Proprietà fondiaria e agricoltura
Non da oggi il problema dell'espansione della proprietà fondiaria veneziana nella Terraferma è presente all'attenzione degli studiosi (1): ma il tema non è mai stato affrontato ex professo, con l'ampiezza necessaria, nonostante non siano mancati spunti e contributi significativi nella storiografia degli ultimi decenni. Allo scopo di presentare, in questa sede, una messa a punto su questo importante problema per quanto riguarda il Quattrocento e il primo Cinquecento, ed indicare alcune prospettive di ricerca, si è dunque rivelato indispensabile - per raggiungere una copertura cronologica e territoriale accettabile - il ricorso a fonti inedite; e si è preferito avvalersi preferenzialmente delle fonti fiscali conservate negli archivi delle città di Terraferma, le sole in grado di fornire per il Quattrocento - in conseguenza delle caratteristiche del sistema fiscale dello stato veneto - le informazioni analitiche necessarie per abbozzare un quadro d'insieme delle dinamiche della proprietà fondiaria veneziana e delle forme di gestione nei singoli distretti. Sotto questo profilo, ovviamente, gli archivi veneziani (in particolare le denunce fiscali delle "redecime", e gli archivi privati: non molti dei quali peraltro contengono materiale amministrativo di sufficiente completezza) avrebbero fornito un materiale certo abbondante (anzi sovrabbondante), ma anche cronologicamente sbilanciato verso il Cinquecento (sia per quanto riguarda la fonte fiscale, che risale al 1514, sia in linea di massima per le fonti amministrative private). A tali fonti si è perciò fatto riferimento solo a titolo esemplificativo, e non in modo sistematico (2).
Altri contributi, in quest'opera, hanno analizzato le premesse lontane del fenomeno dell'espansione fondiaria veneziana, dell'"agricoltura di Venezia": nell'XI-XII secolo, l'acquisizione di terre riguardò, con netta prevalenza, "tutta la fascia di pianura padano-veneta addossata all'arco costiero Cavarzere-Grado entro un raggio raramente superiore ai 20-30 km, con alcuni salienti chiaramente predisposti dal corso dei fiumi affluenti all'Adriatico, ivi compreso il Po" (3). Sin da allora furono pertanto interessati soprattutto, com'era facile aspettarsi, il territorio padovano e quello trevigiano; e secondariamente l'area polesana e ferrarese. Non mancò, come è ben noto grazie ad uno studio che resta esemplare, qualche occasionale insediamento in zone più interne, lontane dalla laguna: il monastero di S. Zaccaria ebbe possessi piuttosto consistenti, oltre che a Monselice nel Padovano, anche a Ronco all'Adige, nel distretto veronese (anche in questo caso il fiume, dunque, funse da asse di penetrazione e di collegamento) (4). Ma l'acquisizione di questa e di qualche altra cospicua, compatta azienda rappresentò pur sempre una eccezione (anche, nel caso specifico, per le modalità dell'acquisto). La dimensione più corposa del fenomeno, la meno immediatamente appariscente sotto il profilo documentario, ma complessivamente la più significativa sotto il profilo economico e - si potrebbe dire - psicologico, è quella dell'infinito succedersi di acquisti singoli, di accaparramenti di singoli poderi o di singole aree boschive e paludose, che enti ecclesiastici e famiglie patrizie vennero compiendo, con crescente intensità nei secoli XII-XIV, nelle zone confinanti con la laguna (5). A fine Duecento, la situazione appariva infatti per quanto riguarda il patriziato veneziano "radicalmente mutata" rispetto ad un secolo avanti: "circa 90 delle 110-120 famiglie appartenenti all'aristocrazia veneziana possedevano una tenuta in terraferma, in alcuni casi di proporzioni ragguardevoli" (6).
Non è nostro compito qui ripercorrere queste vicende. Ma occorre almeno accennare, sia pure rapidissimamente, ai provvedimenti che vennero presi in materia, nel Due e Trecento, dai comuni cittadini interessati e dal comune veneziano. Al riguardo, non può stupire che, fra le entità territoriali confinanti, sia stato il comune di Padova il primo a regolare in modo organico con Venezia il problema del libero trasporto delle rendite agrarie. Nel distretto di questa città, la presenza degli enti ecclesiastici e anche dei laici veneziani era sin dall'alto medioevo piuttosto cospicua nel territorio di Piove di Sacco, grazie anche alle investiture feudali del vescovo di Padova. Non sorprende dunque che nel Padovano "la presenza di proprietà fondiarie veneziane, specie da parte dei privati, abbia avuto spesso vita assai difficile" (7) nel XII e XIII secolo, appunto nel momento della forte affermazione del comune urbano. Una presa d'atto significativa della rilevanza assunta dal problema della proprietà veneziana la si ebbe perciò sin dal marzo 1227, quando si stabilì la piena libertà per i Veneziani di "extrahere inde et tollere quicquid voluerint", comprese quindi le rendite sui fondi di loro pertinenza (8); inoltre il comune di Padova si assumeva l'impegno di risarcire i danni subiti dai proprietari veneziani e dai loro "villani". Il patto fu poi rinnovato nel 1235 (9). Analoghe osservazioni vanno fatte per Treviso. Tra il 1265 e il 1318, nel contesto di rapporti politici alterni fra le due città (più spesso di ostilità peraltro che non di buon vicinato, a differenza di quanto era accaduto nella prima metà del Duecento), in una serie di trattati ci si occupa ripetutamente della questione, che non poteva non preoccupare il comune di Treviso (i cui orientamenti protezionistici in tema di annona si uniformavano d'altronde a quelli di tutti i comuni italiani). È significativo per esempio che sin dal primo di questi accordi si preveda che i prodotti trasportati a Venezia debbano avere un documento accompagnatorio, circostanza tutt'altro che comune all'epoca (10). Il "grusuglum", cioè i grani estivi, dovevano infatti viaggiare fra l'inizio di agosto e s. Michele, in una sola volta e, appunto, con una bolletta accompagnatoria ("in una vice et cum una littera, et de littera accipiatur unus grossus"), e analoghe norme si stabilirono per i grani autunnali. Dei prodotti delle terre condotte "ad indominicatum", inoltre, si fa obbligo che un quarto resti a Treviso "pro utilitate et usu rusticorum". Rappresaglie, contrasti, confische di beni, che sarebbe facile documentare per i decenni successivi, testimoniano ad abundantiam la rilevanza che la questione aveva già assunto.
Sull'altro versante documentario, quello veneziano, è del resto ben noto come proprio nei primi decenni del secolo XIV, e in particolare nel terzo e quarto decennio del secolo, vengano ribaditi (nel 1335, 1339, 1341) i provvedimenti legislativi che proibivano ai Veneziani di acquistare beni fondiari nel Trevigiano, nel Padovano, nel Ferrarese o di riceverli in pegno da ecclesiastici: a tale espediente infatti si ricorreva largamente per aggirare la legge del 1274 che aveva proibito di acquistare beni fondiari in tali territori (11). Per quanto riguarda in particolare il territorio trevigiano, per il 1325, quindi per un'epoca molto vicina alla conquista veneziana (che seguirà nel 1339), si dispone - ne accenneremo più avanti - di un documento significativo, in grado di dare un quadro d'insieme delle proprietà fondiarie veneziane nel distretto (ed è in sé assai eloquente il fatto che si sia sentita la necessità di redigere un inventario di questo genere). Ma del resto, in generale, concetti come quello dell'esistenza di un "partito dei proprietari terrieri in terraferma" (12) - addirittura in grado di influenzare in qualche misura (si fa spesso, al riguardo, l'esempio della guerra di Ferrara, ai primi del Trecento) la politica estera della Repubblica - sono frequentemente citati nei lavori di sintesi (13).
Sulla base di tutto questo, è lecito affermare che per i distretti cittadini contigui alla laguna, sentiti anche nel Quattrocento come "entroterra lagunare forse più che come dominio territoriale" (14), nei quali la presenza veneziana risale ai secoli centrali del medioevo, l'espressione stessa "espansione della proprietà fondiaria" appare in qualche modo limitativa e in certo senso ambigua. Tale espansione non può essere compresa appieno, infatti, se non è inserita in una considerazione più larga e comprensiva delle attività e delle relazioni economiche nel loro insieme, così come si sviluppano in questi territori grazie allo stimolo del mercato veneziano e agli investimenti operati dai patrizi. La valutazione della presenza fondiaria non può non implicare, ad esempio, una considerazione complessiva delle risorse del territorio, prima di tutto di quella idraulica, ai fini molitori e più latamente manifatturieri. Al riguardo è significativo che tutta la letteratura, recente e meno recente, che si è occupata della questione che qui interessa, abbia giustamente fatto "passare", attraverso il cavallo di Troia della penetrazione fondiaria, un discorso più ampio ed articolato nel quale il controllo dei folloni (da panni, e, ben presto, anche da carta) e dei magli, oltre che dei mulini, ha un peso molto notevole.
Partendo da tali premesse, risulta perciò sin d'ora evidente che anche per il Quattrocento solo per l'area comprendente il Trevigiano e il Padovano si può parlare di un'unità economica sovradistrettuale, di un "mercato subregionale" che sostiene e sostanzia la dipendenza politica da Venezia (15); mentre gli altri distretti cittadini della Terraferma che vennero a costituire lo stato "da Terra" - quelli ove la presenza fondiaria veneziana era agli inizi del Quattrocento e restò assai a lungo, come vedremo, debolissima o nulla, come Vicenza e Verona, o a fortiori Brescia e Bergamo - mantengono "economie di distretto" sostanzialmente autonome. Approfondire il tema dell'espansione fondiaria veneziana in Terraferma nel Quattrocento significa innanzitutto prendere atto della profonda, strutturale diversità di questi rapporti economici, al di là della comune soggezione al "dominium" e dell'identità delle strutture di controllo politico, amministrativo, fiscale e militare che la Repubblica veneta impone a partire dal primo Quattrocento.
L'analisi dovrà dunque muoversi su due linee nettamente distinte, a seconda appunto dei diversi territori presi in considerazione. Non è certo un caso che solo a Padova e Treviso si senta il bisogno, nel corso del Quattrocento, di redigere ai fini fiscali specifici e separati elenchi delle proprietà veneziane: solo in questi contesti la presenza fondiaria dei Veneziani costituiva un problema fiscalmente rilevante. E tantomeno è un caso il fatto che, trattando di queste due città (16), Gerolamo Priuli si serva a fine secolo di termini che rinviano all'assetto fisico-topografico della città medievale (paragonandole a sobborghi della metropoli lagunare) ed applichi gli stessi schemi stereotipati che nella corrente ideologia cittadino-comunale esprimevano il rapporto fra una città e il suo territorio (l'immagine del corpo e delle sue membra):
Padova e Treviso si diéno riportare come borghi di questa città, la quale insieme con quelle è un corpo solo, e cui si dié esser tenuta, et siccome un corpo non può stare senza li soi membri principali [...> e questo è per la colligantia et dependentia che hanno tutti li abitanti di questa città con li territori predetti (17).
Del resto, i dati quantitativi disponibili per la prima metà del Cinquecento, terminus ad quem per la presente indagine, confermano appieno questa posizione egemonica: le denunce fiscali presentate per la "redecima" del 1537 rivelano che il 55,9% (circa 120.000 campi padovani) della proprietà fondiaria di patrizi, cittadini ed enti del sestiere di S. Marco è ubicata nel distretto padovano (18), e la tendenza è la stessa nella seconda metà del secolo XVI. Solo nel Seicento, come risulta dalle condizioni di decima del 1661 analizzate dal Gullino, la situazione era destinata a modificarsi, anche se non in modo radicale, con una diminuzione dell'incidenza percentuale dei possessi nel Padovano e nel Trevigiano a vantaggio in particolare del Vicentino (19).
Prima di entrare nel merito della questione che si è individuata come centrale, e di fornire e discutere fatti ed idee a proposito della penetrazione fondiaria veneziana nel territorio padovano e trevigiano, sembra opportuno soffermarsi brevemente, a comprova di quanto sopra affermato, sulle vicende della più cospicua tra le operazioni finanziarie che accompagnarono la conquista veneziana della Terraferma, cioè la vendita dei beni ex scaligeri, che si presentava come un'occasione d'oro per gli investimenti - fondiari e/o speculativi - dei patrizi veneziani.
Anche a Treviso (20) e - come è ben noto - soprattutto a Padova, la liquidazione del patrimonio fondiario signorile ebbe una notevole importanza, in particolare perché consentì ai patrizi veneti l'acquisizione duratura di cospicui complessi patrimoniali, dotati di strutture e di tradizioni amministrative, come le "gastaldie" carraresi. Le stesse caratteristiche e le stesse opportunità offriva il patrimonio ex scaligero; ma in questo caso, dopo una buona partenza, l'operazione fallì.
La vendita avvenne tra il 1406 e il 1417, ad opera dei camerlenghi che avevano amministrato a partire dal giugno 1405 l'enorme patrimonio fondiario (nonché l'insieme dei diritti pubblici: "iura vicariatus", diritti daziari, ecc.) accumulato dai della Scala e sino ad allora gestito dalla fattoria signorile - prima scaligera, poi viscontea (1387-1404) e infine carrarese (1404-1405). Non mancò qualche incertezza, nel ceto dirigente veneziano, a proposito di questa scelta: vi fu chi sostenne un'opzione diversa, quella cioè di affidare al personale veneziano l'amministrazione di questo massiccio complesso patrimoniale. Non è azzardato sostenere che, se così si fosse fatto, la storia dei rapporti fra Venezia e questa importante città della Terraferma avrebbe potuto essere radicalmente diversa (21). Ma prevalsero i problemi di liquidità, la volontà di "rientrare" in tempi rapidi, almeno parzialmente, dalle fortissime spese sostenute durante la recente guerra: e sotto questo punto di vista i risultati non mancarono, perché l'operazione fruttò alle casse della Repubblica circa 300.000 ducati (22).
Non interessano in questa sede i complessi accordi che i camerlenghi dovettero stipulare con gli enti ecclesiastici veronesi (soprattutto i grandi enti benedettini in crisi) titolari di censi - non sempre meramente ricognitivi - su gran parte di questi beni, che erano stati infeudati agli Scaligeri e ai Visconti; né interessa la straordinaria importanza di questo episodio per la storia economica e sociale del patriziato locale: fu pienamente colta quest'occasione d'oro, assolutamente irripetibile, per la riconversione alla terra ("desfati i traffichi et l'arte de la lana", come ricorda una fonte) di molti patrimoni consolidatisi in età scaligera. E fu un'occasione tanto più importante, perché buona parte di queste terre era ubicata nella bassa pianura, relativamente poco popolata, con ampie estensioni incolte, che nel trend espansivo (demograficamente ed economicamente) apertosi nella seconda metà del Quattrocento avrebbe mostrato le sue enormi potenzialità. Interessa invece rilevare che questa cospicua offerta non sfuggì, ovviamente, ai patrizi veneziani, che si impegnarono in totale per circa 70.000 ducati, pari ad un quarto del totale del ricavato. Nel 1406, per esempio, Nicola Grimani subentrando al celebre condottiero Taddeo dal Verme acquista la proprietà di Pontepossero (nella bassa pianura, sul fiume Tione, al confine con il territorio mantovano) per 12.500 ducati, e nel 1408 le terre di Cavalcaselle, nella collina gardesana, per 2.500 ducati; l'anno successivo, Gerolamo Contarini, che pochissimi anni prima era stato fra i "provisores" di Verona, si accaparra la proprietà di Valeggio sul Mincio per oltre 5.400 ducati. In ambedue i casi, diritti di piccola giurisdizione e di dazio (l'importante dazio sul Mincio) erano annessi alle terre. Molti altri esponenti di famiglie prestigiose (Contarini, Cappello, Marcello, Mocenigo, Emo, Memmo, Zane) affiancarono con quote del 50% patrizi veronesi in acquisti nell'area montana, nel suburbio, ancora in pianura.
Sembrerebbe dunque l'inizio di un felice rapporto, di un intenso interscambio economico fra il distretto recentemente acquisito e la Dominante. Proprio la frequenza di queste compartecipazioni, in realtà, induce il sospetto, che in alcuni casi almeno si rivela fondato, che non si sia trattato di investimenti fondiari in senso proprio, ma di mere partecipazioni finanziarie, se non forse di prestiti erogati ai patrizi veronesi (diversi dei quali avevano fra l'altro smobilizzato, per investire nelle terre ex scaligere del distretto veronese, i loro investimenti in titoli del debito pubblico veneziano: fra loro, famiglie prestigiose come i Maffei e i della Torre). In altri casi, gli stessi patrizi veneziani si mostrano negligenti e ritardatari nei pagamenti (23). Comunque sia, questo improvviso amore dei patrizi veneziani per le terre veronesi rapidamente sfiorisce nell'arco di pochi anni (24), a favore ancora di proprietari veronesi. Così, nel 1429, i Giusti, ricchi "scapizatores pannorum" in via di affermazione sociale, acquistarono dagli Zane la metà della possessione di Gazzo Veronese, nella bassa pianura, che nei decenni successivi avrebbero valorizzato in modo egregio introducendovi l'insediamento intercalare e il contratto parziario; nel 1436 ai figli di Gerolamo Contarini subentrarono, a Valeggio, i veronesi Guarienti (25); Marino Vidal cedette alle famiglie che avrebbero costituito il consorzio degli originari del comune rurale di Villafranca terre e diritti di dazio (destinati ad essere, in quel borgo, la base di lunghe fortune), e così via.
A Venezia c'erano state probabilmente delle illusioni, degli errori di prospettiva e di valutazione sulla possibilità di inserire Verona appena conquistata e il suo distretto (una città e un territorio con i quali i rapporti erano da sempre - ovviamente - intensissimi; ma pur sempre una città geograficamente e "culturalmente" lontana) nel circuito economico veneziano; e forse almeno in parte questa fiammata di acquisti, prova dell'interesse vivissimo per l'investimento fondiario che coinvolgeva tutti i settori della società veneziana, va letta in questo senso. Abbastanza presto, tuttavia, i rapporti economici oltre che istituzionali fra le due città trovarono un equilibrio: Verona mantenne, con vantaggio del bilancio della camera fiscale veneziana (e dunque dello stato), la sua funzione di centro commerciale e manifatturiero dotato di una autonoma fisionomia (il raccordo fra l'area atesina e tedesca, l'area lombardo-mantovana, e la direttrice adriatica); il governo veneto non pretese più di tanto di concretizzare quella normativa, a più riprese emanata lungo il Quattrocento, che prevedeva di daziare in laguna (anziché avviarle verso la più logica ed economica "via Ravene") le merci veronesi dirette alla costa adriatica. E in questo equilibrio, fatto piuttosto di rispetto di reciproche esigenze che di profonda compenetrazione economica e sociale, un cospicuo investimento fondiario veneziano nel Veronese non poteva trovare posto. Non mancarono, naturalmente, delle eccezioni, anche significative. Ne citiamo una: nei primi decenni del secolo, per esempio, Vittore Emo, il figlio di Gabriele (uno dei protagonisti della conquista di Verona), prese dimora in Verona e continuò ad amministrare direttamente, e con estrema durezza (26), le sue terre di Fattolè, nella bassa pianura presso il confine col Mantovano, ottenendo investiture feudali dal monastero di S. Zeno, rifornendo di cereali i castelli veneziani (27), prendendo in affitto dalla camera fiscale veneziana terre e decime già appartenute ai Castelbarco in Val Lagarina (28). Fu probabilmente a Fattolè che l'Emo finì i suoi giorni "falce faenaria ab agrestibus trucidatus", mentre "fruges exigebat" dai suoi lavoratori parziari (29), come riferisce Guarino Veronese a Daniele Vitturi (1425) (30). Ma né il suo impegno di amministratore, né tantomeno la sua uccisione rientrano in una casistica diffusa.
Manca, anche per il territorio padovano trecentesco, un'indagine analitica sull'espansione della proprietà veneziana (31): si pone anche per quest'epoca il problema (che sarà ricorrente in questa ricerca) di una quantificazione, che né fonti notarili, né archivi privati veneziani, né archivi ecclesiastici padovani e veneziani possono consentire. Solo di qualche grande proprietà patrizia, per lo più ubicata nella zona circumlagunare, la documentazione quattrocentesca ci attesta in modo esplicito, retrospettivamente, l'esistenza già in età carrarese (32). Da alcune ricerche recenti, si può comunque constatare l'adozione di espedienti volti ad aggirare i divieti veneziani (presentando gli acquisti "sotto la forma mascherata di confische conseguenti ad azioni legali per il recupero di debiti fittizi": parecchie decine di esempi riguardano S. Giorgio in Alga, almeno fino al "giro di vite" legislativo del 1335), nonché la persistenza, anche in età carrarese, delle tensioni legate al problema della libera circolazione delle rendite fondiarie (33). Era questa una circostanza ben comprensibile in un momento in cui parecchie grandi famiglie padovane di tradizione signorile (i Camposampiero, i Lendinara, i Peraga...) erano economicamente e socialmente in difficoltà, e l'interesse dei ceti emergenti padovani, dei parvenus vicini agli ambienti di corte per l'investimento fondiario, era piuttosto forte (34): infatti nel 1372, 1379 e 1390 espliciti provvedimenti legislativi padovani, inseriti nel codice statutario comunale ma risalenti ovviamente alla volontà politica dei "domini", vietano la vendita di terreni nel distretto padovano a proprietari veneziani. E ovvio pensare che in questi decenni della seconda metà del Trecento, segnati da una conflittualità sempre latente e spesso esplicita (e non di rado da una guerra guerreggiata) fra Padova e Venezia, gli investimenti dei patrizi e degli enti ecclesiastici veneziani si siano concentrati nel Trevigiano, da pochi anni assoggettato politicamente e certo più tranquillo, anche se non vanno dimenticate la tentata rivolta del 1356 e le dominazioni austriaca e carrarese del 1381-1388.
Ciò resta verosimile anche se d'altronde - a conferma del rapporto di discorde simbiosi, dell'"odi et amo" che lega le due città e le due economie non mancano negli stessi anni spunti importanti a proposito dell'apporto (sempre sussidiario ma non trascurabile) che dal Padovano poteva venire all'"ubertas annone" veneziana, come provano le vendite di cereali a mercanti veneziani operate dai fattori di Francesco il Vecchio da Carrara (35).
Su questo sfondo complesso, di rapporti inevitabili e di contrasti antichi ed altrettanto inevitabili, si inserisce la guerra del 1405-1406 e la conseguente vicenda della liquidazione dei beni carraresi. A questa vicenda il Lazzarini dedicò molti decenni or sono la ricerca pionieristica dalla quale abbiamo preso le mosse e che resta tuttora un punto di riferimento, pur se l'erudito padovano non utilizzò un documento di fondamentale importanza, cioè il Liber venditionum possessionum rebellium Padue che registra le vendite e i successivi passaggi di proprietà dell'intero patrimonio carrarese : un registro che non a caso, il 4 luglio 1509, il podestà di Padova Francesco Foscarini affidò al camerlengo di Vicenza uscente, Pietro Baffo, perché lo trasmettesse ai capi dei dieci (36).
Anche se diverse erano, rispetto al caso veronese, le condizioni giuridiche (il patrimonio carrarese infatti, a differenza di quello scaligero-visconteo, era stato confiscato), e se diverso si rivelò soprattutto il clima psicologico, avvelenato dai rancori e dai sospetti dei cittadini padovani che temevano l'esproprio di beni legittimamente acquistati, l'iniziativa assunta a Padova nel 1406 presenta ovviamente molti punti di contatto con la liquidazione dei beni veronesi (al di là della motivazione di fondo, di rientro dagli esborsi che la guerra aveva comportato) (37). Identiche furono infatti le clausole per la rateizzazione degli acquisti, identico l'orientamento alla conferma in linea di principio delle vendite che i precedenti signori avevano operato; e non è del resto probabilmente casuale la parentela fra due dei tre provveditori delegati alla vendita dei beni padovani (Enrico Contarini e Giovanni Zane) e alcuni degli acquirenti attivi a Verona. Anche a Padova, infine, almeno per alcuni aspetti il "particolare regime fiscale" cui erano sottoposte le terre carraresi restò in vigore, a vantaggio dei nuovi acquirenti (38). Ma ciò che qui soprattutto interessa è il fatto che la struttura del patrimonio fondiario signorile padovano non era dissimile da quella del patrimonio veronese: alle "domus garantie" veronesi, gli edifici presso i quali (soprattutto nelle compatte aziende della bassa pianura) i fattori percepivano redditi e decime ed amministravano la piccola giustizia, corrispondevano le gastaldie carraresi, in parte appartenenti all'originario patrimonio familiare, in parte frutto di confische. Si trattava di proprietà non necessariamente compatte sotto il profilo territoriale, ma che disponevano già di una tradizione e di strutture organizzative ed amministrative.
Il registro sopra menzionato permette di rilevare, fra gli acquirenti della prima ora, presenze più variegate di quanto non si ritenesse: si trovano alcuni borghesi veneziani (39), ma anche Padovani o residenti a Padova (Borromei, Camposampiero), ed Ebrei (convertiti e non (40) ); e permette altresì di constatare un turnover abbastanza intenso nei primi anni, con subentri di nuovi investitori ad acquirenti insolventi, e/o cessioni di quote. Ma come aveva già notato il Lazzarini (recuperando faticosamente i dati nelle fonti notarili padovane) sono i patrizi ad accaparrarsi, subito, i possessi più consistenti, destinati in qualche caso a restare nei patrimoni famigliari per secoli.
Diverse gastaldie carraresi erano poste nei colli Euganei o comunque nella zona interna del distretto: Cinto, acquistata dal cittadino veneziano Cristoforo Uberti; Arquà, acquistata da Marco da Ponte per 4.800 ducati (41); Lozzo Atestino; Torreglia; e infine Monselice ove la presenza dei Marcello era destinata a fortune secolari. Si trattava di zone sino ad allora relativamente vergini dalla penetrazione veneziana, e questi acquisti sono la chiara indicazione di una tendenza nuova. Nella pianura a sud della città si trovavano poi altri cospicui complessi patrimoniali: Noventa Padovana fu acquistata dai Contarini e finì poi, nell'arco di pochi decenni, frazionata fra diversi proprietari; Terrarsa presso Conselve e Carrara furono acquistate dai Bragadin; Arsego dai Bembo, Legnaro dai Bazioli (una famiglia di cittadini veneziani, che proprio allora si radicava a Padova).
Per motivi in senso lato strategici (antiveneziani ovviamente), peraltro, buona parte delle terre carraresi era dislocata nella porzione orientale del distretto padovano, verso Venezia: si trattava delle gastaldie di Camposampiero, Mirano, Oriago, Camponogara, Bovolenta, Noventa. Fra questi si annoverano alcuni dei complessi patrimoniali che spuntarono i prezzi maggiori (Bovolenta oltre 10.000 ducati, Noventa oltre 8.000). Tali acquisti si risolsero dunque nell'ulteriore rafforzamento della presenza fondiaria veneziana in quella porzione del territorio padovano nella quale essa era, come vedremo, storicamente più radicata. Gli atti pubblici veneziani mascherano dietro il velo di inesistenti ragioni di sicurezza l'interesse estremo col quale da Venezia si guardava a queste terre sotto la spinta di sollecitazioni sostanzialmente economiche, per motivi dichiaratamente politici: "securius, prestantius et utilius est pro nostro dominio habere de nostris nobilibus in Paduano districtu, causis omnibus satis notis, quam permittere omnia terrena ire ad manus alienas", ove le "mani altrui" sono evidentemente quelle dei patrizi padovani; e a queste affermazioni di principio tengono dietro concrete decisioni, visto che agli acquirenti veneziani in difficoltà con i ratei veniva erogato "un mutuo sulla cassa della Camera di Padova per pagare le rate già trascorse, e magari un altro mutuo per pagare il debito avvenire". Ad Antonio Bragadin, acquirente della sopra menzionata gastaldia di Terrarsa, furono così prestate oltre 10.000 lire padovane, e analoghi esborsi furono fatti a favore degli acquirenti delle gastaldie di Arquà e Oriago.
I dati citati dal Lazzarini e quelli del registro dell'archivio dei dieci permettono qualche considerazione sugli acquirenti, e anche sulle vicende successive di alcuni di questi complessi patrimoniali. Sono indizi interessanti, che la storiografia successiva, paga di aver registrato questo importante incremento della presenza fondiaria veneziana nel Padovano, non ha sviluppato. Va intanto notato che il patriziato padovano non restò del tutto inerte: dopo alcuni passaggi di mano, talune di queste aziende (Arre e Palù Maggiore, Arquà, Torreglia) tornarono nelle mani dei de Lazara, di un Antonio de Facino, del docente universitario Simone da Teramo (che acquistò dai Marcello terre a Montecchia e Selvazzano). Anche a Montagnana, nel 1422, i Badoer vendettero per un importo di quasi 3.000 ducati a locali o a cittadini padovani terreni con ogni probabilità già appartenenti alla gastaldia carrarese, e a loro pervenuti (42); pochi anni dopo, il noto giurista padovano Prosdocimo Conti acquistò dalla commissaria di Zaccaria Trevisan 700 campi padovani per 4.300 ducati "cum el debito de i lavoradori e bestiami", ubicati a Creola; o ancora, ad Arquà i veneziani Cocco smobilitarono i beni recentemente acquistati vendendo allo stesso Prosdocimo Conti, a piccoli proprietari locali, ai Morosini (43). Ma qui interessa soprattutto, come si accennava all'inizio, il contesto economico complessivo nel quale questi investimenti in terre si inseriscono. I patrizi veneziani non sembrano avere sfruttato a fondo la notevole risorsa, costituita dalla preesistenza, nelle gastaldie da loro acquistate, di una consuetudine amministrativa e gestionale introdotta dai fattori carraresi. Nel giro di non molti anni, infatti, i diritti su più d'una di queste aziende risultano quotizzati fra diversi investitori: per esempio i diritti sulla gastaldia di Castelbaldo - un registro di amministrazione della quale (1408) si trova non a caso in un archivio privato veneziano (44) - appaiono suddivisi fra una decina di consorti (Contarini, Duodo, Querini, Venier, Trevisan, Zane, Bon, ecc.); a Mirano sono comproprietarie due o tre famiglie di "cives"; sui beni di Noventa (di cui Nicolò Contarini aveva previsto, in sede testamentaria, la vendita (45))vantano diritti, entro il 1438, diverse famiglie (46), e così via. Ciò significa o che la gastaldia fu frazionata e smembrata, o che operarono intermediari e grossi fittanzieri. In ogni caso, per molti acquirenti l'investimento nelle terre carraresi si era presto trasformato nella mera acquisizione di una rendita. Tale circostanza va accostata all'evidente interesse che i Veneziani mostrarono in quegli stessi anni per le importanti infrastrutture industriali, come il maglio e i mulini di Padova e i folli da carta di Battaglia (che avevano fatto parte del patrimonio carrarese e che vennero affittati in modo assai redditizio (47), per le cave di pietra dei colli Euganei (48), per le poste adibite allo sverno delle pecore transumanti (egemonizzate ovunque dai Veneziani e spesso oggetto di aspre controversie con i proprietari padovani (49), per i diritti decimali, per gli appalti dei burchi e delle navi, per le botteghe di piazza, per il mercato immobiliare urbano (a parte i non pochi edifici di prestigio posseduti dai Veneziani in città (50), e le numerose case "per so uxo" o "per soa staxion" (51), fonti del primo Quattrocento restituiscono indicazioni interessanti, relative ad esempio alla domanda degli studenti universitari). È ancora una prova dunque del fatto che per molti Veneziani l'acquisto di terre nel Padovano e a Padova non è che uno degli elementi di un complesso intreccio di rapporti, che può interessare i settori più diversi dell'economia locale: un intreccio nel quale coesistono, da parte veneziana, mera percezione di rendita e gestione attiva (con prevalenza della prima).
Un primo sguardo d'insieme sulle proprietà fondiarie veneziane nel territorio padovano è consentito da un elenco del 1429-1430 (52), redatto sulla base delle dichiarazioni dei proprietari stessi in funzione dell'imposizione di prestiti forzosi in Venezia; vengono elencati 157 proprietari. Negli anni successivi, i tentativi di fare chiarezza in una situazione in piena evoluzione, e che diveniva via via più spinosa sotto il profilo fiscale, si succedettero. Si tentò ad esempio, nel 1438, di censire sistematicamente gli acquisti successivi al 1417 (53). Pochi anni dopo, nel 1444, si identificarono tutti i Veneziani titolari di redditi nel Padovano e si confrontò questo elenco (di 382 nominativi) con le denunce fiscali presentate a Venezia ("quelo àno dado in nota per lle so chondizion aver d'entrada in Padoana"), identificando gli evasori totali e misurando l'evasione (54). Nel 1448, infine, si stilarono, su base topografica, circoscrizione per circoscrizione, gli elenchi "più completi ed autorevoli, in quanto destinati a fornire la definizione fondamentale della categoria dei proprietari da trattare fiscalmente come veneziani negli anni successivi" (55).
È bene chiarire subito che resta assai difficile fare valutazioni quantitative sulla base di questi elenchi motivati da esigenze di carattere fiscale, in una situazione tra l'altro - si è detto - in piena evoluzione. Così i dati recentemente forniti dalla Ling (56) sulla base della lista del 1444, redatta certamente da officiali veneziani (forse della camera fiscale di Padova) (57), sono tutt'altro che sicuri e completi: assai problematico è, fra le altre cose, accertare l'incidenza percentuale della rendita ecclesiastica, per la quale si hanno dichiarazioni largamente carenti. Tuttavia questo elenco stimerebbe le rendite annue dei laici veneziani a un livello più che doppio rispetto a quella del 1430 (84.750 lire circa contro 39.000): gli importi sono in assoluto assai modesti (fra gli 8.000 e i 15-16.000 ducati circa) ma lo scarto è comunque significativo, e comprovato oltre che da una presumibile maggiore accuratezza dei rilievi anche da una oggettiva (e confermata da altre fonti) espansione dei possessi, a seguito degli acquisti di beni confiscati ai ribelli della congiura filocarrarese del 1435 (58). E soprattutto, la lista del 1444 ha tra tutte le fonti disponibili per la prima metà del Quattrocento il pregio di una certa precisione nell'individuazione dei proprietari veneziani, e di una certa ricchezza di particolari nella descrizione dei beni, delle forme di gestione, e degli elementi integrativi di essa (elenca con regolarità, ad esempio, le soccide, specifica l'uso degli immobili, ecc.): indica un cambiamento di approccio, di mentalità, che è in atto. Descrivendo le proprietà veneziane nel territorio padovano, pertanto, combineremo i dati ricavabili da essa con quelli desunti dagli elenchi (redatti come si è detto su base topografica) del 1448, che forniscono più spesso la superficie complessiva.
Non tutti gli acquirenti delle terre carraresi, intanto, compaiono negli anni '40 fra i titolari delle rendite più cospicue: ci sono, è vero, i Marcello, o altri acquirenti sicuramente riconoscibili (come un Rustigello da Cavarzere (59) o Giovanni Soranzo), ma ai primi posti figurano famiglie di antichissimo radicamento patrimoniale in Terraferma, come i Badoer (60). Pur con tutte le cautele del caso, si potrebbe forse ricavare da questi dati l'impressione che l'incidenza dei beni carraresi sull'insieme del patrimonio fondiario veneziano sia stata forse un po' inferiore a quanto usualmente si ritenga. Ma al di là di queste valutazioni, che restano assolutamente problematiche, gli elenchi del 1444 e del 1448 consentono (così come il precedente del 1430) innanzitutto di apprezzare un elemento degno di forte sottolineatura, e spesso invece trascurato: la notevole varietà dell'estrazione sociale dei titolari di rendite (fondiarie, in questo caso: ma non solo di questo si trattava) nel Padovano, che non vanno affatto cercati in modo esclusivo nel patriziato. Il fenomeno, come si vedrà a suo luogo, sembra ancora più appariscente nel territorio trevigiano, già da un secolo soggetto al diretto dominio di Venezia; ma anche nel Padovano, pochi decenni dopo la conquista, hanno (da quando?) la loro rendita (e il loro pezzo di terra) rappresentanti di numerose categorie dell'artigianato (tintori, vaiai, fustagnari, merzari, barcaioli, pistori, stagnai, "frutaruoli", orefici, balestrieri, barbieri, garzatori, bottai, "zocholeri", "velludari", "rechamadori" e così via), assieme a molti modesti funzionari pubblici (il notaio "ad capita sexteriorum", il bollatore delle ducali, il "gastaldo d'i prochullatori", un notaio "ad cataver", un segretario ducale, l'officiale "a la tòla de panni", il "massarius in castro Padue", Priamo Businello "scrivan a la camera de Padoa"), verosimilmente favoriti in qualche modo, nelle loro acquisizioni, dalla collocazione professionale. Già nell'elenco del 1430, inoltre, erano numerosi, fra questi piccoli proprietari, gli abitanti delle terre del Dogado: su 157 nominativi, almeno una ventina proviene da Torcello, da Malamocco, soprattutto da Chioggia, e si può anche tentare un apprezzamento, in termini relativi, della consistenza di questi patrimoni. Delle 157 allibrazioni, una dozzina superano le 5 lire d'estimo, corrispondenti a 5.000 lire di capitale; la più cospicua (12 lire) è quella dei fratelli Nicolò e Moretto Bonifacio che possedevano a Mirano, oltre a 8 mansi, la decima, i diritti di pascolo, diverse ruote da mulino (61). Se ne può dedurre che le 97 allibrazioni inferiori alla lira, fra le quali si annoverano quelle delle categorie sociali sopra citate, rinviano a patrimoni di dimensioni assai modeste, dell'ordine di poche decine di campi padovani, o meno. Le indagini puntuali sulle località bene servite da vie di comunicazione fluviali o terrestri, e caratterizzate da favorevoli condizioni ambientali, mostrano la frequente presenza di artigiani veneziani, spesso immigrati, che possiedono case e terre, stipulano soccide, incassano rendite: così accade ad esempio nel circondario di Abano (62). Analoghe osservazioni valgono per la proprietà ecclesiastica: una rendita nel Padovano, sia pur minima, era goduta da un grandissimo numero di enti (63).
Queste considerazioni sulla "geografia sociale" della proprietà e della rendita fondiaria già portano all'esame di una questione fondamentale, strettamente connessa, e degna anch'essa di un approfondimento ben maggiore rispetto alle osservazioni per lo più generiche fatte in passato: la dislocazione geografica dei possessi veneziani. Intensità della presenza veneziana e spettro sociale ampio e variegato valgono infatti, secondo gli elenchi del quarto e quinto decennio del Quattrocento, esclusivamente per le vicarie e le podesterie ad oriente di Padova, verso i margini della laguna, e in misura minore per l'area collinare e per il suburbio. Ad Oriago, assieme alle terre già appartenute alla gastaldia carrarese, figura fra i proprietari egemoni il monastero di S. Gregorio (erede del monastero dei Ss. Ilario e Benedetto, che sorgeva presso il Brenta fra Gambarare ed Oriago, abbandonato a metà secolo) con oltre 400 campi padovani (parte di un patrimonio valutato oltre 1.200 campi - circa 350 ha - nella seconda metà del Trecento, al momento della occupazione carrarese (64)), e fra i laici primeggiano i Soranzo, i Baffo, i Pisanelli. Il Brenta funge da fondamentale via di penetrazione e di comunicazione, e in generale da punto di riferimento: i mulini sul fiume sono appannaggio dei Baffo e dei Contarini (65); e oltre alla "domus magna de muro, cum cortivo merlato circumcircha" (altrove detta "castello con brolo"), la vecchia "domus donicalis" che Nicolò Contarini lascia in eredità nel 1432 alla madre Verde (66), non mancano altre dimore delle quali si indovina il decoro, come il "bruolo de 7 campi cum una chaxa grande de muro" di Paolo Loredan (67). Ancora più massicci sono i dati relativi alla vicaria di Mirano. Sono una trentina i proprietari che possiedono complessi patrimoniali superiori ai 70 campi padovani, sino ai 460 campi (suddivisi in una decina di possessioni condotte alla parte) di Ludovico Storlato a Zuianigo; e oltre ai Badoer, ai Bembo, ai Contarini, ai Morosini, figurano fra costoro "merzarii", orefici, sarti, e in genere "cives" numerosi (Osello, Pasetti, Bussinelli, Piumazzo, ecc.). I mulini dei Dolfin e dei Giustiniani sul Musone e sulla "fovea Musonis", quelli dei Falier sulla Tergola, il controllo delle "poste pecudum", delle osterie, delle fornaci in funzione delle quali sono sfruttati i boschi residui nella gronda lagunare, configurano una situazione di assoluta egemonia economica. Convincono soprattutto, in questa direzione, la frequenza delle soccide (piuttosto rare nelle altre zone, con l'eccezione della zona di Conselve), l'esercizio dei diritti decimali, e in particolare l'esistenza di numerose case, in più occasioni dette "domus magne" (appellativo usato per le dimore di Giovanni Badoer, di Giovanni Dolfin, di Domenico Contarini: "domus magna de muro in qua habitat", tutte nella "bastia" di Mirano) e "palatia" (come quello degli Storlato a Zuianigo), possedute "pro suo uxu": tutti elementi che rinviano ad una residenza almeno occasionale o ad una gestione comunque non assenteista. Le case patrizie attestate a Noventa Padovana in questi anni sono in buona parte le medesime che qualche decennio più tardi osserverà Marin Sanudo nella "villa [...> bellissima, piena di caxe di muro de Veneti nostri, zoè di Hironimo Malipiero, di Piero Vituri, di Chimento Thealdini, de Troylo Malipiero et filii, di Martin Pisanelo" (68). La proprietà ecclesiastica è pure fortemente presente: S. Cipriano accumula poco meno di 700 campi padovani, dispersi in tutto il territorio della vicaria, e cospicuo è anche il patrimonio dei SS. Biagio e Cataldo (circa 400 campi), non senza altre presenze (S. Tommaso dei Borgognoni, S. Nicolò del Lido) (69).
Analoghe caratteristiche, in analogo difficile contesto ambientale, ha la presenza fondiaria veneziana nel territorio di Piove di Sacco, in antico soggetto alla giurisdizione del vescovo di Padova (ciò che spiega il forte peso, in loco, delle istituzioni ecclesiastiche cittadine) e divenuto poi podesteria, officiata nel Quattrocento da un patrizio veneziano. Enti ecclesiastici (come S. Gregorio a Sambruson e Gambarare, e il monastero della Celestia a Chiusadoneghe, con parecchie centinaia di campi, in parte condotti a boaria, una forma di conduzione che presuppone controllo e presenza assidui) e patrizi sono uniformemente presenti nell'intero territorio della giurisdizione; il frazionamento fondiario è qui particolarmente accentuato, e non a caso il redattore dell'elenco del 1444 si limita in genere a dare cifre riassuntive per i censi "suxo el Piovà" recepiti dai diversi proprietari, senza redigere elenchi analitici. Quanto conti tuttavia, anche qui, il mero dato topografico nel condizionare la presenza fondiaria veneziana è dimostrato dal caso della "villa" perilagunare di Camponogara (la più orientale del territorio piovese), ove sono presenti patrimonialmente una ventina di famiglie diverse, di patrizi e di "cives". Nei principali centri demici, come a Corte, Morosini, Contarini, Foscarini possiedono case con "broli"; consistente è la presenza di abitanti di Chioggia e di Malamocco (questi ultimi, soprattutto a Campolongo Maggiore, prospiciente il centro insulare). Anche nel Piovese i patrizi veneziani (non pochi dei quali, come i Corbelli, i Morosini, i Badoer, hanno beni tanto in quest'area quanto nella zona di Oriago e Mirano (70)) controllano per lo più le "poste" da pecore e più in generale i pascoli ("omnia pascua ovium posita in dicta villa" di Corte sono di proprietà di Zaccaria Trevisan jr.) e i diritti decimali (assai frazionati), e risulta particolarmente intensa la diffusione della soccida (significativamente, nella grandissima maggioranza dei casi non di cospicui armenti, ma di pochissimi o di un solo capo: il piccolo o piccolissimo "investimento", complementare alla terra, della famiglia di modeste condizioni). È appunto in particolare in questo territorio che le grandi tenute si accompagnano all'infinito pulviscolo dei piccoli e piccolissimi possessi, delle minori e delle minime rendite, poco appariscenti e singolarmente prese pochissimo rilevanti sotto il profilo economico, ma globalmente assai significative. E come mostrano alcuni sondaggi nelle polizze della redecima del 1514, questo dato della presenza diffusa e socialmente variata nel territorio di Piove di Sacco è destinato a durare a lungo nel tempo (71).
A prova ulteriore del profondo condizionamento esercitato dalla presenza fondiaria veneziana sull'economia di questa porzione del territorio padovano, deve essere ricordata la struttura dei censi in natura. La documentazione del quarto e quinto decennio del secolo evidenzia infatti, grazie ai quadri riassuntivi predisposti dagli officiali fiscali padovani, la schiacciante predominanza del frumento sugli altri cereali. Il dato è distribuito abbastanza omogeneamente nelle diverse località del territorio di Piove di Sacco: si raggiunge l'85% a Corte, oltre il 95% a Campolongo Maggiore; e percentuali non dissimili si riscontrano nelle altre "ville" (Boion, S. Angelo di Sacco, Vigorovea, Saonara, ecc.). Per l'intero territorio si ottiene così un totale di 1.233 moggia di frumento su 1.440 moggia complessive di cereali, con un'incidenza di circa l'85%. Il dato appare significativo, anche se, ovviamente, un tale orientamento non era esclusivo della proprietà veneziana: nei livelli in generi riscossi dall'abbazia di Praglia nella seconda metà del Quattrocento il frumento incide per il 79,8% (72). La spelta, e soprattutto il miglio e il sorgo, sono ridotti a percentuali poco più che simboliche, mentre gli altri elementi costitutivi della rendita fondiaria standard di queste terre di pianura in genere condotte sulla base di patti parziari (il vino, il lino per il quale quest'area è vocata, gli affitti in denaro per i prati, le onoranze) hanno anch'essi una diffusione piuttosto omogenea. Questa distorsione così forte a favore del frumento può senza dubbio essere ricondotta, in qualche misura, agli orientamenti della proprietà veneziana e ai suoi bisogni di autosufficienza, al suo desiderio di porsi al riparo dai rischi di fronte ai quali l'annona della città lagunare (che pur si fondava in larga misura, come si sa, sul rifornimento "mediterraneo") poteva venirsi a trovare.
Anche nel territorio suburbano di Padova, "infra terminos", la presenza dei proprietari veneziani è cospicua (anche qui con una prevedibile preferenza, non esclusiva peraltro, per la porzione orientale del suburbio, verso Ponte di Brenta) (73). E un discreto interesse mostrano infine i patrizi veneziani per le terre collinari degli Euganei, ove accanto ai grandi complessi patrimoniali delle ex gastaldie carraresi non mancano altri cospicui possessi (dei Marcello a Zovon, dei Canal a Cervarese, di Zaccaria Trevisan a Creola, di un Contarini a Valsanzibio, dei Donà a Baone: oltre ad una importante cava di pietra essi vantano in questa località oltre 300 campi complessivamente) e una diffusa presenza in molte altre "ville". A proposito di queste terre collinari, e del loro rilievo economico, è utile ricordare qui la non casuale maggiore accuratezza dispiegata dalla fonte fiscale (non solo, evidentemente, per quanto concerne i beni dei Veneziani) a proposito delle modalità di utilizzazione del suolo e delle colture praticate. La documentazione lascia infatti trapelare, con il frequente esplicito riferimento alle qualità delle uve e dei vini (non solo con la distinzione fra il vino "planensis" e quello montano, ma con la menzione della qualità dei vitigni: le viti schiave, "negrete", "pallestre", garganiche, moscatelle, marzemine sono tutte qualità presenti sulle terre dei Veneziani) e alle modalità di coltivazione specializzata (a pergola, o nei "broli") o promiscua (con la frequente piantata), il grande interesse per i prodotti cui queste aree erano vocate.
Di tutto quanto sin qui osservato fornisce infine una conferma la distribuzione geografica, fortemente sbilanciata verso la parte orientale del Padovano, delle circa 50 case "per suo uxo" o "da stazion", di maggiore o minor decoro, che l'elenco del 1444 riporta.
Nelle altre aree del territorio padovano, la presenza fondiaria veneziana è invece nella prima metà del Quattrocento di scarso rilievo, o addirittura del tutto insignificante. Vediamo qualche esempio. Solo nel territorio di Camposampiero alla consolidata presenza dei Querini, saldamente insediati anche nell'abitato e ricchi di terre in parecchie "ville" della podesteria, per un totale non inferiore ai 500 campi padovani (più 1.000 campi di bosco a Loreggia), si affianca un discreto gruppo di proprietari patrizi (i Bembo ad Arsego, i Dandolo a Desman e altrove, i Badoer, gli Zorzi, i Trevisan, tutti con 2-300 campi almeno) e borghesi. Ma dal territorio della podesteria di Cittadella, nell'alta pianura al confine con il Trevigiano, i Veneziani sono invece del tutto assenti, se si fa eccezione per una sola grossa proprietà di Ludovico Storlato, a Cartura e Campo S. Martino (74). Né è molto più significativa l'incidenza delle terre dei Veneti nelle podesterie di Montagnana (ove hanno qualche consistenza le terre dei Marcello), di Castelbaldo (75), di Este (ove i Veneziani non possiedono che qualche mulino) (76). A Monselice, infine, la presenza per più aspetti significativa dei Marcello, acquirenti della gastaldia carrarese, costituisce una eccezione quasi priva di contesto, anche se diverse famiglie patrizie possiedono case nella cittadina e qualche modesto appezzamento. La famiglia si radicò stabilmente in loco grazie anche alla felice congiuntura della presenza sulla cattedra episcopale padovana di Pietro, figlio del proprietario, che nei primi decenni del secolo soggiorna frequentemente "in domo viridi", uno dei due edifici dominicali; al ben noto Giacomo Antonio Marcello, uno dei politici più in vista nella Venezia di metà Quattrocento, appartiene nel 1447 un "palatium magnum" sul quale probabilmente insiste la successiva, nobile architettura (77).
Certo, la constatazione di queste profonde disuguaglianze fra zona e zona non deve indurci a sottovalutare la complessiva influenza, la "presa" della società, delle istituzioni, dell'economia veneziana su tutto il mondo rurale padovano, in tutto il territorio. Proprio la fonte fiscale qui esaminata, che scheda insieme beni dei Veneti e beni del clero, ci fa toccare con mano ad esempio la ben nota, capillare presenza degli uomini provenienti dalla capitale nel sistema beneficiale padovano: la rendita, spesso in natura, proveniente dalle pievi e dalle chiese (si pensi alla decima) si affianca a quella proveniente dalle proprietà, laiche ed ecclesiastiche. Si tratta certo di una mera percezione, almeno in parte gestita da una folla di intermediari, di gastaldi, di amministratori locali (che si appoggiano talvolta ai pied-à-terre che i chierici veneziani hanno a Padova, in città): ma il complesso delle rendite che rifluiscono a Venezia è tutt'altro che trascurabile. Inutile soffermarsi poi, in questa sede, sulla "ricaduta" patrimoniale del complesso rapporto (ben noto nei suoi risvolti istituzionali e stricto sensu storico-ecclesiastici) fra monasteri padovani e iniziative di riforma veneziana. L'attenzione che il personale monastico di origine veneziana (commendatari compresi) manifestò per la riorganizzazione patrimoniale degli enti padovani (78) poté avere ripercussioni significative, anche per l'interesse che le famiglie cui abati e monaci appartenevano mostrarono per queste iniziative (79). Basterà ricordare che anche nel settore più difficilmente permeabile del patrimonio dell'abbazia di Praglia, quello assai esteso delle terre e dei beni concessi a livello, la presenza di patrizi e cittadini veneziani non è del tutto trascurabile in alcune "ville" dei colli Euganei fra Quattro e Cinquecento, pur restando nettamente subalterna rispetto ai "cives" padovani e ai distrettuali (80). Tutto questo è vero: ma resta comunque non meno indubitabile e significativo che i dati del 1444-1448 suggeriscono una forte polarizzazione, e che anche località relativamente vicine alla laguna, ma non ad essa prospicienti, sono del tutto trascurate.
Si tornerà più avanti su alcuni aspetti della gestione fondiaria: ma si può osservare sin d'ora che l'immagine pur sfocata che gli estimi (nell'impossibilità di uno spoglio ampio della fonte notarile) ci suggeriscono non è certo quella di una gestione particolarmente dinamica. Molto poche sono le notizie di conduzioni a boaria; relativamente diffuso è il patto parziario (spesso con il riparto del vino alla metà), e tutto sommato prevalente l'affitto fisso in natura, con una spiccata prevalenza per il frumento, un dato questo d'altra parte che si riscontra anche nelle proprietà dei cittadini padovani (81).
Tipologia e cronologia della documentazione (basti pensare allo statuto del primo Duecento "de roncamentis Venetorum") assicurano, anche per il territorio trevigiano, dell'entità della penetrazione fondiaria veneziana sin dall'età comunale. Ma lo stato delle ricerche non è molto dissimile da quello rilevato per Padova: la geografia del fenomeno non è stata in alcun modo precisata, e in particolare non si sa molto, come è stato rilevato (82), delle tendenze trecentesche, dalle quali occorre anche qui partire.
L'accurato censimento delle proprietà veneziane, elaborato per circoscrizioni amministrative, alfabeticamente disposte, voluto dal comune trevigiano nel 1325 (un documento spesso citato, ma mai adeguatamente valorizzato in studi editi), fornisce dati significativi sullo stadio cui era giunto il processo (83). Non è possibile in questa sede esaminarlo analiticamente, e occorre limitarsi ad alcune osservazioni di massima, che costituiscano un termine di riferimento per la successiva dinamica quattrocentesca. A prima vista, la presenza fondiaria veneziana appare assai più capillare rispetto al territorio padovano: nell'elenco delle località interessate compaiono anche numerosi comuni dell'area collinare e montana (da Borso del Grappa a Montebelluna, a Volpago, a Romano, a Bigolino). Si tratta però, in molti casi, di modesti patrimoni appartenenti ad immigrati, poco significativi sul piano economico: anche nel Trevigiano sono le vie di comunicazione fluviali a segnare la penetrazione fondiaria al di là della fascia immediatamente alle spalle della laguna. Senza sottovalutare la proprietà patrizia (84), sembra invece di poter individuare un tratto peculiare della situazione trevigiana due-trecentesca nel peso particolarmente cospicuo della proprietà monastica, ed ecclesiastica in genere: sono almeno una diecina gli enti che possono vantare, soprattutto nella zona ad est e a sud della città di Treviso, a un dipresso lungo i corsi del Sile, del Dese e dello Zero, possessi vicini o superiori ai 100 campi trevigiani (pari a circa 52 ha) (85): S. Antonio di Torcello, S. Lorenzo, S. Daniele, i Crociferi a Mogliano, S. Secondo a Trevignano (oltre 150 ha), S. Maria della Cella a Cappelletta, S. Lorenzo e S. Croce a Cendon, l'ospedale del Tempio in diversi comuni, S. Giorgio in Alga a Carpenedo, S. Maria della Celestia e S. Maffeo di Mazzorbo a Bocca di Musestre, S. Maria delle Vergini a Selvana; senza contare poi il pulviscolo dei minori possessi (a Casale sul Sile, a Zerman, ecc.). È pure di grande interesse osservare che già fra Due e Trecento si fa evidente, nella documentazione relativa ad alcuni enti importanti (S. Giorgio, S. Maria della Celestia, S. Secondo), l'orientamento a richiedere censi soltanto in frumento (86).
E un'altra tendenza significativa, infine, può essere percepita per la seconda parte del secolo, dopo la conquista veneziana di Treviso (1339). Iacopo Piacentino, il cronista semiufficiale della guerra veneto-fiorentino-scaligera del 1336-1339, dichiara in modo esplicito che l'ostruzionismo del governo veronese alla libera disponibilità dei "fructus et redditus" che "monasteria Venetiarum et cives habebant in districtibus Padue et Tarvisii et territoriis eorundem" non fu estraneo allo scoppio delle ostilità (87). È verosimile per esempio che ragioni di tranquillità e di sicurezza abbiano indotto il monastero di S. Zaccaria a liquidare, nel 1348, le sue terre di Ronco all'Adige, nel territorio veronese, e ad acquistare fondi meno estesi a Casale sul Sile (che erano oltretutto assai più vicini e comodi, e non richiedevano viaggi faticosi e dispendiosi come quelli che la badessa compiva ai primi del Trecento (88)). Orbene, se si esaminano i nomi dei possessori schedati dai funzionari comunali trevigiani dopo il 1339 negli aggiornamenti posti sul registro del 1325, si può constatare la netta prevalenza in questi elenchi di semplici cittadini, uomini e donne, che in un contesto istituzionale ormai assestato sembrano più invogliati all'investimento fondiario. Certo non mancano i patrizi, o anche i facoltosi stranieri (come due personaggi dell'entourage del re di Cipro, l'illustre medico Guido da Bagnolo e il cancelliere Filippo de Mézières, che acquistano per qualche migliaio di ducati) (89): ma su un'ottantina di nomi di possessori censiti nel quinquennio 1339-1344, ad esempio, a fianco di quattro o cinque patrizi si riscontra una nettissima maggioranza di artigiani di ogni categoria, di mercanti, di addetti alle costruzioni navali, di chierici e preti, di notai (spesso alle dipendenze dello stato: un addetto alla "camera imprestitorum", un notaio ducale), di immigrati (90). Né la tendenza era destinata a modificarsi nei decenni successivi, quando come si è accennato i rapporti per lo più cattivi con Padova carrarese non lasciavano a chi intendesse perseguire l'obiettivo dell'autosufficienza alimentare alternative all'acquisto nel territorio trevigiano. Quando un "lanarius" come Cristoforo del fu Stefano, residente a S. Ermacora, acquista un manso di 36 campi (quasi 18 ha) a Casale sul Sile "cum una domo magna murata de cupis" e altri edifici, con le 24 staia annue di frumento (pari a oltre 20 q) e la metà del vino che riscuote in affitto può ragionevolmente ritenere di aver posto sé e la sua famiglia al riparo da ogni rischio alimentare (91), con le sue 50 staia di grano e con 24 "conzi" di vino (oltre 1.800 l), il celebre notaio e cancelliere Paolo de Bernardo può forse già operare sul mercato (92). Sfrutta la propria profonda conoscenza del territorio trevigiano il mercante di legname Giacomello Zusto, che è impegnato in cospicue transazioni sul Piave e acquista cinque mansi ad Arcade (93). È proprio in questo periodo inoltre che compaiono le prime norme volte a reprimere i contratti usurari "ad renovum" stipulati nel territorio trevigiano e cenedese (94). Gli esempi possibili sono ovviamente infiniti, e uno spoglio ampio delle fonti notarili darebbe probabilmente la misura di quella che - è lecito ipotizzare - si presenta come una fase decisiva per la definizione di un rapporto di intimità, di consuetudine profonda e quotidiana fra la società veneziana nel suo complesso e questo angolo della Terraferma. La predilezione dei "borghesi" veneziani per il territorio trevigiano, del resto, trova precisi riscontri ancora alla metà del Cinquecento, e si rivela dunque un elemento strutturale, di lunghissimo periodo (95).
La legislazione veneziana su Treviso della seconda metà del Trecento dà di questa evoluzione conferme assai interessanti, sia riguardo alla proprietà ecclesiastica che a quella laica. La consistenza, ma anche la staticità della prima (nella seconda metà del secolo è tra l'altro già piuttosto diffusa la commenda) (96) emerge da un provvedimento del 1376-1377, nel quale si allude (certo con riferimento agli enti veneziani oltre che ai trevigiani) alle "male gubernationes" degli amministratori ecclesiastici: le possessioni per la maggior parte "vadunt in desolationem, et contrata vadit inhabitata et vigra", sì che si proibisce l'acquisto di terre da parte degli enti senza autorizzazione dei consigli veneziani e si vieta ai testatori di "dimittere bona stabilia" ad essi per oltre cinque anni: dopo di che i beni saranno venduti. Già questo provvedimento presuppone una forte spinta agli acquisti fondiari da parte dei laici, ancor più evidenziata ed anzi incentivata dal divieto per gli stranieri di acquistare senza autorizzazione possessioni nel Trevigiano, e dalla situazione di privilegio assicurata ai Veneziani ("non habendo Venetos pro forensibus in hoc casu", 1350). Per aggirare la rigida normativa statutaria trevigiana, che tutelava in caso di vendite di terre i parenti ("propinqui et laterani"), si procedeva spesso a "venditiones occulte", oppure a concessioni livellarie fittizie (in modo che non scattasse il diritto di prelazione dei parenti): si mantennero in vigore queste norme per le transazioni fra Trevigiani, anzi inasprendole (in caso di livello, il "propinquus" abbia gli stessi diritti che avrebbe in caso di vendita), ma anche in questo caso "iste due partes non habeant locum in Venetos" (1368). Nel 1375, infine, quando si istituì la "cancellaria nova" del comune di Treviso, una delle sue competenze fu proprio quella della obbligatoria registrazione delle alienazioni di immobili, e si diede vita così ad una autonoma serie documentaria (i registri del Notitiarius) (97).
Nel complesso, dunque, si hanno prove disperse ma sicure di una crescente attrazione esercitata dal territorio trevigiano presso borghesi e patrizi propensi all'acquisto di terre. Trascurando i dati ricavabili da fonti frammentarie del primo Quattrocento (98), è tuttavia solo per il 1439 che si può disporre di una fonte fiscale che dia una visione d'insieme della proprietà fondiaria veneziana in una porzione importante del territorio trevigiano (99). La documentazione si riferisce alla podesteria di Treviso, il territorio soggetto direttamente al comune urbano, suddiviso nelle circoscrizioni della Mestrina di Sotto e di Sopra, contigue alla città, della Zosagna di Sotto e di Sopra, e della Campagna di Sotto e di Sopra e nel Quartiere del Piave. Ci si presenta un quadro per certi aspetti non dissimile da quello padovano (quanto alla disuguale intensità della penetrazione), ma per altri con sue caratteristiche peculiari. Non stupisce, ovviamente, che la maggiore concentrazione della proprietà veneziana si riscontri a sud della città, in direzione di Venezia. Nel territorio della Mestrina, nelle "ville" poste lungo il Terraglio (la grande strada che collegava Treviso a Mestre) e sulle rive del Sile e dello Zero, a Casier, Dosson, Preganziol, Casale sul Sile, S. Antonino, Torre, la proprietà veneziana supera ovunque, in ogni "regola" o territorio comunale, i 150 campi trevigiani. Eloquente fra gli altri l'esempio di Casale, ove si distribuiscono oltre 600 campi trevigiani (312 ha) almeno 13 diversi enti ecclesiastici (quasi tutti monasteri, qualche ospedale) e 5 laici: un notevole frazionamento dunque, indizio della probabile antichità dell'insediamento. Altro punto di forza della presenza fondiaria veneziana è il territorio della Zosagna di Sotto, a nord della città, sulle rive della laguna. Il quadro ambientale si presenta qui diverso da quello, assai più agrarizzato, della Mestrina: S. Caterina e S. Maffeo di Mazzorbo, S. Ariano di Torcello, S. Giovanni di Torcello ed altri enti possiedono centinaia di campi di bosco a Musestre e a Meolo, ove anche Simone Valier (nella zona, proprietario egemone) detiene una "campagna magna inculta et vigra". Sono ancora una volta i corsi d'acqua i vettori della penetrazione veneziana, ed è anzi per certi aspetti l'energia idraulica, piuttosto che la terra, ad attirare gli investimenti. A Melma, il citato Valier possiede per esempio due poste da mulino, con ben II ruote, e "unum batirame non completum, sed inceptum de novo"; un mulino e una sega a Nerbon, sul fiume Melma, uno a Spercenigo sul Sile, un altro mulino con 4 ruote e un follone con 8 pile pure sul Sile a Cendon (ove possiede anche un centinaio di campi) completano il quadro del patrimonio forse più cospicuo messo insieme da un patrizio veneto nella bassa pianura trevigiana. Ma anche i mulini dei Badoer e del monastero di S. Maria delle Vergini sul Musestre spuntano cospicui affitti: a motivo di essi "non se può navegar per amor di molini da ca Badoer e de le muneghe de le Verzene", osserva causticamente il "perito idraulico" Marco Corner pochi anni dopo (100). Una conferma alla forte dipendenza della presenza veneziana dai corsi d'acqua viene dai dati relativi alla Zosagna di Sopra: ai 500 campi di S. Elena (sulla riva sinistra del Sile), parecchi dei quali male in arnese ed incolti, e ai 400 di Cendon, anch'essa sul fiume, si possono accostare le non trascurabili concentrazioni di Biancade (circa 200 campi, parecchi dei quali incolti), Roncade, Spercenigo, su uno degli affluenti del Sile. È sufficiente invece spostarsi nella Mestrina di Sopra, vicinissimo a Treviso ma leggermente discosto dal corso del Sile, per constatare una presenza modestissima della proprietà veneziana (poche decine di campi a Levada e Rio S. Martino); e anche nella Campagna di Sotto e di Sopra, a nord della città, solo a Postioma si superano globalmente i 150 campi (in maggioranza appartenenti all'ospedale dei SS. Pietro e Paolo); in diverse altre "regole" si ha una presenza diffusa, ma assai poco incisiva (dell'ordine delle poche decine di campi in sei o sette località (101)), e ancor meno in altre: e si tratta spesso del podere, che qualche immigrato aveva conservato nella località d'origine). Tutta l'area collinare e pedecollinare, verso il Montello e verso il Piave, risulta vergine, se si prescinde dall'ameno luogo di ritiro e di soggiorno di qualche patrizio umanista (come la "villa quae philosophiae et tranquillitati mentis est dedicata" che Francesco Barbaro possedeva a Montebelluna sin dal 1422). È del resto noto che le importanti iniziative di canalizzazione delle acque del Piave, con l'escavo dei canali della Brentella, risalgono nei decenni centrali del Quattrocento piuttosto alle sollecitazioni della proprietà trevigiana (102); solo in pochi casi i patrizi veneziani sembrano essersene avvalsi (lo fecero i Barbarigo sulle loro terre di Fanzolo, presso Castelfranco, poi passate agli Emo ed adornate nel Cinquecento da una ben nota villa palladiana) (103). La progettualità e gli investimenti pubblici si indirizzano piuttosto a rendere più agevole la fluitazione del legname (lungo il Meolo, il Vallio, il Musestre, il Piave): in una prospettiva dunque di mera attenzione alle esigenze peculiari della città lagunare (anche se ovviamente con ripercussioni non trascurabili sull'economia locale) (104). Non resta da segnalare che un certo numero (ma nettamente inferiore alla densità rilevata nel Padovano orientale) di "domus magne", dotate di "brolo" e adibite "pro suo usu" o "pro suo statio ", che qualche famiglia patrizia possiede (gli Emo a Postioma, i Corner a Predencin, i Contarini a Porcellengo, e così via).
Si è accennato all'impressione, ricavabile dalle fonti trecentesche, di una presenza particolarmente forte nel Trevigiano della proprietà ecclesiastica. Naturalmente la fonte fiscale, attenta alla rendita dominicale, non può dare un quadro adeguato del complesso riequilibrio in atto anche nelle campagne trevigiane, come ovunque nell'Italia padana, ai danni della proprietà ecclesiastica, con l'erosione dei beni delle chiese a vantaggio di affittuari laici, grazie spesso ad affitti a lunga e lunghissima scadenza. Di questo processo si mostrò consapevole nel 1412 - in un periodo segnato, come è ben noto, da una grave crisi di identità e di organizzazione di molti monasteri - il senato veneziano, che prese posizione in favore dei patrimoni ecclesiastici proibendo le affittanze "a gran tempo" fatte "con danno et iacture delle chiesie", e prescrivendo che le affittanze non durassero oltre tre anni quando non si trattasse di contratti con contadini che coltivassero personalmente (105).
D'altronde, a proposito della proprietà ecclesiastica veneziana, non si deve dimenticare - analogamente a quanto si è detto per Padova - che essa presentava nelle campagne trevigiane diverse facce. All'assenteismo della gestione di tante cospicue proprietà dei monasteri e delle chiese, si accompagnava l'enorme rendita (anche in natura, non solo in denaro) che rifluiva a Venezia attraverso l'egemonia sui benefici ecclesiastici delle diocesi di Treviso e Ceneda. È un fenomeno notissimo (106), sul quale è inutile ritornare in questa sede, se non per precisare che esso era già nel Trecento molto appariscente (107); e che non investe solo i benefici maggiori (i canonicati, le grandi commende), ma anche le piccole prebende delle chiese curate (come d'altra parte accade con una certa sollecitudine dopo la conquista, anche se con intensità piuttosto differenziate da diocesi a diocesi, anche nella parte occidentale della Terraferma). Gli uni e gli altri patrimoni potevano certo essere affidati a fattori o intermediari; ma è facile ipotizzare che, data la scarsa propensione alla residenza, ai contadini trevigiani restassero consistenti margini di autonomia nella gestione. Va inoltre considerato che in molti conventi e monasteri trevigiani la presenza di "sorores" e di monaci o frati appartenenti a famiglie veneziane poteva essere maggioritaria, o addirittura schiacciante: fra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento, all'incirca la metà delle "sorores" di numerosi monasteri femminili trevigiani è qualificata "de Venetiis" (108), e analoghi dati, pur se meno clamorosi, si rilevano nei monasteri maschili. È evidente che etichettare senza alcun "distinguo" questi patrimoni ecclesiastici come "trevigiani" non ha molto senso; è lecita anzi l'ipotesi che la loro gestione si ripercuota a vantaggio delle famiglie veneziane patrizie o borghesi, che potevano ottenere dagli enti trevigiani governati dai propri parenti o amici cospicue possessioni. È un altro aspetto dunque di quella profonda, intima compenetrazione fra società ed economia veneziana, ed istituzioni società economia della più vicina città della Terraferma, che dà un sapore e un senso particolare alla problematica dell'espansione fondiaria.
A complemento di queste osservazioni sul distretto trevigiano stricto sensu inteso, va dato qui qualche cenno alla diffusione della proprietà veneziana nella pianura tra il Piave e la Livenza, e nell'area friulana. Quest'ultima resta sempre marginale, nella geografia del possesso fondiario veneziano: stando alle denunce fiscali del 1537, la percentuale delle terre patrizie ubicate nella Patria non supera il 2,4%, nettamente inferiore dunque (come si vedrà) anche al Veronese e al Vicentino. A quanto consta sinora, le poche presenze degne di rilievo sono da collegare ad alcune gastaldie già patriarchine, consistenti come superficie e dotate di diritti signorili, ubicate nella zona sud-occidentale e venute in mano di patrizi veneti nel tardo Quattrocento o nel primo Cinquecento; o comunque a possessi di consistenza notevole. Ad esempio, l'insediamento di Torre (poi Torre da Mosto), sulla Livenza a valle di S. Stino, con le vicine località di Staffolo, "Barbillo" e Tezze, fu rivitalizzato dai da Mosto attorno alla metà del Quattrocento: nel 1467, essendo passato da 3 a 25 il numero delle famiglie residenti, essi ottennero di poter prelevare "un ramexelo d'acqua" dal fiume per poter ripristinare i mulini, distrutti sin dal tempo dell'invasione ungara, ed evitare quindi di ricorrere ai mulini della lontana Oderzo (109). Significativo, anzi eccezionale, è poi il caso di Latisana, che nella denuncia fiscale di Andrea, Nicolò e Zaccaria Vendramin (1514) risulta fornire introiti di almeno un migliaio di staia di frumento, molti livelli in denaro, ma è soprattutto dotata di diritti daziari di rilevante importanza (110). Ma per un caso di consolidamento del possesso, altri se ne possono fare in direzione opposta. Così, la gastaldia di Fiumicello, ai primi del Cinquecento, viene rivenduta dai Priuli, a pezzi e bocconi, a proprietari locali (111). E nel primo Quattrocento, del resto, il patriziato veneziano non risulta particolarmente interessato neppure alle terre disponibili a Motta di Livenza, geograficamente ben più vicine (112).
Un'indicazione di massima sulle tendenze che assume, nei decenni successivi, la domanda veneziana sul mercato della terra padovano può essere ritrovata mediante la schedatura dei registri di aggiornamento delle polizze d'estimo, conservate negli archivi fiscali padovani. Abbiamo schedato a tale scopo, limitandoci agli acquisti superiori ai 35 campi padovani cioè alla dimensione di un grosso podere, un registro impostato nel 1477, che contiene registrazioni alfabeticamente ordinate distribuite su 25 anni circa, sino agli inizi del Cinquecento (113). Sono evidenti i forti limiti dell'operazione: sfugge, innanzitutto, il pulviscolo dei piccoli e piccolissimi acquisti, non meno significativi delle transazioni di maggior portata per dare il senso complessivo del crescente interesse che - come si è accennato - anche gli strati medi o medio-bassi della società veneziana mostrano per l'investimento fondiario; e si perde inoltre il senso di quell'orientamento alla ricomposizione fondiaria, che può essere percepibile solo attraverso la ricostruzione monografica di singoli patrimoni: qualche traccia interessante se ne ha per esempio per i Contarini e le loro terre di Valsanzibio, negli Euganei, accresciute mediante il prestito ad interesse a privati e al comune rurale (114). Non sempre inoltre la fonte, per sua natura, è precisa riguardo alle caratteristiche (e talvolta alla stessa ubicazione) dei beni acquistati. Ciononostante, sulla base di un complesso di 129 transazioni che riguardano non meno di 8.000 campi padovani, si possono svolgere alcune considerazioni utili. Viene innanzitutto confermato, da questi dati, l'interesse con il quale si guarda a Venezia alle liquidazioni di grandi patrimoni fondiari, che permettono all'acquirente di acquistare "chiavi in mano", di saltare la fase della accumulazione campo a campo: circa un decimo di queste vendite riguarda terre provenienti dal patrimonio Borromeo, né mancano provenienze estensi; e più in generale va segnalata l'alta percentuale di famiglie patrizie padovane presenti fra i venditori (Sanguinacci, Zabarella, Santasofia, da Montagnana, Frigimelica, Sambonifacio). Degna di nota è poi la forte incidenza percentuale di terre vallive o boscose, fra quelle acquistate: terre che con la loro stessa presenza rinviano ad un orizzonte mentale che tiene presente, almeno potenzialmente, l'espansione delle colture e la bonifica. Si possono ricordare così i 150 campi di bosco a Villafranca Padovana per Troilo e Piero Malipiero, la "mità de una valle" a Cinto Euganeo acquisita da uno scrivano all'avogaria (i funzionari di governo sono, ancora, assai attivi), valli molto estese a Pozzonovo e Vescovana comprate da Ermolao Pisani - che ampliava così i già cospicui possessi della famiglia, derivati dall'acquisizione del patrimonio estense (115) -, 160 campi di bosco a Rovolon (negli Euganei) per Andrea Dandolo, 200 campi di paludi acquistati da Andrea Minotto a Merlara, e così via. Sul piano della distribuzione topografica degli acquisti, non si riscontra ora nessun tipo di selettività - ed è una importante novità rispetto alla prima metà del secolo -, ma invece una copertura pressoché totale delle diverse circoscrizioni del territorio: da sud a nord, da Castelbaldo a Piazzola sul Brenta, alle terre estensi, quasi tutte le località sono menzionate, anche se ovviamente con intensità assai differenziata. Se resta certamente superiore alla realtà, su scala dell'intero distretto padovano, la stima ripetutamente richiamata, il 1509, nei Diarii del Priuli - nel contesto delle sue prese di posizione fortemente polemiche a proposito dell'investimento fondiario in Terraferma - di un trasferimento ai Veneziani di due terzi del patrimonio fondiario del patriziato padovano (116), è tuttavia ben probabile un'intensificazione cospicua del fenomeno nella seconda metà del Quattrocento.
Un altro indicatore importante è fornito dalla schedatura delle case adibite dai proprietari veneziani a propria residenza. Emerge ora un'attenzione più marcata per i centri semi-urbani. Si prenda l'esempio di Camposampiero. Nel 1475, gli eredi di Carlo Querini ristrutturano - accanto al "brolo" "vocatus la gastaldia", l'antica sede amministrativa carrarese - una casa con poggiolo "que tenetur pro habitatione"; si provvede anche a sopraelevare la "domus prope logiam". A sua volta Giovanni Querini, che possiede fra l'altro la casa in cui "tenetur hospicium Campi Sancti Petri" e una quindicina di abitazioni nella cittadina, risiede in una "domus magna", e un'altra "domus magna" è affittata da Andrea Rosso al prestatore ebreo residente nella cittadina. Nel solco di una tradizione di presenza "signorile" che risale ben addietro nel tempo, e nella contiguità anche agli edifici che ne sono simbolo, i patrizi veneziani accompagnano dunque una salda presenza economica (a Camposampiero i Querini risultano titolari di almeno 400 campi, e di cospicui diritti decimali) a manifestazioni di prestigio sociale. Le menzioni di "domus de muro cum una canipa de muro, tegete de muro et columbaria ac curtivo murato", come quella degli Zorzi a Massenzago, o di "domus magna de muro, cum una alia domo parva et curtivo, et cum campis duobus terre partim brolive et partim arative", come quella dei Caotorta a Meianiga, non sono del resto rare nella documentazione di questo periodo e di quest'area. Ovviamente, il discorso vale anche per i contigui castelli del Trevigiano: a Castelfranco, Giacomo Soranzo, "che havea grande entrada in quelo locho segondo nobille veneto", possedeva nel 1509 "la piui bella et honorata habitatione se atrovava in quello locho"; un'altra casa, chiamata la Soranza, era pervenuta per via ereditaria ai Priuli di S. Severo. In ambedue queste case "molto belle, degne et honorate, et chostoronno danari assai", si acquartierarono durante bello le truppe francesi comandate dal La Palisse (117).
Non va dimenticato comunque che nelle località citate queste belle dimore costituiscono, pur sempre, delle eccezioni. È ancora soltanto nel Padovano orientale, infatti, che la concentrazione di residenze veneziane nei centri minori appare a Marin Sanudo, nel 1483, così intensa da dover essere menzionata nelle rapide, schematiche descrizioni del suo Itinerario: si tratti del "loco suavissimo" di Noventa, o di Bovolenta, "villa bella, adornata di molte caxe di Venitiani" (118). In altri castelli egli non cita che dimore o "broli" singoli (Este, Cittadella, Monselice, Bassano, Motta di Livenza, Portobuffolè), e in pochissimi casi (non più di quattro o cinque) possessioni e case ubicate in "ville" rurali. Qualche decennio più tardi, le case "da stacio", menzionate nei registri dell'estimo padovano nel 1518 e nella redecima veneziana del 1537, hanno raggiunto in quest'area una densità altissima. Lungo il basso corso del Brenta, non c'è praticamente località che sia priva di "case con brolo per mio uso", di "cortivi murati con casa de muro per nostro uso", di "case principiate a fabricar", di "torri con cortivo e brolo per uso", corredate da fornaci, mulini, in qualche caso folloni (119). Non meno significative, anche se meno precise, sono le enfatiche osservazioni del Priuli oltre che per il territorio mestrino (a sua volta definito un "paradixo terrestre" di giardini, e "broli", e "palatii, ediffitii, chaxamenti chostatti tantti danari per prendere qualche volta spasso e apiazere") (120), per il suburbio padovano, al quale egli fa riferimenti numerosi nei suoi Diarii (e vi compie anche un sopralluogo, nell'ottobre 1509). Anche cittadini padovani, naturalmente, possedevano case, palazzi e "broli" ("bellissimi et ameni giardini pieni di frutiferi arbori de fructi de ogne condictione et sorte che judichare se potesse") nella fascia di tre miglia a bella posta incendiata e spianata nel settembre 1509 durante l'assedio delle truppe imperiali: un sacrificio necessario ma dolorosissimo, che comportò un danno calcolato in 300.000 ducati; ma la presenza dei Veneziani è tanto consistente da consentire al diarista la definizione, certo un po' forzata, di quest'area come il "gerdino de la citade veneta".
Un sondaggio sulle fonti del secondo Cinquecento può infine esser utile per misurare, in alcune località, i profondi mutamenti intervenuti in pochi decenni, e ben noti d'altronde alla storiografia. Abbiamo scelto l'"inquisitione" compiuta nel 1563 in due podesterie "periferiche" del territorio padovano, Castelbaldo e Montagnana, che ancora cinquanta o sessant'anni prima avevano un ruolo insignificante o quasi nella geografia del possesso fondiario veneziano (121). La prima si trovava presso l'Adige, in piena zona di bonifica: il suo territorio è parzialmente interessato dai "retratti" di Piacenza d'Adige e del Gorzone. Il dato quantitativo complessivo è di notevole rilievo: sono inventariati oltre 2.250 campi padovani (855 ha), suddivisi fra alcune decine di intestatari, fra i quali alcune famiglie patrizie (Boldù, Zen, Querini, Morosini) hanno una posizione egemone con quote dell'ordine delle centinaia di campi. E caratteristica è la struttura di queste proprietà: tutte comprendono qualche appezzamento di grosse proporzioni, attorno al quale si aggrega poi il pulviscolo delle piccole parcelle, risultato (è presumibile) di acquisti recenti. Gli Zen, per esempio, possiedono un appezzamento di 132 campi a Piacenza, i Priuli diversi appezzamenti di 70 campi, i Grimani 60 campi "in parte retratti e in parte da retrar", e così via. Analizzando quei registri che nel gergo archivistico padovano sono detti "fia veneti", che schedano i trasferimenti di terre fra un rifacimento d'estimo e l'altro (122), si constata nel caso di Castelbaldo fra il 1520 e il 1560 - oltre agli escamotages fiscali per far godere alle proprie terre le esenzioni spettanti alle terre ex estensi ("campi stà messi in gastaldia", cioè fatti comparire come già appartenenti alla gastaldia estense) - che ben pochi dei grandi proprietari del 1563 erano presenti in loco nei decenni precedenti, ad acquistare pazientemente campo su campo, prato su prato: a conferma ancora una volta del fatto che nella lontana laguna ciò che invoglia gli investitori veneziani è la compattezza del possesso, la scorciatoia che eviti la defatigante routine degli acquisti a pezzo a pezzo, a boccone a boccone.
E sin troppo noto come questa progressiva espansione della proprietà veneziana (confermata dalle recenti ricerche del Gullino) (123) fosse vissuta, dal ceto dirigente padovano, con un rancore profondo. Ad incrementare ancora la presenza fondiaria veneziana e ad aggravare tale risentimento erano fra l'altro intervenute, dopo il 1509, le confische dei beni dei ribelli, che riguardarono in modo largamente prevalente i Padovani (oltre 3.800 ha, pari al 71,8% dell'intera superficie confiscata in tutta la Terraferma). Tali beni furono amministrati per qualche tempo dallo stato, ma furono poi venduti all'asta, e i patrizi veneziani presenti patrimonialmente nel Padovano non si lasciarono certo sfuggire l'occasione, come del resto avevano fatto, a suo tempo, coi beni dei ribelli del 1435-1437 (124). Ma se allora si era trattato di poca cosa, in questi anni invece l'esborso complessivo dei Veneziani fu di 85.000 ducati per circa 2.200 ha di terra, in larga parte ubicati appunto nel Padovano. Molti patrimoni già esistenti furono dunque consolidati, e se ne costituirono di nuovi e cospicui: i Trevisan e i Priuli acquistarono le terre dei Borromeo a Lissaro e ad Arlesega (nella parte occidentale del distretto, verso Vicenza), i Tiepolo quelle dei Lion a Conselve, i Lando quelle dei Bagarotto a Lozzo (125). E non è privo d'interesse che solo a Urbana e a Montagnana, ancora abbastanza lontane dall'orizzonte veneziano, si rilevino riacquisti cospicui da parte di famiglie patrizie padovane, come i Grompo.
Nonostante non sia mancata qualche successiva restituzione ai Padovani (per accertata estraneità, o per grazia), si può ben capire che il risentimento non fosse destinato a spegnersi facilmente, e che ancora attorno al 1570 potessero albergare presso qualche patrizio padovano patetiche velleità di rivalsa e di rivolta (126).
Per quanto concerne la seconda metà del Quattrocento, non è facile farsi un'idea delle tendenze che seguono gli investimenti veneziani a Treviso: manca, ancora una volta, una fonte in grado di dare un quadro d'insieme. Solo per qualche località sono stati elaborati i dati relativi agli estimi della fine del Quattrocento; essi non sembrano indicare una particolare intensificazione della presenza fondiaria veneziana. Se non stupisce la totale assenza dalle località dell'alta collina e della montagna trevigiana (127), maggior significato hanno gli esempi di località di pianura, facilmente raggiungibili per via fluviale. A Quinto - sul Sile, una delle vie maestre per le comunicazioni fra Treviso e Venezia - nel 1486 solo il 13,8% delle terre apparteneva a cittadini veneziani (contro un 30% per i cittadini trevigiani e una quota di proprietà contadina ancora piuttosto consistente), con solo un paio di edifici (quelli di Bernardo Donà) che appaiono ai periti degni di nota (128). Nelle "ville" della Mestrina, nel 1495, forse solo a Lughignano si percepisce un incremento consistente della presenza patrizia (Donà, Minotto, Giustinian, Loredan), che affianca quella già cospicua degli ecclesiastici; a Mogliano e Margnano, Casier, Torre, la situazione non sembra essersi modificata, e non si ha l'impressione di una presenza incombente: è rarissimo, ad esempio, che i coloni dipendano in modo esclusivo dal proprietario veneziano, perché quasi sempre conducono contemporaneamente terre da Trevigiani e/o posseggono qualche appezzamento in piena proprietà oppure a livello (129).
Ma per l'una e per l'altra area soccorrono soprattutto i dati fiscali del primo Cinquecento, oggetto recentemente di indagini attente ed analitiche che hanno posto a confronto la rilevazione estimale del 1518 con quella del 1542. Su di esse ci basiamo largamente nelle pagine seguenti.
Va sottolineato innanzitutto che nell'area collinare e nelle giurisdizioni più lontane dalla capitale la presenza fondiaria veneziana resta ancora del tutto trascurabile: un dato che enunciamo rapidamente, ma che ha un grande significato, perché destinato ad una lunga durata. Certi limiti geografici all'espansione restano invalicabili. Nel Quartiere del Piave (la porzione più settentrionale della podesteria di Treviso) e nelle podesterie di Serravalle, Cordignano, Ceneda, S. Polo, la presenza dei proprietari veneziani è infatti insignificante nel 1542, e tale resterà a lungo (130). Sia analizzando la rendita, che la superficie fondiaria, e computando patrizi e cittadini non nobili, le percentuali sono spesso attorno all'1%, o inferiori, o comunque minime: e senza discutere qui i dati di una ricerca in corso, tali indicazioni sono in questa sede più che sufficienti. Analoghe osservazioni valgono anche per la podesteria di Conegliano, ove il ceto dirigente di quel grosso borgo resta egemone, e patrizi e cittadini veneziani non possiedono più del 2% delle terre (131), un dato destinato a restare stabile (132). Piuttosto debole, inoltre, continua ad essere la proprietà veneziana anche in altre aree del Trevigiano: nel territorio collinare di Asolo spetta ai Veneziani non più del 12% sul totale della rendita d'estimo, e circa il 15% della superficie agraria censita. Inferiori al 10% sono anche le percentuali di rendita e di superficie agraria spettanti ai proprietari veneziani nella Campagna, la porzione della podesteria di Treviso posta (si tratta di alta pianura, non irrigua) a nord del capoluogo. Nella restante porzione di pianura, la situazione relativa alla presenza fondiaria veneziana si presenta nel 1542 piuttosto disuguale. A motivazioni storiche assai risalenti - la circostanza cioè della soggezione a Venezia sin dal lontano 1291 - può essere ricondotta la consistente presenza della proprietà veneziana nella piccola podesteria di Motta di Livenza (il 46% della rendita e il 47% della terra, sempre sommando nobili e non nobili), mentre meno facilmente si spiega la forte penetrazione veneziana nel contiguo territorio di Oderzo (26% della rendita, 23% della terra), così come all'estremo occidentale del distretto trevigiano, a Castelfranco, va segnalata (e resta inspiegata nelle sue motivazioni) l'incisiva percentuale di oltre un terzo di proprietà veneziana, quasi esclusivamente patrizia.
Del tutto comprensibile è invece, per ovvi motivi geografici, l'incidenza attorno al 40% della proprietà veneziana nella porzione meridionale della podesteria di Treviso, denominata Zosagna, e nella podesteria di Mestre.
In questo quadro complessivo così fortemente chiaroscurato e complesso, aggiungiamo qui qualche informazione ulteriore sulle due sole aree della pianura trevigiana servite da ricerche recenti ed affidabili, la podesteria di Noale e la porzione della podesteria di Treviso denominata Mestrina, ambedue poste a sud della città.
Nella piccola podesteria di Noale (al confine fra il territorio trevigiano e il Padovano, vicinissima a Venezia) la proprietà laica veneziana costituisce nel 1518 il 18% del totale, e cresce nel venticinquennio successivo in misura molto sensibile, anche se non travolgente, sino al 25% della superficie censita (con un aumento imputabile più ai cittadini, che ai patrizi), a danno soprattutto della proprietà contadina ora in crisi (anche perché cresce pure la proprietà cittadina trevigiana). Il dato forse più rilevante, nel confronto fra le due serie di dati, è l'aumento numerico degli intestatari e la limitata dimensione dei loro patrimoni: rispetto ai "pochi nomi" del 1518, i proprietari veneziani del 1542 sono 84, e solo due (i Loredan e i Basadonna) possiedono più di 50 ha (133). Quanto continuasse a contare la vicinanza alla laguna, nell'orientare gli investimenti dei Veneziani, lo confermano d'altronde le note lettere del mercante Martino Merlini (1509 circa): è il fatto che le terre sulle quali egli ha messo gli occhi siano "apreso chaxa a Margera, che meio non se poria domandar a bocha dove che la xè", a renderle particolarmente appetibili (134). E conferme di particolare interesse vengono poi, in questa direzione, dai dati relativi alla Mestrina di Sotto e di Sopra, analizzati dal Pitteri. La sua ricerca ha innanzitutto il merito di aver sottolineato un dato spesso sottovalutato quando si parla di patriziato veneziano e di terra, ma che non va mai dimenticato nella visione d'insieme: anche in quest'area, la più vicina alla Dominante, e nonostante il trend di crescita (sul quale subito ci soffermiamo) della proprietà veneziana, nella prima metà del Cinquecento "la proprietà trevisana, nobile, cittadina e distrettuale, è quasi due volte e mezzo superiore a quella veneziana"; i possessi della nobiltà locale anzi si incrementano (135), pur se soltanto nelle "ville" contigue alla città la loro posizione è davvero egemone. La condizione di piena e totale subalternità politica, cui Treviso e le sue istituzioni sono ridotte sin dal Trecento, precocemente e in modo assai più accentuato rispetto agli altri comuni cittadini della Marca, non indebolisce la posizione economica tuttora solida della nobiltà trevigiana. In particolare, i dati relativi a questo territorio confermano poi il sostanziale disinteresse di patrizi e borghesi veneziani per le terre non immediatamente confinanti con la laguna. Complessivamente, i patrizi veneziani possiedono infatti, nel 1542, un decimo circa delle terre censite nei due distretti, e un altro decimo spetta ai proprietari non nobili (cittadini veneziani, o comunque residenti in Venezia). Queste terre sono però distribuite assai disegualmente. Fatta eccezione per un cospicuo possesso dei Corner a Gallese, nella Mestrina di Sopra la proprietà patrizia è pari ad appena il 3% del totale delle terre (136), e anche la proprietà dei non nobili è trascurabile. Pertanto, i punti di forza della proprietà veneziana, i luoghi ove essa è davvero egemone, restano, come nel secolo precedente, le "ville" disposte "nella parte inferiore del quartiere", lungo il Sile e il Dese (Lughignano, Marignano, S. Trovaso, Dosson). Dinamiche analoghe si riscontrano in altre non lontane località, come Marcon, appartenente alla podesteria di Mestre, oggetto di ricerche ancora più analitiche (137). Alla facilità dei collegamenti con Venezia - attraverso la Livenza, Caorle e la laguna - può essere infine probabilmente ricondotta anche l'incidenza relativamente alta (anche se assai disegualmente distribuita) della proprietà veneziana nel territorio della podesteria di Portobuffolè: circa il 20% secondo l'estimo del 1547 (138).
Va da sé che questi abbastanza coerenti dati quantitativi, questa ricorrente quota media di un quinto, coprono ed appiattiscono una realtà estremamente complessa, nella quale la proprietà fondiaria veneziana si articola secondo realtà ambientali, sociali ed economiche molto diverse. Nella Mestrina si trovano spesso, in questi decenni centrali del Cinquecento, proprietà ora di consistenti dimensioni, condotte in genere mediante l'affitto e adibite a coltura promiscua, con particolare interesse per la viticoltura; esse sono dotate di case più confortevoli e più numerose - talvolta, ville di prestigio (139) -, che in qualche caso (uno è quello della "stantia et habitatione" dei Valier a S. Angelo, rilevata dal Sanudo nel 1483) è possibile retrodatare con sicurezza al Quattrocento. In quest'area appare particolarmente manifesta la pressione sulla proprietà contadina, in evidente difficoltà - a spese della quale ovviamente si realizza il progresso della proprietà veneziana (così come di quella trevigiana) -, e anche su quella ecclesiastica attraverso i consueti meccanismi dell'acquisizione del dominio utile mediante contratto di livello francabile. Inevitabilmente, la ricomposizione fondiaria avviene con fatica: accorpamento e appoderamento richiedono tempi lunghissimi. L'esito più appariscente in queste aree di antico insediamento è spesso quello di costruirsi una casa, o al massimo di incentivare la cultura promiscua (140). In altri casi, invece, come nella citata podesteria di Portobuffolè, "una proprietà recente [...> insediata su terre strappate agli acquitrini" determina spesso (siamo ormai nel 1547) l'esistenza di piccoli nuclei insediativi, "con una proprietà monopolizzata da uno o pochissimi possessori di terre e case, generalmente patrizi veneziani" (il 65% a Basalghella, quasi il 100% a Baitta e Villanova) (141): un quadro dunque diverso in modo sostanziale.
Le differenze qualitative e quantitative restano, dunque. Ma la percezione di un profondo movimento in atto, di segnali di novità anche in aree della podesteria di Treviso sinora interessate solo marginalmente dalla penetrazione fondiaria veneziana, si ha anche da altre fonti, di tipo sintetico. Il Summario de le entrade de nobili et cittadini veneti per li beni hano nella potestaria di Treviso non compresi in questi li beni de le castelle, tratto de li libri de li estimi de la città de Treviso (1542) (142) segnala così assai di frequente casi di "ville" ove nel 1542 fa la comparsa, per la prima volta, un proprietario veneziano, magari per pochi campi, frutto dell'espropriazione di un debitore, o per l'acquisto di un mulino, o per un livello acquisito da qualche ente ecclesiastico. Basti qualche esempio relativo alla Campagna di Sopra: almeno in una decina di comuni (Fossalunga, Trivignano, Falzé, Visnadello, Visnà di Montebelluna, Guarda, Lovadina, Spresiano, Nervesa, Selva, Volpago del Montello, Caonada, Biadene) si passa da una presenza nulla o quasi insignificante, inferiore ai 10 campi trevigiani, a presenze quanto meno percettibili, dell'ordine almeno di qualche decina di campi appartenenti a più proprietari. È un'indicazione molto grossolana (occorrerebbe evidentemente distinguere le modalità concrete di questa presenza), ma sufficiente ad attestare una tendenza. Analoghe considerazioni valgono per parecchie località della Zosagna di Sopra (Vacile, Varago, Pezzan, Candelù, Mignagola, Villacucca, Lancenigo, Carbonera, Biban, S. Giacomo di Musestrelle, Campolongo, Isola, Barbarana), che si affiancano ad altre di questa circoscrizione (come Musile, sul Piave) ove la presenza veneziana era già consistente e radicata. Per fare un esempio fra i tanti, è ora usuale in un'area geografica più vasta e differenziata una descrizione come quella dei beni di Francesco Trevisan, che possiede a Vascon "un cortivo con casa e teza da muro coperta de coppi, con una altra teza de paglia muratta sotto, et una colombera, el qual cortivo è parte per uso suo, et parte per l'habitador, con un bruollo de campi doi vel circa riservatto per uso suo"; a questa casa fa capo "una possession de campi 40 tenuta alla parte da Liberal Fanton", condotta alla parte per metà biade grosse, un terzo dei "minudi", metà del vino e un carro di vino bianco in compenso delle onoranze, e infine 5 campi e mezzo a Breda di Piave.
Assieme al colono parziario, ruoli sociali come quello dell'"habitador", mezzo custode e mezzo gastaldo ("[...> nela qual caxeta sta al presente el mio gastaldo per guarda [...> ") che spesso ha "in galdimento" una quota di prati o qualche campo, e risiede in un'ala del "cortivo" ove si trova la "casa da stacio" (143), sono ormai abbastanza diffusi. Si fanno più frequenti le menzioni di "cortivi con casette e casoni" per le residenze dei coloni e dei dipendenti, che lasciano intuire (come a Cal di Meolo, nelle terre degli eredi di Nicola Donà, o nella possessione dei Valier a Vallio) consuetudine di vita e gerarchie sociali fra i "patroni" e i rustici ormai consolidate, in una dialettica contiguità/separazione fra proprietari e contadini, che ha una lunga storia davanti a sé. Non sembrerebbero molti, stando a questi indizi, i Veneziani che "schifino d'abitare con i suoi lavoratori in una medesima corte", possibilità contemplata da un trattato di mercatura diffuso a Venezia, come quello del Cotrugli (144). Va da sé che in qualche caso, come a Roncade ove attorno al "castello" dei Giustinian (che com'è noto avevano acquisito i beni già dei "de Sanciis", una delle non poche famiglie dell'aristocrazia trevigiana che vanno incontro, nel Quattrocento, ad una crisi profonda) figurano 18 "casette", comprese quella adibita ad osteria e quelle per il "bover" e il "saltar", questi rapporti assumono un sapore criptosignorile.
Scontato è, infine, il consolidamento dell'egemonia veneziana, e soprattutto patrizia, nel controllo dell'energia idraulica e delle strutture da essa dipendenti, secondo una linea già evidente nel secolo precedente: in certe località (si veda ad esempio, il caso di Melma e di altre località sul Vallio), tutti i mulini appartengono ai Veneziani.
Il conflitto fra l'interesse privato e quello pubblico (di tutela idrografica, e di annona), sempre latente, era destinato a ripresentarsi sempre più spesso. Nel 1492, ad esempio, i Valier a Monastier ruppero l'argine del Meolo per arricchire d'acqua il non lontano Vallio, e far funzionare i propri mulini (145), Del resto, in questo delicatissimo settore era intervenuto pesantemente, tra il 1501 e il 1507, il governo veneziano, promuovendo l'installazione di mulini di proprietà pubblica a Mestre: l'energia atta a muovere i quali era assicurata dal convogliamento nel Marzenego delle acque del Dese e dello Zero, con conseguenze tutt'altro che trascurabili sull'idrografia della zona (146).
In questo contesto di trasformazioni, economiche e politiche (ovunque in Europa, del resto, la congiuntura di metà Cinquecento è contraddistinta da un sovvertimento di assetti secolari), andrebbe evidenziato - ma non si può, qui, che limitarsi adenunciarlo - un ultimo problema: l'accentuato turnover che caratterizza i minori proprietari veneziani, a distanza anche di pochi decenni. Spesso, confrontando i dati dei due estimi trevigiani del 1518 e del 1542, si fatica (fatte salve le difficoltà di identificazione, consuete in questo tipo di documentazione) a ritrovare, nella stessa località, le medesime famiglie o persone. A S. Andrea di Cavasagra, nella Campagna di Sopra, per esempio, degli 8 proprietari presenti nel 1518 (eredi Scarpa, Daniele di Carlo "forner", Leonardo Barbaro, Iacopo Sidonio, eredi di Giovanni "todesco", Giorgio Venier, Marco da Pesaro) neppure uno è ricordato nel 1538, quando ne figurano 10 (fra i quali Fantino Corner, un Pisani, uno Zane, i Querini, i Trevisan); e non si tratta di un caso isolato. Ciò sottintende la presenza di un vivace mercato della terra, che solo l'esplorazione delle fonti notarili potrà evidenziare. Ben diversa stabilità manifestano invece, come è ovvio, le grandi aziende patrizie.
Anche nella prospettiva che qui interessa, come in generale per tutti i problemi concernenti i rapporti fra Venezia e la Terraferma, il periodo delle guerre d'Italia è un eccellente punto di osservazione: ed è con qualche considerazione su di esso che concludiamo la presente sezione.
La crisi del primo Cinquecento pone infatti la società veneziana di fronte alla prospettiva concreta di dover rinunziare ad un dato ormai strutturale del proprio "quotidiano": quello della rendita fondiaria che proviene dai possessi del Padovano e del Trevigiano. Le fonti cronistiche ritornano in modo ossessivo su questi temi. Il Priuli in particolare lascia trasparire da una miriade di annotazioni - spesso incidentali e perciò più significative - quanto nella Venezia del 1509 il problema del mantenimento del controllo di Padova e di Treviso fosse vissuto in modo angoscioso, e quale ruolo essenziale svolgesse nel determinare, qúesta grande preoccupazione il problema della proprietà fondiaria.
È stato ripetutamente rilevato che, nella foga polemica, il diarista certamente sopravvaluta, in alcuni passi famosi, le dimensioni del fenomeno dell'abbandono della mercatura (147); e andranno presi poi col beneficio d'inventario i pur significativi dati da lui forniti a proposito dello "strapagare il più assai di quello valevanno" case, possessioni e livelli (si parla di 30 e più ducati al campo - campo trevigiano, è da supporre - per l'area mestrina (148), e di 25 ducati al campo per Padova, prezzi al dire del Priuli correnti anche nel settembre 1509, durante bello, persino per terre occupate dai nemici) (149), al valore complessivo degli immobili posseduti dai Veneziani in Terraferma (stimato in 3.000.000 di ducati), al rendimento non superiore al 3-4% annuo (150) degli investimenti in terra (una "pichola utilitade", meno di quanto poteva provenire dall'investimento immobiliare urbano). Né qui interessano più di tanto i risvolti morali sui quali (peraltro solo in alcuni dei passi dedicati al problema) il Priuli pone tanta enfasi: l'infiacchimento delle prische virtù e della vita austera e morigerata, i "solazi, apiaceri et delichateze et morbini de la terraferma". Interessa invece la conferma, che emerge da ogni parte nei Diarii, della profonda intrinsichezza con le "propinque" campagne trevigiane e padovane ("essere [...> impliciti in le possessione, bestie et pecorre loro et animali"; "stare sempre et pratichare cum contadini" sino a "diventar vilani", come afferma provocatoriamente il Priuli), degli investimenti nell'edilizia rurale e nell'arredo delle case, del lento, pluridecennale, paziente ("[...> se havea durato anni cinquanta a piantare arbori et vide et fare venire ad perfectione [...>") lavoro di miglioria alle case e ai "broli" (151); e soprattutto l'estrazione sociale dei titolari di rendita. Da numerosi passi dei Diarii si ha infatti la sensazione precisa di quanto il problema coinvolgesse larghi strati della popolazione veneziana. Quando si discute della eventualità di scortare con l'esercito i proprietari che si recano nel Padovano a riscuotere le "benedecte entrade", ovvero di adire la via diplomatica per rendere possibili tali riscossioni, si è ben consapevoli che risolvere il problema significa "contentare tutta la citade": "queste entrade importavanno assai, et maxime a li mediocri et poveri nobelli et citadini et populari, quali vivevano cum quelle" (152).
I provvedimenti annonari presi dal governo, e la relativa sicurezza dei rifornimenti via mare, ai quali assai spesso il diarista fa preciso riferimento, non rendono meno acuta l'aspirazione di un vasto ceto di cittadini, "popolari" e anche "poveri" che privati delle loro modeste rendite "heranno disperati vedendossi manchare il vivere".
Il riferimento ai popolari che con le rendite in generi provenienti dalla Terraferma "sustentavanno li fiolli et la povera fameglia" è ripetuto, se non proprio insistente (153) né c'è motivo di ritenerlo un topos poco fondato.
Si conferma ancora una volta, da elementi come questi, un rapporto simbiotico, espresso non a caso - come si è osservato all'inizio di questo contributo (154) - con immagini mutuate dall'ideologia della comitatinanza; si conferma una intensità e quotidianità di relazioni fra la società veneziana nel suo complesso e le campagne padovane, e trevigiano/mestrine, che nessun massiccio dato statistico basato su un catasto (anche se ci fosse), potrebbe spiegare in modo adeguato. Si è accennato a questi aspetti trattando brevemente dei benefici ecclesiastici. Ma se si studia, ad esempio, il commercio del vino (e dell'uva, per farsi "il vim in chaxa secretamente") (155) fra Treviso e Venezia nel Quattrocento, quello che colpisce non è soltanto la quantità imponente di prodotto che veniva avviato verso la laguna nei burchi e nelle chiatte che discendevano il Sile o il Dese o il Marzenego. Certo il dato quantitativo è essenziale per capire l'intima compenetrazione fra l'economia agraria trevigiana, ove (per non citare che un aspetto) la piantata fu senza dubbio incentivata dalla domanda di vino proveniente da Venezia, e il grande polo di consumo costituito dal mercato lagunare; il livello degli appalti è un indicatore eloquentissimo (156). Ma non è meno significativa l'infinita teoria dei popolani veneziani - coi loro mille mestieri, dal pestatore di pepe al "filacànevo" al marinaio -, dei preti, delle vedove, che sono fisicamente presenti sulle rive del Sile, e si mescolano nel mercato trevigiano ai grandi e piccoli commercianti (157).
La mentalità diffusa, il senso comune che sta alle spalle di questi rapporti intensi e quotidiani, che investono tutto l'organismo urbano, è espressa anche da altre testimonianze, che si potrebbero senza troppa difficoltà raccogliere, a cominciare dalle fonti letterarie. Nel Polifilo ad esempio il Trevigiano è definito come un "locus deliciarum", la "periocunda regione del Sile, loco di aura gratissimo, et di fluvii et fonti ameno"; e non è certo il caso qui di ripercorrere asolando, con Caterina Cornaro, le campagne trevigiane. E d'altronde, questa è una storia già più volte secolare, se è vero - come è vero, e come ha affermato di recente il Bortolami occupandosi dell'agricoltura veneziana per età ben più antiche - che già per i secoli XI e XII è "riduttivo pensare a semplici ῾acquisti' in terraferma", perché "vive e intraprendenti furono talune componenti della società veneziana nel favorire il gran balzo in avanti dell'agricoltura di terraferma" in quella fase, perché già diversificata era la gamma sociale degli acquirenti, perché il ceto dirigente dell'epoca offrì "costante e vigile sostegno", condividendole, alle scelte economiche degli enti ecclesiastici veneziani protagonisti primi di quella espansione (158).
La stessa espansione agraria del pieno e tardo Cinquecento, l'imprenditorialità bonificatoria dei privati e dello stato (ne abbiamo dato sopra un minimo saggio, analizzando i dati relativi a due podesterie "marginali" del territorio padovano come Castelbaldo e Montagnana), non possono essere comprese appieno se non sullo sfondo di questi stretti antichissimi legami.
e valorizzazione agraria fra Quattro e Cinquecento
Si è ribadito nella conclusione del paragrafo precedente che nel Padovano e nel Trevigiano l'investimento fondiario veneziano quattrocentesco non fa che seguire una falsariga plurisecolare: coinvolge larghi strati della popolazione cittadina, si innesta su una profonda, strettissima compenetrazione economica. Dobbiamo ora documentare come negli altri distretti della Terraferma, e sia pure con notevoli differenziazioni da caso a caso, l'espansione della proprietà veneziana segua invece tempi e logiche diversissime. L'elemento della confisca dei patrimoni signorili e della successiva vendita da parte dello stato che, nel Trevigiano e nel Padovano, era stato in qualche modo accessorio (anche se, certo, i beni carraresi avevano permesso un incremento cospicuo), o comunque si era inserito su un rapporto economico assai complesso e ricco, diventa qui il predominante, e in taluni casi esclusivo, veicolo dell'espansione della proprietà fondiaria veneziana. Chi acquista terre a Verona, o a Vicenza, o altrove a ovest di Padova, acquista di solito una grossa e compatta proprietà, e investe meditatamente una ingente somma di denaro. Va inoltre ricordato che si tratta, in diversi casi significativi, di patrimoni ubicati in zone di bassa pianura, "marginali" dal punto di vista agrario e segnate da gravi problemi idraulici; e che l'acquisto comporta in genere l'esborso di grosse somme. Ciò determina due conseguenze significative, una immediata e un'altra in prospettiva: da un lato, riserva ad una ristretta élite di patrizi o comunque di cittadini facoltosi l'acquisto di questi beni; dall'altra fa sin d'ora intravedere il problema (che verrà all'ordine del giorno nei decenni centrali del Cinquecento, in una congiuntura economica e sociale in via di profondo mutamento) del rapporto fra capitale privato e mano pubblica nelle iniziative di bonifica e di valorizzazione di queste terre.
La qualità della presenza fondiaria veneziana che ne risulta è profondamente diversa.
Nell'area romagnola, deve essere considerato prima di tutti il caso dei possessi fondiari del Ferrarese, ove con l'affermazione del potere territoriale estense si evidenziarono con crescente chiarezza, sin dal XIII secolo, i due classici problemi posti dall'espansione fondiaria in terra "straniera", non dissimilmente da quanto accadeva con Padova e Treviso (159): la libera esportazione delle rendite, l'assoggettamento delle proprietà veneziane al regime fiscale e giudiziario locale. Si conosce da lungo tempo (160) l'attenzione precoce dei patrizi veneziani per le terre ai margini della zona meridionale della fascia lagunare, attorno a Comacchio una zona sulla quale insistevano anche ben altri interessi pubblici, legati ai problemi della produzione del sale -: le prime concessioni feudali erogate dal vescovo di Ferrara ai Veneziani sono infatti del 1134 (161), e più o meno dallo stesso periodo talune chiese veneziane già possedevano beni nel territorio ferrarese. Nel secolo successivo, i Contarini avevano acquisito terre a Massafiscaglia; né mancarono per taluni esponenti del patriziato investiture dei marchesi (anche a fine Trecento). Problemi fiscali e giurisdizionali risultano evidenti per i cospicui possessi dei Querini a Papozze, al confine fra l'episcopato di Ferrara e quello di Adria: un possesso che con molte traversie (la parziale confisca in occasione della congiura del 1310, le controversie giurisdizionali e fiscali del Trecento) giunse fino al Quattrocento. In questo secolo, tuttavia, anche prima della guerra di Ferrara l'attrazione di altre zone della Terraferma e una certa ostilità ferrarese (nel 1444 il comune di Ferrara, ad esempio, proibì ai Veneziani di acquistare beni fondiari nel territorio cittadino) (162) fanno segnare il passo all'interesse dei Veneziani per queste terre, che nonostante le intense relazioni con la corte e con la città non sembra (almeno allo stato attuale delle ricerche) essersi sviluppato più di tanto. Ciò resta vero, anche se proprio le questioni relative ai possessi di Gianvittore Contarini (l'ultimo visdomino veneziano a Ferrara prima della guerra del 1482) a Massafiscaglia non furono a quanto pare estranee all'inasprirsi delle relazioni diplomatiche che preluse alle ostilità (163).
A Ravenna e nel Ravennate, la conquista del 1440 pose le premesse per un "salto di qualità" dei rapporti economici con Venezia, che sino ad allora aveva (come altrove) gestito il monopolio del sale ed esercitato un attento controllo sulle vie di comunicazione, ma non molto di più (164). Basterà ricordare al riguardo la crescente importanza del grano ravennate per il rifornimento annonario veneziano (165): un elemento che diventa strutturale e stabile nel rapporto fra le due città, come si può constatare nel 1509 quando Ravenna torna alla soggezione pontificia ("tanto heranno consuetti quelli di Ravenna di portar li loro formenti a Venetia e tochar li sui danari" (166)). A differenza di quanto era accaduto per le terre carraresi, il governo veneziano sembra avere sconsigliato per ragioni di opportunità politica la partecipazione dei patrizi veneziani alla liquidazione dei beni polentani negli anni '40, e su di essa non si hanno dati precisi; ma non molto più tardi (attorno al 1460) la situazione è già notevolmente cambiata. Nel 1509, come ci attesta un elenco redatto dopo la perdita di Ravenna (167), una ventina di famiglie veneziane possedevano 2.264 ha di terra, per una stima di oltre 90.000 ducati. Una discreta percentuale di queste terre sono ubicate, com'era facile attendersi, nella porzione nord-orientale del distretto ravennate, verso Comacchio: così è per gli Zorzi, che hanno anche ampie estensioni vallive, i Querini e i Morosini. Anche verso Cervia non mancano consistenti possessi; ma non è trascurata neppure la zona più interna, in direzione di Cesena e di Bagnacavallo. Al di là della dislocazione, il dato saliente un - minimo comune denominatore, che come si è anticipato accomuna tutta la Terraferma ad eccezione dei territori di Padova e di Treviso - è forse la circostanza che "i veneziani hanno acquistato possessioni piuttosto compatte ed estese, solo occasionalmente raccogliendo appezzamenti isolati o piccole chiusure" (168).
L'altro punto di forza della presenza fondiaria veneziana in Romagna (i beni di Rimini e Faenza incidono sulla stima complessiva per meno del 5%, contro il 67% dei beni ravennati e il 28% di quelli cerviesi; a tutti questi, vanno aggiunti i beni, non ubicati, degli Zorzi e dei Venier, "che valeno danari assai") (169) è secondo i dati del 1509 appunto Cervia, che Venezia aveva ottenuto da Novello Malatesta nel 1463 (170) (assegnandogli in cambio, tra l'altro, il reddito di valli da pesca e di terre già appartenute al vescovo di Padova a Lova, sulle rive della laguna (171)). Non sorprende, ovviamente, che tra i "beni de zentilomeni veniziani posti in Zervia" (172) figurino le saline: i Corner possedevano in Cervia solo "una vale con para trenta saline et locho da farne de le altre", mentre per i Tron, i Duodo, i Molin (i cui beni sono stimati oltre 5.000 ducati), i Caravello (i maggiori proprietari, con proprietà valutate quasi 9.000 ducati) esse affiancano case e terre, disperse in varie località del modesto territorio della cittadina romagnola (Campolevà, "Canuzedo", Mascona, Fontana, S. Andrea) oltre che nell'ambito urbano. Si trattava delle famiglie che dopo l'acquisto della città avevano promosso l'incremento della produzione del sale, determinando una crisi di sovrapproduzione cui il governo veneto aveva posto rimedio sin dal 1473, proibendo ai privati di detenere cointeressenze nelle saline, ma allentando poi questo divieto nell'ultimo decennio del secolo (173). La connessione fra i due investimenti appare ovvia: le case in città fungono da pied-à-terre, le vigne e i poderi (in genere di non grandissima dimensione, al massimo 230 tornature) costituiscono un elemento aggiuntivo.
A Ravenna e Cervia, si è visto, l'espansione fondiaria veneziana segue cronologicamente la conquista politica. Sotto questo profilo, analoga si prospetta la situazione nel Polesine, ove anteriormente alla conquista del 1484 la presenza fondiaria, se si fa eccezione per il ben noto caso dei Badoer, radicati a Lendinara da lunghissimo tempo, e dei Dolfin, che avevano acquisito nella stessa località proprietà non trascurabili, e per qualche altro isolato possesso, risulta estremamente limitata. Per il territorio della visconteria di Rovigo, lo conferma ad esempio un estimo del 1411 (174); ma lo ribadisce anche, oltre un secolo più tardi (1531), un altro estimo, che schedando nello stesso territorio i beni degli abitanti di Venezia, Chioggia, Cavarzere e Loreo elenca appena una ventina di "ditte", la cui consistenza patrimoniale appare comunque piuttosto modesta (175). Per l'intero Polesine, non mancarono forse alcuni acquisti durante il periodo (1395-1438) in cui la regione restò in pegno alla Repubblica a garanzia di un prestito fatto al marchese d'Este (176). Tuttavia un catastico del 1525 dei provveditori sopra le camere, recentemente valorizzato, elenca appena cinque patrizi veneziani su un totale di 502 proprietari, e tre Veneziani titolari di feudi su un totale di 125 (177). Tutto, o molto, ruota in sostanza attorno alla svendita, risalente proprio a quegli anni, e alla valorizzazione agraria, che si può far iniziare nel decennio successivo, dei beni confiscati agli Estensi dopo la pace di Bagnolo (1484). All'origine della stessa guerra di Ferrara, d'altronde, sembra non siano state estranee (lo si è accennato) le pressioni di patrizi autorevoli, che avevano interessi nell'area romagnola (più a Ferrara che nel Polesine in senso stretto però) (178) e che a Venezia soffiarono sul fuoco dell'ostilità contro Ercole d'Este.
Durante il Quattrocento, non erano mancate da parte di importanti esponenti della corte estense (come pure, in qualche caso, da parte di enti ecclesiastici) (179) iniziative di bonifica e di valorizzazione agraria anche d'un certo peso, che avevano cominciato a porre rimedio ad una situazione di dissesto idrografico fattasi particolarmente grave dopo il 1438 (l'anno della rotta di Malopera, che aveva determinato l'apertura di un nuovo corso dell'Adige, il Canalbianco) (180). Sin dal 144o Nicolò d'Este aveva ordinato la costruzione di manufatti idraulici a Francavilla, presso Badia Polesine, dando vita a "consorzi coatti" per la manutenzione dei medesimi (181), mentre si manifestava anche qualche iniziativa locale (182). Prisciano Prisciani, fattore di Borso d'Este, poi, imprese importanti lavori di arginatura del Canalbianco a Canda e S. Bellino: la bonifica delle terre dette Presciane era un fatto compiuto negli anni '60, ed è significativo che nel 1497 il figlio di Prisciano, il ben noto cancelliere estense Pellegrino, abbia dissertato di "prese" e "retratti" di fronte al senato veneziano, nel corso di un'ambasciata (183).
Concessioni analoghe a quelle fatte ai Prisciani gratificarono altre famiglie eminenti, come i Pincari o i Guarini; Canda, bonificata in parte dagli Estensi stessi, e Castelguglielmo entrarono a far parte del patrimonio della camera estense. Un privilegio di Ercole d'Este permise nel 1474, più a sud, l'inizio del retratto nella castalderia ducale di Pontecchio (184): il Sanudo definisce nel 1483 "bellettissime [sic>" queste terre, che - recentemente confiscate - durante il suo tour risultano amministrate da Alvise Basadonna (185). Nel 1481, Biagio Rossetti lavorò alla costruzione di un importante manufatto idraulico a Polesella (186). Non mancavano insomma esperienze e termini di confronto per il ceto dirigente veneziano al momento dell'acquisto; una delle possessioni estensi meglio organizzate, il "retratto della Frattesina", fu anzi direttamente amministrato per oltre un secolo e mezzo, a partire dal 1484, dai procuratori "de citra" (sino alla vendita ai Labia, nel Seicento, per 180.000 ducati) (187).
Il contesto era dunque preparato per iniziative che avrebbero potuto essere, sin da allora, di notevole impegno; e in effetti negli anni immediatamentte precedenti le guerre d'Italia il governo veneziano, oltre a prendere provvedimenti significativi di politica economica (proibizione dell'emigrazione di rustici verso il Ferrarese e dell'esportazione di cereali, istituzione di un mercato a Rovigo) (188), non si disinteressò del tutto dei problemi idraulici del Polesine, recependo le istanze che provenivano dalla periferia. Confermò infatti i privilegi estensi per alcune comunità (come Pontecchio), concesse privilegi per l'esecuzione di escavi ed arginature sino ad Arquà Polesine e Borsea, riprese a intermittenza (1493 e 1503), sollecitato dalle pressioni dei capitani di Rovigo, il progetto del "substentaculum" di Polesella, completato dal Rossetti nel 1504: un manufatto che regolando il regime del Canalbianco "svolse un ruolo importantissimo nella prima messa a coltura di tanta parte del Polesine, specie nella zona centrale" (189). Progetti di valorizzazione del patrimonio demaniale circolarono poi, a Venezia, anche negli anni drammatici della crisi di Cambrai: in una lettera del 1512, il noto mercante Martino Merlini riferisce al fratello che Sebastiano Contarini, suo socio, vuol coinvolgerlo al 50% in un consorzio con altri tre patrizi: "i vol tuor sul Polexene a fito 20 posesion, che sarà da 100 chanpi l'una soto sora, in un pezo che xè de San Marco". Terre, secondo il Merlini, sulle quali ci sarebbe "da far di atenderle e da trionfar" (190), anche se poi, in realtà, la prospettiva che pone dinanzi al fratello sembra economicamente non troppo esaltante ("viéntene de la bona voja via chon le prexente galìe, e zonzi quanto presto tu puoi, ché porai viver de intrada et avanzar qualche dexena de duchati a l'ano"), e orientata esplicitamente verso un investimento-rifugio ("el sarà el nostro viver quando non avéssemo altro al mondo").
Per quanto sinora si sa, non si può dire però che complessivamente le iniziative concretizzate siano state particolarmente incisive. La svolta si ebbe invece, come è noto, con le vendite di qualche anno più tardi (1518-1519), effettuate "per la franchation del Monte Novo" (191). Esse riguardarono naturalmente, in parte, terre già produttive (come i cospicui beni acquisiti da Marino Grimani e da Nicolò Querini a Pontecchio, in zona di bonifica quattrocentesca, per oltre 8.300 ducati) (192), ma anche terre da bonificare, ed introdussero l'importante principio della compartecipazione pubblica alle spese per la costruzione delle strutture idrauliche: una parte dell'8 aprile 1519 prevedeva la costruzione di una "bova" sullo Scortico a spese dei comuni di Rovigo, Badia e Lendinara. Il processo di valorizzazione si mise poi definitivamente in moto, con una certa lentezza, solo nei decenni successivi. Fu nel 1533 che Dolfin, Loredan (erano stati fra i primissimi acquirenti), Morosini, Bragadin ed altri consorti chiesero al doge Gritti (la cui famiglia pure aveva interessi patrimoniali in Polesine) il rispetto degli impegni presi al momento della vendita; e pochi anni più tardi funzionano ormai, di fatto, i consorzi di Valdentro e di Canda (193).
Nello stesso 1533 il senato approvò inoltre la costituzione del "consorzio sive retratto della Frassinella" (194). Negli stessi anni, infine (1525 e 1537), i rettori di Rovigo ponevano ripetutamente al senato il problema di mettere mano al "trazer la vale de Santa Zustina, la qual è paexe grandissimo": si trattava di un'estesa area paludosa, fra l'Adige e l'Adigetto, la cui bonifica iniziò nel 1541 per iniziativa pubblica (a differenza della maggior parte dei consorzi precedenti), e fu anche questa una svolta importante (195).
Si tratta di decisioni e di iniziative rilevanti, in sé e per sé, ma anche perché lasciano intendere la ormai matura presa di coscienza, da parte dei privati e del governo, della grande complessità dei problemi idraulici di quest'area - non si dimentichi che siamo, ormai, negli anni del celebre dibattito Cornaro-Sabbadino - e creano un clima favorevole alla grande corsa alla terra, alla intensificazione della costruzione delle ville (196) e alla bonifica dei decenni successivi, sostenuta e promossa da una componente cospicua e crescente del ceto patrizio.
Le fonti fiscali di questi anni non possono, ovviamente, che registrare la situazione precedente all'evoluzione in atto. Infatti, ancora nel 1537, in occasione della redecima, lo spoglio condotto dal Gullino sulle polizze del sestiere di S. Marco rivela che appena il 7,3% delle terre possedute dagli abitanti di quel quartiere urbano è ubicato in Polesine (197). Ben diverse saranno le risultanze di qualche decennio più tardi, quando la bonifica ha ormai coinvolto risorse, intellettuali e finanziarie, assai consistenti e le fonti fiscali e catastali puntualmente registrano la valorizzazione di tante nuove terre (198).
In merito alla valutazione complessiva da darsi su questo fenomeno, che ebbe nella pianura tra Padova e Rovigo il suo luogo d'elezione, e che è stato al centro di tanto interesse da parte della storiografia degli ultimi decenni (199), occorre peraltro riflettere attentamente sulle recenti considerazioni del Corazzol, che rilevando le cifre spaventosamente elevate (centinaia di migliaia di ducati, in pochi anni, presso due o tre notai) investite dai Veneziani nelle costituzioni di rendita in frumento, e pur sottolineando l'opportunità del rilievo dato, da una robusta tradizione di ricerche, alle bonifiche (a proposito delle quali il Ventura ha calcolato un esborso di un milione e mezzo di ducati nell'arco di alcuni decenni), ha sottolineato la necessità di "superare una visione schematica della vita economica veneziana del '500 tutta giocata sull'antagonismo tra commercio e terra" (200).
Si è a suo luogo accennato alle confische dei beni dei ribelli padovani, nel Quattrocento e nel primo Cinquecento, e ai vantaggi che ne trassero i patrimoni veneziani.
Nella bassa pianura padovana, procede invece da ragioni diverse - ed ha alle spalle un'altra e più lunga storia - la liquidazione del patrimonio di Bertoldo d'Este, morto nel 1466. Erano i resti, ancora molto cospicui nonostante divisioni patrimoniali e scorpori, dei beni detenuti dalla famiglia marchionale sin dal XII-XIII secolo (201). Ne beneficiarono soprattutto i Pisani di S. Maria Zobenigo, che nell'agosto 1468 acquistarono un'estesissima palude nella zona di Solesino e Vescovana. Evidentemente il loro interesse per quest'area si accrebbe, perché nel 1483, dopo la confisca da parte della Repubblica durante la guerra di Ferrara, acquisirono i beni della "camerlengaria" estense (forse 2.000 campi tra Monselice e Montagnana), perfezionando poi l'acquisto, dopo una complessa trattativa con Ercole d'Este, nel 1487 (202).
Pochi anni più tardi, nel 1495, un cospicuo acquisto di beni ex estensi a Merlara ed Urbana fu operato dal doge, Agostino Barbarigo (203). Al momento della sua morte (1500), "la nostra valle Urbana" dava già un cospicuo reddito in frumento: ma dal testamento traspare anche la consapevolezza delle potenzialità che una possessione di adeguata ampiezza poteva offrire. Il Barbarigo sconsigliava infatti una divisione e sottolineava la necessità dell'introduzione di migliorie ("che questa valle se habia tegnirla unita e procurare de meiorarlla [...> fare tute quele chosse che siano a utilità de quela valle") (204).
Pochi decenni prima della demanializzazione e poi della vendita del patrimonio estense, nel 1437, la scelta di campo filoviscontea di Alvise dal Verme aveva portato allo smembramento della sua estesa signoria, nella bassa pianura veronese, in una zona (contigua, ed analoga per caratteristiche ambientali, alla pianura padovana) ricca di boschi e di paludi, fra il Tartaro, il Po e l'Adige. Queste terre furono poste in vendita nel 1442 (205), e in parecchi casi furono grandi proprietari veneziani ad acquistare (o a subentrare, pochi anni dopo la prima asta, ai primitivi acquirenti) le cospicue "possessiones", provviste di diritti giurisdizionali, in precedenza amministrate dai dal Verme. Non erano passati moltissimi anni dalla sopra ricordata smobilitazione degli acquisti, che i Veneziani avevano operato tra 1406 e 1410 circa in sede di liquidazione del patrimonio scaligero-visconteo: ma questo nuovo episodio si inscrive in un contesto politico assai diverso, in un momento importante di assestamento dei rapporti fra Venezia e il comune di Verona, susseguente alla guerra veneto-viscontea del 1438-1439 e alla prova di sostanziale fedeltà esibita dalla città in quella delicata occasione. Di tale assestamento sono testimonianza i cospicui sgravi fiscali ottenuti dal comune cittadino (con fortissima riduzione della quota annua di imposizione diretta, da 18.000 ducati annui di "datia lancearum" alla quasi risibile somma di 6.000 ducati in totale fra città, clero e contado), il recupero di diritti giurisdizionali su varie località del contado ("privilegium super unione membrorum") fra le quali alcune ex vermesche, e alcuni anni più tardi la stessa stesura e promulgazione degli statuti cittadini (1450) (206). È assai interessante osservare che i Veneziani trascurarono le disperse, pur se cospicue, proprietà dei dal Verme nella zona collinare (appannaggio di cittadini e di distrettuali veronesi), e puntarono invece sulle grosse e compatte "possessiones" della bassa pianura, in generale dislocate lungo l'Adige (e dunque appetibili per ovvi motivi logistici). Tra gli acquisti veneziani delle terre vermesche, il caso più conosciuto è quello di Carpi di Castagnaro, ove il ben noto (grazie agli studi del Lane) mercante Andrea Barbarigo, prototipo del "mercante medio", subentrando alla comunità di Carpi e ai da Mosto acquistò nel 1457 una parte della possessione: si trattava di diverse centinaia di campi veronesi, che pochi anni dopo suo figlio Niccolò avrebbe valorizzato in modo cospicuo (207); l'altra metà della proprietà fu acquistata dai Fasoli, un'autorevole famiglia chioggiotta (208). Ma già nel 1442 Michele Gritti aveva acquistato per 1.700 ducati la "villa" di Campalano, presso il fiume Tartaro, che nel 1450 Benedetto Gritti possiede "cum sociis ", e nel 1442 Michele Cappello si era accaparrato Correzzo per 9.000 ducati (209); nel 1445 gli stessi Cappello avevano acquistato Maccacari e Levà, "cum iurisdictione totius datii et vicariatus" (210); nel 1456 infine Iacopo Dandolo è da tempo, succedendo al primo acquirente (la famiglia del condottiere da Marsciano), "dominus possessionis Villebone" (l'attuale Villa d'Adige) (211). Questo robusto intervento veniva dunque a rafforzare l'esigua presenza veneziana nelle campagne veronesi, superstite dalla prima metà del secolo (nella quale spiccavano le terre Grimani a Pontepossero, sul Tione, possedute ininterrottamente dal 1410) (212). Ma ciò che importa soprattutto sottolineare è che i proprietari veneziani sono tutt'altro che disinteressati alle importanti iniziative di bonifica che i proprietari veronesi (laici ed ecclesiastici) promuovono nella seconda metà del Quattrocento nella zona del basso Tartaro (tutto sommato meno a rischio, dal punto di vista militare, della zona più settentrionale del territorio veronese, lungo i corsi del Tione e dello stesso Tartaro, ove il contrasto fra ragion militare e iniziativa agraria dei proprietari della città scaligera sarà molto forte negli anni '70 e '80) (213). Così, i Gritti e i Cappello contrastano agli Olivetani veronesi di S. Maria in Organo il possesso di alcune migliaia di campi di bosco; nel 1480, Alessandro Venier (l'avo di Marin Sanudo) titolare di diritti signorili di Sanguinetto ha in affitto dallo stesso ente 65o campi veronesi di palude. Nel 1493, quando (a seguito della confisca - provocata da una denuncia ai governatori alle entrate - al citato monastero di alcune migliaia di campi di boschi e paludi, spettanti al patrimonio ex vermesco) viene perticata l'area boschiva denominata "Loneda" (circa 7.950 campi veronesi, pari a 2.386 ha), fra i proprietari delle terre bonificate (oltre la metà del totale) figurano i Venier, i Cappello, i Canal; e nel 1502 in occasione di una ulteriore suddivisione delle terre bonificate detengono quote anche i Michiel e i Gradenigo (214). I Cappello avevano anche costruito, assieme agli Olivetani, opere idrauliche di una certa importanza (215). Va ricordato infine, in una zona non lontana, l'insediamento protocinquecentesco di altre famiglie veneziane (i Garzoni e i Donà, i quali ultimi ebbero terre anche ad Albaria, presso S. Pietro in Valle, nell'area or ora citata non lontano dal fiume Tartaro e dal Po) (216) a Boschi S. Anna (217) e a Boschi S. Marco, a sud di Legnago, sul sito di un'importante estensione boschiva (il "nemus Porti", Porto di Legnago, delle fonti pienomedievali veronesi) ora ridotta a coltura.
Le fonti fiscali dei decenni successivi mostrano che questo insediamento veneziano nel Veronese è definitivo: anche se esso resterà come è noto sempre nettissimamente minoritario rispetto al patriziato locale, e non conoscerà mai più (neppure nel Sei-Settecento) (218) incrementi così massicci. Le liste d'estimo dei primi decenni del Cinquecento presentano infatti nel 1518 e nel 1531 rispettivamente 41 e 49 "ditte" patrizie veneziane: nomi e località sono quelli che abbiamo or ora citato, con una cospicua polarizzazione e con le cifre d'estimo più elevate riferite alla bassa pianura fra il Tartaro e l'Adige (Castagnaro, Carpi, Villabona, Legnago, Nogara, Sanguinetto, Correzzo, Campalano, Maccacari, Bonavicina, Pontepossero, ecc.). Solo apparentemente sorprende una lista di pochi anni più tardi (al rinnovo d'estimo del 1545), che elenca 87 proprietari: un aumento che va senza dubbio in parte imputato ad un trend di crescita della proprietà veneziana, in perfetta sintonia cronologica con quanto accade nel resto della Terraferma, ma che è motivato anche da divisioni patrimoniali, da una maggiore accuratezza del rilevamento (sono citati diversi piccolissimi possessi, con cifre d'estimo trascurabili), e dall'inserimento (per motivi non chiari dal punto di vista fiscale) di una dozzina di patrimoni del territorio di Cologna Veneta (219). Se si analizzano infine le descrizioni effettuate per incarico dei provveditori del comune di Verona pochi anni più tardi, tra il 1557 e il 1558, Si ha la conferma non solo della presenza dei patrizi veneti ormai anche in numerose località della collina (a seguito, sembra, piuttosto di matrimoni che di acquisti; le zone preferite sono la Valpolicella e la Gardesana, e le colline ad est della città, in direzione di Vicenza) - pur se si tratta di una presenza sempre modesta -, ma anche della perdurante importanza delle zone già colonizzate della bassa pianura. A Castagnaro le terre Contarini (già Fasoli) superano i 1.150 campi veronesi, oltre a 2.500 campi di "valles", e i 23.000 ducati di stima; a Carpi, al patrimonio Barbarigo, ormai frazionato, si affiancano gli oltre 500 campi dei Bon, con 2.000 campi di paludi; a Campalano e Maccacari i Cavalli sfiorano i 1.000 campi, per una stima di oltre 36.000 ducati; e l'esemplificazione potrebbe continuare con i "palazzi" e le possessioni dei Corner, Querini, Contarini, Dandolo, Surian, Erizzo nel territorio di Cologna Veneta (220).
L'episodio veronese legato alle terre ex dal Verme della bassa pianura, dunque, per cronologia e anche per la sua consistenza, non trascurabile, ha un certo rilievo anche nel quadro complessivo delle strategie d'investimento e di gestione del patriziato veneziano. Il caso dell'azienda agraria Barbarigo a Carpi di Castagnaro, che la disponibilità di registri amministrativi ha consentito di analizzare in modo accurato (221), non è dunque del tutto isolato. È anche nella bassa pianura veronese che, sulla scia delle iniziative assunte dal (particolarmente dinamico) patriziato locale, di fronte a problemi idraulici gravi ma non insormontabili, alcune famiglie veneziane prendono dimestichezza con i problemi della bonifica e della conduzione delle terre di pianura: una "bonifica privata" che anticipa le grandi esperienze del secolo e dei decenni successivi (222).
Occorre infine dare qualche cenno sull'area vicentina, le cui vicende sono per certi versi analoghe a quelle del territorio veronese: ma mancano in essa, data la scarsa consistenza assunta dal patrimonio scaligero nel Trecento (quando in cambio di un sostanziale consenso - specie a partire dagli anni '40 - il governo veronese non aveva intaccato più di tanto la proprietà fondiaria locale, spadroneggiando preferenzialmente nelle terre ecclesiastiche) e data l'assenza a fine Trecento di giurisdizioni signorili importanti e di proprietà fondiarie compatte ed acquistabili, le condizioni per un eventuale ingresso in forze della proprietà veneziana. Il distretto cittadino che ad est del Mincio risulta, sino a fine Quattrocento, meno interessato dalla penetrazione fondiaria veneziana è proprio il Vicentino. Anche in questo caso, come in larga misura a Verona e nella lontana Brescia (223), la persistente egemonia del patriziato locale sulla terra restò, per tutto il Quattrocento, ed oltre, un elemento strutturale, di fondo dell'equilibrio di potere vigente.
Fa eccezione a questo quadro, in qualche misura, Bassano del Grappa, l'importante "quasi-città" del Pedemonte. È la sola località vicentina in cui l'Itinerario sanudiano del 1483 menzioni residenze veneziane degne di nota (Muazzo, Cappello "dal Banco"). In questa cittadina, come in molti altri luoghi, i Veneziani hanno un ruolo importante nell'attività molitoria e nel commercio del legname; ma qui interessa soprattutto il fatto che alcuni patrizi (Morosini, Pizzamano, Cappello) figurano come concessionari di porzioni importanti della "Campanea" del comune di Bassano, irrigata dalla roggia Rosà, che "esce de Brenta e bagna tuta la Campagna" (224). Come ovunque, il godimento di tali beni era a termini di statuto riservato ai cittadini bassanesi: si può ipotizzare che il fatto che ne usufruissero i Veneziani vada ricollegato alle usurpazioni trecentesche dei da Carrara e dei Visconti (nei diritti dei quali la Repubblica era subentrata), più che a successive concessioni. Nel 1509, la richiesta "quod Campanea et possessiones que alias concessae fuerunt Venetis et que per eos fuerunt usurpatae revertantur et reverti debeant ad ipsam comunitatem Bassani" fu ovviamente avanzata a Massimiliano; ma ancora a metà Seicento la presenza patrimoniale veneziana era molto forte (225).
Per quanto riguarda il distretto vicentino in senso stretto, i dati sinora noti hanno - si è detto - fornito indicazioni piuttosto scarse (226). Certo, esponenti di famiglie patrizie si radicano nella città berica e nel suo territorio: i Venier possedevano casa e terre a Lonigo, i Badoer a Vicenza, i Lombardi gestivano i loro possessi nel Vicentino abitando in un palazzo nel centro urbano (227). Ma lo spoglio da noi effettuato di un certo numero di cartulari notarili della seconda metà del Quattrocento non ha dato praticamente nessun esito, in questa direzione; né d'altronde il territorio vicentino aveva offerto occasioni così appetitose (in termini di compattezza delle possessioni) e cospicue come era accaduto con le terre della fattoria scaligera di Verona. Anche quando, nel 1442, la vendita delle terre di Alvise dal Verme portò alcune famiglie patrizie veneziane ad acquistare estese proprietà fondiarie nel Vicentino, queste terre furono "girate" immediatamente ai vicentini Chiericati e ai Valmarana (228). Solo ai primi del Cinquecento, con gli acquisti dei Moro a S. Pietro Intrigogna (229) e il subentro dei Pisani "dal Banco" ai vicentini Nogarola, ribelli filoimperiali, nell'importante proprietà (a sua volta, ex vermesca) di Bagnolo di Lonigo (1523) (230), si manifesterà qualche consistente presenza veneziana; ma va notato che anche in questa occasione qualche altra cospicua possessione confiscata a ribelli, come le terre dei Loschi e degli stessi Nogarole a Vancimuglio e altrove, finì nelle mani di patrizi vicentini, come i Godi, non di Veneziani (231). Solo gradatamente, ma non prima della seconda metà del Cinquecento, negli archivi privati veneziani muta poi la qualità delle fonti, che superano la dimensione della mera percezione di rendita: è del 1555 per esempio una Nota di tutto quello spenderò nella vila di Montegalda di un Gerolamo Contarini. Le ricerche del Gullino, del resto, confermano che lo sviluppo della proprietà fondiaria veneziana nel Vicentino fu consistente nel Seicento (232).
Si può aggiungere qui che proprio questa zona al confine fra il territorio veronese e il vicentino (tra Lonigo, appunto, e la già citata podesteria di Cologna Veneta, amministrativamente aggregata sin dal 1405 al Dogado) era allora oggetto di un notevole interesse da parte del patriziato veneziano, favorito forse dall'appena ricordata appartenenza di quella circoscrizione, sotto il profilo amministrativo e fiscale, al Dogado: ne sono prova l'insediamento nel territorio di Cologna, tra gli altri, dei Querini (in data imprecisata, ma certamente anteriore al 1500 (233)) a Pressana, e quello dei Gritti (peraltro per via di matrimonio) nei dintorni, a Villabella presso S. Bonifacio, attorno al 1520 (234).
Nelle pagine precedenti si è già accennato en passant, in modo implicito o esplicito, alle forme di conduzione adottate, o recepite, dai proprietari fondiari veneziani nella prima metà del Quattrocento. Per quanto riguarda il territorio padovano e trevigiano, le fonti utilizzate in questa ricerca riescono a dare un'immagine complessiva abbastanza attendibile dei rapporti vigenti: i compilatori di elenchi redatti per scopi fiscali non possono non essere attenti a fattori che interferiscono direttamente con la capacità contributiva, ed annotano con regolarità le caratteristiche fondamentali dei rapporti contrattuali vigenti (compresi aspetti di non grande rilievo fiscale, come la concessione "in galdimento" di porzioni di prato o di incolti, e la corresponsione di onoranze legate alla conduzione di un "manso", o le superstiti prestazioni d'opera dovute). Sulla base di questa distinzione analitica, sia a Padova che a Treviso, ai fini della determinazione del reddito sono adottate usuali tecniche di uniformazione: a Treviso si assumono come termine di riferimento le corresponsioni di frumento e vino e si riconducono ad esse gli altri cereali (e persino le onoranze dei "mansi"), a Padova si calcola (in diversi tra gli elenchi esaminati) il reddito fisso annuo in natura che potrebbe fornire un appezzamento o un podere condotto alla parte. Nell'esaminare sulla base della documentazione fiscale la struttura delle rendite percepite dai proprietari veneziani (e le forme di conduzione vigenti nelle loro terre), occorre partire da questo dato, di per sé già espressivo dei loro interessi (e di quelli dei proprietari padovani e trevigiani).
Del predominio della diade frumento-vino si è già accennato sopra, a proposito dei fitti percepiti nella podesteria di Piove di Sacco, nel territorio padovano, nella prima metà del Quattrocento (235); ma analoghe osservazioni possono essere fatte per le altre circoscrizioni del Padovano orientale (Mira e Oriago, Camposampiero) e per la zona collinare degli Euganei (nonostante l'ovvia vocazione viticola). Dati simili si raccolgono dal territorio trevigiano. Nella Mestrina di Sotto, ad esempio, i canoni in frumento e vino a quota fissa, o in solo frumento, o in frumento integrato da quote minime o simboliche di legumi, sono una percentuale nettamente maggio ritaria, superiore ai due terzi (236), su un'ottantina di rapporti di conduzione rilevati dai "merighi" delle varie regole nel 1439, relativi a "mansi" (il "manso" è l'entità policolturale, comprendente arativo, vignato, prato, qualche campo di bosco, di dimensioni variabili ma non inferiori in genere ai 15 campi trevigiani [7 ha circa>, che resta il punto di riferimento per le valutazioni fiscali della proprietà fondiaria). L'ultima tipologia citata, quella che prevede un rapporto di 10 o 15 a 1 fra il frumento e i cereali minori (miglio, sorgo) e/o i legumi, ormai ridotti ai minimi termini nella spettanza proprietaria, rappresenta l'evidente evoluzione delle antiche corresponsioni a "bladum interciatum", tutt'altro che scomparse in altre aree del territorio trevigiano, in particolare in collina, ma qui presenti del tutto sporadicamente. Se poi si analizzano i canoni dovuti per appezzamenti isolati e per spezzature di "manso", cresce l'incidenza delle corresponsioni in denaro (specialmente per i prati), ma non viene meno certo la presenza importante del frumento. Ancora più schiacciante, attorno all'80% dei casi rilevati, risulta la prevalenza dei canoni fissi in frumento e vino nei "mansi" della Zosagna. Le varianti a questo schema generale non mancano naturalmente in altre aree del territorio trevigiano: nei non numerosi "mansi" della Campagna ad esempio (una delle aree, si ricorderà, ove la proprietà veneziana è meno presente) si preme di più sul vino, del quale si esige la metà assieme alla quota fissa di frumento. Ma l'orientamento al predominio del frumento è irreversibile, e in particolare nelle zone di pianura prossime a Venezia assume un'evidenza schiacciante: nella podesteria di Noale, nel primo Cinquecento, la percentuale dei cereali minori nei canoni sarà addirittura quasi azzerata (237) (anche se, va ribadito, ciò non significa necessariamente che essi non venissero coltivati).
Quanto sopra vale tanto per i contratti livellari (238), quanto per i contratti a tempo definito (spesso cinque anni), assai diffusi. Ne consegue che il contratto alla parte (con quote della metà per il frumento e il vino e un terzo dei minuti), pur tutt'altro che assente, ha un'incidenza senza dubbio subordinata nelle proprietà veneziane del Padovano e del Trevigiano. Così pure, sostanzialmente scarso è il rilievo che assumono, nella prima metà del Quattrocento, forme contrattuali e di conduzione che implichino esborsi di capitali e attivo coinvolgimento da parte dei proprietari: aspetti che va ribadito sono pur rilevati dalle fonti, e la cui modesta incidenza risponde dunque senza dubbio ad un dato reale. La soccida (o altre forme di affidamento del bestiame) risulta (sia pure con eccezioni, come, nel Padovano, il territorio di Piove di Sacco) scarsamente presente, sia come contratto a sé, sia come elemento complementare del contratto alla parte (con il conseguente "galdimentum" da parte del colono di quote di prato). Analogamente, la conduzione a boaria (mediante affitto del bestiame da lavoro) e la conduzione mediante salariato ("facit laborare pro denariis", "facit laborare sumptibus suis et cum familiis") non sembrano avere un grande rilievo. Nell'intero territorio della Mestrina di Sotto, per esempio, non si menzionano nel 1439 che cinque o sei casi di possessioni tenute a boaria, e di modesta entità: un "manso" dei Valier a Melma, uno di Simone "a Mangano" a Musestre e così via. Se ci si sposta poi nella collina padovana, i dati, particolarmente accurati, relativi al vicariato di Arquà, nei colli Euganei, nel 1448 permettono di individuare non più di sei o sette casi, su un totale di oltre un centinaio di proprietari veneziani menzionati, di conduzione mediante salariati ("fa lavorare a so dinari"), sempre legati a terre adibite a monocultura viticola; in quest'area sono però anche attestate, in più casi, arcaiche prestazioni d'opera ("responde per fitto ogni anno opere doe manoale", oppure "uno charezo da soldi dodexe", o simili).
È del tutto ovvio che non si può ridurre ad una formula unitaria un universo estremamente complesso e variegato, come quello che le fonti trevigiane e padovane del Quattrocento ci propongono; ed è altrettanto ovvio, e ben noto, che di norma forme contrattuali diverse (l'affitto in denaro per i prati, spezzature o qualche vigna condotte alla parte, il piccolo livello...) convivano con l'affitto in natura, nell'ambito del rapporto fra il proprietario veneziano e la famiglia contadina (che non sempre, oltretutto, è priva di terre in piena proprietà, e spesso affitta terre da diversi proprietari). Cionondimeno, il prevalere del censo predeterminato, il porre l'accento sulla certezza dell'introito di un tot di staia di frumento e di "conzi" (tale la denominazione della misura trevigiana) di vino, vanno segnalati già per il Quattrocento come un tratto dominante. Ma in qual misura lo si deve attribuire ad una scelta dei proprietari veneziani, e in quale misura invece rientra in una tendenza complessiva? Mancando, per il basso medioevo, ricerche d'insieme, basate su ampi rilevamenti documentari, sull'evoluzione contrattuale e sulla struttura della rendita fondiaria nelle campagne trevigiane e padovane (239), è abbastanza difficile dare a tale domanda una risposta (che tenga conto fra l'altro delle variabili collina/pianura, proprietà laica/proprietà ecclesiastica). Si può solo osservare, in linea di principio, che la più che accertata ampiezza della penetrazione fondiaria veneziana nel Trecento rende poco verosimile la prospettiva di brusche svolte, e ricolloca l'apprezzamento di modifiche nelle scelte sull'unico scenario che le è proprio, quello di una evoluzione lenta e diversificata, percepibile su un arco cronologico lunghissimo, plurisecolare.
Qualcosa di più, e di più articolato, si può invece dire per la situazione cinquecentesca: le ricerche recenti sull'estimo trevigiano del 1542 consentono di delineare, per alcune aree, una fotografia d'insieme convincente, che conferma nella sostanza i lineamenti già intuibili, anche se non misurabili, circa un secolo prima. Nel territorio trevigiano, l'affitto in generi e l'affitto misto (frumento a canone fisso, vino alla metà) conservano nel 1542 una prevalenza nettissima su ogni altro tipo di conduzione: nella Mestrina, interessando il 70% delle terre (240), e coinvolgendo certo in larga misura le terre dei proprietari veneziani. È stato in verità rilevato che costoro adottano ora "abbastanza di frequente" la conduzione alla parte (241), in particolare nei poderi di maggiori dimensioni. Anche nella podesteria di Noale fra il 1518 e il 1542 il contratto alla parte - che comporta in ogni caso, a prescindere dalle sue caratteristiche, un maggior coinvolgimento del proprietario - cresce sì, ma assai lentamente, e scarsi sono anche i contratti di miglioria. L'affitto in generi predomina comunque in modo nettissimo, in particolare a quanto sembra fra le terre dei "forestieri": i proprietari non nobili veneziani, per esempio, sono al primo posto fra coloro che scelgono l'affitto misto (frumento a canone fisso, vino alla metà) (242). Nell'uno e nell'altro dei due casi esaminati, scarsissimo rilievo continua ad avere la conduzione in economia, se si fa eccezione per i "broli" delle ville. Gli animali da lavoro risultano scarsi, "insufficienti a una corretta cerealicoltura" (243), particolarmente proprio nella Mestrina di Sotto, ove sono più estese le proprietà veneziane. Nel contempo, la domanda dei proprietari continua a indirizzarsi esclusivamente al frumento (che nelle rendite padronali - non solo dei Veneziani - costituisce quasi il 98% (244) del totale dei cereali).
Un quadro dunque che mostra una sostanziale stabilità, un equilibrio raggiunto. E senza pretendere, ovviamente, di generalizzare questi pur significativi esempi, va richiamata anche l'omogeneità al contesto, alle terre della nobiltà e della borghesia trevigiane. La rendita dei proprietari veneziani non sembra, in altre parole, esprimere peculiarità conseguenti al background mercantile che la connota. Sotto questo profilo, del resto, non c'è differenza fra le scelte compiute a Venezia e quelle compiute in tante altre città d'Italia (e d'Europa).
Per quanto riguarda le proprietà veneziane negli altri distretti, i limiti imposti dalla situazione documentaria sono maggiori, mancando fonti "panoramiche", e ci obbligano a sospendere il giudizio. Ci limitiamo ad osservare che in genere la maggiore compattezza delle grandi aziende del Polesine, o della bassa pianura veronese, favorisce una maggiore diffusione di contratti parziari (come la "lavorenzia" veronese): ma si tratta anche in questo caso di uno stato di cose recepito dai nuovi proprietari veneziani, trascinati dal contesto e dalla prassi vigente in loco, piuttosto che del frutto di una loro scelta o di una svolta da loro impressa alla gestione.
Le fonti fiscali di Terraferma, se danno una "fotografia" ad un momento dato, una visione d'insieme delle caratteristiche della rendita e indirettamente dei contratti vigenti, non sono certo in grado di dare un quadro esauriente delle strategie di investimento e di gestione poste in essere dai Veneziani. Problemi come la diversificazione degli investimenti in terra (al di là della compresenza, in molti patrimoni, di terre collinari e di terre di pianura, determinata dalla volontà di autosufficienza annonaria: quali e quante famiglie concentrano i loro interessi in un solo distretto o in una sola area, e quali invece investono indifferentemente nel Padovano e nel Trevigiano?) e problemi specificamente pertinenti al concreto operare dei proprietari (si amministra direttamente o attraverso un fattore?) restano evidentemente non chiariti. Altre informazioni devono perciò essere chieste soprattutto a tre tipologie documentarie, da usare in modo combinato: da un lato le polizze delle redecime veneziane, che consentono (coi limiti consueti delle fonti fiscali) di avere un quadro complessivo dei singoli patrimoni fondiari dei laici, patrizi e non; dall'altro, quelle fonti che consentono di ricostruire, nel tempo, la dinamica della gestione: le fonti notarili, da incrociare con i dati degli archivi pubblici di Terraferma e con quelli delle polizze veneziane, e i registri contabili degli archivi privati. Solo moltiplicando le analisi su queste fonti potranno essere messe alla prova le generalizzazioni di un Priuli, o di altre fonti cronistiche, a proposito del dibattuto e cruciale problema dei rapporti fra capitale mercantile e investimento fondiario, e potrà essere sdrammatizzata (e articolata, come dev'essere, in una pluralità di atteggiamenti) la contrapposizione drastica (talvolta presente nella storiografia) fra atteggiamento speculativo mirante alla valorizzazione della terra, e interpretazione "parassitaria", orientata al "vivere in villa" (245) e alla rendita, dell'investimento fondiario soprattutto mercantile: tra "viver d'intrà [...> [e> andar a piaxer e solazo" da un lato, e investire introducendo migliorie dall'altro (246). Nelle pagine successive ci si limiterà, su questi punti, inevitabilmente a semplici indicazioni ed esemplificazioni.
L'utilità, del resto scontatissima, delle fonti notarili - più di altre in grado, per giunta, di restituire almeno qualche eco, di ruzzantiana memoria, delle grandi trasformazioni sociali in atto nelle campagne venete fra Quattro e Cinquecento e parzialmente dovute alle innovazioni nella gestione fondiaria: l'espansione demografica, la proletarizzazione, l'espansione del bracciantato - può essere dimostrata dagli studi sul patrimonio di un proprietario fondiario illustre come il teorico delle bonifiche Alvise Cornaro: l'unico che, a titolo meramente esemplificativo, ci limitiamo a ricordare qui. Nel primo Cinquecento egli possiede circa 300-350 campi (115-135 ha) posti a Codevigo, nella bassa padovana, molto frazionati, alla parte o ad affitto in generi; incrementerà poi la conduzione alla parte, acquisirà nuove terre, ed arriverà ad essere "praticamente il solo padrone di tutto il paese" (247).
Per le fonti notarili i problemi sono dunque di abbondanza e di scelta. Ma diverso è il discorso quando si vogliano utilizzare, per dare profondità cronologica e precisione all'analisi delle forme di gestione fondiaria, gli archivi famigliari. È facile infatti accumulare singole eloquenti testimonianze, a proposito dell'attenzione con cui sin dal primo Quattrocento si guarda alla terra, da parte di alcuni patrizi veneziani. Un Paolo Zane, titolare assieme ad una famiglia veronese della grande possessione di Gazzo Veronese (1.800 campi veronesi, circa 540 ha, più le paludi fra il Tartaro e il Po: terre che pure di lì a poco avrebbe ceduto), la ritiene nel suo testamento del 1424 "segundo el zudixio de nui partecipi molto notabelle et magnifica, apta a dar grandissimo rendedo come l'à principiado de far [...>, siando paxe in Lombardia". (248) Le precisazioni (finalizzate all'ottenimento di sgravi fiscali) che qualche proprietario fa annotare sotto giuramento, recandosi personalmente dal podestà di Padova o di Treviso, a proposito delle vicissitudini delle proprie terre (come un Vittore da Ponte, che segnala nel 1448 che certe sue vigne nei colli Euganei sono rimaste incolte per la fuga dei "laboratores", e in altre affidate a salariati egli "plus expendit quam recipiat de introitu") dimostrano che taluni proprietari avevano quanto meno una certa conoscenza dei problemi di gestione delle loro terre. Ma al di là delle indicazioni isolate, mancano quasi del tutto ricerche monografiche, su singole aziende (249), che prendano in considerazione un arco cronologico ampio: le sole che consentirebbero di superare lo stadio delle impressioni e delle estrapolazioni da limitati esempi, alle quali siamo ancora costretti. Di grande interesse è pertanto, per la qualità non comune della documentazione, il caso delle terre (di ῾azienda' ancora non si può parlare) acquistate a Carpi di Castagnaro, nella bassa pianura veronese, dal già ricordato mercante Niccolò di Andrea Barbarigo (che subentrò negli anni '50 al comune locale, primo acquirente al momento della liquidazione del patrimonio dei dal Verme). Alcune centinaia di campi veronesi, in un contesto ambientale e idrografico piuttosto pesante (presso l'Adige, agli estremi confini meridionali del distretto veronese), scarsa manodopera, consolidata presenza di diritti livellari da parte di alcune famiglie residenti: un punto di partenza non esaltante, i cui elementi positivi erano costituiti per i Barbarigo solo dalla raggiungibilità, da Venezia, per via d'acqua (e Niccolò studiò infatti diversi itinerari tra loro alternativi), e dalla compattezza del possesso. L'acquisto delle terre di Carpi, nelle quali pur profuse impegno e capitali non trascurabili, era stato comunque, per il Barbarigo, una soluzione non ottimale: nel suo testamento, egli vietò sì di cederle, ma la proibizione non doveva valere in caso di permuta con "terre più vicine a Venezia e meno soggette ad inondazioni" (250); e che questo della distanza dalla capitale fosse uno dei criteri-guida che orientavano il comportamento delle famiglie veneziane, lo conferma il testamento del figlio di Niccolò, Giovanni Alvise (1519), che evidenzia una grande attenzione per una possessione, ottenuta per via di dote, a Bottenigo presso Mestre (251).
A Carpi, l'impegno finanziario ed amministrativo di Niccolò Barbarigo, spesso personalmente esercitato, fu notevole. Dopo una prima fase, in cui le terre furono date in affitto (a canone fisso, in grano), il mercante si coinvolse in prima persona, e svecchiò e razionalizzò i rapporti di conduzione, definendo un rapporto parziario di "lavorenzia", analogo a quello che si veniva affermando nelle grandi aziende della bassa pianura veronese, allora in vigoroso sviluppo, ed impostò un'attività di bonifica, non diversamente da quanto venivano facendo i suoi concittadini (a loro volta in accordo coi patrizi veronesi) in altre località della zona. Emerge chiaro, dalla documentazione - ad esempio dai patti di "lavorenzia" stipulati dal Barbarigo coi conduttori dei suoi poderi nel 1491 -, l'inevitabile adattamento alla situazione, a quello che "se chostuma a dar in veronexe"; ma anche la chiarezza e la sistematicità con la quale Niccolò prende atto (annotandole sul registro) di pesi e misure locali rapportandoli ai veneziani, delle spese di trasporto fra Carpi e Venezia. Ad ogni buon conto, la ristrutturazione dell'azienda è perseguita, all'occorrenza, con indubbia energia e con ampiezza di vedute. Negli anni '90, nei contratti parziari, c'è una specifica e puntuale attenzione per la coltura del lino, la totalità del quale va al proprietario; c'è un rapido turnover di coloni, si scompaginano e si ricompongono i poderi, muta la maglia insediativa; si costruisce la casa dominicale, a fungere da nuovo centro della gestione aziendale, e da residenza per un paio di mesi almeno all'anno; riesce in parte la bonifica delle terre di Carpi (un centinaio di campi veronesi, poca cosa in sé, ma non poco nel contesto dell'azienda Barbarigo), anche se fallisce un più ambizioso progetto di arginatura, tentato in accordo con gli altri due grossi proprietari di Carpi.
Nelle strategie della famiglia Barbarigo, le terre di Carpi erano funzionali all'autosufficienza alimentare, e dovevano produrre soprattutto frumento. Complementari ad esse erano le terre possedute nella collina trevigiana, a Volpago del Montello e Martignago, dalle quali proveniva il vino (252), e a Montebelluna (ove era la residenza estiva, rifugio "tempore pestis": motivazione questa assai frequente negli acquisti delle seconde case in Terraferma da parte dei Veneziani (253)): secondo la "communis opinio" mercantile del resto - espressa dal già ricordato manuale del Cotrugli - il buon mercante poteva tenere due "ville", "una per utilità e redito per nutricare la famiglia, l'altra per delectation et refriggerio" (254).
Rimasto unito, per espressa volontà dei capifamiglia, per tre generazioni, il patrimonio fondiario Barbarigo seguì poi, verso la metà del Cinquecento, la parabola consueta del frazionamento, che fu definitivo. Al di là di questi esiti, qui interessa comunque ribadire che il caso di questa proprietà, posto a confronto con coeve aziende agrarie di proprietà veronese, analoghe per dimensioni e situazione ambientale, mostra tutta la sua "normalità", l'adeguamento alle scelte che i patrizi veronesi vengono compiendo negli stessi decenni quanto alle iniziative di bonifica, ai contratti agrari, alle scelte colturali, all'adozione dell'insediamento intercalare, all'edilizia (255).
Il caso del patrimonio Barbarigo suggerisce qualche riflessione anche sul tema sopra accennato della concentrazione dei patrimoni fondiari patrizi e della distanza da Venezia. L'analisi di alcune centinaia di polizze della redecima del 1514 sembrerebbe indicare che nella zona immediatamente circumlagunare non si hanno preoccupazioni, e si investe indifferentemente e contemporaneamente nel Trevigiano e nel Padovano. Allontanandosi dalla città, la maggiore distanza consiglia invece concentrazione, e soprattutto rende importante l'individuazione di persone (un gastaldo, un affittuario) e di strutture (la casa "pro suo uxu") che fungano da punto di riferimento per una rosa di possessi che, in un raggio di 10-15 km, possono anche essere dispersi, e spesso caratterizzati da notevole varietà di struttura e di gestione: ma tutti devono gravitare sul "cortivo" ove risiede il fattore. Esemplari in proposito, nel 1514, i casi dei da Mula di S. Vito, tutti dotati di proprietà nella zona del Piave: Andrea da Mula ha casa a Romarzolo e beni a Salgareda e Musseta di S. Donà; Niccolò da Mula fa perno su Isola di Piave, ove ha anche un mulino oltre alla casa "per so uxo" e beni a Barbarana, Oderzo, Loson, Musseta; Giampaolo da Mula ha casa a Campobernardo e terre a Oderzo e Campo di Pietra (256).
Un Libro de tute possesion [...> cum tuti aficti de quelle e un libro di entrate-uscite che copre il quinquennio 1463-1468 (257) (fonti non comuni nel panorama degli archivi privati minori veneziani, sinora noti) consentono di seguire per l'ultimo terzo del Quattrocento l'evoluzione del patrimonio di una famiglia di modesti proprietari chioggiotti. Gerardo e Daniele "da la Ruosa" sono due fratelli appartenenti alla modesta élite locale (Gerardo è imparentato, attraverso la moglie, con Angelo Fasoli, vescovo di Modone e poi di Feltre), attivi in diversi settori dell'economia cittadina. Sono infatti proprietari di una redditizia osteria in Chioggia, di quote di un "magazen over saller", delle acque del fondamento Gradenigo fuori del porto di Chioggia e di una "salina franca"; ma sono anche commercianti di vino (che in società con altri importano dalle Marche e dalla Romagna, in particolare da Cesena) e di grano (Daniele, "venuto da la Puia cargo de grano, infermò" nel 1476 e morì l'anno successivo). Agli inizi degli anni '60, i loro possessi fondiari sono insignificanti: solo alcune vigne a Calmaggiore, nel territorio di Chioggia, affittate a denaro (peraltro, con attente clausole di miglioria). L'inizio dei loro modesti investimenti fondiari
- a Pontelongo, nel territorio di Piove di Sacco, non lontano da Chioggia - è legato, nel 1467, all'esercizio del prestito su pegno fondiario con diritto di riscatto ad un piccolo proprietario rurale ("cum questa condition ampuò, che 'l dicto Andrea [il mutuatario> possa scuoder la dicta peza de terra fina anni V proximi restituando tuto el priexio suprascrito non obstante che in dicta carta non sia facta alcuna mention de questo"). Si trattava di appena 9 campi, che vennero poi acquistati nel 1471. Ma nello stesso 1467, i due fratelli presero a livello alcuni campi dalla confraternita di Pontelongo, e soprattutto acquistarono nella stessa località due casette, una delle quali in pietra: esse "insieme conzonte sonno tegnude per nui cum nostro gastaldo sopra quelle". Negli anni immediatamente successivi Daniele "da la Ruosa" si riserva sempre, nell'abitazione di Pontelongo, una camera e la "caneva", ciò che lascia intendere una presenza assidua ed interessata. Nel 1470, poi, i due fratelli prendono a livello dal comune di Chioggia, a Conche, una possessione di terre basse e in parte paludose, semiabbandonate, delle quali il comune non conosceva neppure i nomi degli affittuari. Un inizio in sordina, dunque: nessuna "conversione alla terra", ma l'esercizio di un'attività che naturaliter si armonizza col commercio del vino e la gestione dell'osteria. Nei decenni successivi questo modesto patrimonio è gestito con crescente oculatezza ed attenzione. Nel Libro de tute possesion si menzionano spesso le clausole di miglioria, pur non riportandole per esteso (date le caratteristiche della fonte); e si annota il passaggio al contratto parziario, in genere a scadenza quinquennale, con un rapido turnover di coltivatori (con alcuni dei quali si risolve consensualmente il rapporto prima della scadenza). La struttura dei censi, inoltre, via via si diversifica e si modella sulle esigenze alimentari della famiglia: al "vino colado con le graspe" e ai cereali si aggiunge l'" agresta ", il formaggio di diversa qualità, le onoranze, il maiale, le uova. Precise e ripetute sono le annotazioni sui rapporti con i "laboratores".
Tutto sommato, l'aspetto più significativo che emerge da una fonte come questa, confermato tra l'altro dalle tante annotazioni isolate che si possono ricavare dalle denunce fiscali del 1514 (258), è legato ad una dimensione "culturale", ad un'attitudine mentale: ed è la profonda conoscenza, la tranquilla competenza che il piccolo proprietario veneziano dimostra dei concreti, minuti problemi di gestione della terra, anche nel caso di una famiglia prevalentemente impegnata in attività commerciali. Certo, siamo a Chioggia, e nella vicinissima porzione di Terraferma più di tutte segnata dalla presenza fondiaria veneziana; ma si tratta comunque della stessa attitudine psicologica, e della stessa strumentazione concettuale, della quale dispone un qualsiasi proprietario "borghese" di una qualsiasi città italiana del Quattrocento.
Si è sopra accennato ai numerosi segnali di relativa trascuratezza amministrativa che provengono da tanti patrimoni di monasteri veneziani (nonché dalle terre degli episcopati di Castello e Torcello; e pure dai patrimoni e dalle prebende dei canonicati e delle dignità ecclesiastiche di Terraferma godute in permanenza da patrizi veneziani, che restano ovviamente estranei alle nostre considerazioni) attorno alla metà del Quattrocento. Le fonti fiscali trevigiane e padovane segnalano innanzitutto significativi limiti nella conoscenza stessa della consistenza patrimoniale, da parte degli affittuari e a fortiori degli enti veneziani: non sono rari i casi come quello di Gambarare, nella pianura padovana, ove nel 1448 si ignora numero e qualità dei "multi campi buschorum, nemorum, vallium et paschulorum et stropariorum" concessi in affitto dal monastero di S. Gregorio. Non stupisce dunque che vi siano limiti evidenti nella gestione. Non sorprende la vetustà di tanti contratti livellari (che prevedono "ovre manuali", la corresponsione di uno sparviero e di una lepre, pochi denari...), veri relitti del passato, e la diffusione percentualmente assai maggiore di tali rapporti rispetto alla proprietà laica, tanto nel Padovano quanto nel Trevigiano; né sorprende la maggiore incidenza percentuale, negli affitti in generi della prima metà del Quattrocento a Padova e a Treviso, dei vecchi canoni a "bladum interciatum". Più in generale, risulta una minor pressione della proprietà monastica nell'aggiornamento dei canoni (un campione di un centinaio di affitti in generi - frumento e vino - riscossi in terre monastiche nella Zosagna e della Mestrina trevigiane, nella prima metà del Quattrocento, li mostra mediamente più bassi del 40% rispetto a quanto percepito dai proprietari laici nella stessa zona). I margini per i concessionari di terre monastiche, così come per l'iniziativa e per l'intraprendenza di fattori e gastaldi, restano dunque ampi.
Certo, non si deve generalizzare. Anche limitando il campo agli enti regolari, non è trascurabile la casistica della buona amministrazione quattrocentesca, e della ripresa e del consolidamento cinquecentesco: che peraltro riguardano gli enti veneziani in misura minore che i monasteri delle città e delle congregazioni di Terraferma (si pensi alla congregazione di S. Giustina) (259). Ma c'è una casistica altrettanto e più ampia di lento declino e di erosione (260), che va correlata alle varie vicende istituzionali degli enti regolari veneziani (tra "decadenze irrecuperabili", come quella degli Umiliati di S. Maria dell'Orto, e conventi serviti e domenicani e francescani al contrario "recuperabili alla osservanza" nell'ambito delle comunità maschili; tra semplice lassismo e immoralità dei monasteri femminili "aperti") (261). Non esiste, è ovvio, un rapporto di causa-effetto fra decadenza/rinnovamento spirituale ed istituzionale e crisi/ripresa economico-fondiaria, e non è lecito schematizzare e generalizzare in modo eccessivo. Il fatto è che mancano sia ricerche monografiche (262), che quadri sintetici, se si escludono alcuni riferimenti nelle recenti ricerche sulle campagne trevigiane del Cinquecento. Nella Mestrina si riscontra fra 1474 e 1542 un non inatteso regresso complessivo della proprietà ecclesiastica (in larga parte veneziana), caratterizzata inoltre da un notevole immobilismo nella gestione (è il caso del monastero cisterciense di S. Maria della Celestia, a Lughignano) (263). Nella podesteria di Noale, un quadro non dissimile: più scarsa redditività delle terre ecclesiastiche, rapporti plurisecolari con famiglie di affittuari, e così via (264). Le scelte contrattuali, pertanto, non possono che adeguarsi nel migliore dei casi all'andamento comune, privilegiando ancora l'affitto in generi e la conduzione parziaria.
Queste tendenze possono essere illustrate dall'analisi della documentazione amministrativa di alcuni enti. La campionatura non crea problemi, perché come si sa la proprietà fondiaria degli enti ecclesiastici veneziani è sostanzialmente concentrata nelle porzioni pianeggianti dei distretti di Padova e di Treviso (265). La scelta, fra i tanti esempi possibili, del monastero benedettino femminile di S. Zaccaria è ovviamente legata al fatto che si tratta dell'unico ente per il quale esista un'analisi accurata e recente per il periodo bassomedievale, quella ben nota del Modzelewski. Nel pieno Quattrocento, il patrimonio di S. Zaccaria continua ovviamente ad imperniarsi sui beni di Monselice e di Corte (presso Piove di Sacco) nel Padovano, e sulle terre trevigiane di Casale sul Sile e Brendole. Nuovi appaiono invece alcuni possessi, di discreta consistenza, a Chirignago nel Mestrino (adibiti alla sola cerealicoltura). A quanto sembra, è solo nelle due località padovane che risiedono, nel Quattrocento, due amministratori delle terre monastiche: i registri della gastaldia di Monselice, in particolare, raccolgono anche i dati consuntivi relativi alle altre aziende, padovane e trevigiane. Del resto, nel terzo decennio del Cinquecento, oltre la metà delle entrate in frumento continua a provenire da Monselice e da Piove di Sacco, un quinto dal Trevigiano, il resto dalle terre di più recente acquisto del territorio mestrino. La presenza di gastaldi stabili, che hanno piena discrezionalità anche nella stipula di contratti di miglioria e di accorpamenti, appare a tutti gli effetti basilare per una gestione efficiente ed efficace. A Monselice infatti, come nel secolo precedente, discrete superfici a vigna sono condotte in economia, e solo alcune possessioni (tra le quali una di oltre 90 campi padovani, pari a circa 42 ha) sono affidate a coloni parziari, per la metà del vino e del frumento e il terzo dei grani minuti (con conferimento parziale del seme e anticipo per l'acquisto degli animali da lavoro). In modo solo apparentemente paradossale, è l'esistenza di una rete antica di livelli a favorire la conduzione in economia: il gastaldo scomputa infatti progressivamente, nel corso dell'anno, le somme dovute dai livellari in cambio di "overe" alle vigne o alla manutenzione dei fossi, o altro. In assenza dell'amministratore, non è difficile prevedere che i censi livellari sarebbero assai più facilmente e rapidamente caduti in desuetudine.
Nel pieno Cinquecento, il patrimonio di S. Zaccaria appare immobile: la ricomposizione fondiaria non ha fatto grandi progressi (a Corte, predomina un antico esasperato frazionamento, sia per quanto riguarda le terre che per quanto riguarda la conduzione), ed è ancora indispensabile la presenza del gastaldo; ci si è assestati definitivamente sul modello gestionale dell'affittanza, con famiglie di conduttori che restano in loco per periodi lunghissimi (in un caso, quello dei Giurini a Brendole, oltre due secoli, dal 1536 al 1751); anche a Monselice della conduzione diretta non c'è più traccia, così come è assente la colonia parziaria (266).
Dal canto loro, le affittanze stipulate tra il 1468 e il 1548 da un altro importante ente benedettino, il monastero di S. Gregorio, per i suoi cospicui possessi nel Padovano confermano che la commenda (267) comporta senza dubbio una certa passività e uno scarso dinamismo della gestione, ma non necessariamente e non subito, in mancanza di altre condizioni facilitanti, uno smantellamento del patrimonio. Bartolomeo Paruta, commendatario per un quarantennio (1455-1496) tentò anzi in qualche modo di rappezzare una situazione che convergenti iatture (le vicende politiche tardotrecentesche - si ha prova in alcuni casi che l'ultima catasticazione delle terre monastiche risaliva al momento dell'usurpazione di Francesco il Vecchio da Carrara!; la situazione idrografica della zona circumlagunare presso la Brenta, ove si trovavano i beni dell'abbazia; la depressione demografica della prima metà del Quattrocento) avevano portato allo sfacelo completo, dopo la distruzione di S. Ilario. Tra il 1468 e il 1470 (e qualche ulteriore esempio non manca per gli anni successivi) (268), mediante una serie di contratti di affittanza quinquennale, il Paruta promosse infatti la rimessa a coltura ("intendens et consulens volensque nemora eiusdem sui monasterii [...> ad bonam culturam et usum arandi reducere") di alcune centinaia di campi (non meno di 7-800, in pochi grossi lotti), a Gambarare, Tresiegoli, Ca' Zosana di Mira, Borbiago e Spineda nell'entroterra lagunare: boschi e paludi dei quali non si conosceva neppure la superficie ("secundum quod reperientur quando perticabuntur"). Le condizioni per gli affittuari erano di particolare favore, prevedendo in alcuni casi la compartecipazione proprietaria alle spese per il ripristino degli scolatori, censi abbastanza bassi e prestabiliti ("non augendo dictum fictum"), e soprattutto, secondo uno schema classico di tante affittanze di terre ecclesiastiche quattro-cinquecentesche, il risarcimento delle spese di miglioria, consistenti soprattutto nelle costruzioni ("melioramenta in structuris et edificiis"). Certo, che l'abate fosse animato anche da interessi non limpidissimi può essere provato dal fatto che un cospicuo podere è affidato ad un parente, Alvise Paruta. Sta di fatto comunque che, se è vero che il recupero di un certo numero dei poderi riattati negli anni '70-'80 è definitivo, il patrimonio di questo importante ente va incontro, fra Quattro e Cinquecento, ad un ridimensionamento notevole, a determinare il quale, è lecito ipotizzare secondo uno schema ben noto, non fu estranea l'attività di questi affittuari i cui margini di manovra e di guadagno sono piuttosto ampi (269). Assai peggiori risultano infatti le condizioni del patrimonio abbaziale nel pieno Cinquecento, dopo ormai un secolo di commenda (sempre ad esponenti della famiglia Paruta) e di amministrazione affidata ad agenti generali (270).
Ben altra ampiezza d'indagine occorrerebbe, evidentemente, per consolidare la certo non inattesa impressione di grigiore e di immobilità che emerge da questi due esempi. Essi concordano con un quadro complessivo ben noto, a livello italiano; e come si è visto vanno in questa direzione anche le valutazioni comparative recentemente espresse (271). In pochi altri casi come questo è opportuno d'altra parte sospendere il giudizio, senza emettere verdetti definitivi sulle tendenze cinque-seicentesche, per la varietà e la complessità degli elementi in gioco (diversità dei patrimoni per consistenza ed ubicazione, evoluzione istituzionale delle congregazioni di appartenenza, ecc.). Si può solo ribadire qui che la tipologia dell'amministratore/factotum di un ente ecclesiastico, spesso anche fiduciario di una famiglia patrizia legata al monastero, meriterebbe davvero un approfondimento sistematico; il suo ruolo si può rivelare decisivo. Risulta dunque ulteriormente motivata, in base a queste constatazioni, la ben nota diffusione della letteratura cinque e seicentesca dedicata al fattore.
A partire dalla fine del Quattrocento, e soprattutto nel secolo successivo, si intensifica e si complica a Venezia il dibattito sulla salvaguardia della laguna, sulle diverse opzioni possibili e sulle conseguenze di esse per l'ambiente e indirettamente per l'agricoltura (272). Si innescano profondi mutamenti negli orientamenti culturali del patriziato veneziano, orientamenti pur sempre segnati dalla "storica mancanza di una politica organica delle acque" e dall'assenza di "un'ottica realmente territoriale" (273) nella quale potessero comporsi interessi diversi. È su questo sfondo, e sullo sfondo dei complessi mutamenti economici in atto (che non segnano peraltro, come è ben noto, una crisi drastica dell'attività mercantile), che nei decenni centrali del Cinquecento e nella seconda metà del secolo si registra il "salto qualitativo", la vera svolta epocale nella storia della proprietà fondiaria e dell'agricoltura veneziana (274). Inizia allora la stagione delle grandi imprese di bonifica sostenute e finanziate dallo stato nel basso Padovano e in Polesine (275), con il coinvolgimento non marginale di enti ecclesiastici (276); e inizia l'età d'oro dell'insediamento di villa (277). In connessione parziale con questo fenomeno, si verifica anche una modifica strutturale ed irreversibile del rifornimento cerealicolo veneziano: dal predominio del rifornimento marittimo (o da una situazione di complementarità e di alternativa fra esso e il rifornimento padano) ad una crescente dipendenza dalla Terraferma (278).
Una complessa evoluzione, dunque, che porta nel pieno Cinquecento ad un mutamento irreversibile nel rapporto fra Venezia e la Terraferma. Di questo processo, si è esplorata in questa occasione una immediata premessa, sotto un punto di vista settoriale, ma di indubbio rilievo nel contesto. E si può affermare in conclusione che anche l'analisi di nuovi dati, risultanti dagli archivi delle città soggette, a proposito dell'espansione fondiaria veneziana in Terraferma nel Quattrocento, porta in buona sostanza più conferme che novità su un fenomeno già noto nelle sue linee generali; ma permette di articolare assai meglio le novità apportate nello spazio e nel tempo, e conferma la necessità imprescindibile di muoversi, per cogliere il senso di quanto accade, su un arco cronologico molto ampio, che parta dal Due-Trecento. In particolare emerge con chiarezza, una volta di più, la profondissima diversità dei rapporti con Venezia, che caratterizzano quell'aggregato di contadi cittadini disegualmente penetrato dall'influenza economica della Dominante (279) (ed anche sotto il profilo amministrativo inquadrato con disuguale efficacia), che è lo stato di Terraferma nel Quattrocento.
1. Un pioniere di queste indagini si era proposto esplicitamente, in limine ad un saggio tuttora significativo, pur se vecchio di tre quarti di secolo, di svolgere un "lavoro generale sui possessi dei Veneziani nella Terraferma almeno sino alla pace di Noyon" (Vittorio Lazzarini, Antiche leggi venete intorno ai proprietari nella Terraferma, in Id., Proprietà e feudi, offizi,
garzoni, carcerati in antiche leggi veneziane. Saggi seguiti da una notizia biografica e dalla bibliografia dell'autore, Roma 1960, p. 9 [pp. 9-29; la ricerca risale al 1920>): ma non portò mai a termine il progetto, limitandosi ad una ricerca "monografica", dedicata ad un solo aspetto della questione (la liquidazione dei beni di una signoria trecentesca: pur se l'autore si allargava poi a considerazioni di carattere generale) e ad una sola area della Terraferma, il territorio padovano (Vittorio Lazzarini, Beni carraresi e proprietari veneziani, in AA.VV., Studi in onore di Gino Luzzatto, I, Milano 1949, pp. 274-288). La notevole frequenza di citazione, anche in tempi recenti, di questa ricerca del Lazzarini, è indizio di un limitato ed insufficiente progresso nelle conoscenze.
2. Nelle note e nel testo sono menzionate frequentemente le misure di superficie in uso nelle diverse città della Terraferma: campo trevigiano, pari a 5.200 mq circa; campo padovano (3.800 mq circa); campo vicentino (3.500 mq circa); campo veronese (3.000 mq circa); tornatura ravennate (3.400 mq circa).
3. Sante Bortolami, L'agricoltura, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, p. 478 (pp. 461-489).
4. Karol Modzelewski, Le vicende della "pars dominica" nei beni fondiari del monastero di San Zaccaria di Venezia (secoli X-XIV), "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 42-69; 5, 1963, pp. 15-63.
5. Sul tema nel suo complesso ha svolto negli anni scorsi una ricerca d'insieme Marco Pozza, pubblicando tuttavia, sinora, solo alcuni saggi parziali (che saranno citati nelle nn. seguenti).
6. Gerhard Rösch, La nobiltà veneziana nel Duecento: tra Venezia e la Marca, in Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del Convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, p. 265 (pp. 263-270).
7. Marco Pozza, Un trattato fra Venezia e Padova ed i proprietari veneziani in Terraferma, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 16-17 (pp. 15-29). Per qualche altro dato, cf. anche la ricerca di Lesley A. Ling, citata qui sotto, alla n. 33.
8. M. Pozza, Un trattato fra Venezia e Padova, p. 21.
9. Id., Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali con Venezia, in Storia di Treviso, II, Il medioevo, a cura di Daniela Rando - Gian Maria Varanini, Venezia 1991, p. 309 (pp. 299-321).
10. Silvana Collodo, Il sistema annonario delle città venete: da pubblica utilità a servizio sociale, in AA.VV., Città e servizi sociali nell'Italia comunale, Pistoia 1990, pp. 388-389 (pp. 383-415).
11. V. Lazzarini, Antiche leggi venete, p. 15; G. Rösch, La nobiltà veneziana nel Duecento, p. 269.
12. L'espressione è usata da G. Rosch, ibid., p. 270.
13. Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia diretta da Giuseppe Galasso, XII, 1), pp. 14-15 e 126 (pp. 1-271).
14. L'espressione è di Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, p. 176.
15. Per alcuni elementi di discussione, cf. Salvatore Ciriacono, Venise et ses villes. Structuration et destructuration d'un marché régional, "Revue Historique", fasc. 286, 1986, pp. 287-307; Mario Mirri, Formazione di una regione economica: ipotesi sulla Toscana, sul Veneto, sulla Lombardia, "Studi Veneziani", n. ser., 11, 1986, pp. 47-59.
16. Di ambedue dunque: il territorio padovano è omologato sotto questo profilo al Trevigiano, che con espressioni analoghe è spesso definito nelle fonti cinque-seicentesche "giardino della Terraferma" o "provintia di Venetia" (Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, p. 518 [pp. 495-539>)
17. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1938-1941.
18. Giuseppe Gullino, Un progressivo sviluppo: la proprietà veneziana nel Polesine, in Eresie, magia, società nel Polesine tra '500 e '600, Atti del XIII convegno di studi storici (Rovigo, 21-22 novembre 1987), a cura di Achille Olivieri, Rovigo 1989, p. 378 (pp. 377-382).
19. Cf. Id., Quando il mercante costruì la villa: le proprietà dei Veneziani nella Terraferma, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi - Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 875-924.
20. Ove alcune vendite avvengono nel 1388, in occasione della seconda conquista della città da parte dei Veneziani, dopo la parentesi austriaca (1381-1384) e quella carrarese (1384-1388).
21. Nella documentazione locale vi è infatti riferimento alla valutazione di quanto "ad tenendum ipsam factoriam in culmine et in concio esset necesse expendere", di quanto sarebbe costato cioè il suo funzionamento ordinario: cf. Gian Maria Varanini, Struttura e funzionamento della Camera fiscale di Verona nel Quattrocento, in Id., Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, p. 213 n. 80 (pp. 197-249).
22. Giulio Sancassani, I beni della "fattoria scaligera" e la loro liquidazione ad opera della Repubblica veneta 1406-1417, Verona 1960.
23. Verona, Archivio di Stato, Archivio antico del comune, Atti del consiglio, reg. 56, c. 176v (anno 1411).
24. Delle vicende successive di questi acquisti veneziani non si è in genere tenuto conto da parte degli studiosi, che pure colsero subito la grande importanza della documentazione edita dal Sancassani (come Stuart J. Woolf, Venice and the Terraferma. Problems of the Change from Commercial to Landed Activities, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 421 e 427 [pp. 415-441>; e più di recente, ad es., James S. Grubb, Firstborn of Venice. Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore - London 1988, p. 169).
25. Per 6.600 ducati, un migliaio di ducati in più del prezzo di acquisto: Bruno Chiappa, La casa dominicale (dai Guarienti ai Maffei), in Villa Maffei-Sigurtà a Valeggio, a cura di Bruno Chiappa - Arturo Sandrini, Verona 1990, pp. 13-14 (pp. 13-27). Non è provato che la "domus magna" citata nell'atto di vendita del 1436 sia stata costruita dai Contarini.
26. Per confische a debitori insolventi, cf. Verona, Archivio di Stato, Antico ufficio del registro, Istrumenti, reg. 45, cc. 275v-277v.
27. Ibid., reg. 47, cc. 1385v-1386.
28. Ivi, Camera fiscale, reg. 3, c. 11.
29. Per i contratti vigenti cf. ivi, Antico ufficio del registro, Istrumenti, reg. 54, cc. 1370v-1371.
30. Guarino Veronese, Epistolario, raccolto da Remigio Sabbadini, I, Venezia 1915, p. 481; III, Venezia 1919, p. 186. L'episodio è ricordato anche da Gian Paolo Marchi, Fede, politica e retorica nelle orazioni latine per l'ingresso del card. Marco Cornaro nella diocesi di Verona, in AA.VV., Scritti in onore di mons. Giuseppe Turrini, Verona 1973, p. 496 n. 30 (pp. 477-512).
31. Alle classiche ricerche di Lazzarini, già citate, cui furono fatte in seguito poche integrazioni (per l'acquisto della gastaldia di Legnaro cf. ad es. Paolo Sambin, Benvenuto de' Bazioli e lo statuto per l'ospedale di S. Michele da lui fondato in Padova nel 1426-27, "Atti e Memorie della Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti", 74, 1961-1962, p. 4 [pp. 1-25>), si possono aggiungere ora le osservazioni, succinte ma precise e valide per l'intero territorio padovano, di Donato Gallo, Il primo secolo veneziano (1405-1509), in Monselice. Storia, cultura e arte di un centro "minore" del Veneto, a cura di Antonio Rigon, Monselice-Treviso 1994, pp. 192- 197 (pp. 191-209), che utilizza anche, per il territorio di suo interesse, le fonti fiscali qui di seguito sfruttate.
32. Si cf. l'annotazione del 1444 nell'elenco qui sotto citato (n. 54): "e' sottoschriti erano axenti al tenpo del segnor da Charara per lle posesion avevano in Padoana: miser Iachomo Trivixan per le posesion di Ronchi da cha Trivixan suxo el Piovado de Sacho; miser Marcho da Mollin per le posesion de Gorgo; miser Bertolamio Morexini per le posesion da Chonche; tuti i zentillomeni da cha Donado in la vila de Baon e Monte Buxo" (c. 15).
33. Lesley A. Ling, La presenza fondiaria veneziana nel Padovano (secoli XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del Convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 307-308 (pp. 305-320), e p. 309 per la citazione.
34. Silvana Collodo, Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990, pp. 195-275.
35. L.A. Ling, La presenza fondiaria veneziana, p. 308.
36. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Miscellanea Codici, 83a (il registro mi è stato segnalato dalla dott. Maria Pia Pedani che ringrazio). L'annotazione relativa al 1509 (che si legge anche, con un errore [iunii anziché iulii>, nell'etichetta sul piatto ligneo anteriore) figura in fondo all'ultimo fascicolo ("Padua. 1509 4 iulii. Liber hic fuit presentatus dominis Capitibus X per dominum Petrum Baffo reversum camerarium Vincentie sibi datus per d. Franciscum Fuscharum equitem potestatem Padue ut apparet in nota manu ser Ioannis lacobi de Michaelibus secretarii ill.mi Consilii Decem in tabulis huius libri"). Il registro (che consta complessivamente di 289 cc.) fu probabilmente impostato alla fine dell'operazione di liquidazione dei beni carraresi, forse negli anni '20 o '30 del Quattrocento: la prima parte, scritta da una stessa mano, è occupata appunto dalle registrazioni di pagamento degli acquirenti dei beni ex carraresi, località per località, e dalle annotazioni relative alle successive vendite dei diversi complessi patrimoniali o di quote di essi; seguono diversi fascicoli di affictationes di beni ubicati nel Padovano, a partire dal 1460 (camerlengo Francesco da Pesaro) e sino al 1468 (fascicolo di affictationes di boschi, camerlengo Francesco Lion; ivi si fa anche riferimento a un "libro nuovo"). In questa sede ci si limiterà ad una utilizzazione sommaria di una fonte che merita ben maggiori approfondimenti: resta incomprensibile, al riguardo, il fatto che il Lazzarini non la conoscesse (o il motivo per cui, conoscendola, non l'abbia utilizzata).
37. Sul punto cf. Michael Knapton, Il fisco nello stato veneziano di Terraferma tra '300 e '500: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto. Problemi e aspetti. XV-XVIII secolo, a cura di Giorgio Borelli - Paola Lanaro - Francesco Vecchiato, Verona 1982, pp. 35-37 (pp. 15-57)
38. Un cenno nella scheda di Donato Gallo, Persistenze carraresi: la gastaldia di Oriago e il sistema difensivo a nord del fiume Brenta, in AA.VV., Padua sidus preclarum. I Dondi dall'Orologio e la Padova dei Carraresi, Padova 1989, p. 191. Il problema del rifornimento cerealicolo veneziano nella pianura padana andrebbe comunque riesaminato; si tengano presenti ad esempio i colossali acquisti fatti sul mercato lombardo (li ricorda la recensione del Franceschini ai Dispacci di Pietro Cornaro ambasciatore a Milano durante la guerra di Chioggia [a cura di Vittorio Lazzarini, Venezia 1939>, "Archivio Storico Lombardo", 80, 1953, pp. 375 s.).
39. Noventa è acquistata in società, inizialmente, da Bartolomeo Michiel e dal "bechèr" Iacopo "Marcellin"; Brugine da Biagio Magno (in società con Tommaso Pellegrini di Verona, per lire 37.000); Giovanni da Bologna e Antonio dalla Porta, abitanti a Venezia, acquistano rispettivamente per 8.000 e 2.800 lire; un Bartolomeo dalla Piazza, "casaruol de Venexia", subentra a Giacomo Camposampiero nella gastaldia di Murelle (15.000 lire).
40. "Maistro Abram olim zudìo phixico abita in Venetia" acquista case, 1.000 ducati (c. 15); "Maistro Salamon ebreo, Mathasia e Bonaventura suoy fluii" acquistano case a Padova (c. 17).
41. La documentazione, per lo più notarile, utilizzata dal Lazzarini, dà i prezzi in lire padovane; per il valore del ducato a quest'epoca (95-100 soldi) cf. Frederic C. Lane - Reinhold C. Müller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Coins and Moneys of Account, Baltimore - London 1985, pp. 601-602.
42. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 430, passim.
43. Ibid., c. 2.
44. A.S.V., Archivio Marcello Grimani-Giustinian, Archivio Morosini, b. 4 (Liber de gastaldia Castribaldi). Cf. anche b. 6 (acquisti dei Morosini a Trambacche e a Carrara).
45. V. Lazzarini, Beni carraresi, p. 285.
46. Ibid., pp. 284-288.
47. Il maglio fu acquistato da un consorzio composto da Donà, Venier e Miani: Maria Chiara Billanovich, Per la storia del lavoro nel Quattrocento: il maglio di Padova, in Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di Ead. - Giorgio Cracco - Antonio Rigon, Padova 1984, pp. 231-242 (pp. 231-253). Per le cartiere cf. V. Lazzarini, Beni carraresi, pp. 280-281 (acquirenti furono i Corner e i Morosini).
48. Per la "preara de schaia e da chalzina" posseduta dai Donà a Baone, cf. Padova, Archivio di Stato, Estimo-Miscellanea, reg. 195, c. 32.
49. Bernardo Bembo, acquirente della posta di Brugine, ebbe al riguardo una controversia con la famiglia padovana Bonafari, fra il 1411 e il 1414 (Silvana Collodo, La proprietà cittadina nelle campagne padovane nel basso Medioevo. Il patrimonio di Sibilia Bonafari (1390-1421): assetti aziendali e forme di conduzione, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti", in corso di stampa, n. 72). Sul pensionatico nel territorio padovano, cf. Andrea Gloria, Leggi sul pensionatico, Padova 1851.
50. "Casa magna" all'Arena (Ciera), "brolo magno" presso S. Giovanni in Verdara (Corner), "domus magne" al Portello e a S. Biagio (Donà, Rabia), "orto magno" a S. Sofia (Contarini): Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 434, passim. Ibid. anche alcuni riferimenti alle case "affictate scolaribus".
51. L'elenco del 1444 sotto citato (cf. n. 54) ne censisce una trentina.
52. Già noto al Lazzarini (Beni carraresi, pp. 276-277 e n. 1 di p. 277), è stato utilizzato da L.A. Ling, La presenza fondiaria veneziana, pp. 311-312 e 318-319; v. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 430, cc. 253v ss.; ivi, Archivio civico antico, Ducali, reg. 2, cc. 59 ss. Per gli estimi padovani del 1418 e 1518, cf. Letterio Briguglio, Estimi padovani nell'archivio di stato di Padova, "Rassegna degli Archivi di Stato", 21, 1961, pp. 91-95 (pp. 89-108), e inoltre Michael Knapton, Capitai City and Subject Province. Financial and Military Relations between Venice and Padua in the Later Fifteenth Century, tesi di Ph.D., Università di Oxford, 1978; Mauro Vigato, Gli estimi padovani tra XVI e XVII secolo, "Società e Storia", 12, 1989, fasc. 43, pp. 45-82.
53. Il discrimine è costituito dalla introduzione della "datia lancearum", l'imposta diretta riscossa su base d'estimo.
54. Padova, Archivio di Stato, Estimo-Miscellanea, reg. 195, cc. 3-16. Circa il 50% dei contribuenti veneziani non denuncia i propri redditi padovani: tra essi la gran parte delle piccole e piccolissime rendite.
55. Ivi, Estimi 1418, regg. 433-435. Su questa fonte, e su quelle citate nelle nn. precedenti, cf le sintetiche ma precise valutazioni di L.A. Ling, La presenza fondiaria veneziana, pp. 318-319, Appendice II.
56. L.A. Ling, La presenza fondiaria veneziana, p. 312 (per la conversione in ducati, cf. F.C. Lane - R.C. Müller, Money and Banking, p. 608; dati del 1432). Le stime furono redatte utilizzando come termine di confronto la contabilità signorile di quarant'anni prima: l'estensore annota infatti "segondo se à budo per nota per i libri de la fatoria de Padoa"; lo stesso estensore le dichiara errate per difetto, mancando i dati delle possessioni recentemente confiscate ai ribelli filocarraresi degli anni '30 ed essendo molte dichiarazioni incomplete. Va segnalato del resto che altri dati relativi al 1430 evidenziano importi superiori a quelli citati dalla Ling (un elenco dei "fiti de posesion sono suxo el teretorio de Padoa de le qual non paga le fazion a Padoa" menziona un'entrata annua complessiva di 96.000 lire circa: Padova, Archivio di Stato, Estimo-Miscellanea, reg. 197).
57. Si cf. a c. 37 del registro cit. sopra, n. 54, una sottoscrizione, pur poco leggibile, che menziona "Nichollò de Brun soprascrito fio de domino Ioanni che xè schrivan in [Camera> ".
58. Iacopo Scrovegni è definito "nostro rebello".
59. Citato dal Lazzarini come Rusteghello da Rovigo (V. Lazzarini, Beni carraresi, p. 281).
60. Sulle vicende di questa famiglia, e sulla precoce (seconda metà del Duecento) "padovanizzazione" di un ramo di essa, che assunse il cognome da Peraga, cf. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982, pp. 64-65 e passim; cf. anche la recensione a questo volume di Giorgio Ravegnani, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 255-258.
61. V. Lazzarini, Beni carraresi, p. 284.
62. Sante Bortolami, Per Abano medievale, in AA.VV., Per una storia di Abano Terme. Parte prima. Dall'età preromana al medioevo, Abano Terme 1983, pp. 182-183 (pp. 107-217).
63. Per un esempio parziale Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 434, c. 77 (Liber omnium bonorum dominorum clericorum venetorum, de quarterio Pontis Altinati et Pontis molendinorum).
64. Nella zona fra Mira, Gambarare, Borbiago, Sambruson: Giuseppe Marzemin, Le abbazie veneziane dei SS. Ilario e Benedetto e di S. Gregorio, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 12, 1912, pp. 367-368 (pp. 96-162; 351-407).
65. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 433, cc. 180-190.
66. V. Lazzarini, Beni carraresi, p. 285.
67. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 430, C. 7. L'elenco del 1444 la definisce come "I chortigo murado e chaxa una granda, molini con altri defizii de muro, chon chanpi 9 piantadi de frute per so uxo".
68. Itinerario di Marin Sanuto per la Terraferma Veneziana nell'anno MCCCCLXXXIII, a cura di Rawdon Brown, Padova 1847, pp. 114-115. Il Sanudo ricorda anche le case dei Baffo, dei Marcello, dei Gussoni, di Giovanni da Rio e di "quelli da Buvolo".
6g. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 433, cc. 49-75v.
70. Ibid., reg. 434, cc. 54 ss., Liber omnium bonorum dominorum venetorum repertorum in plebatu Sazii.
71. Su una quarantina di denunce della parrocchia di S. Vio, 20 dichiarano possessi fondiari in Terraferma e di queste 7 interessano in modo esclusivo o no, il territorio di Piove, per piccoli possessi: quattro non appartengono a patrizi (A.S.V., Dieci Savi sopra le decime di Rialto, b. 74).
72. Franco Fasulo, Livelli e livellari del monastero di Praglia tra '400 e '500. Primi risultati di una ricerca, in AA.VV., S. Benedetto e otto secoli (XII-XIX) di vita monastica nel Padovano, Padova 1980, p. 145 (pp. 113-149).
73. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 434, cc. 3 ss., 80 ss. Si constata un notevole frazionamento, ma non mancano proprietà dell'ordine del centinaio di campi.
74. Ibid., cc. 68 ss.
75. Ibid., cc. 120 ss. (Descriptio bonorum civium venetorum potestarie Montagnane et Castrobaldi anno 1448, per Petrum de Grumpo).
76. Ibid., cc. 91 ss.
77. Cf. ora D. Gallo, Il primo secolo veneziano (1405-1509), pp. 194-197.
78. E non solo padovani naturalmente: si pensi al ruolo di un Natale Dandolo e di un Antonio Correr, a S. Maria in Organo e a S. Zeno di Verona (un cenno in Gian Maria Varanini, Un esempio di ristrutturazione agraria quattrocentesca nella "bassa" veronese: il monastero di S. Maria in Organo e le terre di Roncanova, "Studi Storici Veronesi Luigi Simeoni", 30-31, 1980-1981, pp. 77-83 [pp. 39-142>).
79. Aldo Stella, Bonifiche benedettine e precapitalismo veneto tra Cinque e Seicento, in AA.VV., S. Benedetto e otto secoli, p. 175 (pp. 171-193).
80. F. Fasulo, Livelli e livellari, pp. 118, 126, 139.
81. Per l'"elevatissimo numero delle locazioni a censo predeterminato" in un grande patrimonio padovano fra Trecento e Quattrocento, cf. S. Collodo, La proprietà cittadina nelle campagne padovane.
82. Michaei. Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento: proposte per una storia della prima dominazione veneziana a Treviso, in AA.VV., Tomaso da Modena e il suo tempo. Atti del convegno di studi, Treviso 28 agosto - 1 settembre 1979, Treviso 1980, pp. 41-78.
83. Treviso, Biblioteca Comunale, mss. 678 e 679, strettamente collegati. Alla volontà, manifestata da questa fonte, di chiarire complessivamente i rapporti economici fra Treviso e Venezia si può ricondurre anche la redazione del Liber continens solutiones debitorum securatorum per Marcum de Adelmario notarium [...> quibusdam civibus de Venetiis, del 1326 (Treviso, Archivio di Stato, Comune, b. 112, fasc. "1326-debitori"), dal quale si evince la forte (e del resto scontata) presenza veneziana negli appalti daziari trevigiani.
84. Particolarmente interessata, sembra, alle terre poste immediatamente a ridosso della laguna: del resto, è nelle sue terre di Marocco, presso Mestre, che si rifugia nel 1310 Baiamonte Tiepolo.
85. Per le unità di misura trevigiane cf. Giampaolo Cagnin, Nota metrologica, in Storia di Treviso, II, Il medioevo, a cura di Daniela Rando - Gian Maria Varanini, Venezia 1991, pp. 545 ss. (pp. 545-548).
86. Id., I patti agrari in territorio trevigiano dalla metà del secolo XII agli inizi del secolo XIV: tradizione e innovazione, ibid., p. 343 (pp. 323-355).
87. Citato da M. Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali, p. 321 n. 93.
88. Su questo episodio cf. K. Modzelewski, Le vicende della "pars dominica", pp. 27-28.
89. Treviso, Biblioteca comunale, ms. 678.
90. Ibid., cc. 46v ss.
91. Ibid., c. 148.
92. Ibid., c. 144.
93. Ibid., cc. 148v, 156v; per la sua attività commerciale cf. Giampaolo Cagnin, "Quando le zatte passa de là toso": il passaggio delle zattere lungo il Piave in territorio trevigiano nel sec. XIV, in Zattere, zattieri e menadàs. La fluitazione del legname lungo il Piave, a cura di Daniela Perco, Castellavazzo (Belluno) 1988, pp. 79 e 81 (pp. 77-89).
94. Bartolomeo Cecchetti, Il vitto dei veneziani nel sec. XIV, "Archivio Veneto", 15, 1885, p. 253 (pp. 235-304)
95. Lo rileva sulla base delle denunce fiscali del 1537 G. Gullino, Quando il mercante costruì la villa.
96. Per qualche esempio cf. Maria Pia Pedani, Monasteri di agostiniane a Venezia, "Archivio Veneto", 115, 1985, p. 45 (pp. 35-78); per un quadro d'insieme basti qui il rinvio a Mario Fols, I religiosi: decadenza e fermenti innovatori, in AA.VV., La chiesa di Venezia tra medioevo ed età moderna, Venezia 1989, pp. 147-182.
97. Per questi provvedimenti, si cf. la cosiddetta Zena, la raccolta di "constitutiones" (per lo più parti del senato) che correda gli statuti del comune di Treviso: cito dall'edizione curata da Gabriele Farronato e Giovanni Netto in appendice a Gli statuti del comune di Treviso secondo il codice di Asolo (1316-1390), Asolo 1988, rispettivamente pp. 572 (tract. I, rubr. XXX), 618 (tract. VI, rubr. XXVI e XXVII), 619, 621 e 622 (tract. VI, rubr. XXVIII, XXXIII, XXXVII).
98. Si cf. ad es. Treviso, Archivio di Stato, Comune, b. 1516, anno 1406: dati relativi alla circoscrizione della Zosagna (Musestre, S. Elena, Meolo, ecc.).
99. Per quanto segue, cf. ivi, b. 1030, anno 1439.
100. Marco Cornaro (1412-1464), Scritture sulla laguna, a cura di Giuseppe Pavanello, Venezia 1919 (Antichi scrittori d'idraulica veneta, 1), p. 45.
101. A Sandrà, Ponzano, Morgano, S. Pelagio, Paderno, Falzé.
102. Raffaello Vergani, Energia dall'acqua: ruote idrauliche e mulini nel territorio montebellunese nei secoli XV-XVIII, in Una città e il suo territorio. Treviso nei secoli XVI-XVIII, Atti del convegno di studi (Treviso 25-26 ottobre 1885), a cura di Danilo Gasparini ("Studi Trevisani. Bollettino degli istituti di cultura del comune di Treviso", 7, 1988), pp. 73 ss. (pp. 73-103); Id., Ruote ad acqua e mulini sul canale della Brentella, in AA.VV., Montebelluna. Storia di un territorio. Cartografia ed estimi tra Sei e Settecento, Venezia 1992, pp. 59-62; Augusto Serena, Il canale della Brentella e le nuove opere di presa e di derivazione nel quinto secolo dagli inizi. Cronistoria, Treviso 1929, pp. 9-12 ss.
103. Giampiero Bordignon Favero, Villa Emo a Fanzolo, Vicenza 1970, p. 13; in particolare per la "seriola Barbariga" cf. A. Serena, Il canale della Brentella, pp. 29 e 124-128.
104. M. Cornaro, Scritture sulla laguna, pp. 41-45 e passim; più di recente cf. anche G. Cagnin, "Quando le zatte passa de là zoso", pp. 83 (progetto di lavori di scavo dell'alveo interrato del Meolo per permettere lo sfruttameno dei boschi di Musestre), 84 (a metà del Quattrocento scavo del Piavone, destinato a rendere più sicuro, agevole e vantaggioso il rifornimento di legname e altre merci per Venezia).
105. Michele Fassina, "Astrenzer i contadini e lasciar stare il monastero". Le disavventure della proprietà di un ente ecclesiastico in una comunità contadina nel XVI secolo, "Annali Veneti. Società Cultura Istituzioni", 1, 1984, p. 148 (pp. 147-154).
106. Basti qui rinviare alle osservazioni di Angelo Ventura, Il dominio di Venezia nel Quattrocento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, I, Il Quattrocento, a cura di Sergio Bertelli - Nicolai Rubinstein - Craigh H. Smith, Firenze 1980, pp. 180-181 (pp. 167-190).
107. Giuseppe Liberali, La dominazione carrarese in Padova (1384-1388), Padova 1935, p. 32 n. 8.
108. I dati riguardano le Benedettine d'Ognissanti, le Camaldolesi di S. Cristina e S. Parisio, le Cisterciensi di S. Maria Nova, le Clarisse della Cella; nel 1451, in quest'ultimo convento sono originarie della città lagunare 21 consorelle, badessa compresa, su 32: Luigi Pesce, La chiesa di Treviso nel primo Quattrocento, II, Roma 1987, pp. 342-368 (Appendice II-C, "Ordini religiosi femminili di città e diocesi").
109. M. Cornaro, Scritture sulla laguna, p. 34, e n. 4 di p. 33. Cf. anche Giovanni Marson, S. Stino. Ricerche storiche, Dosson (Treviso) 1993.
110. A.S.V., Dieci Savi sopra le decime di Rialto, b. 74. III. Ivi, Provveditori sopra le camere di Terraferma,
111. Instromenti da' 6 aprile 1514 sino 23 settembre 1518, cc. 7, 52, 74v.
112. Ibid., cc. 106v ss. Ma sulle proprietà veneziane a Motta, cf. più sotto, testo corrispondente a n. 132: un secolo più tardi il quadro si presenta alquanto diverso.
113. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 437.
114. Qualche cenno in Loris Fontana, Valsanzibio, Cittadella 1990, pp. 26 ss. La ricerca utilizza la documentazione relativa ai Contarini conservata al Museo Correr.
115. Cf. qui sotto, luogo corrispondente a n. 202. 116. G. Priuli, I diarii, IV, p. 243: "essendo li duo terzi de le posesione et chasamenti del teritorio patavino de li nobelli et citadini veneti".
117. Ibid., pp. 203-204.
118. Itinerario di Marin Sanuto, p. 31. Cf. anche G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, pp. 505-506.
119. Risulta attendibile sotto il profilo della mera enunciazione dei dati la compilazione di Alessandro Baldan, Storia della Riviera del Brenta, I-III, Abano Terme 1988: sono menzionate case a Moranzan, Noventa, Gambarare, Bottenigo (Oriago), Rescossa, Mira, Molinella, Dolo, Sambruson, Fiesso, Paluello, Stra, Sermazza.
120. G. Priuli, I diarii, IV, p. 328.
121. Padova, Archivio di Stato, Estimo 1518.
122. Ibid., b. 380, Fia veneti 1520-1560.
123. G. Gullino, Quando il mercante costruì la villa.
124. I beni dei Buzzacarini, degli Spazza, degli Scrovegni, di Zaninello da Peraga avevano impinguato qualche patrimonio già solido; per qualche esempio, cf. Padova, Archivio di Stato, Estimi 1418, reg. 430, c. 4.
125. Su questa complessa vicenda, cf. Giuseppe Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1986, pp. 160-176; ho tratto alcuni dati dalla consultazione diretta di A.S.V., Officiali alle rason vecchie, reg. 48, ma andrà esaminato con attenzione anche il registro ivi, Consiglio dei Dieci, Miscellanea codici, 83b, Vendite di beni dei ribelli di Padova, 1511 dicembre - 1516 luglio (inventariato dunque a pendant del registro del 1406 citato sopra, n. 36), che illustra le vicende patrimoniali durante bello (e perciò oltre che acquisti di patrizi veneziani - Arimondo, Cappello, Pisani "dal Banco", Dolfin - scheda concessioni di rendite a combattenti e a benemeriti, richieste di restituzione di beni dotali, ecc.).
126. Cf. Marino Berengo, Padova e Venezia alla vigilia di Lepanto, in AA.VV., Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, I, Padova 1974, p. 31 (pp. 29-65).
127. Del tutto assente, per esempio, la proprietà veneziana ad Alano di Piave (Antonietta Sannino, Paesaggio agrario e regime fondiario in età moderna, in Alano. La memoria e l'immagine di una comunità, a cura di Giancarlo Follador, I, s.l. 1993, pp. 460-461 [pp. 409-476>), a Bigolino, a Vidor (Gian Pier Nicoletti, Due villaggi della collina trevigiana. Paesaggio, proprietà ed aziende. Secoli XV e XVI, in Due villaggi della collina trevigiana. Vidor e Colbertaldo, a cura di Danilo Gasparini, III, 1, Vidor [Treviso> 1989, pp. 50-51 [pp. 13-132> ), ove la proprietà contadina ancora prevale sulla stessa proprietà cittadina.
128. Mauro Pitteri, Segar le acque. Quinto e Santa Cristina al Tiveron. Storia e cultura di due villaggi ai bordi del Sile, s.l. 1984, pp. 33 ss. Cf. anche la recensione di Michele Fassina, "Studi Veneziani", n. ser., 11 1986, pp. 253-255.
129. Treviso, Archivio di Stato, Comune, b. 1516.
130. Per il Quartiere del Piave, cf. Mauro Pitteri, Contadini e proprietari, mugnai e barcaroli. La parrocchia di Santa Maria di Covolo fra Cinque e Settecento, in Covolo di Piave. Le regole, la parrocchia, le famiglie, i campi, la casa, a cura di Giancarlo Follador, Covolo di Piave 1993, p. 171 (pp. 153-216); la percentuale di terre veneziane nell'estimo del 1714 è del 3,7%. Cf. anche Gian Pier Nicoletti, Economia e società nel " Quartier di qua del Piave" nel XV sec., ibid., pp. 120-131.
131. Anna Pizzati, La podesteria di Conegliano. Una " quasi città" e il suo territorio nel secolo XVI, Treviso 1994 (cap. IV, tab. IV.8). Ringrazio la Fondazione Benetton, che ha promosso l'ampia ricerca in corso su "Le campagne trevigiane in età moderna", Danilo Gasparini che la coordina, e Renzo Derosas che mi ha fornito e permesso di utilizzare in questa sede due tabelle (relative alla distribuzione della rendita e alla distribuzione delle terre) da lui elaborate sulla base della totalità dei dati ricavati dalle rilevazioni fiscali trevigiane del 1518 e del 1542. Qui e più sotto (cf. nn. 133, 135) si utilizzano i dati contenuti nei primi volumi sinora editi della citata ricerca d'équipe.
132. Nel 1572, fatto uguale a 100 l'ammontare dell'estimo dei "nobelli et habitanti veneti tratti dal libro estimo del 1572" nei territori di tutte le podesterie e giurisdizioni del Trevigiano, podesteria di Treviso esclusa, Conegliano è quartultima in graduatoria con un ammontare pari allo 0,9%, contro il 28,8% della podesteria di Mestre e il 21,1% di quella di Castelfranco (la classifica completa elenca Mestre, Castelfranco, Oderzo, Motta di Livenza, Noale, Asolo, Portobuffolè, Conegliano, Serravalle, Cordignano e San Polo: Treviso, Archivio di Stato, Comune, b. 1073, foglio volante).
133. Anna Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario di una podesteria della prima metà del secolo XVI, Treviso 1994, passim.
134. Giuseppe Dalla Santa, Commerci, vita privata e notizie politiche dei giorni della Lega di Cambrai (da lettere del mercante veneziano Martino Merlini), "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 76, 1916-1917, pp. 1572-1573 (pp. 1547-1605). Negli anni successivi, i possessi fondiari del Merlini si trovano a Piove di Sacco nel Padovano e a Martellago nel Trevigiano (ibid., p. 1580): ubicazioni che confermano il rilievo del fattore distanza.
135. Mauro Pitteri, Mestrina. Proprietà, conduzione, colture nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1994, pp. 61 (per la citazione), 67.
136. Ibid., p. 71 n. 52.
137. Michele Fassina, Le chase sparpanade. Marcon, secoli XVI-XVIII, Marcon (Treviso) 1985.
138. Gian Pier Nicoletti, La podesteria di Portobuffolè nel XVI secolo: la città e il territorio, in Codogné. Nascita e sviluppo di una comunità trevigiana di pianura tra Livenza e Monticano, a cura di Luciano Caniato - Giancarlo Follador, Nervesa 1990, pp. 86, 88 (pp. 83-96); Gloria Pancino, La podesteria di Portobuffolè e la regola di Codogné nel 1547, ibid., pp. 104, 109-110, e per la regola di Codogné dove la proprietà veneziana è insignificante (il 2%), pp. 117-119 (pp. 97-137).
139. Ibid.
140. "L'imprenditorialità padronale sembra fermarsi qui, per il momento": A. Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario, p. 154 per la citazione.
141. G.P. Nicoletti, La podesteria di Portobuffolè nel XVI secolo, pp. 86 (anche per la citazione), 88.
142. Treviso, Archivio di Stato, Comune, b. 1133.
143. Cf. ad es.: "uno cortivo cum casa per sua habitation da muro et coppi, et similmente case et teze per habitador" (Pezzan, 1518).
144. Citato da Reinhold C. Müller, Prefazione, in Piergiovanni Mometto, L'azienda agricola Barbarigo a Carpi. Gestione economica ed evoluzione sociale sulle terre di un villaggio della bassa pianura veronese (1443-1539), Venezia 1992, p. IX, dalla recente edizione curata dal Tucci (Il libro dell'arte di mercatura, Venezia 1990).
145. M. Cornaro, Scritture sulla laguna, p. 43 n. 3.
146. M. Pitteri, Mestrina. Proprietà, conduzione, colture, pp. 11-12. Per le vicende successive cf. anche Id., I mulini del Sile. Quinto, Santa Cristina al Tiveron e i centri molitori attraverso la storia di un fiume, Quinto (Treviso) 1988, p. 30.
147. Ugo Tucci, La psicologia del mercante veneziano nel Cinquecento, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 55-56 (pp. 43-94); Id., L'economia veneziana ai tempi di Giorgione, "Critica Storica", 18, 1981, p. 570 (pp. 559-571); Id., L'economia veneziana nel Quattrocento, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Autunno del Medioevo e Rinascimento, Firenze 1979, pp. 155-167, con rinvio alle opere classiche di Gino Luzzatto ed altri.
148. G. Priuli, I diarii, IV, p. 328.
149. Dai 20 ai 30 ducati per "le posessione veramente bone" a Padova, Mestre e Treviso: ibid., p. 303.
150. Ibid.
151. Ibid., pp. 277-278, e ancora pp. 412-413: "chadauno nobile, citadino et populare veneto benestagente id est de qualche facultade desiderava aver una chaxa a Padoa per andare qualche fiata a spasso et a solazo, essendo propinqua a la citade veneta et commodo andare cum le barche, et menare la sua fameglia, et se inzegnavanno a pocho a pocho ogni anno fare qualchossa in adornamento de simili ediffitii et in gerdini et orti bellissimi, in tanto in capo de molti anni heranno reducti li palazi honoratissimi et li gerdini pieni de delichattissimi fructi".
152. Ibid., pp. 71-72.
153. Ibid., p. 65; e ancora: "c'erano molti ricchi, ma ettiam vi [nel testo ῾ri'> heranno molti poveri, che senza queste sue entrade non poteva vivere, né sustentar la fameglia sua" (ibid.).
154. Cf. qui sopra, il luogo corrispondente alla n. 17.
155. Una pratica, al dire del Priuli (I diarii, II, p. 51, anno 1500) diffusa presso "bona parte deli nobelli et citadinii et monasterii dela citade", con detrimento del dazio.
156. Per alcuni dati relativi al Quattrocento, cf. Ugo Tucci, Commercio e consumo del vino a Venezia in età moderna, in AA.VV., Il vino nell'economia e nella società italiana medioevale e moderna. Convegno di studi - Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987, Firenze 1988, pp. 197-198 (pp. 185-202).
157. Gian Maria Varanini, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto bassomedioevale, ibid., p. 87 (pp. 61-89).
158. S. Bortolami, L'agricoltura, p. 482.
159. Trevor Dean, Venetian Economic Hegemony: the Case of Ferrara, 1220-1500, "Studi Veneziani", n. ser., 12, 1986, pp. 85-94 (pp. 45-98), sul quale sono in buona parte basati i cenni che seguono.
160. Vittorio Lazzarini, Possessi e feudi veneziani nel Ferrarese, in Id., Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carcerati in antiche leggi veneziane. Saggi seguiti da una notizia biografica e dalla bibliografia dell'autore, Roma 1960, pp. 31 ss. (pp. 31-48); il Dean, nella ricerca citata alla nota precedente, sottolinea giustamente la natura "illustrative, not exhaustive" della fonte utilizzata dal Lazzarini.
161. Augusto Vasina, Ravenna e Venezia nel processo di penetrazione in Romagna della Serenissima (secoli XIII-XIV), in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, p. 19 (pp. 11-29); nei decenni e nei secoli successivi, sono presenti patrimonialmente in questa zona Moro, Corner, Falier, Badoer. Risulta interessata in particolare l'area di Copparo e Massafiscaglia, in una zona intermedia fra Ferrara e Comacchio.
162. T. Dean, Venetian Economic Hegemony, p. 95.
163. Id., After the War of Ferrara: Relations between Venice and Ercole d'Este, 1484-1505, in War, Culture and Society in Renaissance Venice. Essays in Honour of John Hale, a cura di David S. Chambers - Cecil H. Clough - Michael E. Mallett, London - Rio Grande 1993, p. 87 (pp. 73-98). Le terre Contarini furono acquistate negli anni '90 da Ercole d'Este (ibid., p. 88).
164. Cf. ancora A. Vasina, Ravenna e Venezia nel processo di penetrazione, specie pp. 26-28 per il Trecento.
165. Ivo Mattozzi, La politica annonaria veneziana e le città suddite: il caso di Ravenna nel XV secolo, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 10l-127. Cf. anche il saggio del Berengo qui sotto citato (n. 168), a p. 66.
166. L'osservazione è del Priuli (I diarii, IV, p. 290, e passim per numerose indicazioni sui prezzi; ma già per gli anni precedenti cf. ibid., II, p. 387, agosto 1505; p. 411, aprile 1506, in genere leggermente inferiori a quelli del grano padovano, "che hè perfectissimo", e trevigiano), che sottolinea al riguardo l'inanità dei divieti papali. Sul punto cf. anche S. Bortolami, L'agricoltura, p. 483.
167. Per la datazione cf. il saggio di Berengo citato nella n. seguente, p. 61.
168. Marino Berengo, Il governo veneziano a Ravenna, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 61-67, e 65 per la citazione (pp. 31-67). Sulle proprietà fondiarie veneziane a Ravenna e in Romagna, cf. per i primi del Cinquecento anche Piergiorgio Fabbri, La Romagna nel 1509, "Nuova Rivista Storica", 77, 1993, pp. 25-31 (pp. 1-36).
169. Per tutto ciò, e per quanto segue, cf. l'importante documento edito con qualche errore di lettura (si cf. ad es., sistematicamente, "nel circha" in luogo di "vel circha"; "Cataia Piera" per "ca Taiapiera"; "Crizo" per "Erizo") dal Pasolini, che è alla base anche delle osservazioni del Berengo per Ravenna (Documenti riguardanti antiche relazioni fra Venezia e Ravenna raccolti e pubblicati da Pietro Desiderio Pasolini, Imola 1881, pp. 100-107).
170. Giovanni Soranzo, La cessione di Cervia e delle sue saline a Venezia nel 1463, "La Romagna", maggio-giugno 1909, pp. 1-19. Cf. anche Jean-Claude Hocquet, La camera apostolica e il sale di Cervia, "Studi Romagnoli", 22, 1971, pp. 39-56, e ora, per i rapporti con Venezia nel periodo che qui interessa, Cervia. Natura e storia, a cura di Oriana Maroni - Angelo Turchini, Rimini 1988, in particolare per i saggi di Hocquet e Turchini.
171. Antonio Fabris, Valle Figheri. Storia di una valle salsa da pesca della laguna veneta, Venezia 1991, pp. 37-38.
172. Data la stretta analogia formale fra i due documenti, non è improbabile che risalga a questa data anche l'elenco dei beni cerviesi, ancorché l'Hocquet (che utilizza questo documento) propenda sia pure dubitativamente per una datazione "au cours de la seconde moitié du XVe siècle": Jean-Claude Hocquet, Monopole et concurrence: Venise et le sel de Cervia du XIIe au XVIe siècle, "Studi Veneziani", 15, 1973, pp. 109-110 e n. 235 (pp. 21-133). Sul tema, cf. anche, di Id., Le sel, enjeu et instrument de la domination vénitienne en Romagne à la fin du XVe siècle, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 89-100.
173. Id., Monopole et concurrence, pp. 111-112.
174. Rovigo, Biblioteca dell'Accademia dei Concordi, ms. Silvestriano miscellaneo n. 384, Liber estimi ecclesiasticorum et exemptorum anni 1411 Viscontarie Rhodigi (copia seicentesca); originale in Rovigo, Archivio della Curia Vescovile, Mensa vescovile, Catastici, nr. 1. Cf. Maria Pia Sanesi, Un estimo rodigino dei beni dei nobili e del clero (1411): edizione e note introduttive, tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1986-1987.
175. Fra coloro che hanno le cifre più elevate, si annoverano un Morosini, un Lion, un Querini; cf. Rovigo, Biblioteca dell'Accademia dei Concordi, Archivio Comunale antico, Perticazioni e sommari, 1 [Perticazione 1488>, cc. n.n. in fondo al volume.
176. Allude, ma senza rinvii specifici, a "who had acquired lands during the Venetian occupation", Michael E. Mallett, Venice and the War of Ferrara, 1482-84, in War, Culture and Society in Renaissance Venice. Essays in Honour of John Hale, a cura di David S. Chambers - Cecil H. Clough - Michael E. Mallett, London - Rio Grande 1993, p. 59 (pp. 57-72).
177. G. Gullino, Un progressivo sviluppo: la proprietà veneziana nel Polesine, p. 379 n. 4.
178. Così risulta da M.E. Mallett, Venice and the War of Ferrara, p. 59.
179. Per un esempio, cf. Maurizio Tramarin, Le prime bonifiche e i primi livellari dell'abbazia della Vangadizza nel territorio di Baruchella nel Polesine di Rovigo (XV secolo), "Atti e Memorie del Sodalizio Vangadiciense", 2, 1982, pp. 453-467.
180. Per un quadro d'insieme sulla storia ambientale ed agraria dell'area polesana, cf. Franco Cazzola, Terra e bonifiche nel delta padano (secoli XV-XVIII), in Uomini terra e acque. Politica e cultura idraulica nel Polesine tra Quattrocento e Seicento, Atti del XIV convegno di studi storici organizzato in collaborazione con l'Accademia dei Concordi (Rovigo 19-20 novembre 1988), a cura di Franco Cazzola - Achille Olivieri, Rovigo 1990, pp. 11 ss. (pp. 11-24).
181. Bruno Rigobello, Un antico consorzio veneto. Il consorzio Valdentro-Vespara e prese unite di Lendinara, Venezia 1964, pp. 15 ss.
182. Come quella che porterà alla nascita di una nuova "villa": M. Tramarin, Le prime bonifiche e i primi livellari dell'abbazia della Vangadizza, pp. 453-467.
183. La circostanza è riferita da Bruno Rigobello, Le bonifiche estensi in Polesine dopo le rotte di Malopera e Castagnaro, Lendinara (Rovigo) 1976, pp. 10-13.
184. Mario F. Turrini, Il consorzio di scolo e bonifica di Pontecchio Due Selve e aggregati, Rovigo 1941, pp. 29-34.
185. Per l'amministrazione delle terre polesane fra Quattro e Cinquecento cf. A.S.V., Provveditori sopra Camere, b. A-I, 11.
186. Adriano Franceschini, I sostegni rossettiani di Polesella, in Uomini terra e acque. Politica e cultura idraulica nel Polesine tra Quattrocento e Seicento, Atti del XIV convegno di studi storici organizzato in collaborazione con l'Accademia dei Concordi (Rovigo 19-20 novembre 1988), a cura di Franco Cazzola - Achille Olivieri, Rovigo 1990, p. 57 (pp. 55-66).
187. Bruno Rigobello, Modi di intervento del capitale veneziano nel Polesine e l'insediamento agricolo dei Loredan, dei Corner, dei Badoer e dei Grimani, in AA.VV., Palladio e palladianesimo in Polesine, Rovigo 1984, p. 22 (pp. 21-35). Cf. anche Id., Acque e bonifiche, in AA.VV., Fratta Polesine. La storia, Fratta Polesine (Rovigo) 1990, pp. 69-73.
188. T. Dean, After the War of Ferrara, p. 93.
189. A. Franceschini, I sostegni rossettiani di Polesella, pp. 60, 64-66 (p. 65 per la citazione).
190. G. Dalla Santa, Commerci, vita privata e notizie politiche dei giorni della Lega di Cambrai, p. 1573. Il corsivo, nella citazione che immediatamente segue, è mio.
191. G. Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai, pp. 155-160.
192. Marina Stefani Mantovanelli, Presenze cinquecentesche documentate di famiglie veneziane in Polesine, in Eresie, magia, società nel Polesine tra '500 e '600, Atti del XIII convegno di studi storici (Rovigo, 21-22 novembre 1987), a cura di Achille Olivieri, Rovigo 1989, pp. 386 e 395 (pp. 383-396).
193. Bruno Rigobello, Storia antica di Lendinara. Lendinara veneta - Occupazioni francesi e austriache, Lendinara 1977, pp. 17-18, con rinvio a precedenti ricerche.
194. Id., Consorzi e retratti nel Polesine in età estense e veneziana, in Uomini terra e acque. Politica e cultura idraulica nel Polesine tra Quattrocento e Seicento, Atti del XIV convegno di studi storici organizzato in collaborazione con l'Accademia dei Concordi (Rovigo 19-20 novembre 1988), a cura di Franco Cazzola - Achille Olivieri, Rovigo 1990, p. 110 (pp. 103-119).
195. Massimo Costantini, Il retratto di Santa Giustina, ibid., pp. 121-123 (pp. 121-130).
196. Oltre alle ricerche sopra citate, cf. ad es. per un illustre esempio polesano Lionello Puppi, La villa Badoer di Fratta Polesine, Vicenza 1972.
197. G. Gullino, Un progressivo sviluppo: la proprietà veneziana nel Polesine, p. 378.
198. Oltre alla ricerca del Gullino citata nella nota precedente, cf. anche Giorgio Borelli, Lo sviluppo ineguale nei domini di Terraferma della Repubblica veneta tra Cinque e Seicento: il Polesine, "Nuova Rivista Storica", 72, 1988, pp. 145-146 (pp. 139-146).
199. Basterà qui rinviare al classico saggio di Angelo Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e l'accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, "Studi Storici", 9, 1968, pp. 674-722, e alle numerose indagini di Salvatore Ciriacono (ora raccolte e rifuse nel volume Acque e agricoltura. Venezia, l'Olanda e la bonifica europea in età moderna, Milano 1994), tra le quali in particolare Investimenti capitalistici e colture irrigue. La congiuntura agricola nella Terraferma veneta (secoli XVI e XVII), in Atti del Convegno `Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori' (Trieste, 23-24 ottobre 1980), a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 123-158.
200. Gigi Corazzol, Sulla diffusione dei livelli a frumento tra il patriziato veneziano nella seconda metà del '500, "Studi Veneziani", n. ser., 6, 1982, p. 128 (pp. 103-128).
201. Trevor Dean, Terra e potere a Ferrara nel tardo medioevo. Il dominio estense: 1350-1450, Modena-Ferrara 19902, pp. 58-59.
202. Giuseppe Gullino, I Pisani dal Banco e Moretta. Storia di due famiglie veneziane in età moderna e delle loro vicende patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma 1984, pp. 70-74.
203. Ibid., p. 72.
204. Filippo Nani-Mocenigo, Testamento del doge Agostino Barbarigo, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 9, 1909, pp. 251 e 253 (pp. 234-261). Su questa vasta area paludosa a fine Quattrocento, fornisce ora ulteriori informazioni Camillo Corrain, Considerazioni sull'evoluzione del territorio nel medioevo e su alcuni aspetti del rapporto uomo-ambiente nel vivere quotidiano degli abitanti delle valli, in Monselice. Storia, cultura e arte di un centro "minore" del Veneto, a cura di Antonio Rigon, Monselice-Treviso 1994, pp. 72-74 (pp. 65-79).
205. Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991, p. 141 e n. 254, con rinvio alle fonti archivistiche. Fondamentale è A.S.V., Governatori alle entrate, reg. 170, sull'analisi del quale sono basate le considerazioni svolte più sotto nel testo a proposito dei diversi obiettivi centrati dagli acquirenti veneziani e dai veronesi. Il registro contiene anche un cospicuo materiale relativo alla confisca dei beni dei Bevilacqua nel territorio veronese e dei Castelbarco in Val Lagarina, dei quali i patrizi veneziani in linea di massima si disinteressarono (pur con eccezioni significative e non casuali, come la decima del legname della Val Lagarina).
206. Per questa congiuntura cf. Gian Maria Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento. Vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980, pp. 105 ss.
207. P.G. Mometto, L'azienda agricola Barbarigo a Carpi, pp. 81-82. Soci del Barbarigo furono i Fasoli, chioggiotti di origine, e i Cattanei (appartenenti alla agnazione veronese/polesana dei Lendinara).
208. Per un cenno, cf. qui sotto, luogo corrispondente a n. 257.
209. G.M. Varanini, Un esempio di ristrutturazione agraria, p. 89 n. 201; Franco Segala, Correzzo. Profilo di storia locale, Verona 1978, pp. 53-55.
210. Verona, Archivio di Stato, Archivio antico del comune, b. 190, procc. 505 e 506.
211. Ivi, Atti del Consiglio, reg. 61, c. 39v. Queste terre passarono a Nofri e Gianfrancesco Strozzi (ibid., cc. 242 e 246), ma tornarono in seguito ai Dandolo.
212. S. Zamperetti, I piccoli principi, p. 136.
213. Per un cenno, cf. Gian Maria Varanini, Le campagne veronesi del Quattrocento fra tradizione e innovazione, in Uomini e civiltà agraria nel territorio veronese (sec. IX-XVIII), a cura di Giorgio Borelli, I, Verona 1982, pp. 222-229 (pp. 185-262).
214. Verona, Archivio privato Sagramoso di S. Paolo, proc. 1139; G.M. Varanini, Un esempio di ristrutturazione agraria, pp. 94-95 nn. 221-223.
215. G.M. Varanini, Un esempio di ristrutturazione agraria, p. 105 ("la fossa che parte lo confine de Corezo e Ronchanova").
216. Per dati più tardi (metà Cinquecento), cf. Verona, Archivio di Stato, Archivio antico dei comune, b. 233, proc. 2708.
217. James C. Davis, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal '500 al '900, Roma 19802, pp. 64, 72.
218. Nel 1616 le possessioni veneziane più estese si trovano a Castagnaro, Villabona, Sanguinetto, Begosso, Nogara: Giorgio Borelli, città e campagna in età preindustriale, XVI-XVIII secolo, Verona 1986, p. 223.
219. Verona, Archivio di Stato, Archivio antico del comune, b. 193, proc. 921, Nobili veneti estimadi nelli estimi [...>. I possessi del territorio di Cologna Veneta elencati riguardano Pressana (Querini e Zeno), Bembo (Roveredo di Guà), Valaresso (Albaredo), oppure genericamente il "Colognese".
220. Verona, Archivio di Stato, Archivio antico del comune, b. 233, proc. 2708.
221. Cf. qui sotto, luogo corrispondente alle nn. 248-256.
222. Per un cenno in questa direzione cf. le citate pagine di G.M. Varanini, Le campagne veronesi del Quattrocento, pp. 222-229.
223. Circa l'assenza di proprietà veneziane nel territorio bresciano, cf. un cenno in Joanne M. Ferraro, Family and Public Life in Brescia, 1580-1630. The Foundations of Power in the Venetian State, Cambridge 1993, p. 9; e della stessa autrice, cf. anche Feudal-Patrician Investments in the Bresciano and Politics of the "estimo", 1426-1641, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 31 ss. (pp. 31-67); Ead., Proprietà terriera e potere nello Stato veneto: la nobiltà bresciana del '400-'500, in Dentro lo "stado italico". Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 159-182.
224. Così M. Cornaro, Scritture sulla laguna, p. 99, nel 1458, quando si prende in considerazione l'ipotesi di accrescerne la portata per diminuire quella del Brenta, in funzione dello spinoso problema idraulico lagunare ("el se podeva tuor de dieta [Brenta> una gran parte e consumarla per diete campagne").
225. Franco Signori, L'economia di Bassano dalle origini ad oggi, in AA.VV., Storia di Bassano, Bassano 1980, pp. 204, 206, 208 (pp. 191-270); Giamberto Petoello - Fernando Rigon, Sviluppo urbanistico dal X secolo ai nostri giorni, ibid., pp. 416-417 (pp. 389-432). Sono ricordati anche i Belegno e i Priuli.
226. Lo ha ricordato di recente anche J.S. Grubb, Firstborn of Venice, p. 169.
227. Ibid.
228. Ibid.
229. Ibid.
230. G. Gullino, I Pisani dal Banco e Moretta, pp. 39-41; G. Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai, pp. 164-167.
231. A.S.V., Officiali alle rason vecchie, b. 48.
232. Cf. sopra, n. 19. Per la documentazione Contarini
relativa a Montegalda, cf. A.S.V., Archivio privato Marcello Grimani-Giustinian, Archivio Contarini, b. 2.
233. Sul patrimonio Querini, cf. Renzo Derosas, I Querini-Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinque all'Ottocento, in AA.VV., I Querini-Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, Venezia 1987, pp. 43 ss. (pp. 43-87). In generale sulle proprietà veneziane in questa podesteria, cf. Giulio Cardo, Il mandamento di Cologna Veneta. Studio storico documentato, Venezia 1898 (riprod. anast. Cologna Veneta 1975), pp. 32-33; Michelangelo Muraro, Cologna dei veneziani e le sue ville, "La Mainarda. Rivista di cultura arte storia ed economia di Cologna Veneta e del suo mandamento", 1, 1977, fasc. 4, e alcune schede in La villa nel Veronese, a cura di Giuseppe Franco Viviani, Verona 1975, pp. 781 ss.
234. Sugli investimenti fondiari dei Gritti cf. anche alcuni cenni di Achille Olivieri, Capitale mercantile e committenza nella Venezia del Sansovino, in Investimenti e civiltà urbana. Secoli XIII-XVIII, a cura di Annalisa Guarducci, Firenze 1991, pp. 536-537 (pp. 531-569).
235. Cf. qui sopra, luogo corrispondente alla n. 72.
236. Va tenuto conto del fatto che la prassi di trasformare in frumento e vino, ai fini della valutazione del reddito, tutti i censi, potrebbe in realtà nascondere l'esistenza di forme di conduzione diverse: ma questa eventualità non potrebbe comunque modificare il dato di fondo.
237. A. Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario, p. 93 e n. 66.
238. Non sempre, però, le fonti fiscali utilizzate sono esplicite al riguardo, anche se in genere segnalano i contratti a lunga scadenza o i livelli perpetui. Solo un'indagine sulle fonti notarili, o su registri di amministrazione aziendale, permetterebbe di conseguire risultati certi.
239. Allo stato attuale appare più attrezzato bibliograficamente il territorio trevigiano che non quello padovano: per il primo, ci riferiamo in particolare alle ricerche del Cagnin, sia per un quadro d'insieme sull'evoluzione duecentesca (Id., I patti agrari in territorio trevigiano), sia per numerose ricerche monografiche dedicate a singole aree (in generale, peraltro, della collina o della montagna), e alle ricerche sulle campagne trevigiane cinquecentesche promosse dalla Fondazione Benetton; mentre per Padova risulta alquanto isolata la ricerca di S. Collodo, La proprietà cittadina nelle campagne padovane, relativa al trentennio 1390-1420 e basata sulla documentazione di un'importante proprietà, poi passata ad un ente ospedaliero.
240. M. Pitteri, Mestrina. Proprietà, conduzione, colture, pp. 95-97.
241. Ibid., pp. 102-104. Resta assodata la difficoltà di definire con nettezza le tipologie, e la facilità del passaggio da una forma contrattuale all'altra, che le fonti notarili ibridano frequentemente.
242. A. Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario, pp. 76-81.
243. M. Pitteri, Mestrina. Proprietà, conduzione, colture, p. 126.
244. Ibid., p. 131 n. 2.
245. Manca, mi sembra, un tentativo recente di sintesi che raccolga in un quadro d'insieme i numerosi spunti sul rapporto tra pregresso investimento fondiario e villa, che ogni studio monografico sulle ville venete cinquecentesche fornisce; così come manca d'altronde una ricerca d'insieme sulle stesse costruzioni quattrocentesche. Cf. comunque alcune ricerche risalenti a diversi decenni or sono, come Bernard Rupprecht, Ville venete del '400 e del primo '500, "Bollettino del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio", 6, 1964, pp. 239-250; Marco Rosci, Forme e funzioni delle ville venete pre-palladiane, "L'Arte", 1968, fasc. 2, pp. 26-54 e l'indagine del Ventura citata qui sotto a n. 277.
246. Il noto passo di una lettera del mercante Martino Merlini è citato da I. Cervelli, Machiavelli e la crisi, pp. 187-188. Per il dibattito storiografico cui si accenna nel testo, oltre alle ricerche di U. Tucci citate sopra a n. 147, basti qui il rinvio a Ruggiero Romano, Il mercante italiano tra Medioevo e Rinascimento, in Id., Tra due crisi: l'Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 97-99 (pp. 85-100; il saggio risale al 1963); cf. inoltre Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani e la mercatura negli ultimi tre secoli della Repubblica, in Mercanti e vita economica nella Repubblica veneta (secoli XIII-XVIII), II, a cura di Giorgio Borelli, Verona 1985, pp. 403 ss. (pp. 403-451). Sottolinea i rischi di un'interpretazione letterale delle "invettive moralistiche di quel nostalgico tradizionalista" che era il Priuli Angelo Ventura, Possesso fondiario e agricoltura nelle relazioni dei rettori veneziani in Terraferma, in Atti del Convegno `Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori' (Trieste, 23-24 ottobre 1980), a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 51 1-512 (pp. 509-529).
247. Cf. Emilio Menegazzo, Alvise Cornaro: un veneziano del Cinquecento nella Terraferma padovana, in Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, specie pp. 522 ss. (e p. 537 per la citazione; pp. 513-538), con riferimento a precedenti ricerche del medesimo autore e di Paolo Sambin, del quale cf. segnatamente I testamenti di Alvise Cornaro, "Italia Medioevale e Umanistica", 9, 1966, pp. 295-385.
248. G.M. Varanini, Le campagne veronesi del Quattrocento, pp. 231-232.
249. La carenza riguarda peraltro anche le proprietà fondiarie dei cittadini di Terraferma: per un raro esempio di documentazione contabile privata, conservata (non per caso) in un archivio ospedaliero, cf. la già citata ricerca di S. Collodo, La proprietà cittadina nelle campagne padovane.
250. P.G. Mometto, L'azienda agricola Barbarigo, p. 26.
251. Ibid., pp. 27-28, anche per le disavventure di questo possesso, ridotto poi a palude per la chiusura del Bottenigo.
252. Ibid., p. 26 e n. 50.
253. All'uopo sono destinate spesso anche case in città: "per nostro uso a tempo de morbo et altri occorrenti bisogni", ad esempio, Antonio e Agostino da Mula hanno acquistato nel 1514 una casa semidistrutta dalla guerra, a Padova, "cum speranza che quando se fosse in qualche quiete et riposso de fabricharla" (A.S.V., Dieci savi sopra le decime di Rialto, b. 74, S. Vio). I da Mula non avevano in Terraferma altri beni immobili.
254. R.C. Müller, Prefazione, p. VII.
255. Mi sia consentito rinviare ad alcune mie ricerche, che possono in qualche misura costituire un termine di confronto: Le campagne veronesi del Quattrocento; Un esempio di ristrutturazione agraria; La "Curia" di Nogarole nella pianura veronese fra Tre e Quattrocento. Paesaggio, amministrazione, economia e società, "Studi di Storia Medievale e di Diplomatica", 4, 1979, pp. 45-263.
256. A.S.V., Dieci Savi sopra le decime di Rialto, b. 74.
257. Ivi, Archivio Marcello Grimani-Morosini, Archivio Donà, b. 165 (Libro C de tute raxon et conti de nui Girardo et Daniel da la Ruosa fradelli q. ser Daniel comenzando a dì primo luio 1463). A cc. 1v-2 Gerardo annota notizie di cronaca famigliare (matrimonio, nascite dei figli, vita spirituale, cariche pubbliche).
258. Se c'è chi dichiara "in 35 anni che l'avì non sono andato tre volte per tre zorni" nelle sue terre di Galliera, come Iacomo d'Anselmo, e chi non sa (o afferma di non sapere) quanta terra possiede "per non l'aver mai pertegada", come i Barbaro a Maser, molti altri nell'intento ovvio di giustificare la presunta bassa redditività delle proprie terre lasciano trapelare precise competenze agronomiche, "sul morir de le vigne che suol acader speso lì per eser luoghi basi et fredi" (così Zuan Antonio Navagero per le sue terre a Mira), sulle attitudini dei vari cereali a crescere su terreni "iaroxi", e così via. Ovviamente, la natura fiscale della fonte suggerisce prudenza nella valutazione di queste informazioni, alle quali non si può comunque negare del tutto attendibilità.
259. A. Stella, Bonifiche benedettine e precapitalismo, pp. 171-193.
260. "Più ombre che luci" rileva anche complessivamente Enrico Stumpo, Il consolidamento della proprietà ecclesiastica nell'età della Controriforma, in La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di Giorgio Chittolini - Giovanni Miccoli, Torino 1986 (Storia d'Italia, Annali, 9), p. 276 (pp. 263-289), riferendosi complessivamente al Cinquecento e Seicento.
261. Si veda il quadro d'insieme offerto da M. Fois, I religiosi: decadenza e fermenti, pp. 147-182, con bibliografia (pp. 151 e 152 per le citazioni).
262. La nota indagine di K. Modzelewski, Le vicende della "pars dominica", si arresta alla fine del secolo XIV.
263. M. Pitteri, Mestrina. Proprietà, conduzione, colture, pp. 52 n. 10, 57.
264. A. Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario, pp. 114 ss.
265. Per un quadro d'insieme relativo ai soli monasteri benedettini, basato sulle condizioni di decima del 1564, cf. la tesi di laurea di Anna Pizzati, La proprietà terriera dei monasteri benedettini veneziani nella seconda metà del '500, Università di Venezia, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea in Storia, a.a. 1985-1986. Ringrazio la dott. Pizzati per avermi consentito di leggere il suo lavoro.
266. Ibid.
267. In tale condizione il monastero si trovava dal 1455, ma già da qualche decennio era in difficoltà: G. Marzemin, Le abbazie veneziane, p. 375.
268. Nel 1479, per un censo di soli 6 ducati, si affittano 40 campi a Tresiegoli, col patto che "infra terminum trium annorum debeat terras que sunt habiles ad usum prattivum ad bonam culturam reduxisse secundum formam statutorum comunis Padue" (cf., alle cc. 36-37, il registro citato alla n. seguente).
269. A.S.V., SS. Ilario, Gregorio e Benedetto, b. 13, Registro affittanze 1468-1548, cc. 1-30v, passim.
270. G. Marzemin, Le abbazie veneziane, p. 377.
271. Cf. qui sopra, n. 198 e testo corrispondente.
272. Su questa tematica la bibliografia è ricchissima. Si cf., anche per ulteriori rinvii bibliografici, Salvatore Ciriacono, Scrittori d'idraulica e politica delle acque, in Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 491-512; Paolo Morachiello, Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino: un dialogo sulle tecniche e sulla natura, in Alvise Cornaro e il suo tempo, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi, Padova 1980, pp. 130-135; Sergio Escobar, Il controllo delle acque: problemi tecnici e interessi economici, in Scienza e tecnica, Torino 1985 (Storia d'Italia, Annali, 3), pp. 104-153 (pp. 83-153); Giorgio Borelli, Alvise Cornaro e il problema delle bonifiche, "Nuova Rivista Storica", 73, 1989, pp. 425-445.
273. Per questi giudizi cf. Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985, pp. 215-216.
274. Mi sembra che nel complesso le periodizzazioni e valutazioni di G. Gullino, Quando il mercante costruì la villa, coincidano con quelle qui proposte: cf. in particolare, nel saggio del Gullino, il testo corrispondente a n. 6.
275. Il rinvio ai classici saggi, già citati, di A. Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta, e di S. Ciriacono, Investimenti capitalistici, è scontato ma non per questo meno opportuno; ivi i rimandi alla bibliografia precedente. Per un diverso aspetto del problema cf. Giuseppe Gullino, Un problema aperto: Venezia e il tardo feudalesimo, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, p. 187 (pp. 183-196).
276. A. Stella, Bonifiche benedettine e precapitalismo veneto, pp. 173-174, 178-179.
277. Inutile moltiplicare, in questa sede, i rinvii bibliografici. Cf. comunque Angelo Ventura, Aspetti storico-economici della villa veneta, "Bollettino del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio", 11, 1969, pp. 65-77.
278. Nel trentennio 1565-1595 la percentuale dei grani importati via mare cala drasticamente, passando dal 70 al 24%, e in congiunture particolarissime come nel 1576 si riduce fin quasi a scomparire; su questo fenomeno cf. Maurice Aymard, Venise, Raguse et le commerce du blé pendant la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1966.
279. Cf. al riguardo S. Ciriacono, Venise et ses villes, pp. 287-307.