proprieta
Diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
Storicamente le prime forme di p. furono collettive e riguardarono in primo luogo la terra. Nell’antico Egitto, probabilmente la p. del suolo era in gran parte nelle mani dello Stato, che lo faceva coltivare da contadini legati alla terra e controllati dagli scribi. Presso gli antichi ebrei la p. terriera e quella del bestiame, le sole conosciute, erano regolate con norme molto semplici. Non si conoscono contratti scritti, per il periodo più antico; più tardi, invece, per il trasferimento di p. e l’acquisto di beni immobili si ha notizia di documenti scritti. La legislazione mirava a proteggere la piccola p. e a conservare un patrimonio familiare ereditario, evitando la creazione di latifondi. In Mesopotamia, già dai tempi più remoti, vigevano sia la p. individuale sia quella collettiva e pubblica. Fra gli ittiti, si avevano fondi inalienabili vincolati al servizio militare e, a est della Mesopotamia, forme di p. collettiva della tribù o dei gruppi familiari. La p. conferiva potere pressoché illimitato sulla cosa. Le poche restrizioni riguardavano il regime delle acque e talune servitù di carattere agrario. Le diverse forme di p., collettiva, feudale, individuale, si mantennero attraverso la conquista persiana e la monarchia dei Seleucidi.
La p. individuale cominciò a imporsi nel regime della polis, nel quale era inconcepibile una p. del sovrano o dello Stato. Tuttavia, in alcune città – per es. a Sparta – tardò a farsi strada il concetto che la p. potesse essere alienata. In ogni caso la p. fondiaria, come riflesso della cittadinanza, era inaccessibile agli stranieri, salva la possibilità di concessioni individuali dell’égktesis attraverso decreti della polis. La p. pubblica era del tutto eccezionale; per Atene l’unico esempio è rappresentato dalle miniere del Laurio. Le monarchie dei Diadochi fecero invece proprio il regime vigente nelle monarchie orientali, che già veniva applicato nei territori di conquista della polis. La terra era di p. del sovrano e dello Stato, e il privato godeva soltanto di una concessione a carattere più o meno revocabile, che non intaccava il diritto eminente dello Stato, al quale dunque veniva pagata un’imposta specifica. Nello Stato ideale delineato nella Repubblica Platone immaginò una polis in cui dominava «la perfetta unità», con una sorta di p. comune, limitata però alle classi superiori. Per Aristotele, invece, l’armonia tra i cittadini aveva come presupposto il loro status di proprietari. Entrambi peraltro condannavano l’eccessiva brama di ricchezze.
Al contrario dei filosofi greci, Cicerone mitigò notevolmente la condanna della brama di guadagno. Sebbene la p. non esistesse in natura, tuttavia ogni uomo aveva il diritto di appropriarsi dei beni che questa offriva; la ragione stessa per cui gli uomini si associano in una comunità era per Cicerone l’esigenza di tutelare la proprietà. Tuttavia nella stessa letteratura dell’età romana proseguiva pure la critica tradizionale della p. e veniva ripreso il mito dell’età dell’oro, in cui gli uomini convivevano pacificamente, senza conoscere né p. né strutture di potere, in uno stato di armonia che sarebbe andato distrutto per via dell’avidità. Le fonti giuridiche romane non davano peraltro una definizione precisa della p., della quale pure esistevano diversi tipi. Accanto infatti alla p. civile o «quiritaria», derivante dalla graduale privatizzazione delle terre inizialmente comuni, vennero a sorgere numerose altre forme di p., da quella «provinciale» a quella «pretoria». Con Giustiniano sorsero le prime limitazioni legali della p. e scomparve la perpetuità del dominio, attraverso l’introduzione della revoca reale, e del principio che la p. poteva essere trasferita solo ad alcune condizioni. Nel diritto giustinianeo la sovranità sulla p. veniva sostituita da caratteristiche più rispondenti alle sue funzioni economiche, dalla facoltà di escludere ogni intervento dei terzi alla unitarietà, nel senso che la p. rappresentava un potere unico sulla cosa. Quanto alla p. collettiva, la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi sembrerebbe implicare che soltanto per le seconde fosse in origine ammessa una presa di possesso individuale; le res mancipi sarebbero state invece le cose di pertinenza della gens, e come tali di sua p. collettiva. Alla fine della Repubblica la distinzione era però oramai scomparsa e tutti i fondi italici erano compresi nelle res mancipi. Nell’epoca romano-ellenica intervennero però una quantità di limitazioni sulla stessa p.: si mutò il regime delle acque, e molte limitazioni furono imposte riguardo agli edifici, con forme di programmazione urbanistica ante litteram. Iniziò inoltre a essere riconosciuta l’espropriazione per pubblica utilità. L’avvento del cristianesimo introdusse nuovi elementi nel dibattito sulla proprietà. Secondo i Padri della Chiesa la p. privata non era un’istituzione dell’ordine naturale creato da Dio, ma una conseguenza del peccato originale. Alcuni di essi ripresero la critica della p. privata sviluppata da Platone, come per es. Crisostomo, secondo il quale i concetti di «mio» e di «tuo» sarebbero all’origine della discordia tra gli uomini. In generale, tuttavia, da queste premesse non si traeva la conclusione che la p. privata andasse abolita; essa doveva invece essere accettata come un’istituzione conseguente al peccato originale che, canalizzando gli istinti peccaminosi dell’uomo, contribuiva a ristabilire la pace (Agostino).
In epoca medievale, le influenze della Chiesa furono minori di quanto si creda abitualmente, sebbene al cristianesimo si possano ricondurre talune limitazioni alla p. privata e alla libertà di disposizione. Più importanti, per la storia della p., le influenze germaniche. Prima delle invasioni barbariche, vigeva presso le popolazioni germaniche il regime della p. collettiva, che veniva distribuita per famiglie in proporzione al numero dei coltivatori, e seguendo la regola dell’avvicendamento colturale. All’atto dell’invasione i dominatori fecero proprio il concetto romano di p., ma dal contatto dei due diritti la nozione romana uscì modificata in due diverse direzioni. Da un lato, si affermarono varie limitazioni all’assolutezza della p. romana, derivanti dall’antica p. di gruppo germanica: diritti di pascolo, di vagantivo, di pensionatico; limitazioni alle libertà di disposizione attraverso il diritto di retratto dei vicini e dei familiari. Dall’altro lato, sorse un complesso di figure che erano considerate p., sebbene mancasse quel potere di piena disposizione che ne era caratteristico, o spettasse a più persone: le arimannie, terre di confine vincolate a necessità militari; le manomorte, p. ecclesiastiche inalienabili; le terre feudali; i diritti di regalia concessi dal signore feudale ai suoi dipendenti dietro corrispettivo di una tassa (decima). Le influenze germaniche introdussero inoltre talune figure di oneri gravanti perpetuamente sul fondo (oneri reali), che limitavano la libertà di godimento del proprietario: diritti di caccia, pascolo, legnatico, prestazioni d’opere, censi. Nel sistema feudale la p. della terra era data quindi in investitura a un dominum eminens, il quale la ripartiva con i propri vassalli, che versando tributi e impegnandosi a fornire servizi, ne ricevevano il dominium utile. I vassalli a loro volta concedevano l’uso della terra ai servi della gleba, i quali la lavoravano, trattenendo solo parte dei frutti di tale opera, e versando al vassallo tributi in natura e corvées in lavoro. Sul piano ideologico, i primi, decisivi passi verso una legittimazione definitiva della p. privata furono compiuti da Tommaso d’Aquino. Egli sviluppò infatti la tesi del diritto ecclesiastico secondo cui la p., pur non avendo a fondamento la legge naturale, poteva nondimeno essere ammessa dal diritto positivo quale integrazione riconducibile alla ragione umana.
Col Rinascimento si tornò ad attribuire alla p. quei caratteri di illimitatezza e di assolutezza che erano propri del dominio romano; è di Cuiacio la definizione del dominio come lo ius de re corporali perfecte disponendi aut vindicandi nisi quid lege prohibeatur. D’altra parte, le tendenze critiche nei confronti della p. privata già presenti nella patristica influenzarono la teologia di opposizione degli ordini dei mendicanti, degli anabattisti, della corrente di sinistra degli hussiti (taboriti) nonché quella dell’avversario di Lutero, T. Müntzer. Facevano intanto la loro comparsa le utopie sociali di T. More e T. Campanella, impensabili senza l’influenza della critica platonica della p. privata. Lo sviluppo dell’economia mercantile e monetaria portava intanto al superamento dei vincoli imposti dalla società feudale. Iniziava ad affermarsi la p. individuale di tipo borghese, canonizzata da J. Locke, che la concepì come diritto naturale e legittima appropriazione la cui fonte egli collocava nel lavoro umano. Nella sua concezione, l’introduzione del denaro consentiva lo sviluppo dei rapporti di scambio, secondo le modalità tipiche di una economia fondata sul lavoro salariato e sull’accumulazione del capitale, rispetto a cui le istituzioni politiche derivate dal patto sociale servivano appunto a tutelare la p. (la vita, la libertà e i beni). Dal canto suo, J.-J. Rousseau individuava nella recinzione delle terre la nascita della p. privata, vedendola come atto illegittimo e arbitrario, origine delle disuguaglianze della società civile borghese. Tuttavia proprio la Rivoluzione francese, sopprimendo gran parte delle figure che limitavano il potere di disposizione del proprietario, permise il ritorno alla concezione della p. come un diritto assoluto sulla propria cosa, di carattere individualistico.
Nell’epoca che E.J. Hobsbawm ha definito quella del «trionfo della borghesia», il 19° sec., la p. privata raggiunse la sua massima legittimazione e diffusione. Il codice civile francese del 1865 definiva il «diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti». Nello stesso 19° sec., però, le spiegazioni teologico-giusnaturalistiche della p. privata iniziarono ad apparire sempre meno convincenti. Alla tesi lockiana secondo cui il diritto di p. deriva dal lavoro D. Hume obiettò che un oggetto non appartiene necessariamente a chi vi ha dispensato il proprio lavoro, ritenendo più probabile che l’accordo reciproco di rispettare la p. altrui derivasse dalla necessità di evitare una situazione di conflitto permanente. Per J. Bentham, l’esponente più famoso dell’utilitarismo, sebbene per accrescere il benessere collettivo la via migliore sembrerebbe quella di una distribuzione il più possibile egualitaria della ricchezza, solo l’ineguaglianza stimolerebbe l’operosità e la produttività. Una critica incisiva della p. privata fu invece quella prodotta dal movimento socialista, oltre alla riflessione degli esponenti del primo socialismo (spesso richiamante la tradizione utopistica, come nel caso di Saint-Simon e del suo allievo W. Weitling). Per J. Proudhon la p. è «un furto», da cui ha origine il capitale industriale, finanziario e commerciale. Diversa l’impostazione di K. Marx e di F. Engels, che si soffermarono in particolare sulla p. privata dei mezzi di produzione. Per Marx, nelle condizioni della società borghese, la p. non è l’essenza della libertà, ma al contrario un potere sociale che aliena l’uomo – e in particolare il lavoratore – a sé stesso, al suo genere. Nel Capitale egli descrive come il sistema capitalistico espropri il lavoratore dell’attività produttiva, che originariamente gli apparteneva, ma che ora gli si contrappone come p. altrui, come processo di sfruttamento. D’altra parte, per Marx, la p. sotto forma di denaro e di capitale è diventata una potenza impersonale, il cui dominio non viene percepito. Apparentemente infatti lavoratori e capitalisti stipulano un contratto come individui liberi ed eguali; ma questa libertà e questa eguaglianza sono pura ideologia. Nel 19° e 20° sec. la critica marxiana della p. privata ha influenzato largamente il movimento socialista e comunista. Se il primo si fece promotore di nuove forme di p. pur all’interno della società capitalistica (è il caso delle municipalizzazioni o della diffusione della p. cooperativa), diversa fu la prospettiva del secondo. A seguito della Rivoluzione d’ottobre e della nascita dell’URSS, si assisté infatti ai primi moderni tentativi di superare la p. privata dei mezzi di produzione, costruendo società basate sulla socializzazione – ossia p. pubblica, e nello specifico statale – di tali strumenti, oltre che delle leve finanziarie e bancarie, dando vita a formazioni sociali definite, a seconda degli studiosi, collettivismo, socialismo o comunismo. Frattanto, tra la fine del 19° e il 20° sec., si assisteva a un processo di concentrazione della p., la quale andava assumendo forme diverse: alla p. individuale di un terreno, laboratorio o di un’azienda, si aggiungeva, e talvolta si sostituiva, la p. di grandi gruppi economici, monopoli, cartelli o trust; in tale ambito, emergeva una distinzione tra p. e management, ossia tra la p. di determinate realtà economiche e produttive, sempre più spesso individuabili in settori del capitale finanziario, e la loro gestione e direzione concreta, affidata a manager. Legislazioni anti-trust, varate in molti Paesi capitalistici, hanno peraltro teso a contrastare il formarsi di posizioni di monopolio, che finivano per falsare quella stessa concorrenza che pure è centrale nell’ideologia liberale. Al tempo stesso, non solo nei Paesi a economia socialista, ma anche in quei Paesi capitalisti in cui avanzavano le politiche keynesiane di intervento dello Stato nell’economia, si faceva strada una dose di p. pubblica o mista dei mezzi di produzione, attraverso le nazionalizzazioni o forme diverse, come per es. le Partecipazioni statali in Italia. Sul piano teorico, intanto, anche sociologi di orientamento conservatore, come N. Luhmann, sono tornati a riflettere sul tema della p., concepita come un’espressione della scarsità di risorse, che genera la sfera dell’agire economico, la quale a sua volta presuppone l’esistenza del denaro. I neocontrattualisti (J. Buchanan, R. Nozick), dal canto loro, hanno rilanciato il concetto di homo oeconomicus che avrebbe un diritto illimitato alla p., elaborando inoltre la teoria dello «Stato minimale» e contestando sia la p. pubblica sia il diritto dello Stato a intervenire nell’economia. Al contrario, per studiosi come M. Walzer, occorre impedire che risorse quali il denaro e la p. vengano usate come strumenti di dominio su altri, e hanno auspicato la ripartizione del potere e lo sviluppo della «democrazia economica». A partire dalla fine degli anni Settanta del 20º sec. la controffensiva neoliberista ha peraltro favorito un notevole processo di privatizzazioni, attraverso cui enormi patrimoni economici e produttivi, che erano stati acquisiti dallo Stato, sono tornati in mani private. Negli anni più recenti, la privatizzazione dei beni si è spinta fino all’acquisizione di sementi e altre risorse naturali, brevettate e acquisite da grandi gruppi imprenditoriali. Al tempo stesso, la crescente finanziarizzazione e internazionalizzazione dell’economia fa sì che sempre più i proprietari di capitali non compaiano come individui concreti, sicché di fatto il momento personale della p. finisce per apparire marginale. Tuttavia i global players sono persone concrete con precisi interessi e specifiche preferenze politiche. Nel frattempo ai centri di potere politici, ai governi nazionali – cui si sostituiscono in misura crescente istituzioni politiche sovranazionali – si contrappongono centri di potere economico sempre più rilevanti. Anche questa situazione limita il margine di controllo e di azione della politica. Ad aggravare ulteriormente il problema concorre la criminalità organizzata che opera a livello mondiale e che è ormai una presenza significativa nella sfera economica, e talvolta anche in quella politica. In questo quadro, agli inizi del 21° sec., dopo una fase di egemonia incontrastata dell’ideologia e delle pratiche neoliberiste successiva al crollo dei Paesi socialisti (1989-91), la riflessione sulle forme della p., sul ruolo dello Stato (e delle istituzioni politiche sovranazionali) nell’economia, ma anche su nuove forme di p. pubblica o sociale (che riguardino, per es., i cosiddetti «beni comuni», ossia le principali risorse naturali, oppure la «sovranità alimentare» di interi Paesi o singole comunità), è tornata al centro del dibattito politico e culturale.