PROPERZIO
. Poeta latino, nato tra il 47 e il 46 a. C., morto circa il 16 o il 15 d. C. Dei tre nomina, ne conosciamo solo due: Sextus Propertius; il terzo, Aurelius, dato dai codici, è certo errato. Egli stesso si chiama sempre Propertius. Umbra la patria, ce lo dice egli stesso (IV,1, 121), presso Perugia, tra la nebulosa Mevania (Bevagna) e il lago, probabilmente Assisi. Il padre, a quanto pare, apparteneva all'ordine equestre; non povera la famiglia, ma aveva sofferto assai per la ripartizione delle terre, dopo la battaglia di Filippi. Il padre morì che P. era ancora fanciullo; la madre poco dopo che egli prese la toga virile. Come altri spiriti poetici, sentì presto l'aridità degli studî forensi, a cui era stato avviato e si diede alla poesia. E insieme alla poesia venne l'amore. Il primo, breve, appena deposta la toga pretesta, sui sedici o diciassette anni, per una schiava Licinna, "la lupetta", esperta di voluttà, ma spontanea, che gli diede la gioia di un amore non venale (III, 15, 3 segg.). Circa diciottenne, conobbe Cinzia, il grande, inobliabile, doloroso amore della sua vita. Al poeta parve di amare la prima volta, con cuore vergine; la rassegnata Licinna non aveva che appagati i suoi sensi: la grande passione del cuore, non meno che della sensualità ardente del poeta d'amore, cominciava ora. Come la Lesbia di Catullo, Cinzia era men giovine dell'amante; accorta ed esperta del suo dominio, seppe signoreggiarne l'anima; presto divenne tutto per lui: Cuncta tuus sepelivit amor. Donna di mondo, benché sia incerto se cortigiana o (come è più probabile) una matrona della società elegante, non trascinò P. in una vita d'umili amori e intrighi, come la Delia di Tibullo; ma seppe accompagnare i fascini di una voluttà ardente, attizzata dalla gelosia, con la varietà di una vita brillante, avvivata dal gusto squisito che essa aveva per il canto, la poesia, la danza, l'intreccio di mutevoli avventure. In quel clima di passione e di arte, nacque il primo libro delle elegie; come quell'amore, raffinato, di una squisita dottrina di poesia alessandrina, che era del resto allora di moda. Roma si era fatta grande nell'atmosfera dell'ellenismo, ed era essa stessa la vera erede dell'ellenismo, il conquistatore del mondo nel nome e nello spirito della cultura e dell'arte. Si correva ora alla conquista della bellezza della poesia e della stessa vita greca, come prima si era corso alla conquista dell'impero. E se un tempo Roma si era fatta una cultura e una poesia, innestando, un poco tumultuariamente, i germogli dell'arte greca sopra il verde e vivido tronco della romanità, ove erano cresciuti con un giovane rigoglio meraviglioso, ora si procedeva con più conscia riflessione. Roma voleva divenire l'emula della Grecia: ad uno ad uno, tutti i generi della poesia greca dovevano essere conquistati e fatti proprî, con arte esperta. Virgilio aveva cominciato alla scuola dell'ellenistico Teocrito, prima di levarsi all'ardimento geniale di essere l'Omero latino. Properzio, che, con generosità non comune in un uomo di lettere, salutò l'Eneide con la lode magnifica: Nescio quid maius nascitur Iliade, si appagò di essere il Callimaco e il Fileta romano; l'emulo e il continuatore, nello spirito della latinità, dei due più famosi elegiaci ellenistici. L'elegia del resto era allora in auge a Roma, e ben si accordava al carattere dei tempi nuovi, carattere di vita intima, esperta a godere dei più raffinati e ombratili sentimenti dell'amore, dei riposi e sfondi campestri, delle amicizie e intimità letterarie, dell'erudizione poetica e mitologica. Poesia di più lieve contenuto e di più breve ambito, si prestava ad una cura gelosa e raffinatissima del ritmo, della musica del verso e dell'eleganza dell'espressione. P., poeta di passione del cuore, ma ancor più di passione letteraria dell'arte, era certo fra i più dotati per accogliere le squisite eredità dell'elegia ellenistica, dandole un ben più ampio respiro romano e una nuova intimità appassionata. Il suo primo libro lo rese ben presto famoso. Con l'amore e la poesia venne la gloria. Gloria di cenacoli letterarî, con le protezioni influenti, e le amicizie artistiche. Come Virgilio, fu del circolo di Mecenate, con Virgilio, Gallo, Pontico, Basso.
Tra poesia e vita mondana, il primo periodo dell'amore per Cinzia durò cinque anni. Cinzia era volubile, ma affascinatrice dominava con la sua facilità di disamare e con l'accorto orgoglio di volere e sapere essere unica nel cuore e nei sensi del poeta, che piange la severità di un intero anno da parte dell'amata, per il tradimento di una sola notte. Poi venne la rottura. Ma non senza riconciliazioni, che appresero al poeta l'amara verità del doloroso grido catulliano: Difficile est longum subito deponere amorem. L'appassionato animo latino non conosce i troppo facili conforti e oblii degli amori ellenistici dei poeti dell'Antologia. Quel travaglio e quella melanconia d'amore stanco, inasprito, e pur sempre inobliabile, con la malata tristezza dei ricordi e dei fascini delle rivelazioni insostituibili della prima giovinezza, dà al libro di poesie di P., benché in minor misura che a quello di Catullo, l'impronta profonda di una nuova età nella storia della passione umana. Ma, a poco a poco, il letterato e il poeta dotto, l'ellenista, prevalgono sul poeta e sull'amante. P. lascia la poesia d'amore per quella delle rievocazioni romane e italiche. Sua ispirazione sono ora il mito e la storia; l'eroina sub specie aeternitatis della sua elegia è ormai non Cinzia, ma Roma, con i suoi orgogliosi miti patrî, le sue glorie di eroismo e di magnifiche conquiste.
Quattro sono nei codici i libri delle elegie di P. L'opinione del Lachmann che sia più opportuna una divisione in cinque libri, è rifiutata da quasi tutti gli editori. Nei primi due, l'amore di Cinzia, con i suoi episodî di passione ardente, di gioia, di abbattimento, di gelosia, tra ricordi di rivali, di invidi, di amicizie artistiche, domina sovrana. È un piccolo romanzo di passione, un po' sconnesso, in qualche punto assai letterario ma ove sono pagine fra le più commosse dell'amore antico. Cyntia è uno pseudonimo, che, ci dice Apuleio, sta per Hostia (secondo un'opinione possibile, ma incerta, la nipote del poeta Ostio), ma se finto è il nome, non finto è l'amore. Cinzia non è, come la Corinna di Ovidio, uno pseudonimo comodo, che accoglie, sotto una parvenza unica, senza volto del resto, una turba varia di amori libertini, senza profondità. Le elegie di P. ci fanno vedere questa donna affascinatrice, grande, bionda, dalle belle mani, tutta atteggiata in ogni movimento a grazia di seduzione. È qui veramente la rivelazione di una donna romana, con il suo cuore che, pur volubile, sa amare di una passione imperiosa. Ma col terzo libro la parte di Cinzia si fa sempre minore. L'artista vi parla della sua arte, si preconizza la gloria, piange illustri morti romani, rende omaggio a Mecenate, ad Augusto. Le note d'amore divengono più generiche, dispettose, vendicatrici. Il quarto libro rivela in P. un'ambizione nuova di poeta. Vuol essere il Callimaco romano, cantare le leggende della latinità, con uno spirito tra callimacheo e virgiliano. Il dio Vertumno, Giove Feretrio, Ercole, Tarpeia, sono tra gli argomenti mitologici o leggendarî di questo nuovo esaltatore di Roma nell'elegia. Ma questa "Romaide" in minore affidata alla musica gracile dell'elegia, non ha gran rilievo. Gli argomenti solenni trovano in P. un poeta di scarsa forza. Solo Tarpeia balza dal quadro dell'elegia properziana con la potenza drammatica di un amore tragico, pieno di accorata passione colpevole. Il poeta di Roma resta così, pur sempre, il poeta dell'amore. E l'amore di Cinzia, pure in questo libro, trionfa, l'ultima volta, nella bellezza di purità e di ideale della morte. L'elegia in cui Cinzia, da poco defunta, appare nella visione notturna al poeta, ha una bellezza singolare nella poesia antica. Prima le note realistiche e forti dell'arte romana, che pure la morte vede nella plastica sensuosità del reale: i suoi occhi stessi di passione ardente e voluttuosa, i suoi capelli, la veste bruciacchiata dal rogo, il berillo dell'anello avvampato dall'alito ardente della fiamma, allividite le labbra dall'onda del Lete. I rimproveri appassionati della gelosia e dell'orgoglio di essere l'unica amata, l'ansia di vivere ancora sulla terra, in un'anima amante; la tristezza squallida del mondo della tenebra. Ma insieme un'acuta tenerezza di rimpianti d'amore e di vita, un'accorata ribellione alla morte, che ha così forti accenti, ove Cinzia prega l'amante di strappare dalla sua fossa l'edera che le fa male, stringendo le sue ossa con gli attorti tralci. E ancora le ultime volontà affettuose, per le creature umili e fide della domus romana, con un'intimità di vita che la morte fa più pura. Con questa poesia di amore e di morte, che ha altre note meno appassionate, ma pur commosse e solenni, nell'epicedio di Cornelia (in quella che fu detta, con qualche esagerazione, la regina delle elegie) si chiude il libro della poesia e della vita di Properzio. L'ultimo libro, un poco raccogliticcio, fa pensare a un'opera interrotta dalla morte del poeta.
Già all'età di Quintiliano (Inst. orat., X,1, 93) P. era un classico dell'elegia e si discuteva chi fosse maggior poeta tra lui e Tibullo. E ancor si discute, con disputa un poco oziosa, se in essa non fosse impegnata quella pensosa ed esperta ascesi del gusto letterario che è pur sempre necessaria per leggere i classici nel loro spirito e nella loro continua lezione di perfezione artistica. Non di rado i critici, e soprattutto gli eruditi, con cui P. ha maggiore affinità di spirito, si dichiararono per P. Ma il tempo, con i suoi giudizî più spontanei, è pur sempre per Tibullo. Basta infatti l'epiteto "tibulliano" per evocare una finezza, un'originalità di note di arte, sia pur chiusa a un ambito discreto, che indicano come Tibullo sia veramente creatore, nella bellezza della poesia e nella storia del sentimento umano, con una spontaneità e una novità eterna e inconfondibile, che P. non ha. Arte properziana suona nel giudizio del tempo piuttosto per indicare artificio. Meno vario e meno copioso, come morto più giovane, disuguale anche, Tibullo, quando è lui veramente, ha una purezza di fascini e di stile, che, pur nel tenue, è propria di un'arte classicamente grande. P., più vario, più ardente, è anche meno profondo e meno puro nelle note dell'arte. L'erudito si rivela troppo spesso; il puro letterato traspare compiaciuto dietro il poeta. I suoi dei e le sue evocazioni mitologiche sono troppo frequentemente, come diceva un antico, conscripti Musarum in albo, piuttosto che viventi nella religione del cuore. Sopraffanno la semplicità della passione, anziché approfondirla. Ricordano la malefica suggestione dei cataloghi e dei manuali ellenistici. Il poeta che, per descriverci i fascini di Cinzia, si affanna a paragonarla in un cumulo di echi mitologici e letterarî, accatastati in pochi versi, ad Arianna, ad Andromeda, ad Antiope, a Ermione, ad Andromaca, a Briseide, non rappresenta la sua passione né la sua donna, ma ci distrae in una poesia ornamentale e fredda. Se vuol persuadere a Cinzia una bellezza senza lenocinî di adornamenti, ricordandole che Leucippe e Ilaira seppero farsi amare per una grazia pura e ingenua, che Calipso, Issipile, Evadne, dimenticarono d'ornarsi nell'impeto ardente del loro dolore, è egli stesso il peggior persuaditore di semplicità, nell'atto che se ne fa maestro. Gli dei e le evocazioni mitologiche di Tibullo sono quasi sempre quelli che hanno ancora più vivo e profondo il culto delle anime umili campestri, con così caro profumo di religione rustica, o con nuovo fervore dei recenti culti orgiastici dell'oriente: gli dei e i personaggi mitici di P. sono troppo spesso figure decorative della poesia erudita. E insieme con l'ornamentalità decorativa dei miti, tra i meno noti, nuoce l'artificiosità troppo vistosa, e spesso contorta, della forma. P. è poeta difficile, non per altezza ardua di pensiero, per profondità o originalità sublime di sentimento che violenti le forme consuete dell'espressione, bensì per troppo ricercata raffinatezza letteraria che non sfugge, anzi pare vagheggi compiaciutamente, l'oscurità. Ma, pure con queste riserve, P. è vero poeta, e uno dei maggiori poeti d'amore. Certi suoi larghi movimenti drammatici di poesia, hanno lasciato echi nella letteratura di ogni tempo.
Dall'edizione principe di Venezia (1472) all'Ottocento, molte sono le edizioni di P., fra cui notevoli quelle del Passerat (1608) e quella del Bürmann (1780) per i commenti. Ma bisogna giungere all'edizione di C. Lachmann (1816) per avere una recensione critica fondata sopra un sicuro criterio di cernita dei manoscritti. Edizioni recenti degne di nota: M. Rothstein (Berlino 1898), con commento tedesco; I. S. Phillimore (Oxford 1907); H. E. Butler (Londra 1905), con commento inglese; C. Hosius (Lipsia 1911); D. Paganelli (Parigi 1929), con traduzione francese a fronte; Barber (Oxford 1933), con commento inglese.
Bibl.: J.S. Phillimore, Index verborum Propertianus, Oxford 1905; F. Plessis, Études critiques sur P., Parigi 1884; W. Schöne, De P. ratione fabulas adhibendi, Lipsia 1911; N. Festa, P., in La Cultura, V (1926), pp. 443-54, 481-92.