progressivita
progressività Carattere progressivo dell’imposta, per cui essa è costituita da un prelievo, in genere calcolato con riferimento al reddito complessivo individuale, che cresce più del reddito, e la sua elasticità è maggiore dell’unità (➔ anche regressività). Mentre nell’imposta proporzionale l’aliquota (➔) media (rapporto tra l’imposta e il reddito) è costante e uguale all’aliquota marginale (rapporto tra l’incremento di imposta e l’incremento di reddito), nell’imposta progressiva l’aliquota marginale è maggiore dell’aliquota media, la quale ultima cresce con il reddito. In ogni caso è possibile ottenere un’imposta progressiva, oltre che con aliquote marginali via via più elevate per scaglioni più alti di reddito, anche tramite l’applicazione di deduzioni e detrazioni in presenza di aliquota costante. ● Le imposte progressive prevedono sempre forme di esenzione dei livelli di reddito più bassi, sotto forma di deduzioni dalla base imponibile, detrazione dall’imposta lorda, previsione di un’aliquota zero per un primo scaglione. Nella maggioranza dei Paesi che adottano l’imposta progressiva (tutti quelli dell’OCSE) vi sono sgravi fiscali per i nuclei familiari; fanno eccezione i Paesi scandinavi, dove il sostegno alle famiglie avviene tramite la spesa pubblica, per trasferimenti o per servizi.
Il metodo principale con il quale si attua la p. è quello degli scaglioni: il reddito del contribuente è diviso in varie fasce, e a ognuna di esse si applica un’aliquota che aumenta al passaggio da uno scaglione a quello successivo. L’aliquota di un determinato scaglione rappresenta l’aliquota marginale per un soggetto il cui reddito si colloca in quello scaglione. È possibile anche adottare una p. continua, dove ogni euro rappresenta uno scaglione, con aliquote che si innalzano impercettibilmente al crescere del reddito. Da tempo, solo la Germania adotta questo sistema, con aliquote che si incrementano fino a un livello di reddito dove raggiungono il valore massimo (nel 2012 il 45%); prima dell’istituzione dell’IRPEF (➔), l’Italia adottava la p. continua per l’imposta complementare.
L’imposta progressiva si è affermata nel corso del 20° sec., ma il dibattito a favore e contro la p. si è sviluppato in modo intenso durante il 19° secolo. Fino al 1870, quando W.S. Jevons, C. Menger e M.-E.-L. Walras svilupparono la teoria del valore fondata sull’utilità, l’argomento a favore della p. era costituito dalla distinzione tra il necessario e il superfluo; si riteneva, cioè, che i beni necessari alla sopravvivenza non dovessero essere colpiti dalle imposte, sia per ragioni di equità sia per motivi più strettamente economici. Con lo sviluppo della teoria dell’utilità, economisti come A. Marshall e F.Y. Edgeworth ripresero l’idea formulata oltre un secolo prima da D. Bernoulli, secondo la quale la relazione tra l’utilità e il reddito è positiva ma con derivata seconda negativa, vale a dire che l’utilità marginale diminuisce all’aumentare del reddito; su questa base, si ritenne possibile fondare una giustificazione della progressività. ● La teoria più coerente si rifà alla funzione di benessere sociale (➔ benessere sociale, funzione del) di J. Bentham, secondo la quale il criterio guida deve essere quello della massimizzazione della somma delle utilità di tutti i membri della collettività. Supponendo che la funzione di utilità sia uguale per tutti, ne discende che la massima utilità sociale richiede il livellamento di tutti i redditi. Tenendo però conto degli effetti di disincentivo che una super-progressività di questo genere determinerebbe, il suggerimento consiste in una p. dove però l’aliquota marginale non superi mai un massimo livello, e comunque mai il 100%.
Le due guerre mondiali, accrescendo le necessità di finanziamento degli Stati per sostenere gli sforzi bellici, spinsero a introdurre o ad accentuare le imposte progressive. Soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, la struttura delle imposte progressive presentava numerosi scaglioni, con aliquote marginali che arrivavano oltre l’80% o il 90% (nel caso degli USA). L’IRPEF, per es., nacque con 32 scaglioni e un ventaglio di aliquote che andava dal 10% al 72%. Verso la fine degli anni 1960, iniziò un processo di riduzione sia degli scaglioni sia delle aliquote più alte; l’esperienza aveva infatti evidenziato che i redditi da capitale riuscivano in vari modi a sottrarsi alle aliquote più alte, che finivano quindi per ricadere solo sui redditi da lavoro. Sul piano teorico, a questa tendenza ha contribuito una serie di economisti, guidati da J.A. Mirrlees, i cui lavori hanno cercato di individuare la struttura ottimale dell’imposta progressiva, dove il termine ottimale si riferisce a funzioni di benessere sociale di tipo utilitaristico. La caratteristica di questi studi è la presenza di un sussidio di tipo lump sum (➔ lump sum tax) con aliquote marginali inizialmente molto alte (per riassorbire il sussidio secondo le caratteristiche dell’imposta negativa) e poi via via calanti. Questo risultato è stato confermato da successive analisi per i redditi bassi e medi, mentre il risultato di aliquota marginale nulla per i redditieri più alti è stato posto in discussione. Nei Paesi scandinavi la riflessione scientifica e le politiche fiscali hanno portato alla Dual Income Tax (➔ DIT), sistema nel quale i redditi da lavoro sono sottoposti alla p., mentre i redditi da capitale vengono tassati con l’aliquota dello scaglione più basso. Ancora oggi in quasi tutti i Paesi sviluppati l’imposta personale progressiva costituisce il prelievo più rilevante tra le entrate fiscali.