Programmazione
di Veniero Del Punta
Programmazione
sommario: 1. Oggetto dell'indagine. 2. Svolgimento dell'indagine. 3. Perché si ricorre alla programmazione economica. 4. Metodologia della programmazione economica. a) Determinazione degli obiettivi generali di sviluppo. b) Proiezione degli andamenti correnti delle grandezze fondamentali del sistema economico. c) Determinazione degli obiettivi specifici del piano. d) Programmazione settoriale. e) Programmazione regionale. f) Elaborazione del programma specifico d'investimenti e prove di coerenza del piano. 5. Ostacoli istituzionali alla programmazione in un'economia di mercato. 6. Le possibilità di successo della programmazione economica. □ Bibliografia.
1. Oggetto dell'indagine
Volendo scrivere, o parlare, di programmazione economica è necessario innanzitutto delimitare il campo dell'analisi. Ciò perché ogni soggetto economico, nel suo agire, esplica, consciamente o meno, attività programmatoria: e dunque ha un comportamento che si presterebbe a essere analizzato sotto questo profilo. L'individuo, ad esempio, o meglio ancora, la famiglia, compie attività di tal genere allorché decide il modo in cui spendere (o risparmiare) i propri redditi correnti o futuri, nonché gli scopi che si prefigge di raggiungere. Del pari, e anzi più propriamente, esplica attività programmatoria l'imprenditore intento a predisporre i progetti d'investimento e di produzione della propria azienda. Il soggetto, però, che viene per primo alla mente quando si parla di programmazione economica è lo Stato: ritenendosi, non a torto, che la complessità dell'epoca e dei sistemi in cui viviamo richieda, da parte di chi regge le sorti di un paese, una condotta economica non episodica bensì coordinata e coerente: appunto una politica programmata.
Ebbene, è proprio alla programmazione economica a livello statale che noi limiteremo l'analisi. Con una specificazione: cioè facendo riferimento ai paesi a economia di mercato, vale a dire a quei paesi che dal punto di vista geopolitico appartengono al mondo occidentale. Questa specificazione ha un significato importante nell'ambito del problema di cui intendiamo occuparci. Al di là di sicure analogie di natura tecnica, vi è infatti una profonda differenza tra il tipo di programmazione economica che viene normalmente attuata nei paesi chiamati socialisti e quello che è invece possibile attuare nei paesi a economia di mercato: ed essa consiste nel fatto che, mentre nei primi i mezzi di produzione (vale a dire le fabbriche e le terre, oltre, naturalmente, alle infrastrutture) sono nella loro totalità, o quasi, di proprietà dello Stato, nei secondi, cioè nelle economie di tipo occidentale, quei mezzi (fatta eccezione per le infrastrutture) sono in misura preponderante di proprietà di privati cittadini. Sicché, mentre un sistema economico socialista può essere concettualmente considerato alla stregua di un unico, immenso opificio, in cui tutte le principali decisioni vengono prese dal centro, cioè da un numero ristretto di persone aventi la possibilità di controllare direttamente l'intero opificio imponendo le loro scelte a tutta la cittadinanza, in un sistema di tipo occidentale questo genere di possibilità è assolutamente fuori della portata di coloro che sono addetti alla programmazione. Il processo decisionale, in un sistema di questo tipo, è infatti estremamente decentrato: consistendo di tanti centri di decisione quanti sono gli operatori economici presenti nel sistema, non importa se imprenditori o consumatori. Tali centri potranno essere sollecitati, indirizzati, persino pregati di comportarsi nei modi conformi alle esigenze del programmatore: ma mai costretti. Sicché è da essi, o meglio dalla sommatoria delle loro singole decisioni, che dipenderà in larga misura il perseguimento o meno degli obiettivi che il programmatore si prefigge. Da qui, anche intuitivamente, la maggiore complessità e difficoltà nel predisporre e attuare un processo programmatorio in un'economia di mercato piuttosto che in un'economia socialista. Da qui, comunque, la natura diversa di questi due tipi fondamentali di programmazione economica: e dunque la necessità di illustrarli partitamente. Una necessità che, naturalmente, non esclude che nel dedicare l'attenzione all'un tipo di programmazione, possa capitare - e capiterà certamente anche a noi - di fare occasionali riferimenti anche alla programmazione dell'altro tipo. (V. anche pianificazione).
L'aver scelto di occuparci della programmazione con riferimento ai sistemi a economia di mercato, peraltro, non delimita ancora a sufficienza il campo della nostra analisi. All'uopo dobbiamo infatti aggiungere almeno un'altra precisazione: cioè che ci occuperemo di ‛programmazione economica globale', vale a dire riferita a un sistema economico nella sua interezza. Sia concettualmente che nella realtà si distingue, infatti, un tipo di programmazione che riguarda appunto un intero sistema economico da un tipo che ne riguarda invece solo una parte: un settore produttivo, ad esempio, o una regione economica. Il primo tipo prende il nome, come abbiamo già detto, di programmazione economica globale; il secondo di programmazione economica parziale. Un esempio illustre, storicamente parlando, di programmazione economica parziale è quello fornito dalla creazione, negli anni trenta, da parte del presidente Roosevelt, della Tennessee Valley Authority, un organismo destinato a occuparsi del risollevamento economico di una regione depressa degli Stati Uniti: appunto il bacino del fiume Tennessee. Ma già questo esempio dovrebbe fare intuire come la programmazione economica parziale non possa avere la complessità né comportare le difficoltà di attuazione di quella globale: riguardando, la prima, solo una porzione del sistema e impegnando, così, solamente una quota (spesso modesta) delle risorse economiche dello stesso. E, concettualmente, implicando la soluzione di alcuni soltanto dei problemi connessi alla programmazione globale; alla quale, dunque, è sempre possibile riferirsi per comprendere la logica della programmazione parziale: mentre non è lecito fare il contrario.
2. Svolgimento dell'indagine
Di programmazione economica statuale si può discettare in vari modi: tutti validi, ma fondamentalmente differenti quanto a capacità di spiegazione del fenomeno. Il più diffuso è l'approccio ‛storico' al problema, che consente di illustrare alcune o anche tutte le esperienze di programmazione economica vissute dai vari paesi del mondo occidentale: con i successi o i fallimenti conseguiti, con le innovazioni che via via sono state apportate nel contesto delle singole esperienze, con il persistere o l'allontanarsi dell'un paese o dell'altro dalla pratica programmatoria. È certamente, questo, un modo interessante di esaminare il fenomeno: perché fornisce una serie di informazioni che, al limite, possono giungere al dettaglio più minuzioso.
Un altro modo di avvicinarsi al problema della programmazione potrebbe propriamente appellarsi ‛ideologico'. Quanto a dire, schematizzando, guardare alla programmazione economica come a un fenomeno la cui utilità per un paese è fuori discussione; o, al contrario, come a un fenomeno di cui è fuori discussione non già l'utilità bensì la pericolosità (o quanto meno l'inutilità). Questi opposti punti di vista essendo propri, rispettivamente, di coloro che, non fidandosi della spontaneità delle forze di mercato, ritengono assolutamente necessario l'intervento dello Stato nell'economia al fine di guidarla verso obiettivi particolari; e, sull'altra sponda, di coloro i quali dall'intervento dello Stato nell'economia non si attendono nulla di buono, e pertanto ne propugnano la limitazione.
Anche questo, pur nella sua contraddittorietà, è un approccio utile al problema: perché, proprio in virtù di vedute opposte, consente di comprendere i pro e i contro della programmazione: in particolare gli stimoli o i freni che essa può arrecare allo sviluppo di un paese.
Senonché, sia l'approccio ideologico sia quello storico hanno in comune un difetto: di non essere adatti all'illustrazione della logica della programmazione, e quindi di non consentire di comprendere i veri motivi del fallimento o del successo di un'esperienza programmatoria fatta da un qualsiasi paese. Valga, per tutti, un solo esempio. Se si pone mente all'esperienza di programmazione vissuta dall'Italia negli anni sessanta seguendo l'approccio storico, si potrà senz'altro dire, dopo avere illustrato nei dettagli tutto quanto in materia accadde nel periodo, che quell'esperienza non fu coronata da successo. Ma quest'affermazione equivarrà a una semplice constatazione di fatto, e come tale non potrà fornire spiegazione logica alcuna dei motivi che fecero fallire quell'esperienza. Ad analoga conclusione si perverrà se all'esperienza in oggetto si applica l'analisi di natura ideologica. In tal caso si troverà chi sostiene che il fallimento constatato storicamente è attribuibile allo scarso impegno posto dallo Stato nell'attuazione dei vari programmi economici; e chi, al contrario, sarà probabilmente propenso a considerare quel fallimento inevitabile, non potendosi burocratizzare impunemente l'economia imbrigliando, oltre misura, le forze di mercato. Ma quanto alla spiegazione logica del fallimento, anche l'approccio ideologico, come si è già visto per quello storico, non fornirà lume alcuno.
Per giungere a questo genere di spiegazione occorre ricorrere a un altro approccio: quello che potremmo definire ‛metodologico'; vale a dire a un modo di guardare alla programmazione economica dal suo ‛interno', nel senso di analizzare la maniera in cui un programma economico è stato architettato, di accertare se tale architettura abbia o meno un grado di coerenza sufficiente e quali siano i suoi difetti e i suoi pregi in vista dei fini che il programma stesso si propone. Naturalmente l'approccio metodologico può anche essere illustrato senza fare riferimento a una concreta esperienza programmatoria, bensì in astratto, avendo esso natura logica e come tale facendo parte dell'economia teorica, la quale, come si sa, è usualmente spiegata appunto secondo schemi astratti.
Ebbene: il compito che ci prefiggiamo di svolgere in queste pagine è proprio quello di parlare di programmazione economica seguendo l'approccio metodologico. La nostra sarà pertanto un'illustrazione eminentemente astratta, nel senso di non riferirsi ad alcuna particolare esperienza programmatoria; ma, proprio perché tale, adatta secondo noi a illuminare tutte le esperienze finora fatte dai paesi occidentali, e soprattutto adatta a porre in luce le difficoltà davvero enormi che la formulazione e l'attuazione di un piano comportano: consentendo, così, di capire non solo gli insuccessi che la programmazione economica ha registrato nei paesi a economia di mercato, come l'Italia; ma, per analogia, anche quelli subiti nei paesi socialisti, nonostante la grande esperienza accumulata da questi ultimi nel campo in esame.
3. Perché si ricorre alla programmazione economica
Prima di accingerci al compito suddetto, ci sembra opportuno affrontare una questione preliminare: chiarire cioè i motivi per i quali un qualunque paese del mondo possa essere indotto a ricorrere alla programmazione economica globale.
Dobbiamo subito ammettere che tali motivi possono essere differenti da un paese all'altro: in specie per quanto concerne gli obiettivi che i singoli paesi intendono perseguire per il tramite della programmazione economica. È possibile tuttavia individuare almeno due categorie fondamentali di motivi, una comune ai paesi a economia collettivista e l'altra ai paesi a economia di mercato. Per i paesi socialisti il ricorrere alla programmazione economica (o meglio alla ‛pianificazione', come là è chiamata e come del resto si chiama anche nei paesi anglosassoni che usano appunto la locuzione economic planning) ha una motivazione che può dirsi istituzionale. Difatti, in quei paesi i mezzi di produzione sono di proprietà dello Stato e spetta dunque allo Stato organizzare l'utilizzazione di questi mezzi per raggiungere gli obiettivi che esso si propone. Nell'assolvere tale compito lo Stato, sotto forma di opportune strutture tecniche e amministrative (come, ad esempio, il Gosplan in Unione Sovietica), svolge appunto attività programmatoria: e non si vede come potrebbe farne a meno se esso, riprendendo un'immagine che già usammo in precedenza, dev'essere considerato come il capo di un'azienda di produzione, grande quanto grande è il paese a cui di volta in volta ci si riferisce.
Il motivo comune che induce a ricorrere alla programmazione i paesi a economia di mercato ha natura del tutto diversa. Si tratta, infatti, non già di un'esigenza immanente - tanto è vero che molti paesi a economia di questo tipo o non sono mai ricorsi a una programmazione economica globale (esempi illustri, in proposito, sono rappresentati dagli Stati Uniti e dalla Germania occidentale) oppure, dopo esservi ricorsi, hanno ritenuto opportuno o necessario allontanarsene (esempio tipico, l'Italia) - semmai si tratta di un'aspirazione. L'aspirazione a mutare, tramite appunto la programmazione economica, il corso che l'economia di ciascuno di quei paesi seguirebbe ove se ne affidasse il governo alle forze spontanee del mercato. Per meglio chiarire questo concetto, che ci sembra fondamentale, ripetiamolo in altri termini. Un paese si dice a economia di mercato quando, al suo interno, le forze del mercato - ad esempio quelle della domanda e dell'offerta - sono lasciate libere di estrinsecarsi a piacimento. Una delle caratteristiche principali di un paese del genere è pertanto rappresentata dalla libertà d'iniziativa economica: nel senso che qualunque cittadino può tentare di divenire un imprenditore, possibilmente fortunato. Così come, in qualità di consumatore, ogni cittadino sceglie liberamente i beni da acquistare seguendo i propri gusti personali: e decidendo, al contempo, se destinare tutto il proprio reddito al consumo o invece risparmiarne una parte per soddisfare esigenze future. Tutte queste libertà, peraltro, non sono assolute, bensì vincolate dalle norme che lo Stato abbia ritenuto opportuno emanare. Un esempio banale, ma significativo per la sua terribile attualità: nessuno Stato civile consente a un proprio cittadino di fabbricare e vendere liberamente sostanze stupefacenti; come non ne consente il libero consumo. Lo Stato, dunque, anche in un'economia di mercato, fa sentire il suo intervento. E quando si afferma, come abbiamo fatto noi sopra, che un'economia del genere può esser lasciata evolvere secondo la spontaneità delle forze di mercato, l'intervento dello Stato non si palesa ma è dato per scontato.
Si può infatti sostenere con certezza che non esista paese al mondo in cui lo Stato lasci evolvere l'economia senza preoccuparsene affatto: non esiste, cioè, paese in cui lo Stato non svolga un'azione di politica economica. Il liberismo economico allo stato puro, in altri termini, è configurato solo nei libri di economia politica: come schema concettuale. Se ciò è indubitabile, non è però men vero che il grado d'intervento dello Stato nell'economia può variare di molto, da paese a paese, e di tempo in tempo; per cui la politica economica di un paese può essere più o meno elaborata e incisiva. Ebbene: allorché l'economia di un paese, nel suo evolversi ‛spontaneo', consegue risultati che la classe politica giudica soddisfacenti, la politica economica, anche se d'incisività e complessità scarse, può restare immutata: o subire solo lievi ritocchi. Quando, invece, l'evoluzione economica di un paese presenta connotati che la classe politica considera insoddisfacenti, tanto da ritenere necessaria una correzione di rotta del processo di sviluppo del sistema economico (considerato nella sua globalità e in tutta la sua complessità), la politica economica dovrà subire profondi mutamenti e le misure da adottare saranno estremamente elaborate, richiederanno tempi non brevi di attuazione ed esigeranno di essere organicamente e coerentemente legate tra di loro.
Ecco: è proprio la necessità di queste correzioni di rotta a rappresentare il motivo più profondo e accomunante per il quale i paesi a economia di mercato possono (o debbono) ricorrere alla programmazione economica. In mancanza infatti di necessità di questo tipo tali paesi potrebbero benissimo, come la realtà ci insegna, procedere nel loro sviluppo senza ricorrere alla programmazione economica: specie a quella globale. Un valido esempio di tutto ciò è fornito dall'esperienza programmatoria vissuta dall'Italia. In questo paese l'esigenza di ricorrere alla programmazione economica cominciò a sorgere nel corso degli anni cinquanta, gli anni del cosiddetto ‛miracolo economico'. Tale ‛miracolo', che consisteva in uno sviluppo inusitatamente rapido dell'economia del paese, mise anche a nudo, nel suo divenire, squilibri economici e sociali che la classe politica cominciò a giudicare non tollerabili: ad esempio lo squilibrio crescente tra livello di vita della popolazione del mezzogiorno rispetto a quello del centro-nord; oppure la differenza di redditi tra lavoratori dell'agricoltura e quelli dell'industria; e cosi via. Occorreva dunque correggere l'evoluzione del sistema economico nel suo insieme, modificando profondamente le linee di politica economica fino allora seguite. E per ottenere ciò era dunque necessario ricorrere alla programmazione economica: come infatti avvenne per tutto il corso degli anni sessanta. Che poi questo tipo di politica economica abbia raggiunto o mancato gli obiettivi per cui nacque è questione diversa: a noi premeva solo di ricordare i motivi che ne avevano consigliato l'adozione.
Stabilito lo scopo della programmazione economica ci possiamo adesso chiedere in che cosa essa consista. La risposta a questa domanda sarà piuttosto lunga, come vedremo nei capitoli che seguono. Ci sembra tuttavia opportuno darne subito il succo per illuminare il terreno su cui ci muoveremo d'ora in avanti.
Dunque: se lo scopo della programmazione economica globale è di modificare l'evoluzione ‛spontanea' del sistema economico ciò implica, come si è visto, che suo tramite si vogliono perseguire degli obiettivi diversi da quelli che il paese raggiungerebbe in assenza di programmazione. Per ottenere, o meglio per cercare di ottenere tale risultato, ci sembra peraltro evidente la necessità di disporre di una serie di dati quantitativi su cui basarsi per manovrare, se così può dirsi, il sistema economico verso gli obiettivi voluti. Sommando questi due profili si può fornire una definizione di programmazione economica che risponde sinteticamente alla domanda che ci siamo posti pocanzi: la programmazione economica globale di un sistema a economia di mercato è un insieme di misure di politica economica, suggerite da un quadro di riferimento quantitativo, che uno Stato intende prendere nel corso di un periodo di tempo prestabilito al fine di far evolvere il sistema economico verso obiettivi socialmente desiderati.
Vogliamo osservare, d'inciso, che se avessimo dovuto formulare questa definizione, non già per un'economia di mercato, ma per un'economia collettivista, avremmo messo al posto dell'‛insieme di misure di politica economica' un ‛insieme di direttive governative di natura coattiva'.
La definizione di cui sopra, dunque, ci indica che la base tecnica della programmazione è rappresentata da un quadro di riferimento espresso in termini quantitativi. Nella realtà questo quadro costituisce la parte preponderante di ciò che viene usualmente chiamato ‛piano' o anche ‛programma economico': annuale, triennale o quinquennale che sia, la parte restante del piano essendo rappresentata dalle linee di politica economica che si intendono seguire per cercare di raggiungere gli obiettivi desiderati.
È appunto alla formulazione di un ‛piano' ipotetico che dedicheremo le pagine che seguono: al fine di mostrare, al di là delle definizioni, in che cosa la programmazione economica consista effettivamente.
4. Metodologia della programmazione economica
La prima cosa da stabilire quando si vuol procedere alla formulazione di un piano è la sua durata nel tempo. Un piano può infatti abbracciare archi temporali diversi: dall'anno al quinquennio, al decennio e anche al ventennio. È evidente che quanto più lungo è l'arco temporale coperto dal piano, tanto più ambiziosi possono essere gli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere: ma anche tanto più difficile diviene quantificare gli andamenti attesi delle principali variabili economiche del sistema. E ciò per il semplice motivo che, con l'allungarsi del periodo di tempo che si intende programmare, aumentano i fenomeni imprevedibili che possono turbare l'evoluzione desiderata del sistema economico. Si può dire che, pragmaticamente, la durata ormai classica di un piano operativo sia quella quinquennale: un arco temporale né troppo breve né troppo lungo, che è stato riscontrato pressoché ottimale da paesi con una lunga tradizione in questo campo. L'Unione Sovietica, ad esempio, procede a piani quinquennali fin dal 1928.
Nel tracciare dunque i lineamenti del nostro piano ipotetico, supporremo che anch'esso debba coprire un arco di cinque anni: periodo di tempo sufficiente per avviare, se non per portare a compimento, mutamenti strutturali del sistema economico e dunque modifiche nei connotati del suo sviluppo.
Stabilita la durata prende il via la formulazione del piano, suddivisa in una serie di fasi successive. La teoria economica non ha ancora codificato con esattezza quante debbano essere queste fasi, né in quale ordine debbano succedersi. A noi sembra particolarmente chiara, e quindi da accogliere, la seguente suddivisione, proposta da un esimio studioso italiano (v. Marrama, 19683, p. 35): a) determinazione degli obiettivi generali di sviluppo; b) proiezione degli andamenti correnti delle grandezze fondamentali del sistema economico; c) determinazione degli obiettivi specifici del piano; d) programmazione settoriale, vale a dire determinazione degli obiettivi di produzione per ciascuno dei settori in cui il sistema economico viene suddiviso; e) programmazione regionale; f) elaborazione del programma specifico di investimenti (in particolare definizione delle misure di politica economica atte a influire sugli investimenti privati) e prove di coerenza del piano.
Senza entrare negli aspetti più specialistici di queste fasi, le prenderemo ora in esame una per una: avvertendo che quanto diremo si identifica, in linea di massima, con quanto in realtà si deve (o si dovrebbe) fare in un paese a economia di mercato allorché le forze politiche che lo governano abbiano deciso di ricorrere alla programmazione economica globale, cioè all'adozione di quella che correntemente viene denominata ‛politica di piano'.
a) Determinazione degli obiettivi generali di sviluppo
L'adozione di una politica di piano da parte di un paese ha ragion d'essere - torniamo a sottolinearlo - solo se si abbia in mente di perseguire determinati obiettivi che l'evoluzione spontanea del sistema economico non consentirebbe verosimilmente di raggiungere. Questi obiettivi possono essere diversi da un paese all'altro, ma ve ne sono alcuni che potrebbero dirsi ricorrenti in quanto comuni, se non alla totalità, certamente alla grande maggioranza dei programmi di sviluppo formulati dai vari paesi occidentali: la piena occupazione della manodopera, ad esempio, o l'equilibrio della bilancia dei pagamenti, cioè delle transazioni a debito e a credito di un paese con il resto del mondo. Un elenco pressoché completo dei possibili obiettivi perseguiti per il tramite della programmazione nei paesi dell'Europa occidentale fu presentato in uno studio del 1964 (v. Kirschen e altri, 1964): già allora se ne contavano ben sedici. E non v'è dubbio che qualche altro sia venuto ad aggiungersi alla lista negli anni successivi. Ma ciò che ha rilevanza nella formulazione di un piano non è tanto il numero degli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere (anche se, ovviamente, nessun piano potrà mai essere coronato da successo se gli si assegnano finalità troppo ambiziose), quanto la chiarezza con cui essi vengono espressi e l'attenzione posta nell'evitare di fissare il contemporaneo perseguimento di obiettivi tra loro contraddittori. Non è ad esempio perseguibile simultaneamente il duplice risultato di un massiccio aumento nell'occupazione e della realizzazione di investimenti tutti ad alta intensità di capitale: i quali potrebbero anche essere i più desiderabili al fine di avvicinare un paese a quelli tecnologicamente più avanzati, ma presentano l'inconveniente di assorbire basse quote di manodopera in relazione al capitale richiesto. Certo, questo non significa che un paese con manodopera abbondante (quale ad esempio l'Italia) debba, in fase di attuazione di una politica di piano, scegliere sempre e comunque tecniche produttive (cioè investimenti) a bassa intensità di capitale e quindi ad alto assorbimento di lavoro: se così procedesse, infatti, tale paese si precluderebbe ogni possibilità non solo di raggiungere, ma anche solo di avvicinare quelli più avanzati in termini di competitività internazionale e di benessere della popolazione. Significa tuttavia temperare delle esigenze diverse e contrapposte: e quindi scegliere investimenti ad alto o a basso assorbimento di manodopera a seconda dei casi. Compito arduo, come si puo immaginare, ma inevitabile: se non si vuole impostare il piano sin dall'inizio non già in termini realistici ma in termini contraddittori. Altro aspetto importante nella definizione degli obiettivi generali di sviluppo, come dicevamo, è quello di fissarli con la massima chiarezza possibile. Perché è da questa che dipende la scelta delle misure di politica economica da seguire per il perseguimento degli obiettivi in oggetto. Valga anche qui un esempio, ripreso da un nostro saggio che ci sembra ancora attuale, anche se pubblicato oltre quindici anni fa (v. Del Punta, 1964, pp. 982-983).
È noto a tutti - dicevamo in quel lavoro destinato a raffreddare gli entusiasmi che l'avvento della politica di piano stava suscitando allora in Italia - che uno degli obiettivi fondamentali che si intende attribuire alla programmazione economica nel nostro paese è rappresentato dall'eliminazione del divario tra redditi pro capite della popolazione del meridione e della popolazione del centro-nord. Ebbene non è difficile accorgersi che, espresso in questi termini, l'obiettivo in oggetto sarebbe troppo generico per servire da guida al ‛programmatore' nella fase di realizzazione del piano. Il nostro obiettivo, infatti, presenterebbe diverse strade per il suo perseguimento e, in corrispondenza di ciascuna strada, una politica diversa da adottare. Il che introdurrebbe nel processo programmatorio un fattore di incertezza tale da poter pregiudicare la riuscita del piano.
Concettualmente, l'eliminazione del divario nord-sud potrebbe essere perseguita, per illustrare una prima alternativa, sia facendo aumentare il reddito globale del meridione in misura superiore a quello del settentrione - ferma restando la distribuzione territoriale della popolazione nazionale - sia inducendo la popolazione del meridione a spostarsi verso il nord del paese, e lasciando il reddito delle due regioni seguire la sua evoluzione ‛spontanea'.
Un'altra alternativa: l'obiettivo potrebbe essere perseguito sia tramite un processo di industrializzazione capillare del meridione, vale a dire impiantando stabilimenti industriali piccoli o medi nei pressi dei diversi centri abitati; oppure creando nel mezzogiorno una serie di poli di sviluppo o di zone industriali, e lasciando spopolare i piccoli centri a vantaggio di quei poli.
E ancora: si potrebbe puntare, per il conseguimento dell'obiettivo, su una razionalizzazione dell'agricoltura piuttosto che su un processo di industrializzazione del sud. E la razionalizzazione agricola potrebbe essere ottenuta tanto con una riforma fondiaria capace di creare una serie nutrita di poderi modello, quanto con una meccanizzazione e un potenziamento economico delle grandi unità fondiarie con l'utilizzazione quindi della manodopera agricola sotto forma salariale. Potremmo continuare a lungo nel citare possibili alternative: ma ci limiteremo a sottolinearne ancora una, caratterizzata dal fatto di richiedere, per la sua attuazione, soltanto un espediente finanziario. Sempre concettualmente, infatti, ci si potrebbe limitare a usare lo strumento fiscale per prelevare al nord quanto si ritiene necessario redistribuire al sud per ottenere il desiderato livellamento dei redditi. Ebbene: di fronte a tutta questa serie di possibilità alternative come dovrebbe comportarsi il programmatore? Quale via, cioè, sarebbe indotto a scegliere per il perseguimento dell'obiettivo? L'imbarazzo della scelta, è facile intuirlo, sarebbe grande: e potrebbe condurre a un cammino incerto o addirittura contraddittorio del piano.
Fin qui quanto scrivevamo nel 1964.
A distanza di parecchi anni e soprattutto alla luce di quanto è accaduto in Italia in termini di attenuazione del divario tra i redditi pro capite del meridione e del settentrione del paese - un'attenuazione pressoché trascurabile, come è noto - è forse lecito affermare che una delle colpe della politica di piano adottata negli anni sessanta e agli inizi degli anni settanta sia stata quella di non aver qualificato bene i suoi obiettivi, in particolare quello di cui abbiamo sinora parlato: mancando anche di additare, di conseguenza, gli strumenti più idonei per perseguirli. Sicché nel meridione e per il meridione si è fatto un po' di tutto: si sono cioè contemporaneamente seguite, senza coordinazione, le strade più diverse per risollevarne le sorti economiche. Ma da una confusione di idee non poteva che scaturire un risultato deludente. Come infatti è accaduto.
b) Proiezione degli andamenti correnti delle grandezze fondamentali del sistema economico
Se, come abbiamo detto più volte, l'adozione di una politica di piano si giustifica con la necessità di fare evolvere il sistema economico verso obiettivi desiderati dalla classe politica che dirige un paese, e se ciò implica necessariamente correzioni di rotta all'evoluzione che il sistema economico registrerebbe in assenza di programmazione, appare chiara la necessità di conoscere, da parte di chi è addetto alla predisposizione del piano, quali sarebbero appunto i risultati che il sistema economico conseguirebbe nel caso in cui gli fosse lasciata la possibilità di evolversi ‛liberamente': cioè senza tutti i vincoli che una politica di piano normalmente comporta. Ebbene, la conoscenza di questo tipo di evoluzione la si può ottenere (o comunque tentare di ottenere) stimando l'andamento che le principali variabili economiche dovrebbero verosimilmente presentare nel corso di un periodo di tempo uguale o più lungo di quello abbracciato dal piano (10, 15 o anche 20 anni): insomma sufficientemente lungo da consentire l'eventuale verificarsi nel sistema dei mutamenti strutturali di cui si sente il bisogno. Si tratterà, dunque, utilizzando gli strumenti statistici ed econometrici più adatti, di effettuare proiezioni di grandezze quali il tasso di aumento medio annuo del reddito e per grandi settori di produzione, l'andamento della bilancia dei pagamenti e delle riserve valutarie e via dicendo. In Italia, ad esempio, non potrebbe mancare, tra tali stime, quella riferita all'andamento del reddito globale e pro capite delle regioni meridionali del paese. Ove queste proiezioni dovessero indicare che il sistema economico sta ‛naturalmente' evolvendo, in misura soddisfacente, verso gli obiettivi generali desiderati, la necessità dell'adozione di un programma di sviluppo verrebbe automaticamente a cadere; ma questa è evidentemente un'ipotesi altamente improbabile. Ove, invece, le proiezioni indicassero divergenze più o meno marcate tra i risultati spontanei e quelli desiderati, la necessità della politica di piano verrebbe ad apparire in tutta evidenza: e dunque anche la necessità di escogitare le opportune misure di politica economica atte a imprimere al sistema gli stimoli di cui abbisogna per evolvere nelle direzioni volute. Stimoli che dovranno essere tanto più vigorosi quanto più forti risultino le divergenze tra gli obiettivi desiderati e quelli che invece il sistema sembrerebbe raggiungere secondo le indicazioni delle proiezioni. Tali indicazioni, peraltro, non debbono mai essere considerate alla stregua di verità assolute, data la serie di eventi imprevedibili che sempre possono presentarsi sul cammino di un sistema economico in evoluzione, mutandone il corso. Esse costituiscono, semplicemente, la sola prospettiva quantitativa su cui il programmatore può basarsi.
c) Determinazione degli obiettivi specifici del piano
Questa fase della programmazione ha una ragion d'essere squisitamente tecnica. Consiste, in sostanza, nel dare contenuto quantitativo, se non a tutti, almeno ai principali obiettivi generali al cui raggiungimento il piano quinquennale è volto. Qualche semplice esempio dovrebbe essere sufficiente a illustrare la necessità di tale quantificazione. Se immaginiamo, come quasi sempre accade nei programmi economici reali, che anche il piano ipotetico di cui ci stiamo occupando si prefigga l'aumento del reddito nazionale nel corso del quinquennio a cui si riferisce, si tratterà di prestabilire il quantum di questo aumento. È evidente infatti che una cosa è puntare su un aumento del reddito nazionale ad esempio del 3% all'anno, e cosa ben diversa è invece perseguirne uno del 5%: lo sforzo richiesto dal secondo tasso di sviluppo risultando ovviamente molto maggiore di quello necessario per il primo. Così come - passando a un altro esempio - l'obiettivo generale ‛aumento dell'occupazione', una volta tradotto in obiettivo specifico (cioè quantificato), diventerà di più o meno difficile conseguimento - e quindi impegnerà quantitativi diversi di risorse destinate a investimenti - a seconda del numero di nuovi posti di lavoro di cui esso si sostanzierà. La quantificazione degli obiettivi presenta anche un altro aspetto importante: quello di consentire la prima precisazione e talvolta anche la misurazione dei contrasti tra gli obiettivi stessi. Abbiamo già detto, parlando degli obiettivi generali di sviluppo, che essi potevano risultare in contraddizione tra di loro. Abbiamo anche detto che il programmatore doveva cercare di evitare queste contraddizioni nei limiti del possibile. Ebbene sono proprio questi limiti (o almeno alcuni di essi) che possono essere individuati nel corso della fase di cui ci stiamo adesso occupando.
Facciamo un esempio. Due obiettivi generali in contrasto tra di loro potrebbero essere l'aumento del tenore di vita (e quindi dei consumi) della popolazione e l'aumento degli investimenti sociali o, più in generale, degli investimenti pubblici tout court: scuole, autostrade, ospedali, porti, aeroporti, ecc. Se infatti si vuole intensificare questa attività dello Stato, si dovrà probabilmente accrescere la pressione fiscale al fine di reperire i mezzi necessari. Ne conseguirà una riduzione delle disponibilità finanziarie e quindi, verosimilmente, una flessione nei consumi. Questo contrasto è collegabile al fatto che le risorse di cui un sistema economico dispone nel corso del tempo possono essere orientate verso due sole grandi direttrici: quella dei consumi e quella degli investimenti. È chiaro che le due alternative sono fatalmente anzi, meglio, logicamente in concorrenza tra di loro: nel senso che tanto maggiore sarà la quota di risorse destinata, ad esempio, agli investimenti, tanto minore sarà quella che sarà possibile destinare al soddisfacimento dei consumi; e viceversa. Un esempio storico di questa contrapposizione ci è fornito dall'Unione Sovietica, dove per lunghissimo tempo sono stati privilegiati gli investimenti, con il risultato di elevare il paese a seconda potenza economica mondiale, ma anche con la conseguenza di bloccare la popolazione a un livello di consumi, cioè a uno standard di vita, più basso di quello goduto dai cittadini di qualsiasi paese industrializzato del mondo occidentale.
Ebbene, nonostante il verosimile contrasto tra i due obiettivi sopra indicati, è molto probabile che essi figurino lo stesso nell'elenco dei fini generali che il piano si prefigge, essendo ciascuno troppo importante, anche politicamente, per esserne escluso. Sarà allora la quantificazione di questi due obiettivi, cioè la loro trasformazione da obiettivi generali di sviluppo in obiettivi specifici, a mettere in evidenza la misura di quel contrasto; e a indicare, stabilita la quantità di risorse disponibili allo scopo, quanto di esse potrà esser destinato a consumi privati e quanto a investimenti pubblici: e quindi a precisare gli incrementi realisticamente possibili delle due variabili nel corso del quinquennio abbracciato dal piano.
In quest'opera, indubbiamente chiarificatrice, che la specificazione degli obiettivi del piano comporta, si annida tuttavia un pericolo che, come vedremo meglio in seguito, rappresenta uno dei punti più deboli di ogni processo di programmazione, specie di quelli condotti in paesi a economia di mercato. La quantificazione degli obiettivi, infatti, può ingenerare nella popolazione di un paese l'illusione che essi, proprio perché precisati e definiti quantitativamente, saranno senz'altro conseguiti. La realtà insegna, invece, che solo raramente gli obiettivi specifici di un piano economico vengono centrati: spesso, anzi, sono mancati di molto. Del perché di ciò ci renderemo conto più avanti. Per ora ci limitiamo a ribadire che la quantificazione degli obiettivi, pur nella sua utilità, rappresenta un terreno minato per il programmatore: un terreno sul quale esso potrà, in futuro, esser condannato da una popolazione profondamente delusa. A causa, appunto, di risultanze reali che possono essere anche molto difformi, e in peggio, da quelle preannunciate.
d) Programmazione settoriale
Nello stabilire gli obiettivi specifici del piano, il compito, lo si è visto, si limita alla considerazione delle principali variabili economiche del sistema: reddito, consumi, investimenti e cosi via. Si giunge, in sostanza, a stabilire ciò che nella letteratura anglosassone va sotto il nome di planframe, cioè di ‛intelaiatura', di ‛cornice' del piano. Resta dunque la parte più complessa della predisposizione del piano stesso: per rimanere all'immagine pittorica, si tratta infatti di riempire quella cornice con una tela tutta da dipingere. Fuor di metafora, se con la definizione degli obiettivi specifici di sviluppo si sono stabiliti, com'è logico che accada, i livelli globali di produzione che il paese dovrà raggiungere nei vari anni di attuazione del piano, si tratterà adesso di stabilire il quantum di produzione che deve essere conseguito, anno per anno, da ciascuno dei settori in cui il sistema economico si suddivide. Occorre, cioè, dare il via a quella che viene denominata ‛programmazione settoriale', tenendo presente che se è vero che in nessun processo di programmazione si può spingere questa fase fino al dettaglio estremo, rappresentato dalla stima dei quantitativi annui di ciascun prodotto da ottenere nel sistema, non è men vero che una programmazione settoriale può dirsi valida solo se è sufficientemente disaggregata, nel senso di riguardare non già grandissimi settori (quali agricoltura e industria), bensì tutta una serie di comparti in cui l'agricoltura, ma soprattutto l'industria, si suole articolare.
Ad esempio, dovranno essere sicuramente stimati i livelli produttivi dei settori industriali producenti beni strumentali (siderurgia, macchine utensili, chimica di base, ecc.), nonché quelli relativi ai principali beni di consumo (automobili, tessili e abbigliamento, elettrodomestici, alimentari, edilizia abitativa, ecc.) che dipenderanno ovviamente dalla prevedibile evoluzione della domanda (anch'essa da stimare), a sua volta dipendente dall'andamento dei redditi delle famiglie (da valutare) e dei prezzi (attesi) dei beni in questione. Non si deve poi dimenticare che se il sistema economico di cui ci si sta occupando è aperto al commercio con l'estero (ed è l'ipotesi più comune a verificarsi), e magari ‛molto aperto' come l'Italia, i livelli produttivi settoriali dovranno essere stimati considerando le esportazioni di merci al netto delle importazioni: essendo evidente che il fabbisogno di un certo prodotto, nell'ambito di un sistema economico aperto agli scambi con l'estero, può essere soddisfatto tanto con la produzione indigena quanto con quella di provenienza esterna. Ne discende la necessità di includere, nella programmazione settoriale, anche le stime delle correnti di esportazione e importazione relative all'arco di tempo abbracciato dal piano.
Riteniamo che quanto sin qui accennato a proposito di questa fase della programmazione sia già sufficiente a farne intuire la complessità: e dunque la difficoltà di espletamento. Ma di queste difficoltà ci si renderà meglio conto se, come riteniamo opportuno fare, ci soffermeremo a illustrare con maggior dettaglio due soltanto delle varie ‛operazioni' che occorre eseguire per portare a compimento la fase in questione. Ci riferiamo alla stima - la cui necessità è stata appena sottolineata - delle correnti di scambio con l'estero; e a quella dei cosiddetti ‛fabbisogni intermedi di produzione', consistenti, come vedremo meglio in seguito, negli acquisti che i vari settori produttivi effettuano fra di loro per esigenze di produzione. Ma procediamo con ordine, cominciando dagli scambi con l'estero: cioè, come abbiamo detto, dalla stima delle esportazioni che ognuno dei settori (o comparti produttivi) in cui il programmatore ha suddiviso il sistema economico dovrebbe effettuare durante ogni anno del piano; e, per contro, del quantitativo di ciascuna delle merci proprie dei suddetti settori, che dovrebbe invece essere importato, sempre anno per anno.
Per procedere a queste due serie di stime non è sufficiente ricorrere a sofisticate elaborazioni statistiche, affidate magari ai più avanzati calcolatori elettronici: ciò che più conta e che è più difficile conoscere è infatti la situazione futura dei mercati clienti e/o fornitori del paese di cui ci si sta occupando. Tale conoscenza sarebbe importante perché il volume degli scambi è fortemente influenzato dall'evolversi delle condizioni economiche e politiche di tanti paesi del mondo con i quali un sistema economico - specie se avanzato, come ad esempio quello italiano - intrattiene rapporti commerciali. Ma è facile intuire come il prevedere i modi in cui tali situazioni si evolveranno nel corso di ognuno degli anni del piano, e come tali mutamenti potranno influenzare soprattutto le esportazioni del paese di cui ci si sta occupando, rappresenti un compito davvero arduo. Tanto arduo da non consentire di ritenere, una volta effettuate le stime, di esser giunti a risultati di sicura attendibilità, potendo quei risultati variare di molto nel tempo, sì da mettere a repentaglio la riuscita di qualsiasi piano di sviluppo, anche del più accurato. Si pensi, solo per dare un esempio di questa eventualità, alle ripercussioni che sulle stime dei valori del commercio con l'estero di un qualsiasi paese industrializzato (ma anche in via di sviluppo) avrebbe (ed ha) avuto la crisi del petrolio determinata, nel 1973, dalla guerra del kippùr: con i prezzi del greggio che quadruplicarono nel giro di poche settimane.
Altra operazione particolarmente complicata che deve essere effettuata per portare a compimento la programmazione settoriale è, come accennammo, quella del calcolo dei ‛fabbisogni intermedi di produzione'. Tali fabbisogni, già lo dicemmo, rappresentano gli acquisti che i vari settori del sistema economico effettuano tra di loro per esigenze produttive: in altri termini, e considerando ad esempio un settore produttivo particolarmente rappresentativo, quello automobilistico, quei fabbisogni rappresentano i quantitativi dei vari prodotti, fabbricati da altri settori ma necessari per la produzione di automobili, che vengono appunto acquistati dal settore automobilistico in un certo periodo di tempo: usualmente in ogni anno del piano. Si tratterà dunque di prestabilire, dopo aver stimato la produzione di automobili che dovrebbe verificarsi in ogni anno del piano, gli acquisti che il settore automobilistico effettuerà, sempre anno per anno, dal settore producente pneumatici, nonché da quello che produce lamierino di ferro, o vernici, o materiali elettrici, o tessuti per tappezzerie, e via dicendo. E che queste siano tutte stime necessarie, lo si comprende tenendo presente che ciascuno dei settori fornitori di quello automobilistico deve cercare di adeguare la propria capacità produttiva alle esigenze del mercato, cioè di essere in grado di soddisfare la domanda che gli proviene da ciascun altro settore, incluso ovviamente quello automobilistico. Si può dire la stessa cosa in altri termini: la stima dei fabbisogni intermedi di produzione del settore automobilistico è necessaria perché il livello di produzione di tutti i settori suoi fornitori dipende ‛anche' da quei fabbisogni; i settori in oggetto tenderanno a dimensionare nel tempo le loro capacità di produzione tenendo quindi conto ‛anche' di tali fabbisogni.
Naturalmente ciò che vale per il settore automobilistico vale anche per tutti gli altri settori o comparti produttivi in cui il sistema economico viene suddiviso dal programmatore. La stima dei fabbisogni intermedi di produzione deve dunque essere estesa a tutti i settori del sistema, dando così luogo a una rete complessa di calcoli incrociati, tanto fitta quanto sono fitti i rapporti di interdipendenza che legano tra loro tutti i settori produttivi di un sistema economico, e quindi anche quelli apparentemente più lontani tra di loro quanto a tipi di produzione. Se, ad esempio, prendendo ancora una volta in considerazione il settore automobilistico, si prevede che nel corso del quinquennio abbracciato dal piano la sua produzione aumenterà, diciamo, del 20%, e se si ammette, per semplificare il discorso, che il settore di cui ci stiamo occupando mantenga inalterata la proporzione in cui, tra interno ed estero, suddivide i propri acquisti per soddisfare i suoi fabbisogni intermedi di produzione, si può stimare che nell'anno terminale del piano i settori fornitori di quello automobilistico dovranno porsi in grado di accrescere le loro vendite a tale settore appunto di una quota di circa il 20%. Per potersi mettere in tale condizione, quei settori dovranno a loro volta acquistare dai rispettivi settori fornitori quantitativi maggiori di materiali: essendo evidentemente aumentati anche i loro fabbisogni intermedi di produzione. E così via.
Alla fine, l'intero sistema economico, in tutte le sue articolazioni settoriali, verrà a essere coinvolto dall'aumento della domanda e quindi della produzione automobilistica, in una rete, torniamo a ripetere, estremamente complicata di interdipendenze reciproche. Ora, se si tiene presente che nel corso di un piano quinquennale di sviluppo non è solo la produzione di un settore a subire mutamenti e a determinare, di riflesso, variazioni nei livelli produttivi di tutti gli altri; ma, come norma, è l'insieme di tutti i settori che si sviluppa (perché è appunto ciò che usualmente desidera il programmatore) e che quindi determina una serie di reazioni a catena nei livelli produttivi di ogni singolo comparto in ogni periodo del piano; se si tiene presente ciò, dicevamo, possiamo facilmente intuire il grado di complessità di stime di tal genere. Per fortuna dei moderni programmatori, da qualche decennio essi dispongono, almeno come bagaglio concettuale, di uno strumento econometrico adatto allo scopo: si tratta dell'analisi delle interdipendenze strutturali (input-output analysis, nella letteratura anglosassone) messa a punto dall'economista americano W. Leontief (un contributo di tale importanza da aver valso al suo autore il premio Nobel per l'economia). L'uso di questo strumento, peraltro, non è dei più agevoli: anche perché richiede una massa di informazioni statistiche, continuamente aggiornate, che solo pochissimi paesi al mondo possono cercare di apprestare. Tant'è vero che gli stessi paesi socialisti, per i quali l'input-output analysis ha un valore inestimabile, data la loro inderogabile necessità di pianificare i propri sistemi economici, incontrano tuttoggi notevoli difficoltà a trarne l'intero potenziale beneficio.
e) Programmazione regionale
Un aspetto di rilevante importanza di un programma economico globale può essere quello della suddivisione del territorio nazionale in regioni economiche. Ed è agevole intuirne il motivo. Difficilmente, infatti, un paese registra un tipo di sviluppo economico territorialmente equilibrato, vale a dire tale che tutte le sue varie parti geografiche ne possano beneficiare in misura ragionevolmente diffusa. Per cui, allorché un paese decida di ricorrere alla programmazione economica globale, si avverte la necessità di correggere gli squilibri economici territoriali determinatisi nel tempo. Si può anzi dire che talvolta è proprio tal genere di squilibri a ingenerare nella classe dirigente di un paese l'esigenza di dare avvio a una politica di piano: è il caso dell'Italia, dove la spinta maggiore a ricorrere alla programmazione economica ebbe sicuramente origine dal problema del sottosviluppo delle regioni meridionali.
Ci si può chiedere a questo punto che cosa significhi accingersi alla programmazione regionale nel contesto della programmazione economica globale. La risposta è semplice dal punto di vista concettuale; molto difficile, invece, dal punto di vista concreto, cioè operativo. Concettualmente possiamo dire che una volta individuata la regione (o le regioni) economica bisognosa di una particolare attenzione (intendendosi per ‛regione economica' una parte del territorio del paese i cui confini non coincidono necessariamente con quelli di eventuali regioni amministrative ma che vengono invece tracciati sulla base di parametri, appunto, economici) si tratta di fissare l'obiettivo che, con riferimento a tale regione, si intende perseguire con il piano di sviluppo e di predisporre gli strumenti volti a consentire il raggiungimento di tale obiettivo. Se, ad esempio, com'è accaduto per il meridione d'Italia, si fissa, quale obiettivo principale della programmazione regionale, l'attenuazione del divario tra il reddito pro capite della popolazione di una zona delimitata e quello del resto del paese, e se si stabilisce che tale obiettivo debba essere perseguito, principalmente anche se non esclusivamente, attraverso un'accelerazione del processo di industrializzazione di quella regione, in tal caso la fase più importante della programmazione regionale sarà quella di specificare quali e quanti insediamenti industriali dovrebbero essere impiantati nel territorio della regione durante il periodo del piano. Ripetiamo: ragionamenti del genere sono semplici a farsi, ma non lo è altrettanto la loro realizzazione. Fissare, ad esempio, se sia più consono all'obiettivo della programmazione regionale, nei termini ora ipotizzati, realizzare nella regione investimenti in industrie di base o, invece, in industrie manifatturiere a più alto assorbimento di manodopera; e, nell'ambito di questa alternativa, qual genere di imprese privilegiare, e poi ancora in quali luoghi della regione ubicare fisicamente gli stabilimenti: già tutto questo solleva una serie di problemi di non facile soluzione, neppure a livello di studio. Tuttavia, anche ammettendo di avere risolto problemi del genere, rimane sempre irrisolto un problema fondamentale, almeno nel contesto di un sistema a economia di mercato: come indurre gli imprenditori a effettuare nella regione prescelta, e nei luoghi indicati, proprio i tipi di investimenti che il programmatore riterrebbe più opportuni ai fini del perseguimento dell'obiettivo prefissato. È questo un problema tanto importante da richiedere una riflessione a parte: cosa che faremo in seguito. Per adesso ci limiteremo a osservare che per il programmatore non esiste una soluzione certa di tale problema: ma solo probabile e con un grado di probabilità molto basso.
Naturalmente - sempre ipotizzando che l'obiettivo della programmazione regionale sia quello di far recuperare terreno, in termini di reddito, a una zona meno sviluppata del paese - è possibile che la strategia scelta non sia quella di un'accelerazione del processo di industrializzazione; ma, ad esempio, di un potenziamento e di una razionalizzazione dell'agricoltura; o di uno sfruttamento più intensivo delle vocazioni turistiche, ove quella regione ne abbia; o, ancora, di una combinazione qualsiasi di queste possibilità. Ma i compiti del programmatore, in pratica, cambiano solo nella forma e non nella sostanza: restando comunque di difficile attuazione.
Torniamo a prendere ad esempio il mezzogiorno d'Italia. Ebbene: potrà criticarsi quanto si voglia la maniera in cui, nel contesto o anche al di fuori dei programmi economici nazionali, si è operato al fine di allineare i redditi di quella regione economica con quelli del resto del paese. Ma non potrà negarsi che qualunque fosse stata la strategia prescelta, essa avrebbe comunque implicato la necessità di reperire sul posto persone dotate di sufficiente spirito d'intrapresa per realizzare almeno una parte degli investimenti necessari al fine voluto. E neppure potrà negarsi che una tale ricerca sarebbe stata, come è stata per molto tempo, destinata all'insuccesso. Lo spirito imprenditoriale non può essere creato solo predisponendo un piano di sviluppo: esso infatti altro non è che un fattore della produzione, presente in alcune popolazioni e meno presente, o raro, in altre; per formarlo non basta qualche lustro, ma occorrono decenni, talvolta generazioni.
f) Elaborazione del programma specifico d'investimenti e prove di coerenza del piano
Di fase in fase siamo ormai giunti al culmine, o forse sarebbe più proprio dire al cuore del piano economico: alla predisposizione del programma specifico di investimenti. Vale a dire alla specificazione, cioè all'individuazione quantitativa e qualitativa degli investimenti necessari per consentire a ciascuno dei settori produttivi di raggiungere i livelli di produzione richiesti dal piano stesso (e stimati, come si ricorderà, nella fase della programmazione settoriale). La crucialità di questa operazione, ma soprattutto l'importanza della sua traduzione in termini concreti, è di facile apprezzamento ove si pensi che è solo se saranno effettuati investimenti nella qualità e quantità individuate che gli obiettivi del piano, qualunque essi siano, potranno essere perlomeno avvicinati; mentre, in caso contrario, essi saranno sicuramente mancati. Infatti è soltanto attraverso investimenti addizionali che si potranno creare gli incrementi di produzione e di reddito richiesti per soddisfare le esigenze del paese; come è solo attraverso nuovi investimenti che sarà possibile predisporre altri posti di lavoro, assorbendo i quantitativi desiderati di manodopera; e via dicendo.
In un sistema a economia di mercato, le categorie fondamentali di investimenti sono due: quelli pubblici e quelli privati. In linea di massima gli investimenti pubblici, più che interessare direttamente l'apparato produttivo del paese, sono volti a facilitarne lo sviluppo. Essi, infatti, comprendono soprattutto opere infrastrutturali (strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti), oppure opere di carattere civile (scuole, ospedali, chiese, case d'abitazione popolare, ecc.). Nei sistemi economici moderni non mancano investimenti pubblici in settori direttamente produttivi come quelli realizzati in Italia dall'industria elettrica; o quelli (semipubblici) effettuati dalle imprese a partecipazione statale (raggruppate sotto enti di gestione quali l'IRI, l'ENI, e l'EFIM). Ma la parte certamente più rilevante degli investimenti in settori direttamente produttivi è riservata, nelle economie di mercato, agli imprenditori privati. Ed è quindi con questi ultimi che il programmatore deve confrontarsi: perché è dal loro comportamento più o meno conforme alle indicazioni del piano che dipendono le sorti del piano stesso. Dunque preoccupazione fondamentale del programmatore sarà appunto quella di saggiare le aspettative d'investimento degli imprenditori privati: egli, cioè, chiederà a questi imprenditori di rendergli note le loro intenzioni d'investimento per ogni anno di attuazione del piano. Ottenute queste informazioni, il programmatore cercherà di verificare, settore per settore, se gli investimenti previsti dagli imprenditori privati con l'aggiunta, ove sia possibile, di quelli che effettuerà l'operatore pubblico (le cui intenzioni sono ovviamente note a coloro che formulano i piani) saranno o meno sufficienti a creare le quote addizionali di capacità produttiva necessarie per raggiungere gli obiettivi di produzione desiderati. Naturalmente sarà ben difficile che questa verifica si palesi del tutto soddisfacente fin dall'inizio. È per contro molto probabile che vi siano discrepanze più o meno nette tra i volumi d'investimenti desiderati e quelli preventivati; nonché tra le ubicazioni degli investimenti indicate dal piano (si pensi ai problemi della programmazione regionale) e quelle che gli imprenditori hanno in animo. È a questo punto che il processo programmatorio cerca il suo completamento: con l'innesto, nel quadro quantitativo fin qui costruito, di una serie di misure di politica economica volte a indurre gli imprenditori privati a effettuare investimenti nella quantità e della qualità desiderate dal programmatore. Queste misure possono assumere caratteri diversi: ad esempio essere di portata generale, oppure specifica. Le prime consistendo, ancora ad esempio, in agevolazioni e incentivi di natura fiscale o creditizia per qualsiasi iniziativa imprenditoriale avente determinate caratteristiche; e le seconde sostanziandosi in vincoli particolari, come potrebbero essere le licenze per nuovi impianti, o i divieti di ampliamento di quelli esistenti in certe zone, e così via.
Si pone qui un quesito: misure del genere saranno sufficienti a fare agire gli imprenditori privati proprio come desidererebbe il programmatore? La risposta, in linea generale, non può che essere negativa. È praticamente impossibile, infatti, in un sistema a economia di mercato in cui la libertà d'iniziativa è garantita dall'ordinamento giuridico, e che è sottoposto alle forze della concorrenza interna ed estera, fare in modo che tutti gli imprenditori si comportino secondo i desideri del programmatore: il quale, in fondo, si identifica con il governo. Tuttavia, il programmatore può sperare che le ‛deviazioni' imprenditoriali dai suoi disegni non siano tali e tante da costringerlo a ricominciare da capo la formulazione del piano. E che, invece - magari con alcuni ritocchi agli obiettivi - le intenzioni di investimento degli imprenditori, tenendo conto degli effetti che su di esse possono esercitare le misure di politica economica escogitate allo scopo, vadano incontro alle esigenze del piano. Se così sarà, vorrà dire che una delle principali ‛prove di coerenza' del piano è stata superata. E il programmatore potrà dar corso alle altre prove, che potranno riguardare tutta una serie di fenomeni di cui sin qui non ci siamo occupati. Ad esempio il volume delle riserve di valuta: controllare cioè se, ai previsti livelli di importazione ed esportazione, il volume delle riserve si conserverà entro il livello di guardia desiderato. Ad esempio, ancora, la situazione del bilancio dello Stato, cioè verificare se gli investimenti pubblici previsti, o i sussidi e gli incentivi alle imprese e le altre spese a carico dello Stato, risultino compatibili con le entrate prevedibili e con l'eventuale deficit ammissibile. E così via.
Se tutte le prove di coerenza ritenute necessarie saranno superate, il piano potrà finalmente essere varato. Il che significa, ad esempio, essere illustrato al parlamento, che può essere chiamato a esprimere un parere consultivo o anche vincolante, a seconda dei casi. Ma qui ci si addentra nella parte applicativa e amministrativa del piano: della quale non intendiamo occuparci, per non scivolare nel regno della casistica. Ci preme invece soffermarci su un altro aspetto della programmazione nel contesto di un'economia di mercato, vale a dire sulle difficoltà di ordine istituzionale che un piano economico, anche il più perfetto dal punto di vista tecnico, troverà in fase di attuazione. Difficoltà che vanno ad aggiungersi alle moltissime di natura tecnica che abbiamo appena terminato di illustrare.
5. Ostacoli istituzionali alla programmazione in un'economia di mercato
Ci sembra legittimo qualificare come ‛istituzionali' quegli ostacoli alla programmazione che, in un'economia di mercato, sono rappresentati non solo dalle istituzioni in senso giuridico-amministrativo, ma anche da fenomeni caratteristici di un'economia di mercato in quanto tale. Qui ci occuperemo soprattutto di questi ultimi. (V. anche mercato).
Di uno di essi, da annoverare tra i principali, abbiamo già iniziato a parlare: ci riferiamo all'iniziativa imprenditoriale privata e alla necessità, per il programmatore, di indirizzarla secondo le esigenze del piano. Abbiamo già detto che ciò rappresenta un compito arduo: perché è molto difficile individuare le misure di politica economica necessarie per fare in modo che gli investimenti vengano effettuati nelle quantità, nei modi e nei tempi voluti. Ma quel compito è arduo proprio perché, istituzionalmente, in un'economia di mercato l'iniziativa economica privata è e non può essere che libera. E come tale suscettibile di estrinsecarsi in modi e in direzioni difficilmente prevedibili, data la miriade di centri decisionali che la caratterizza. Ogni singolo imprenditore, infatti, è libero di effettuare o meno un certo investimento in un dato luogo e in un dato tempo; se, per quanto concerne il luogo, si possono immaginare vincoli o addirittura divieti per determinate aree di un paese, non v'ha dubbio che nessun obbligo potrà mai esistere per l'imprenditore per quanto concerne il momento in cui effettuare l'investimento. Egli sceglierà questo momento secondo i suoi calcoli di convenienza e le sue aspettative. Ebbene già questo grado di libertà che, ripetiamo, non potrà in nessun caso essere sottratto all'imprenditore privato, se si vuole che un'economia resti di mercato, è sufficiente a far sì che un piano economico - anche se, per ipotesi, tecnicamente perfetto - possa fallire gli obiettivi che si prefigge. Questi obiettivi infatti, come già sappiamo, dipendono sempre dalla creazione di nuove risorse, vale a dire di ricchezza addizionale: e questa a sua volta dipende appunto dal livello degli investimenti effettuati. Per cui, ove il livello degli investimenti previsti dal piano non venga realizzato perché gli imprenditori, nella loro libertà di iniziativa, non hanno ritenuto di raggiungerlo, gli obiettivi del piano non saranno certamente conseguiti e dovranno essere rinviati nel tempo.
Un altro ostacolo istituzionale alla programmazione in un'economia di mercato può essere rappresentato dalle organizzazioni sindacali. E non tanto da quelle degli imprenditori che non hanno, in concreto, potere sostanziale sul comportamento dei loro associati; quanto da quelle dei lavoratori che invece questo potere detengono, e talvolta in misura davvero notevole. Per cui salvo nell'ipotesi, invero estremamente irreale, che i sindacati dei lavoratori siano talmente filogovernativi da accettare tutto ciò che il programmatore richiede per l'intero periodo di tempo abbracciato da un piano economico, salvo in questo caso, dicevamo, vi saranno sempre, nel corso di tale arco di tempo, motivi di attrito non solo tra sindacati e pubblici poteri, ma altresì tra sindacati e organizzazioni imprenditoriali o anche aziende singole, specie se di grandi dimensioni. Questi attriti sono il frutto di una prerogativa di cui i sindacati dei paesi a economia di mercato sono gelosissimi: l'autonomia d'azione. In base a tale autonomia, essi si riservano di promuovere le loro rivendicazioni ogniqualvolta lo ritengano necessario: ricorrendo spesso, specie in alcuni paesi quale ad esempio l'Italia, all'arma dello sciopero. L'uso di tale arma rappresenta certamente un diritto fondamentale, sulla cui legittimità non può sussistere dubbio alcuno; ma, nei fatti, lo sciopero comporta una perdita di produzione potenziale; quindi una minor creazione di ricchezza; e dunque l'allontanamento del sistema dal raggiungimento degli obiettivi del piano, dato che essi richiederebbero la disponibilità di risorse addizionali in una misura che, appunto a causa degli scioperi, non potrà essere realizzata.
Parecchi ancora sono gli ostacoli di natura istituzionale che potrebbero essere elencati, ma ci limiteremo, qui, a ricordarne solo un altro: per mostrare come essi possano avere origine non solo interna ma anche esterna al paese che si sta di volta in volta considerando. Per l'Italia ad esempio (ma anche per la Francia, o per la Germania, o per l'Inghilterra) un ostacolo di tal genere è rappresentato dalla sua appartenenza alla Comunità Economica Europea. E consiste nel fatto che il trattato istitutivo della Comunità prevede la libertà di movimento tra i paesi membri non solo delle merci ma anche dei fattori della produzione: cioè dei lavoratori e dei capitali. Dobbiamo precisare che questo obiettivo, dopo oltre vent'anni dall'entrata in funzione del Mercato Comune Europeo, è stato realizzato pienamente solo per le merci, mentre i fattori produttivi incontrano ancora alcuni vincoli nei loro spostamenti. Ciò nonostante essi si muovono: nessuna autorità italiana, ad esempio, potrebbe vietare a un imprenditore tedesco, o francese, o inglese di impiantare una propria fabbrica in una qualunque parte del nostro paese per la produzione di un bene qualsiasi (salvo che non esistano specifici divieti validi anche per i cittadini italiani). Ebbene tale libertà di stabilimento potrebbe benissimo contrastare con le indicazioni e le previsioni di un piano economico al punto da poterlo scompaginare. Facciamo un esempio: supponendo che l'Italia disponesse di un piano economico tanto perfetto da contenere l'elenco di tutte le fabbriche da creare durante il periodo del piano, nonché i loro livelli di produzione e le loro localizzazioni. Supponendo, insomma, che il piano in questione avesse l'effettiva possibilità di ottenere un successo pieno solo che ne venissero seguite tutte le indicazioni. Ebbene: è allora evidente che qualunque evento economico che dovesse verificarsi nel paese, ma che non fosse contemplato dal piano, ne turberebbe la possibilità di realizzazione. A determinare tale turbamento basterebbe pertanto l'inattesa decisione di uno o più imprenditori stranieri di impiantare degli stabilimenti in Italia nel corso degli anni del piano: infatti quegli stabilimenti, per funzionare, sottrarrebbero manodopera ad altri impieghi; inciderebbero, in positivo o in negativo, sulla bilancia commerciale; assorbirebbero probabilmente quote di crediti che il programmatore aveva previsto che fossero utilizzate in maniera diversa. Il piano perderebbe così la sua perfezione: e gli obiettivi prefissati dovrebbero subire dei mutamenti. Naturalmente a conclusioni analogbe si giungerebbe ove ipotizzassimo movimenti di manodopera in entrata o in uscita dal paese, in misura diversa da quella indicata dal piano. Oppure immaginando un imprevisto aumento di competitività di alcuni partners europei che andasse a influire negativamente sulla bilancia commerciale dell'Italia. E via dicendo.
6. Le possibilità di successo della programmazione economica
Possiamo avviarci alla conclusione di questo excursus sulla natura della programmazione economica riferita a un'economia di mercato. E la maniera più opportuna per farlo è forse quella di esprimere qualche giudizio sul grado di affidamento che la programmazione può dare circa il raggiungimento degli obiettivi che si propone. La domanda da porci è, dunque, la seguente: quante possibilità di successo ha un piano economico nel contesto di un'economia di mercato? Se a questa domanda ci fosse imposto di rispondere con una sola parola, diremmo: scarse. Se invece ci fosse offerta l'opportunità di giustificare questo laconico parere, cominceremmo con l'osservare che il termine ‛scarse' va riferito soprattutto alle probabilità che nella realtà di un sistema economico in evoluzione vadano a combaciare le previsioni quantitative del programma (cioè i suoi obiettivi espressi appunto quantitativamente) e le risultanze effettivamente conseguite. Potremmo addirittura aggiungere che tali probabilità più che scarse sono praticamente nulle. E ciò per una serie nutritissima di motivi su alcuni dei quali, ma non certamente su tutti, ci siamo soffermati nel corso delle nostre precedenti riflessioni. Abbiamo infatti visto quanto complessa sia la formulazione di un piano dal punto di vista squisitamente tecnico: la difficoltà delle stime da effettuare; fenomeni di interdipendenza da considerare; la messe di informazioni statistiche necessarie e la loro tendenza al rapido invecchiamento. Infine, anche ammettendo in via di ipotesi il superamento di tutte queste difficoltà, il presentarsi sul cammino della realizzazione del piano di ostacoli di carattere istituzionale.
Possiamo accennare ancora ad altri eventi capaci di intralciare il piano di sviluppo di un paese: ad esempio una crisi politica in una zona del mondo produttrice di materie prime fondamentali per il paese in questione (torna qui in mente la crisi del petrolio esplosa durante gli anni settanta); o condizioni meteorologiche particolarmente avverse e tali da sovvertire i pronostici relativi alle produzioni agricole; o processi inflazionistici aventi cause magari esogene al sistema, e quindi incontrollabili, ma tali da influenzare negativamente le correnti di scambio con l'estero e i livelli di riserve valutarie desiderati dal paese; e via dicendo.
Tutti questi fenomeni hanno più probabilità di sommarsi che non di elidersi a vicenda nella realtà di un paese che abbia deciso di ricorrere alla programmazione economica globale. Ed è proprio da ciò che deriva il nostro convincimento circa l'esistenza di una possibilità molto remota di riscontrare in concreto risultati collimanti con quelli previsti in un piano economico; nonché l'ammonimento, già accennato nelle pagine precedenti, a non riporre troppa fiducia nei calcoli e negli obiettivi quantitativi che figurano in un qualsiasi piano di sviluppo: e soprattutto a guardarsi bene dal promettere alla popolazione di un paese che quegli obiettivi saranno effettivamente raggiunti nei tempi indicati dal piano stesso.
Corre qui alla mente l'errore davvero grossolano ed eticamente imperdonabile commesso dalla classe politica italiana allorché, negli anni sessanta, in clima di euforia nei riguardi della politica di piano, promise alle popolazioni meridionali del paese il raggiungimento di obiettivi, in termini di occupazione di manodopera e di riduzione del divario nel livello di benessere rispetto al resto d'Italia, che poi furono clamorosamente mancati. Quelle promesse si basavano sui calcoli di piani quinquennali aventi come obiettivo prioritario proprio il risollevamento del meridione: ma erano solo calcoli, carenti, tra l'altro, anche sul piano tecnico. E non si doveva riporre in essi una fiducia che certamente non meritavano.
Ci sia consentita, a questo punto, una breve digressione. Se è vero, come abbiamo appena detto, che è altamente improbabile che un piano economico trovi il pieno conforto della realtà in un sistema a economia di mercato, quasi altrettanto improbabile è che il fenomeno si verifichi nell'ambito di un sistema socialista. È vero che in sistemi economici di questo tipo la programmazione non deve superare tutti gli ostacoli che gli si parano davanti nelle economie di mercato: ad esempio non esistono nei paesi socialisti sindacati dei lavoratori che godano di un'autonomia d'azione paragonabile a quella esistente nei paesi occidentali, come non esiste la libertà d'iniziativa economica privata, per cui gli investimenti produttivi (e non) sono direttamente effettuati dallo Stato. Tuttavia le difficoltà di far raggiungere al sistema economico esattamente gli obiettivi che un piano si propone sono elevatissime anche in questo caso: anzitutto perché restano intatti, pure per un sistema socialista, tutti i problemi tecnici da affrontare nella formulazione di un piano. E noi sappiamo quanto essi siano ardui, specie se il paese socialista che si sta considerando si trova ormai in una fase avanzata di sviluppo e quindi con un sistema economico estremamente complesso e articolato. Non è un caso, a questo proposito, che i piani economici dell'Unione Sovietica abbiano incontrato difficoltà crescenti di realizzazione a mano a mano che, nel tempo, l'economia di quel paese ha raggiunto stadi di sviluppo più elevati. Inoltre, pesa anche sulla programmazione dei paesi socialisti il verificarsi di eventi improvvisi e non previsti: come ad esempio cattivi raccolti agricoli, o crisi internazionali che cambino repentinamente accordi commerciali sui cui contenuti il pianificatore aveva basato i propri calcoli.
Ma torniamo alle economie di mercato, ponendoci un'altra domanda: se in paesi del genere - in cui di piani economici si potrebbe anche fare a meno - un piano può tanto difficilmente essere coronato da successo, è allora da ritenere che il ricorrere a una politica di programmazione sia inutile o addirittura controproducente? La risposta da dare a tale quesito ci sembra sicuramente negativa. E per una serie di ragioni. In primo luogo - e qui c'è di conforto il parere di W. A. Lewis, premio Nobel per l'economia - non è legittimo misurare la riuscita o meno di un piano basandosi solo sul grado di rassomiglianza tra obiettivi del piano stesso e risultati concretamente raggiunti dal sistema economico; bisogna guardare oltre. Nelle parole di Lewis: ‟Il fatto che un'economia non fornisca i risultati previsti non rappresenta un argomento contro la programmazione. Le decisioni non possono essere tutte rinviate sol perché non è possibile prevedere correttamente il futuro: e la programmazione serve appunto a porre in chiaro ciò che ci si attende, a rivelarne l'inconsistenza e dunque a migliorare il processo decisionale" (v. Lewis, 19682, p. 124). È fuor di dubbio, infatti, che la formulazione di un piano richieda un notevole processo di riflessioni e di approfondimento delle conoscenze sul funzionamento del sistema economico allo studio. Sicché già questo fatto ne rappresenta un frutto positivo, se è indubbiamente vero, come ammoniva L. Einaudi, che bisogna prima conoscere per poter poi deliberare correttamente. Inoltre non è affatto detto che gli obiettivi che un piano si prefigge siano sempre mancati in modo clamoroso. È invece più probabile che se non tutti, almeno alcuni siano raggiunti, sia pure parzialmente. Infine - e anche questo è un fenomeno importante - l'adozione di una politica di piano può instaurare, in un paese, un clima più favorevole alla soluzione o ai tentativi di soluzione di certi problemi. Un esempio concreto, in proposito, può ancora una volta esserci fornito dall'Italia. Se, come sembra corretto fare, identifichiamo gli anni sessanta con quelli del tentato ricorso del nostro paese a una politica di piano, e se torniamo a ricordare che uno degli obiettivi prioritari (comunque quello politicamente e socialmente più rilevante) era rappresentato dal problema del mezzogiorno, si deve riconoscere che mai come in quegli anni l'opinione pubblica nazionale ha avuto modo di prender coscienza dell'importanza che la soluzione di tale problema avrebbe avuto per il paese intero. Ebbene, questo tipo di consapevolezza ha certamente contribuito a dare avvio alla soluzione del problema meridionale; almeno nella misura in cui si sono dovute reperire risorse finanziarie con il consenso del Parlamento: di un organo, cioè, che rappresenta tutto il paese e quindi proprio la pubblica opinione. Si può anzi aggiungere, al riguardo, che parlare di un fallimento completo della programmazione economica italiana, come tanto si è sentito negli anni settanta, sia da considerarsi un peccato di esagerazione. In Italia la programmazione è sicuramente fallita quanto a discrepanza tra risultati concreti e obiettivi prefissati (anche per mancanza di realismo di questi ultimi); ma non è certo fallita del tutto quanto a convincimenti che essa ha determinato, non solo nella pubblica opinione, ma in tutta la classe dirigente del paese: la quale ha ovviamente continuato - e continua - a prendere decisioni anche sulla base di tali convincimenti; e pertanto continua a influire sull'andamento del sistema economico indirizzandolo, magari inconsapevolmente, proprio verso quegli obiettivi che l'abbandono ufficiale della politica di piano sembrava aver messi in ombra. Da questo punto di vista si può anzi asserire che così come, nel corso degli anni sessanta, il ricorso alla programmazione economica fu salutato in Italia con entusiasmo eccessivo, altrettanto eccessiva è stata la fretta con cui, nel corso degli anni settanta, quel processo è stato accantonato. Il che è probabilmente dipeso dalla scarsa conoscenza, da parte della classe politica, del significato e dei limiti della programmazione economica in un'economia di mercato.
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