Abstract
Il concetto giuridico di proprietà (dal latino proprietas -atis), nonostante le varie articolazioni in cui è stato declinato nelle diverse epoche storiche, può sempre ricondursi a un riconoscimento o una autorizzazione dell’ordinamento giuridico positivo al soggetto titolare, affinché egli tragga dal suo status di proprietario ogni utilità, secondo la naturale destinazione del bene, senza dover patire molestie o turbamenti da terzi nell’uso del bene stesso.
Con il termine ‘proprietà’ si intende il diritto reale per eccellenza, costituito dalla facoltà di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi previsti dalla legge. La disciplina principale del diritto di proprietà è dettata, nell’ordinamento italiano, dall’art. 832 c.c. e dall’art. 42 Cost. Il combinato disposto delle due disposizioni fissa i principi ed i limiti che regolano il diritto di proprietà. Il diritto di proprietà è un diritto assoluto, vale a dire una pretesa giuridica che l’ordinamento riconosce e tutela erga omnes a favore di chi ne è titolare. Si usa anche dire che esso è un diritto soggettivo su una cosa, alludendo al potere che il proprietario ha nei confronti della cosa, oggetto del diritto. In realtà tale impostazione è stata messa in crisi dalla cd. ‘funzione sociale della proprietà’, espressa dal nostro ordinamento giuridico, come si vedrà infra, concretantesi non solo nel diritto, ma anche nel dovere del titolare ad esercitare la proprietà secondo i fini prescritti dall’ordinamento stesso.
Con la Costituzione del 1948 il diritto di proprietà riceve la sua consacrazione definitiva a livello costituzionale nell’art. 42, che si compone di 4 commi. Il legislatore ordinario non definisce la proprietà, ma ne indica all’art. 832 c.c. il contenuto: il proprietario ha il diritto (rectius: il potere) di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento. Al legislatore viene conferito il potere di intervenire sui diritti fondamentali, senza però arrivare a sacrificarne il contenuto minimo. All’art. 42, co. 1, Cost., la proprietà viene qualificata come «pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati». Nel primo comma vi è dunque il riconoscimento delle due forme, pubblica e privata della proprietà, su un piano paritario, ma conferendo priorità, quanto meno lessicale, alla proprietà pubblica. Il primo comma, inoltre, qualifica i beni produttivi come pubblici o privati.
«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Con il co. 2 si riconosce il diritto alla proprietà privata, attribuendo al legislatore i poteri di determinazione dello stesso. Si configura pertanto un potere del legislatore non illimitato, ma costituzionalmente orientato al perseguimento della funzione sociale. Peraltro, fin dalla prima giurisprudenza della Corte, il secondo comma e il terzo sono stati rivisti come corpus unico sotto il profilo ermeneutico ai fini della determinazione dell’indennizzo (C. cost., 29.5.1968, n. 55). Il requisito dell’accessibilità alla proprietà a favore di tutti i consociati non ha incontrato lo stesso favore attribuito dalla dottrina alla funzione sociale, ed anzi, tale postulato è apparso ai più pleonastico, nel dettato legislativo. Tuttavia esso ha una sua valenza intrinseca che non può essere sottaciuta, quanto meno nell’ottica del suo legame con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Con tale prescrizione il legislatore è, infatti, vincolato a non effettuare discriminazioni nei confronti di alcuna categoria sociale. In un’ulteriore prospettiva di rottura, il riferimento all’accessibilità a tutti, potrebbe costituire il fondamento di una riserva di proprietà pubblica, riservata allo Stato. Al co. 3, l’art. 42 prosegue specificando il limite più evidente al diritto di proprietà: l’espropriazione. «La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale». Con tale comma la Costituzione prevede l’ablazione delle proprietà, con il limite dei casi previsti dalla legge e del pagamento parziale del sacrificio, mediante indennizzo.
Ne emerge con evidenza la conclusione che la disciplina costituzionale della proprietà indica che l’interesse del privato intanto può essere tutelato in quanto non sia in contrasto con l’interesse generale. (cfr. sul punto C. cost., 25.5.1957, n. 61). Infine il co. 4 afferma che «la legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità». Nell’ultimo comma si rinviene, quindi, il riconoscimento della rilevanza costituzionale dell’istituto successorio, e si conferisce al legislatore il potere di definirne norme e limiti.
Come si può notare dall’intero impianto dispositivo, l’interesse del privato non è mai richiamato, mentre al legislatore è attribuito il compito di assicurare la funzione sociale e di rendere accessibile a tutti il diritto di proprietà.
L’inserimento della funzione sociale nella struttura del diritto soggettivo comporta inevitabilmente il superamento dell’archetipo individualistico e introduce la necessità di bilanciamento dei diritti del proprietario con quelli dei terzi. A livello interpretativo, tuttavia, non mancano voci discordanti. La tradizione civilistica tende a conservare il modello individualistico, esiliando la funzione sociale come mero accidente esterno. Altri, pur nella medesima ottica tradizionale, attribuiscono alla funzione sociale una valenza meramente negativa mirante a sanzionare l’eventuale condotta antisociale del proprietario. Ma le tesi dominanti sono quelle che attribuiscono alla funzione sociale il valore di rottura con l’individualismo e la valorizzazione, invece, della dimensione sociale. Sulla natura della funzione sociale e sul ruolo del legislatore si è anche espressa la Corte costituzionale, la quale ha affermato che la funzione sociale non può più essere considerata come mera sintesi dei limiti già esistenti nell’ordinamento positivo in base a singole disposizioni; essa rappresenta, invece, l’indirizzo generale a cui deve ispirarsi la legislazione ordinaria (C. cost., 15.7.1983, n. 252). È così che i diritti dei terzi assurgono al rango di diritti equiparati a quelli del singolo proprietario, in un’ottica di molteplicità di interessi egualmente tutelabili che mina definitivamente la validità del modello tradizionale della proprietà vista come diritto soggettivo assoluto. In questa prospettiva non può non escludersi la riconducibilità della proprietà privata al di fuori dell’alveo dei diritti fondamentali della persona, per qualificarla invece come mero rapporto economico (C. cost., 17.2.1971, n. 22).
Dal presupposto della negazione della proprietà come diritto inviolabile e per effetto della funzione sociale discende lo sfaldamento del diritto di proprietà in una molteplicità di statuti particolari e di regimi differenziati, tipici della legislazione speciale. Ed è la stessa Corte Costituzionale che, in un obiter dictum, ha escluso che il diritto di proprietà si possa considerare come diritto primario e fondamentale» dell’individuo (C. cost., 17.2.71, n. 22). La soluzione mediana tra i due opposti fonda la lettura delle Carta costituzionale sull’idea che essa imponga una connessione tra interesse individuale e interessi collettivi, ma demandi al legislatore ordinario il compito di operare tale raccordo. L’evoluzione della teoria della funzione sociale approda negli ultimi tempi a porsi la questione della propria applicabilità ai beni immateriali, come tali insuscettibili di appropriazione e non connotati dal carattere dell’esclusività. Così la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una disposizione che vietava la brevettabilità dei farmaci, in quanto la norma avrebbe costituito un serio ostacolo alla ricerca: «Ma la peculiarità della categoria dei beni immateriali, suscettibili di simultaneo e plurimo godimento (del resto lo stato di res communis omnium é quello definitivo di tutte le invenzioni, siano esse brevettabili o meno) sconsiglia ogni meccanica inserzione negli schemi della proprietà privata o pubblica ex art. 42, primo comma, Cost. anche se per taluni aspetti l’assimilazione é possibile: così per l’espropriazione dei diritti di brevetto». (C. cost., 20.3.1970, n. 20). In tema di marchi, invece, la Corte ha affermato che anche i beni immateriali sono suscettibili di interesse sociale, argomentando sulla base del fatto che l’art. 42, co. 2-3, lungi dal porre in dubbio la legittimità della norma impugnata, ne fornisce giustificazione perché anche la titolarità e il godimento dei beni immateriali vanno armonizzati con l’interesse sociale, la cui sussistenza non è verificabile dalla Consulta. (C. cost., 3.3.1986, n. 42).
Secondo la nozione dell’art. 832 c.c., la proprietà è «il diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico». In particolare il diritto di godere della cosa è la facoltà per il titolare di utilizzare o non utilizzare la cosa (cosiddetta ‘disposizione materiale’) per trarne tutte o nessuna utilità. Tale facoltà contempla anche la possibilità di trasformare, e, al limite, di distruggere la cosa. Per le cose fruttifere implica il diritto di fare propri i frutti, sia naturali sia civili, che già nascono nella sfera giuridica del titolare. Il godimento della cosa realizza quindi quello che è il suo valore d’uso. Si parla invece di ‘disposizione giuridica’ della cosa per indicare il potere di disporne, la facoltà di venderla o di non venderla, di donarla, lasciarla per testamento, di costituire sulla cosa diritti reali minori o diritti reali di garanzia. Oppure, secondo una diversa lettura dottrinale, il potere di disposizione si sostanzierebbe nella sola possibilità di appropriarsi o meno del valore economico del bene, relegando, così, la mera facoltà di alienare tra i poteri di godimento. Parte della dottrina mette tuttavia in guardia da una visione semplicistica dell’insieme dei diritti di godimento e di disposizione. Non si deve infatti ritenere di trovarsi al cospetto di una somma di diritti distinti e isolati fra loro. Il diritto di proprietà, proprio grazie alla sua caratteristica di pienezza, deve piuttosto intendersi come una sintesi di facoltà, che assumono rilievo quando vi sia turbativa o contestazione da parte di terzi.
Il diritto di proprietà si caratterizza, quindi, per due elementi: la pienezza e l’esclusività. In base al primo elemento, il proprietario può disporre della cosa in ogni modo, ponendo in essere ogni condotta che non sia espressamente vietata. In base invece al principio dell’esclusività, il proprietario può escludere chiunque altro dal godimento e dalla disposizione della cosa (il diritto di proprietà rende legittima la pretesa del singolo di servirsi delle cose con esclusione degli altri). La pretesa del proprietario è valida erga omnes, vale a dire contro chiunque la violi. Corollari degli elementi di pienezza ed esclusività sono anche l’elasticità (il diritto di proprietà può essere compresso ad esempio da un diritto di usufrutto, ma non appena questo viene meno la proprietà riassume la sua originaria estensione); l’autonomia e l’indipendenza: in capo al proprietario sussiste il diritto che nessun altro possa essere titolare di un diritto maggiore rispetto al suo; l’esclusività: vale a dire il riconoscimento dello jus excludendi alios in capo al proprietario, nonché l’impossibilità di contemporanea esistenza di una pluralità di diritti di proprietà sulla medesima cosa; imprescrittibilità: la proprietà resta in capo al titolare anche se egli non ne fa uso: Essa si può perdere solo per usucapione, ma non per mancato uso, ancorché protratto nel tempo; la perpetuità: non possono essere imposti limiti temporali al diritto di proprietà. Su questo punto però la dottrina è divisa. Alcuni, infatti, ragionano anche di ‘proprietà temporanea’ riscontrandone evidenti esempi all’interno del codice civile in relazione alla proprietà superficiaria a tempo determinato (art. 953 c.c.), o al legato a termine finale (art. 637 c.c.).
Il primo aspetto e requisito giuridico essenziale per il riconoscimento della proprietà è il titolo di appartenenza del bene, vale a dire il riferimento a un modo di acquisto valido, secondo la previsione dell’ordinamento. Un acquisto di proprietà compiuto fuori dai modi previsti dalla legge non può essere riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico.
L’art. 922 c.c. prevede alcuni modi di acquisto peculiari per il diritto di proprietà. È da sottolineare come l’art. 922 c.c. non presenti un numero chiuso dei modi di acquisto della proprietà, bensì un’elencazione esemplificativa che apre ad altre modalità di acquisto «previste dalla legge», tra le quali assume rilievo il possesso di buona fede, previsto dall’art. 1153 c.c. Si suole dividere le tipologie di acquisto della proprietà in acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo.
Si ha acquisto a titolo originario quando l’acquisto è giustificato da un rapporto diretto della persona con la cosa, indipendentemente da ogni diritto di un precedente proprietario, che può anche non esserci e che se c’è perde comunque la proprietà, anche contro la propria volontà. Conseguenza dell’acquisto a titolo originario è che la proprietà si acquista libera da ogni diritto altrui che avesse gravato il precedente proprietario estinguendo quindi i diritti reali e le garanzie reali in precedenza costituiti sulla cosa.
Tra i modi d’acquisto a titolo originario si rinviene l’occupazione (artt. 923-926 c.c.) che consiste nella presa di possesso di cose mobili che non sono di proprietà di nessuno, oppure che sono state abbandonate. Essa richiede l’impossessamento del bene e l’intenzione di farlo proprio. Altro modo di acquisto a titolo originario è l’invenzione (artt. 927-933 c.c.), vale a dire il ritrovamento di cose smarrite che devono essere riconsegnate al proprietario o al Sindaco del luogo di ritrovamento. Se dopo un anno dalla consegna esse non vengono ritirate il diritto di proprietà spetta a colui che le ha rinvenute, mentre se si presenta l’originario proprietario egli deve al ritrovatore il 10% del valore della cosa. L’art. 934 c.c. si riferisce ai casi di accessione, unione e commistione, specificazione. In particolare l’accessione riguarda il caso in cui una proprietà principale attira nella propria area altre cose accessorie che prima ne erano estranee. Tipico è il caso di accessione di cosa mobile a cosa immobile. Un caso particolare di accessione di immobile a immobile è la cd. accessione invertita, disciplinata dall’art. 938 c.c., che si verifica quando il proprietario di un edificio occupa in buona fede una parte del fondo attiguo altrui. Le altre 3 ipotesi (unione, commistione, specificazione) sono tipiche figure di accessione di cosa mobile a cosa mobile. L’unione o commistione si attua quando una pluralità di cose mobili di diversi proprietari vengono ad unirsi, fino a formare una cosa inscindibile. In tal caso si instaura una comunione far i comproprietari, a meno che non ve ne sia uno prevalente, per quantità o qualità della cosa. Si ha infine specificazione quando viene creata, mediante lavoro, una cosa nuova, utilizzando materiale altrui. In questo caso la regola generale è che l’apporto di lavoro prevalga sulla proprietà del bene.
Si ha acquisto a titolo derivativo quando l’acquisto opera per effetto del trasferimento della proprietà da un precedente a un successivo titolare che l’accetta, così come era in capo al suo predecessore, con gli stessi oneri e gli stessi limiti.
L’essenza dell’acquisto a titolo derivativo sta nel fatto che l’avente causa acquista la proprietà della cosa solo se e solo come il dante causa ne era proprietario, ciò implica che nessuno possa trasferire ad altri diritti maggiori di quanti egli stesso abbia, e che l’eventuale risoluzione o declaratoria di nullità che colpisce l’acquisto del dante causa si ripercuote sul patrimonio del successivo proprietario Modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo sono: i contratti traslativi della proprietà, i trasferimenti coattivi, la successione mortis causa.
L’art 42 Cost. stabilisce, al co. 2: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Tale disposizione da un lato riconosce e garantisce il diritto di proprietà, dall’altro si preoccupa di limitarlo, anzitutto con la riserva di legge e in secondo luogo con la funzione sociale. Ed è proprio la funzione sociale ad esprimere il più rilevante limite nell’interesse pubblico. Le sue manifestazioni più evidenti si riferiscono ai casi di espropriazione per pubblica utilità, requisizione e occupazione. La più frequente fra tali fattispecie risulta senza dubbio l’espropriazione. Nella prima giurisprudenza della Corte costituzionale il concetto di funzione sociale, contenuto nel co. 2 dell’art. 42, viene connesso con la procedura espropriativa prevista al co. 3, per poi, nel tempo, distaccarsene sempre più fino ad assumere autonoma dignità. Così in una delle prime sentenze della Consulta sull’istituzione ex lege di servitù militari senza indennizzo, la Corte ne rileva l’iniquità affermando che le servitù militari non pongono limiti destinati ad assicurare la funzione sociale della proprietà o a renderla accessibile a tutti, ma piuttosto si risolvono in parziali espropriazioni, imponendo gravissime limitazioni ai proprietari. Onde ad esse si deve ritenere applicabile il terzo comma dell’art. 42 della Costituzione, con conseguente corresponsione di un giusto indennizzo (C. cost., 20.1.1966, n. 6). La Consulta, quindi, attua una distinzione tra le limitazioni imposte ad intere categorie di beni, che non richiedono indennizzo, e atti ablativi su beni determinati, attuati con provvedimenti singolari, per i quali è invece necessaria la riparazione pecuniaria.
Altre limitazioni di ordine pubblicistico che giustificano una compressione dei beni privati si rinvengono nella conformità ai piani regolatori, ai beni paesaggistici (C. cost., 29.5.1968, n. 56), nella dazione in concessione di cave che non siano sfruttate dal proprietario del fondo (C. cost., 9.3.1967, n. 20). La Corte costituzionale ha dichiarato la non assimilabilità dei vincoli paesistici a quelli urbanistici, qualificando i primi come beni di interesse pubblico (C. cost., 18.7.1997, n. 262). Ad analoga conclusione la Corte è giunta in relazione agli immobili di interesse storico, artistico e archeologico, legittimamente compressi dal legislatore senza previsione di indennizzo perché connotati dall’interesse pubblico non arbitrariamente imposto dal potere pubblico (C. cost., 4.7.1974., n 202). I beni rilevanti per la collettività, quindi, come quelli culturali e ambientali, sono legittimamente sottratti alla logica dello sfruttamento e della circolazione affidata all’uso libero dello strumento contrattuale. Una particolare attenzione si è avuta negli ultimi tempi sull’acqua, configurata quale ‘risorsa’ da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell’ambiente, in un quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio ambientale (C. cost., 27.12.1996, n. 419).
Si rinvengono nel codice e nella legislazione speciale in rapporto alle diverse categorie di beni, limiti alle facoltà di godere e disporre della proprietà. Il primo limite è costituito da quella serie di disposizioni, cosiddette regole di vicinato, poste nell’interesse privato, e, talvolta, anche pubblico, e caratterizzate dall’automaticità (i limiti nascono dalla situazione prevista dalla legge), dalla reciprocità (quel che vale per l’uno vale anche per l’altro, il sacrificio e il vantaggio sono reciproci) e la gratuità (non esiste uno squilibrio di vantaggi e quindi, di norma, non esiste alcuna forma di compenso). Un limite generale è quello del divieto di immissioni ex art. 844 c.c. (esalazioni, fumi, rumori e scuotimenti) per impedire le fastidiose conseguenze dell’attività del vicino. Il criterio scelto è quello della normale tollerabilità. Toccherà al giudice contemperare, se del caso, le ragioni della proprietà con quelle della produzione tenendo conto dei due interessi in gioco in termini di utilità sociale generale.
La seconda fonte di limiti di vicinato è data dalle norme sulle distanze minime nelle costruzioni (tre metri, secondo quanto previsto dall’art. 873 c.c.) al fine di evitare intercapedini troppo strette. Chi costruisce per primo può farlo anche sul confine, salvo i regolamenti comunali non dispongano altrimenti. L’altro proprietario potrà costruire in aderenza, oppure rispettare la distanza costruendo in posizione arretrata all’interno del proprio fondo. Se il primo proprietario costruisce non sul confine, ma ad una distanza dal confine minore della metà di quella prescritta dal codice o dai regolamenti, l’altro ha il diritto di ottenere la comunione forzosa del muro (di cui dovrà pagare il valore). Il primo potrà impedire l’occupazione del suo suolo portando la sua costruzione al confine, o arretrandola fino alla metà della distanza prevista (art. 875 c.c.).
Gli obblighi del proprietario sono anch’essi relativi alle diverse categorie di beni. Per esempio, il proprietario del suolo deve consentire l’accesso al vicino (che costituisce una servitù) che abbia necessità di entrarvi per eseguire opere sul proprio fondo; il proprietario ha inoltre l’obbligo di pagare le imposte su quel determinato bene. Al di là di questi limiti generali, ulteriori limitazioni alla proprietà fondiaria possono essere stabilite mediante la costituzione di servitù prediali. In particolare, mentre i limiti legali per la loro reciprocità non danno luogo a compenso, le servitù coattive, menomando la proprietà del fondo sul quale viene imposta la servitù a vantaggio altrui, comportano un'indennità commisurata alla menomazione.
Generale limite alla facoltà di godimento è quello, risalente al diritto romano, del divieto di atti di emulativi (art. 833 c.c.): il proprietario non può utilizzare la cosa per compiere atti che non abbiano altro scopo se non quello di nuocere o recare molestia agli altri. La categoria degli atti emulativi si pone, rispetto all’art. 832 c.c., al di fuori della tradizionale classificazione fra limiti pubblici e privati della proprietà e, la Suprema Corte ha colto il cuore del problema nell’individuazione del discrimen che consente di enucleare un criterio oggettivo per qualificare o meno come atti emulativi quelli commessi dal proprietario nell’esercizio del suo diritto. Orbene, l’elemento decisivo al riguardo è costituito dalla mancanza di un apprezzabile vantaggio dell’atto per colui che lo compie, posto che l’assenza di qualsiasi giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale rivela la mera ed esclusiva intenzione di nuocere o recare molestia ad altri e dunque lo scopo emulativo dell’atto stesso (Cass., sez. II, 11.4.2001, n. 5421).
Il divieto di atti emulativi viene integrato solo dalla presenza di due elementi, uno oggettivo, consistente nella mancanza di utilità del proprietario e l’altro soggettivo, vale a dire l’intenzione di nuocere o arrecare molestie; ed è proprio tale elemento soggettivo che in concreto rende difficile l’applicazione di tale disposizione, posto che risulta per nulla agevole fornire la prova di tale elemento, anche in considerazione del fatto che la giurisprudenza tende ad interpretare la norma in senso restrittivo, ritenendo indispensabile la coesistenza di entrambi gli elementi, oggettivo e soggettivo (Cass., Sez. II, 7.3.2012, n. 3598).
Le azioni che spettano al proprietario come tale per difendere il suo diritto anche contro eventuali comproprietari che abusano della loro quota con turbative, si chiamano azioni petitorie. Le azioni a difesa della proprietà si chiamano azioni petitorie (artt. 948-951 c.c.), mentre quelle a difesa del possesso, possessorie (artt. 1168-1170 c.c.). Quelle a difesa della sola proprietà sono: a) l’azione di rivendicazione (art. 948) c.c., che consiste nell’azione concessa al proprietario per recuperare la cosa da chi la possiede o detiene. Si caratterizza per l’onerosità probatoria in capo al proprietario, tanto da far parlare di probatio diabolica; b) l’azione negatoria (art. 949 c.c.), che è l’azione concessa al proprietario ai fini di una declaratoria di inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. Oltre alla funzione di accertamento negativo, può avere funzione inibitoria e di condanna al risarcimento del danno. Per quanto concerne la sola proprietà fondiaria vengono in considerazione anche le cd. ‘azioni di confine’: a) l’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.), che si innesta quando il confine tra due fondi sia incerto e ciascuno dei proprietari può chiedere che sia stabilito giudizialmente; b) l’azione di apposizione di termini (art. 951 c.c.), che trova applicazione quando il confine sia certo, ma occorra l’apposizione di segnali certi che lo definiscano.
Art. 42 Cost., art. 832, c.c.
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