PROMETEO (Προμηϑεύς, Prometheus)
P. era in origine, presso gli antichi Greci, una divinità del fuoco, la quale poi fu dalla fantasia di un poeta (forse di Esiodo) trasportata nel campo del mito, dove poeti e mitografi e filosofi la rivestirono man mano di nuove forme, con tanta varietà e ricchezza da far sì che P. acquistasse una personalità mitologica ben più definita e potente di quella ch'esso aveva avuto e seguitò a mantenere nell'ambito della religione. Come dio, P. ci è noto soprattutto ad Atene. Quivi infatti esisteva, nel quartiere dell'Accademia, un altare molto venerato sul quale bruciava la fiamma sacra a P., dio del fuoco; e da questo altare prendeva inizio, secondo un'antica consuetudine, la corsa alle fiaccole (lampadedromia), nella quale gli efebi ateniesi, dopo avere acceso le fiaccole appunto all'ara del dio, portavano, gareggiando nella corsa e scambiandosi a vicenda le fiaccole, il fuoco sacro attraverso il quartiere del Ceramico verso la città, dove poi la fiaccola vincitrice riceveva l'onore di accendere il fuoco sulle are di altre divinità. Questo rito singolare e pittoresco, il quale evidentemente si ricollega al concetto di una purificazione e di un rinnovamento del fuoco della città, in certo modo contaminato da un lungo uso di sacrifici, era in origine esclusivamente proprio del culto di P., ma poi, essendosi a questo avvicinata la figura di Efesto, si celebrò anche nelle feste dedicate a quest'ultimo dio, e infine entrò a fare parte delle feste Panatenee. Oltre che ad Atene, dove con ogni probabilità deve essere additata la sua origine, il culto di P. esisteva anche a Tebe, dove la sua qualità di nume del fuoco lo aveva fatto entrare nella cerchia religiosa dei Cabirî (v.), a Panopeo nella Focide e ad Opunte nella Locride; e tracce, se pure assai deboli, della figura di P. inteso come dio non mancano neppure nel Peloponneso, e precisamente ad Argo, dove gli abitanti si onoravano di venerare la tomba di P., e a Sicione, che pare debba essere una cosa sola con Mekone, la città dove, secondo Esiodo (v. sotto), P. si rese colpevole del primo inganno verso il padre degli dei.
Nella mitologia, le prime testimonianze intorno alla figura di P. ci sono offerte da Esiodo, al quale forse, come si è detto, dobbiamo attribuire una prima elaborazione mitologica della personalità, fino allora solamente religiosa, di P. Secondo Esiodo P. è un Titano, figlio di Giapeto e dell'Oceanide Climene. Amico degli uomini e desideroso di favorirli, allorquando a Mekone si debbono dividere i sacrifici fra gli dei e gli uomini, P. riserba agli uomini le parti migliori delle vittime, ricoprendole di ossi e di pellacce, mentre il mucchio peggiore riserbato agli dei è rivestito di nitido grasso. Zeus sceglie la parte peggiore, ma non rinuncia ad una terribile vendetta, la quale consiste nel privare gli uomini del fuoco. Ma anche questa volta P. non viene meno al proprio sentimerito di benevolenza verso l'umanità, e ruba il fuoco agli dei nascondendolo dentro una canna. Allora Zeus medita una punizione ancora più atroce, sia per P. sia per i suoi protetti: agli uomini egli manda la donna, principio di tutti i mali che affliggono l'umanità, P. invece viene, dietro ordine suo, incatenato ad un palo, ed a lui immobile un'aquila divora il, fegato che continuamente ricresce. La creazione e l'invio della donna sembra precedere, nell'ordine cronologico del mito, la punizione di P. La nuova creatura, plasmata da Efesto e dotata dagli altri dei di meravigliose doti che la rendono quanto mai seducente, viene inviata come sposa ad Epimeteo, al dissimile fratello di P., il quale, non dando ascolto agli avvertimenti del suo saggio fratello, accoglie il regalo degli dei e con esso l'infelicità per sé e per tutti i mortali. Però secondo un'altra tradizione risalente anch'essa ad Esiodo, Pandora (tale infatti è il nome della prima mortale nel racconto delle Opere e Giorni di Esiodo), sarebbe stata sposa di P. Il P. di Esiodo non sembra, dunque, avere alcunché di comune (all'infuori del nome) con l'antica divinità del fuoco, e ci presenta invece nettissimi quei caratteri di previdenza e di amore all'umanità che sempre più tenacemente aderiranno alla sua figura, e dei quali il primo è in certo modo convalidato da un'etimologia del nome stesso di P., dal verbo προμανϑάνω, etimologia alla quale Esiodo mostra di attenersi e dalla quale egli creò la scialba figura di Epimeteo. Nuova evidenza acquistò il mito di P. nella elaborazione drammatica di Eschilo (v.), il quale a P. dedicò una sua trilogia, di cui solo il Prometeo incatenato (Προμηϑεὺς δεσμώτης) è pervenuto sino a noi. La tragedia presenta P. incatenato non più ad un palo, ma ad una rupe del Caucaso, e tormentato sia dalle sofferenze del corpo sia, e forse anche più, dalle angosce dello spirito. Egli infatti ci appare come colui che ha lottato per rendere gli uomini più forti e felici, dando loro nelle mani formidabili e divine armi di progresso nella vita materiale e spirituale, ed ora è vittima inerme di una forza egoista ed invidiosa: questo rivela P. alle Oceanine e ad Io errante che, fermatesi a visitarlo, cercano di lenire il suo dolore, e insieme dimostra la sua qualità di veggente, che gli viene dalla madre Temi, predicendo avvenimenti futuri, fra i quali una tremenda sconfitta del padre stesso degli dei. Eschilo pertanto aggiunse nuovi elementi al mito di P., quale esso era stato concepito da Esiodo, e specialmente ne approfondì il significato morale e filosofico. Presso gli altri due grandi tragici del sec. V, Sofocle ed Euripide, P. ha, per quanto sappiamo, una parte del tutto insignificante; e lo stesso si può dire della commedia, quando si eccettui una graziosa comparsa del benefico Titano negli Uccelli di Aristofane. Invece un'importante esposizione del mito di P. ci offre il Protagora di Platone, dove compare un tratto della leggenda, non toccato né da Esiodo né da Eschilo, ma che forse già era noto a Saffo: la creazione degli uomini per opera di P. Secondo Platone, gli dei dànno a P. e ad Epimeteo l'incarico di distribuire le varie qualità fra gli esseri viventi, che, plasmati con terra e fuoco nell'interno della terra sono oramai in procinto di emergere nel regno che ad essi è destinato. Ma Epimeteo sbaglia nella distribuzione, favorendo gli animali a scapito degli uomini; e allora P., amico dell'umanità, ruba nell'officina di Efesto e di Atena insieme col fuoco la saggezza, e riesce così a infondere nelle anime delle nuove creature la preziosa scintilla divina. In Platone, dunque, è per la prima volta manifesta la concezione del fuoco rubato da P. come dell'energia spirituale che anima gli uomini. Dopo Platone, la figura di P. compare frequentemente nella letteratura greca e poi anche in quella romana, ora nella scena del ratto del fuoco, ora in quella dell'atroce punizione sul Caucaso, ora, e molto spesso, in quella dell'opera creatrice, e non soltanto degli uomini, ma anche della donna e degli animali, mentre i mitografi si davano cura di collegare P., mediante genealogie più o meno complicate, ad altre figure della religione e della leggenda, e i filosofi arricchivano di concezioni più o meno appropriate quella parte morale del mito di P. che Eschilo per primo aveva messo in evidenza.
Le caratteristiche etiche di P., soprattutto la superbia, il coraggio indomito che lo sostiene di contro alla divinità, avvicinarono, nelle letterature moderne, la figura di lui a quella di Satana e influirono sulla concezione di quest'ultimo conferendole una certa dignità e bellezza. La prima traccia di questo raccostamento si trova nella Strage degli Innocenti del Marino. Questo aspetto di Satana il Milton, che conoscera la traduzione del primo canto della Strage fatta da R. Crashaw, ebbe soprattutto presente, quando nel primo libro del Paradiso perduto si accinse a descrivere un concilio infernale simile a quello del poema del Marino. Il Milton finì di conferire alla figura di Satana tutto il fascino del ribelle indomito che già apparteneva alla figura del P. eschileo. Ma né in Eschilo, né in Milton si trova la glorificazione della figura del ribelle, quale si venne formando nel Settecento, per culminare poi con la lirica di Goethe, Prometheus, e col dramma di Shelley, Prometheus Unbound, dove il vecchio mito è tolto a simboleggiare la santa insurrezione dell'uomo contro la tirannide e la superstizione. L'atteggiamento " prometeico" divenne una delle pose caratteristiche della letteratura romantica: tra le molte interpretazioni, si può citare quella di D 'Annunzio in Più che l'amore ("La tragedia interpreta con insolita audacia il mito di P.: la necessità del crimine che grava sull'uomo deliberato di elevarsi fino alla condizione titanica, ecc."), ove si nota l'identificazione di P. con la figura del Superuomo del Nietzsche, certo implicita nel Prometheus goethiano.
Numerose sono le rappresentazioni del mito di P. nell'arte figurata dei Greci e dei Romani. P., anzi, ebbe l'onore di comparire su due celebri monumenti dell'età aurea della grecità, che a noi non sono pervenuti. il trono di Zeus in Olimpia, dove Panainos dipinse fra le altre scene anche quella di P. liberato da Eracle, e il frontone del Partenone dove, nella scena della nascita di Atena dalla testa di Zeus, P. e non Efesto vibrava il famoso colpo di scure dal quale emerse la dea fanciulla. I monumenti che ci sono pervenuti relativi al mito di P. consistono, per l'età greca, in vasi dipinti, gemme, rilievi di bronzo; per quella romana in gemme, pitture, terrecotte, rilievi di sarcofagi, vetri incisi; né bisogna dimenticare gli specchi etruschi. Quanto alle scene rappresentate, si può osservare che la prima in ordine di tempo è quella della punizione, la quale già compare su gemme arcaiche del sec. VII e del VI e sui vasi dipinti a figure nere, nello schema secondo cui P. ci si mostra legato a un palo, mentre in età posteriore egli è rappresentato avvinto a una rupe. La scena del ratto del fuoco comincia a comparire soltanto alla fine dell'età ellenistica e perdura nell'epoca romana. E lo stesso si può dire della rappresentazione di P. in rapporto alla sua opera creatrice, nella quale ora egli è solo ora gli viene data collaboratrice Atena, mentre in età più tardiva altre figure si aggiungono, più o meno simboliche, con le quali l'artista cerca di esprimere i concetti morali e filosofici che si erano andati intessendo intorno alla figura di Prometeo.
Bibl.: Th. Konitzer, De fabulae Promethaeae in arte litterisque usu, Königsberg 1885; J. Toutain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des ant. grecques et romaines, s. v. Prometheus; K. Bapp, in Roscher, Lexikon der griech. u. röm. Mythologie, III, ii, col. 3032, s. v. Prometheus; N. Terzaghi, Monumenti di P., in Studi e materiali, III (1905), p. 199 segg.; S. Reinach, Aetos Prometheus, in Rev. arch., X (1907), ii, p. 59 segg.; N. Terzaghi, Il mito di P. prima di Esiodo, in Atti Acc. Napoli, V (1917), ii, p. 115 segg.; G. Méautis, Le mythe de P., Neuchâtel 1919; U. v. Wilamowitz, Der Glaube der Hellenen, Berlino 1931, 1932, I, pp. 148, 344 seg.; II, pp. 95, 133 seg.; L. Deubner, Attische Feste, Berlino 1932, p. 211 seg. - Per P. nelle letterature moderne v.: O. F. Walzel, Das Prometheus-symbol von Shaftesbury bis Goethe, in Neue Jahr. f. klass. Altertum, XXV (1910); J. C. Bailey, P. in Poetry, n The Continuity of Letters, Oxford 1923.