio; provvedimenti collegati «di sessione»; disegni di legge comunitaria (ora, europea e di delegazione europea); e, infine, con clausola residuale, «atti dovuti diversi dalla conversione in legge dei decreti-legge». Per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge vige, infatti, alla Camera, una disciplina assai peculiare (art. 24, comma 3, e art. 154, comma 1, reg. Cam.): il loro inserimento in calendario non è automatico, ma deve essere posto a carico del Governo o dei gruppi; al loro esame non può essere destinata più della metà del tempo complessivamente disponibile in ogni calendario dei lavori; infine, e soprattutto, ad essi non si applicano le norme sul contingentamento dei tempi (cfr. infra, par. 5).
In quarto ed ultimo luogo, è rimasta nei regolamenti parlamentari (pur apparendo di dubbia applicabilità una volta che sia definita la programmazione dei lavori) la tradizionale procedura per l’inserimento di argomenti nuovi all’ordine del giorno in corso di seduta. Trattandosi della rottura di un tradizionale principio garantistico – il divieto, cioè, di trattare argomenti non all’ordine del giorno, in base al quale ciascun parlamentare decide se partecipare o meno alla seduta –, sono richiesti quorum particolarmente elevati: due terzi dei presenti al Senato (art. 56, comma 4, reg. Sen.); tre quarti dei votanti alla Camera (art. 27, comma 2, reg. Cam.).
Le previsioni volte a riservare una quota di tempo in favore dell’opposizione (art. 23, comma 6, e art. 24, commi 2 e 3, reg. Cam.; art. 53, comma 3, reg. Sen.) sono sicuramente innovative, specie rispetto ad un sistema parlamentare in cui le opposizioni hanno pressoché costantemente privilegiato la «cultura dell’emendamento» e un atteggiamento di tipo «non alternativo» (Carboni, G.G., Alla ricerca di uno statuto per l’opposizione parlamentare, Torino, 2004): tendendo cioè ad utilizzare ogni progetto di legge come occasione per introdurre nell’ordinamento norme a esse gradite (e magari non sgradite a settori della maggioranza), e minacciando, in caso contrario, un deciso allungamento dei tempi di esame e l’approntamento di continue «imboscate» parlamentari.
Tali previsioni tentano, infatti, di configurare uno dei diritti che in genere vengono inclusi nello «statuto dell’opposizione»: ossia quello di disporre di una quota del tempo parlamentare per avanzare e discutere le proprie proposte, tendenzialmente alternative a quelle della maggioranza, e per esercitare la funzione di controllo. Non è un caso che le previsioni in questione siano tra le pochissime, nei vigenti regolamenti delle Camere, in cui compare il termine «opposizione», superandosi perciò il riferimento esclusivo al gruppo parlamentare, a prescindere dalla sua collocazione nel rapporto fiduciario.
Tuttavia, la previsione di una quota di un quinto del totale (in termini di tempo o di argomenti: da computarsi, inoltre, «in via tendenziale e con riferimento alle previsioni formulate all’atto della predisposizione del calendario», secondo quando stabilisce l’art. 24, comma 13, reg. Cam.) riservata all’opposizione va bilanciata con il principio maggioritario, che naturalmente ispira tutti i procedimenti decisionali che in Parlamento hanno luogo.
Questo bilanciamento è particolarmente difficile nel procedimento legislativo, posto che la legge non può non essere il frutto di una serie di successive deliberazioni assunte a maggioranza: tant’è che nel Regno Unito (ossia proprio nell’ordinamento che è unanimemente considerato la patria dello statuto dell’opposizione: cfr. De Vergottini, G., Lo «shadow cabinet». Saggio comparativo sul rilievo costituzionale dell’opposizione britannica, Milano, 1973, e Rizzoni, G., Opposizione parlamentare e democrazia deliberativa. Ordinamenti europei a confronto, Bologna, 2012) non si prevede alcun trattamento preferenziale per l’opposizione all’interno del procedimento legislativo, di cui il Governo può infatti considerarsi il dominus pressoché assoluto (Rosa, F., Il controllo parlamentare sul Governo nel Regno Unito. Un contributo allo studio del parlamentarismo britannico, Milano, 2012; Norton, P, Parliament in British Politics, II ed., London, 2013). Certo, un’accurata scelta del progetto di legge in discussione da parte dell’opposizione (sempre che questa sia dotata, sul tema, di una certa compattezza) può, talvolta, evidenziare le fratture esistenti all’interno della maggioranza (si vedano i casi ricostruiti da M. Cerase, Opposizione politica e regolamenti parlamentari, Milano, 2005 e da Casamassima, V., L’opposizione parlamentare: le esperienze britannica ed italiana a confronto, Pisa, 2008). Ma vi è anche il rischio che tale tattica si riveli un boomerang, ove la maggioranza riesca a «ricompattarsi», approvando emendamenti che stravolgano il senso dell’originaria proposta di legge (magari ulteriormente peggiorativi, dal punto di vista dell’opposizione, rispetto alla legislazione vigente).
Decisamente più efficace, e al tempo stesso meno rischioso, può rivelarsi l’uso della quota riservata all’opposizione, quando essa sia applicata all’esercizio della funzione di controllo: e dunque essenzialmente riguardo a procedimenti conoscitivi, di indirizzo e fiduciari. In tal caso, ove si tratti perciò di argomenti diversi dai progetti di legge, i gruppi di opposizione godono di un’ulteriore garanzia, seppure formulata in termini non tassativi («di norma»: art. 24, comma 3, reg. Cam.): consistente nella collocazione di tali argomenti in cima all’ordine del giorno di seduta.
In definitiva, la quota dell’opposizione non sembra aver finora prodotto gli esiti immaginati. Per un verso, i gruppi di opposizione si presentano il più delle volte in ordine sparso, anche nello sfruttamento delle quote ad essi spettanti (Rizzoni, G., La programmazione dei lavori alla prova: l’esperienza della XIV legislatura, in Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione, a cura di E. Gianfrancesco-N. Lupo, Roma, 2007, 203 s.), e preferiscono ancora, in molti casi, praticare la più comoda tattica emendativa, che può dare luogo a non pochi successi, senza necessità di assumersi alcuna responsabilità; per altro verso, le garanzie regolamentari a tutela delle opposizioni appaiono piuttosto deboli, prestandosi a comportamenti elusivi o a vere e proprie disapplicazioni, senza che le opposizioni possano attivare alcun rimedio.
«Contingentamento dei tempi» è un’espressione che ancora oggi non compare nei regolamenti di Senato e Camera. L’idea che il tempo a disposizione di ciascun parlamentare, per i suoi interventi, e, a maggior ragione, quello spettante ad una Camera, per l’esame di un certo provvedimento potesse essere limitato è stata a lungo, in effetti, una sorta di tabù. Questo spiega, per un verso, l’inattuazione della programmazione dei lavori e, per altro verso, il ricorso, ancora in tutti gli anni ‘70, a battaglie ostruzionistiche condotte grazie a vere e proprie «maratone oratorie».
Eppure, è evidente che il Parlamento, specie oggi che è ben lungi dall’essere «solo» o «isolato» nello svolgimento delle sue attività, non può certo prescindere dal «fattore tempo»: tanto nella fase della programmazione, quanto nella fase della sua attuazione. In altri termini, la capacità decisionale del Parlamento, ma forse anche la sua idoneità a costituire un’effettiva sede di dibattito pubblico dipendono dall’efficacia e dalla tempestività della sua azione.
Ovviamente, in un Parlamento articolato per gruppi, è su questi che si è fatto leva per organizzare i tempi della discussione. Ecco allora che il contingentamento dei tempi consiste nella determinazione del tempo complessivo da dedicare ad un certo argomento e nella sua ripartizione tra i diversi gruppi parlamentari, oltre che tra gli altri soggetti e le operazioni che comunque risultino time consuming (e quindi: interventi del relatore e del Governo; interventi per richiamo al regolamento; interventi a titolo personale o, secondo la terminologia del Senato, dei dissenzienti; operazioni materiali di voto; «tempi tecnici»). Sarà poi ciascun gruppo parlamentare, secondo le proprie regole e procedure, a decidere come distribuire tra i propri membri il tempo ad esso assegnato.
In questa chiave, essenziale è la configurazione di appositi e non irrisori spazi per i singoli parlamentari, che desiderino intervenire a titolo personale o in dissenso dal proprio gruppo (al Senato, invero, la configurazione di tali spazi appare rimessa alla conferenza dei capigruppo, almeno a stare al parere della giunta per il regolamento del 12 novembre 1991). In caso contrario, risulterebbero infatti non infondati quei dubbi sulla compatibilità con l’art. 67 Cost. (ove configura la rappresentanza politica come di carattere individuale, e non partitico) di un contingentamento dei tempi che si limitasse a ripartire tra i soli gruppi tutto il tempo disponibile, rimettendo perciò integralmente alla decisione dei gruppi l’effettivo esercizio del diritto di parola del singolo parlamentare (Grossi, P.F., Sulla ripartizione tra i gruppi parlamentari del tempo disponibile per la sessione di bilancio (alcuni interrogativi), in Diritto e società, 1983, 155 s., spec. 160 s.).
Dunque, con il contingentamento dei tempi si stabilisce di dedicare un certo numero di ore all’esame di un progetto di legge o di un argomento, nel momento in cui questo è iscritto nel calendario dei lavori, eventualmente anche fissando il momento in cui tale esame si concluderà, il più delle volte, con il voto finale (in tal senso è esplicito il solo regolamento del Senato, ove, all’art. 55, comma 5, richiede la fissazione della «data entro cui gli argomenti iscritti nel calendario debbono essere posti in votazione»).
Alla Camera, il regolamento è piuttosto analitico nell’individuare le operazioni da compiersi (art. 24, comma 7, reg. Cam.). Ribadito il principio generale per cui il tempo assegnato ad ogni argomento deve essere rapportato alla sua complessità, si stabilisce che vanno compiute tre operazioni.
In primo luogo, dal tempo assegnato totale vengano sottratti i tempi per gli interventi dei relatori (distintamente per il relatore di maggioranza e per quelli, eventuali, di minoranza: questi ultimi, in proporzione alla consistenza dei gruppi che rappresentano, e comunque in misura non inferiore a un terzo del tempo spettante al primo: art. 24, comma 10, reg. Cam.), dei rappresentanti del Governo, dei deputati del gruppo misto (che a sua volta è ripartito tra le componenti politiche, in base alla loro consistenza numerica), per i richiami al regolamento, e, infine, per le operazioni di voto.
In secondo luogo, del tempo residuo dopo questa sottrazione, un quinto sia riservato per gli interventi a titolo personale (e la giunta per il regolamento, nella seduta del 18 giugno 1998, ha stabilito alcuni criteri in base ai quali fissare un limite di durata per ciascun intervento a titolo personale e un tetto per gli interventi svolti a tale titolo da un singolo deputato, in modo da evitare che costui consumi tutto il tempo disponibile a questo fine: Castaldi, F., Norme ed usi in tema di contingentamento dei tempi di discussione presso la Camera dei deputati, in Rass. parlam., 2005, 911 s., spec. 925 s.).
In terzo e ultimo luogo, i restanti quattro quinti siano invece distribuiti tra i gruppi: una parte in misura uguale e un’altra parte in misura proporzionale alla consistenza degli stessi. A ciò si aggiunge la regola (anch’essa da collocare all’interno di un ancora embrionale «statuto dell’opposizione») per cui, per l’esame dei disegni di legge governativi, va riservato ai gruppi di opposizione un tempo complessivamente maggiore di quello attribuito ai gruppi di maggioranza.
Nella prassi, per semplificare tutti questi calcoli, sono stati predisposti alcuni modelli-tipo di contingentamento dei tempi, da applicare ai diversi provvedimenti, a seconda della loro complessità (tecnica e politica, come si è detto), non senza la possibilità di qualche adattamento.
Il potere di determinare il contingentamento dei tempi spetta, in linea generale, a chi decide il calendario dei lavori: perciò, alla conferenza dei capigruppo, nel caso in cui si raggiunga la maggioranza richiesta (unanimità al Senato; capigruppo che rappresentano almeno i tre quarti dell’Assemblea alla Camera, salvo alcuni casi in cui, come si vedrà subito dopo, è necessaria l’unanimità); oppure, ove tale maggioranza non si ottenga, al Presidente di Assemblea.
Come si accennava, l’introduzione del contingentamento dei tempi, se al Senato è avvenuta in modo abbastanza sereno (cfr. Castiglia, G., Maggioranza e opposizioni nella programmazione dei lavori parlamentari. L’esperienza del Senato, in Maggioranza e opposizioni nelle procedure parlamentari, a cura di E. Rossi, Padova, 2004, 3 s. e Ravenna, D., I Presidenti delle Camere in Assemblea, in Studi pisani sul Parlamento, II, a cura di E. Rossi, Pisa, 2008, 69 s.), alla Camera è stata invece assai sofferta. Tracce di questo travagliato cammino si rinvengono in un diverso trattamento del contingentamento dei tempi, nell’ambito del procedimento legislativo, a seconda che questo si applichi alla fase della discussione sulle linee generali o alle fasi successive: mentre il contingentamento dei tempi della prima fase – che è spesso accusata di essere un’inutile ripetizione dell’esame svoltosi in commissione e che ha luogo di solito in un’aula pressoché vuota – è pacifico (e il regolamento si limita a stabilire che a ciascun gruppo spetti un tempo complessivo non inferiore a 30 minuti, ossia alla durata massima di un intervento parlamentare), quello delle fasi successive (esame degli articoli e votazione finale) incontra alcune cautele.
In particolare (art. 24, comma 12, reg. Cam.), il contingentamento va deliberato all’unanimità dalla conferenza dei capigruppo quando si tratti di progetti di legge: a) costituzionale; b) vertenti prevalentemente su una materia su cui è possibile richiedere lo scrutinio segreto, vale a dire relativa ai diritti e alle libertà previsti nella prima parte della Costituzione (elencati nell’art. 49, comma 1, reg. Cam.); c) riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale o economica riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione, su richiesta di un gruppo parlamentare.
Tuttavia, l’ambito di queste eccezioni si è rivelato assai meno significativo di quanto potesse astrattamente immaginarsi, visto che il Presidente della Camera, oltre a interpretare restrittivamente l’elenco delle materie “secretabili” di cui all’art. 49, comma 1, reg. Cam., non ha mai fatto applicazione, nonostante numerose richieste formulate in tal senso dai gruppi di opposizione, della clausola generale relativa alle questioni di «eccezionale rilevanza politica, sociale o economica» (cfr. Castaldi, F., Norme ed usi in tema di contingentamento dei tempi di discussione presso la Camera dei deputati, cit., spec. 930 s.). Ma, soprattutto, dato che lo stesso regolamento prevede, proprio con riferimento a tale ipotesi, l’applicazione del contingentamento anche prescindendo dalla delibera unanime della conferenza, «nel caso in cui la discussione non riesca a concludersi e il progetto di legge sia iscritto in un successivo calendario» (art. 24, comma 12, reg. Cam.). Al fine di avvalersi di quest’ultima clausola, la maggioranza ha infatti frequentemente fatto ricorso allo stratagemma dell’iscrizione «fittizia» di un progetto di legge (anche costituzionale) al termine di un calendario già in essere, magari a seguito di un «aggiornamento», al fine di determinarne – praticamente all’indomani dell’avvio dell’esame in Assemblea – lo «slittamento» al calendario successivo.
L’eccezione principale all’applicazione del contingentamento dei tempi, alla sola Camera, è rappresentata da quello che, per Costituzione, sembrerebbe dover essere – insieme al procedimento di approvazione della legge di bilancio – l’unico procedimento «a tempi definiti»: l’esame dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge, che, ai sensi dell’art. 77 Cost., è tenuto a concludersi nel termine massimo di 60 giorni, pena la decadenza ex tunc del decreto-legge.
Tale eccezione, dal punto di vista del diritto positivo, discende dall’art. 154, comma 1, reg. Cam., secondo cui «in via transitoria non si applicano al procedimento di conversione dei decreti-legge le disposizioni» regolamentari che prevedono, appunto, il contingentamento dei tempi. Si tratta di un’esclusione che era già stata immaginata nel momento della prima (cauta) introduzione del contingentamento alla Camera, ossia nel 1990, «fino all’approvazione di una nuova disciplina del procedimento di conversione dei decreti-legge»; essa è stata ribadita nel 1997, quando alcune innovazioni nel procedimento di conversione dei decreti-legge sono state introdotte nel regolamento, anzitutto mediante il coinvolgimento obbligatorio del comitato per la legislazione (art. 96 bis, comma 1, reg. Cam.).
Invero, in più circostanze, i Presidenti della Camera hanno prospettato un’interpretazione diversa della disposizione oggi vigente, la quale, facendo leva sull’autoqualificazione della norma come «transitoria» e sull’assenza (nella sua nuova formulazione) di un dies ad quem, la riterrebbe applicabile solo ai disegni di legge di conversione pendenti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari (il 1° gennaio 1998): risultando perciò assoggettabili a contingentamento dei tempi tutti i disegni di legge di conversione presentati successivamente a tale data.
Tuttavia, questa interpretazione, enunciata solo in linea astratta, e chiaramente difforme dalle risultanze dei lavori preparatori (Castaldi, F., Norme ed usi in tema di contingentamento dei tempi di discussione presso la Camera dei deputati, cit., 911 s.), è stata «congelata» dai medesimi Presidenti, specie al fine di non assecondare la tendenza ad un uso eccessivo della decretazione d’urgenza (cfr. la seduta della giunta per il regolamento del 12 settembre 2001).
In effetti, dal punto di vista pratico, la mancata applicazione – illogicamente, solo alla Camera – del contingentamento dei tempi ai disegni di legge di conversione, se va incontro alle perplessità di ordine costituzionale prima richiamate, sembra in qualche modo rispondere alla necessità di evitare che mediante i decreti-legge e le loro leggi di conversione, una volta assicurata certezza ai tempi di esame di queste ultime, si crei un procedimento decisionale per più versi agevolato e protetto, che tenderebbe perciò, in mancanza di altri limiti efficaci, a sostituirsi pressoché integralmente al procedimento legislativo ordinario.
Anche nelle commissioni trova applicazione la programmazione dei lavori, che è affidata, oltre che ai loro presidenti, agli uffici di presidenza, integrati dai rappresentanti dei gruppi (art. 25 reg. Cam.; art. 29 reg. Sen.): una sorta di mini conferenza dei capigruppo in commissione, alla quale invero assai di rado partecipa anche il rappresentante del Governo (cfr. Lupo, N., Il ruolo del Governo nelle commissioni parlamentari, in Studi pisani sul Parlamento III, a cura di E. Rossi, Pisa, 2009, 137-147 e Minervini, L., Il ruolo delle commissioni permanenti nella programmazione dei lavori parlamentari: note sull'applicazione dell'articolo 81 del Regolamento della Camera dei deputati, in Il Parlamento della Repubblica: organi, procedure, apparati, Roma, 2013, vol. 1, 131 s.).
Nella prassi, tuttavia, pur in un panorama assai variegato, a seconda del ramo del Parlamento e anche delle tradizioni delle diverse commissioni, tende ancora ad essere prevalente una programmazione a cadenza settimanale: in concomitanza, cioè, con l’invio (a cura del segretario generale, alla Camera; del presidente di commissione, al Senato) delle convocazioni settimanali delle commissioni, i cui lavori si devono «incastrare» negli spazi lasciati liberi dall’Assemblea, stante la regola per cui le commissioni – almeno quelle permanenti – non possono normalmente riunirsi in concomitanza con le sedute d’aula (quando sono previste votazioni: art. 30, comma 5, reg. Cam.; art. 29, comma 8, reg. Sen.).
A lungo, nell’esperienza parlamentare repubblicana, sono state proprio le commissioni gli organi decisivi, ancor prima che nella definizione dei contenuti della legislazione approvata, ai fini della selezione dei progetti di legge di cui avviare l’esame (Predieri, A., Parlamento 1975, in Id., Il Parlamento nel sistema politico italiano, Milano, 1975, 11 s. e Capano, G.-Giuliani, M., Parlamento e processo legislativo in Italia. Continuità e mutamento, Bologna, 2001). Nell’ambito delle centinaia di progetti assegnati a ciascuna commissione, e ricompresi nell’ordine del giorno generale, erano gli uffici di presidenza, integrati dai rappresentanti dei gruppi, delle singole commissioni a decidere quali prendere effettivamente in considerazione: procedendo in sede legislativa o deliberante nella maggior parte dei casi; in sede referente, invece, quando non vi era un sufficiente grado di consenso (o comunque di non dissenso) tra i gruppi parlamentari o quando si versava in materie coperte da riserva di Assemblea. In questo modo, l’ordine del giorno dell’Assemblea finiva per essere determinato anch’esso dalle scelte operate dalle commissioni, come una sorta di risultante dei progetti il cui esame in sede referente si era concluso (detti perciò «in stato di relazione»).
Invece, a partire dagli anni ‘90, grazie all’operatività della programmazione dei lavori e del contingentamento dei tempi – e in non casuale concomitanza con la trasformazione del sistema politico italiano –, si è realizzato uno «storico» spostamento dell’indirizzo e delle priorità della legislazione dalle commissioni all’aula, mediante una valorizzazione della conferenza dei capigruppo. È ora l’Assemblea, attraverso appunto la conferenza dei capigruppo – e in genere senza sentire la conferenza dei presidenti delle commissioni (come invece accade in altri ordinamenti: Fasone, C., Sistemi di commissioni parlamentari e forme di governo, Padova, 2012) – a decidere, con approccio intersettoriale, quali progetti di legge esaminare prioritariamente, condizionando quindi in modo pesante l’agenda delle commissioni (Zampetti, U., Il procedimento legislativo, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2000. Il Parlamento, Padova, 2001, 131 s., spec. 143 s.). Fino a forzare la conclusione – e talvolta lo stesso avvio – dell’esame dei progetti di legge in commissione, alla Camera, comprimendolo anche oltre il limite minimo di due mesi, pur desumibile dal combinato disposto dell’art. 23, comma 5, e dell’art. 81 reg. Cam. Del resto, si tratta di un termine riferito al tempo astrattamente a disposizione della commissione (anziché al tempo effettivamente dedicato all’esame), riducibile a un mese in caso di dichiarazione d’urgenza, e derogabile o con l’accordo unanime della conferenza dei capigruppo, o, soprattutto, nel caso in cui la commissione abbia già concluso l’esame (cfr. la seduta della giunta per il regolamento della Camera del 26 settembre 2002, su cui Lasorella, G., La programmazione dei lavori parlamentari alla Camera, cit., 13 s. e Minervini, L., Il ruolo delle commissioni permanenti nella programmazione dei lavori parlamentari, cit., 135 s.).
Diverse sono le modalità mediante le quali si assicura, alla Camera e al Senato, l’effettiva prevalenza della programmazione di Assemblea su quella delle commissioni, al di là delle comuni affermazioni di principio circa la necessità, per le commissioni, di esaminare prioritariamente gli argomenti ricompresi nel programma e nel calendario dell’Assemblea (art. 25, comma 2, reg. Cam.; art. 29, comma 2, reg. Sen.). Alla Camera, una volta che il calendario dell’Assemblea prevede l’inizio dell’esame di un progetto di legge, la commissione può applicare il contingentamento dei tempi e, comunque, quando giunge il momento di cedere il passo all’aula, pone in votazione direttamente, in applicazione del principio di economia procedurale affermato dall’art. 79, commi 1 e 10, reg. Cam., il mandato al relatore a riferire in Assemblea (sul testo come modificato in base agli emendamenti fino ad allora approvati in commissione). Al Senato, invece, in commissione in sede referente è esclusa l’applicazione del contingentamento dei tempi. È quindi piuttosto frequente che la commissione non concluda neppure formalmente l’esame del progetto di legge e che si vada in aula, come si dice in gergo, «senza relatore» (e sulla base del testo originario del progetto di legge, annullando così tutto il lavoro svolto fino a quel punto, che viene tuttavia illustrato oralmente dal presidente della commissione e che, eventualmente, può essere recuperato mediante emendamenti presentati e votati in Assemblea).
Tale spostamento dalle commissioni all’Assemblea ha originato significativi effetti sia sui rapporti tra Governo e Parlamento, sia su quelli tra maggioranza e opposizione: a vantaggio in ambedue i casi del primo dei due soggetti. Evidentemente, il Governo e la sua maggioranza hanno molta più facilità a controllare le dinamiche di un unico centro decisionale (o, meglio, di due, considerato il sistema bicamerale perfetto) di quanta non ne avessero a seguire l’attività di quasi una trentina di centri decisionali poco coordinati tra loro, la stragrande maggioranza dei quali caratterizzati, per definizione, da un approccio settoriale.
Artt. 23-27 del regolamento della Camera dei deputati; artt. 52-56 del regolamento del Senato della Repubblica.
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