prosa
Il largo e vario uso che D. fece della p., l'importanza e l'originalità da lui attribuita all'esperimento della p. volgare, e le sparse considerazioni che egli espresse usando questo termine di p., s'intendono nella tradizione della retorica e della poetica medievali, e sullo sfondo del travaglio che subisce la composizione letteraria sottratta alle regole della versificazione fra Duecento e Trecento, ossia nell'epoca critica in cui si viene maturando il gusto dell'imitazione classica e raffinando l'arte del volgarizzamento.
Isidoro riassume l'antico concetto della p. (I XXXVIII) riportando le due etimologie di " producta oratio " e " profusa oratio ", e rilevando il carattere distintivo di essa nell'essere sciolta (" soluta ") dalle leggi metriche: egli sottolineava inoltre l'opinione che gli antichi dedicassero alla poesia un impegno d'arte maggiore che alla p., e che quest'ultima avesse un'origine più recente. La considerazione della p. come un genere distinto dalla poesia ma con questa sostanzialmente congiunto come un grado diverso di elaborazione, perché ambedue sottoposte al più generale sistema retorico, è chiaramente espressa in un famoso luogo dei Saturnali di Macrobio (V I), in cui si celebra la superiorità di Virgilio su Cicerone per il fatto che il primo è insieme poeta e oratore, e include la gamma completa dei toni stilistici che la retorica insegna. Nel Medioevo l'ars dictaminis, in cui confluisce e si amplia la tradizione dell'insegnamento retorico e si attribuisce all'epistolografia un posto di preminenza, comprende anche le norme relative alla versificazione e al ritmo e considera il genus prosaicum altrettanto ‛ artificioso ' quanto la composizione in versi: e infatti, se lo stile tulliano della p. epistolare era soprattutto fondato sui colores rhetorici, e quello isidoriano sulle più ricercate figurae verborum, lo stile ilariano contemplava un meticoloso rapporto nella disposizione dei vocaboli in base all'accento e lo stile ‛ romano ' sanciva l'uso costante delle clausole ritmiche. D'altro canto le arti poetiche del tardo Medioevo includono talora la considerazione degli stili della p.; è il caso della Poetria di Giovanni di Garlandia, che distingue quattro stili moderni di prosa (gregorianus, tullianus, hilarianus, ysidorianus) e attribuisce anche agli scrittori in p. il titolo di ‛ vates '; è il caso ancora dell'Ars poetica di Gervasio di Melkley, il quale dedica la maggior parte dell'opera alle " Regulae communes cuilibet sermonis generi ", ponendo sullo stesso piano l'artificio della p. ritmica e quello della verseggiatura (ediz. Grabener, LIX 10-18), e riservando alle " regulae versibus speciales " solo una breve sezione del trattato.
Il termine di p. nel Medioevo designa sempre, insomma, la prosa d'arte, distinta da quel sermo simplex che è destinato agli usi pratici. Anzi, come con la p. ritmata e rimata si pervenne a una vera e propria confusione fra la composizione poetica e quella prosastica, così il termine di p. fu anche attribuito alla composizione poetica quando venne a designare il testo della ‛ sequenza ' liturgica (distinta dall'hymnus), donde ricevette impulso la lirica mediolatina.
Nella Commedia si riflette in talune occasioni particolari il diffuso concetto della p. come composizione analoga alla poesia, ma libera dai più complessi legami del verso. In If XXVIII 1 le parole sciolte sono ritenute un mezzo più facile di narrazione, anche se il poeta pensa che nemmeno in p. avrebbe potuto descrivere adeguatamente la sua esperienza visiva. In Pg XXVI 118 le prose di romanzi, che designano i componimenti narrativi in lingua d'oïl, sono, insieme con i versi d'amore, paragonate alla superiore resa delle poesie di Arnaldo Daniello. Nel primo caso D. può aver alluso semplicemente al sermo simplex, alla p. non ‛ artificiosa ', nel secondo l'uso del termine specifico richiama precisamente la p. d'arte in volgare.
Quali poi fossero le prose di romanzi D. chiarisce in VE I X 2, dove attribuisce alla lingua d'oïl il primato in questo campo per la maggiore facilità che ha reso piacevoli e ha diffuso gli scritti storico-didascalici, i romanzi di avventura e i liberi rifacimenti di testi narrativi dell'antichità. È discutibile, ma non insostenibile, che D. includesse fra queste prose la Chanson de Roland considerandola come p. ritmata e assumendo il termine di p. nel senso diffuso in Francia per indicare la ‛ sequenza '.
La stretta relazione fra la poesia e la p. si ritrova quasi teorizzata nel De vulg. Eloq., dove i poeti ‛ regulati ' sono affiancati alle ‛ altissimae prosae ' degli storici latini quali modello del volgare illustre (II VI 7). In questo capitolo la definizione della ‛ constructio ' riguarda indifferentemente l'uno e l'altro genere di composizione; anzi i famosi esempi dei tre gradi stilistici appartengono al genere prosastico. In questa prospettiva si spiega l'intenzione dantesca di completare la trattazione dell'eloquenza volgare dopo aver esaurito l'esame dei generi sottoposti alla metrica, con una sezione dedicata alla p.: primo secundum quod metricum est ipsum carminemus, ordine pertractantes illo quem in fine primi libri polluximus (II I 1). L'ordine della trattazione si fonda sul tradizionale principio del primato storico e ideale della poesia, per cui quest'ultima costituisce il modello della prosa.
Maggiore interesse riveste la riflessione dantesca sulla p. volgare, non solo perché rivela la consapevolezza che D. ebbe dell'importanza che l'esperimento della p. avrebbe avuto nel rinsaldarsi del volgare, ma perché dimostra una particolare concezione della funzione specifica della p. e della sua relazione con la poesia.
Già al tempo della Vita Nuova, nell'introdurre l'analogia fra poesia latina e volgare, D. aveva ripreso il tradizionale tema retorico della maggiore licenza concessa ai poeti nei confronti dei prosatori. E se per quanto concerne il latino aveva contrapposto i poete ai prosaici dittatori, ossia ai cultori delle ‛ artes dictaminis ', per quel che concerne il volgare aveva distinto fra i dicitori per rima e gli altri parlatori volgari, cui attribuiva la p., istituendo, nell'ambito del comporre in volgare, una differenza terminologica fra il ‛ dire ' della poesia lirica, e il ‛ parlare ' in genere, che si riferisce all'uso espositivo e narrativo della lingua, il quale coincide poi con l'uso prosastico (XXV 7). Questa premessa infatti avvia all'identificazione della p. con la ragione che sottende alla poesia adorna di figure e di colori retorici, talché l'operazione compiuta dall'autore della p. esplicativa equivale a un aprire (degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione, la quale poi sia possibile d'aprire per prosa, § 8), a un denudare la parola della poesia rivelandone il verace intendimento (§ 10).
In Cv I X la difesa del volgare s'innesta con l'esaltazione della p. del ‛ commento ', la quale avrebbe dimostrato la gran bontade del volgare di sì; dove non solo è implicita l'intenzione di far rilevare le superiori possibilità della lingua del sì rispetto alle altre dell'‛ ydioma trifarium ', ma quella di assegnare alla p. una sua dignità nei confronti della poesia, pur considerata una forma più alta di artificio: si vedrà la sua vertù, sì com'è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare (§ 12).
In questo luogo sembra perfino capovolgersi il rapporto posto nel De vulg. Eloq. fra poesia e p., perché quest'ultima non è considerata come una forma di arte derivata dalla prima, ma come la più genuina espressione della lingua, comprensiva di tutta la sua intrinseca bontà, la sua sostanza, capace di rispondere pienamente al compito di una lingua che è quello di manifestare i concetti con proprietà ed eleganza; mentre la poesia viene caratterizzata dall'aggiunta di adornezze, quali la rima, il ritmo e il numero regolato, considerati come accidenti, donde il significativo paragone fra la naturale bellezza della donna corrispondente alla p. e le vestimenta che suscitano l'ammirazione, corrispondenti a le cose rimate. All'ammirazione, che suscitano gli artifici propri della poesia, si contrappone dunque la dolcissima e amabilissima bellezza della p., ossia il suo pregio retorico che è quello di persuadere; infatti le sue qualità risiedono nell'agevolezza de le sue sillabe, nelle proprietadi de le sue co[stru]zioni e nelle soavi orazioni (che corrispondono ai tre gradi dell'elaborazione stilistica, il lessico, la sintassi, la disposizione dei periodi nel complesso del discorso).
Analogamente, distinguendo fra bellezza e bontade della canzone, dove la bontade corrisponde poi alla p. che la rivela, D. attribuiva a quest'ultima un maggior diletto (Cv II XI 4), mostrando di non discostarsi dalle posizioni tenute nella Vita Nuova, in cui appunto aveva qualificato come dilettevole a udire l'esposizione relativa alla nuova esperienza spirituale della prima canzone (la cagione de la nuova matera, XVII 2); che segna propriamente il maturarsi, nella coscienza di D., del concetto di autonomia della p., non più avvertita come sorella minore della poesia. Una consapevolezza che - vedremo - si riflette nella diversa impostazione della prosa del Convivio rispetto a quella della Vita Nuova, quantunque nel riferirsi all'operazione del commento l'autore non manchi mai di considerare la canzone e l'esposizione prosastica come legate in un nesso inscindibile, in cui per altro la prima costituisce la minestra e la seconda il pane (I I 14, II 2), oppure la prima il signore e la seconda il servo conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente (V 6). Del resto il compito attribuito alla p. di ‛ aprire la sentenza ', e quindi il suo essere in funzione della poesia, è asserito così nella Vita Nuova come nel Convivio.
Se nella p. latina D. segue rigorosamente gli schemi della trattatistica e dell'epistolografia, nella Vita Nuova e nel Convivio la sua opera di prosatore si rivolge a esperienze nuove e attinge risultati originali rispetto alla tradizione della p. volgare, oltre ad affinarsi organizzandosi in forme sempre più salde, coerenti e complesse. Nel valutare questo processo di affinamento va tenuta presente tuttavia la funzione diversa che assume nelle due opere la p., malgrado il comune impiego di sostegno ed esposizione dei testi poetici. Nella Vita Nuova la p. rappresenta soprattutto il tessuto del libello e collega i componimenti in versi esplicandone il contenuto, sia attraverso le divisioni che ne illustrano l'articolazione tematica, sia attraverso l'esposizione delle cagioni, che ne costituiscono l'occasione e ne rivelano il significato. Sicché l'alternarsi del discorso esplicativo, che si risolve talora, se pur raramente, nel ragionamento dimostrativo, e della narrazione crea le premesse di quella diseguaglianza che caratterizza in primo luogo la p. della Vita Nuova. Eppure l'aderenza della p. ai componimenti poetici, di cui essa spesso riprende modi e vocaboli, piegandosi anche al più scolastico ufficio della parafrasi, produce un tono pressoché uguale, uniforme, sostanzialmente semplice e privo di notevoli variazioni, quella monotonia che va considerata per un verso come il segno di un'esperienza non ancora matura né ricca, per l'altro verso come l'effetto più singolare del libello, che è l'incanto trasognato del suo racconto.
Le parti più strettamente didattiche, in cui si sviluppa la p. della Vita Nuova, ossia le ‛ divisioni ' che seguono, ma dal cap. XXXI in poi precedono, i componimenti in versi, non danno luogo ad alcuna esperienza particolarmente notevole. Il loro schematismo, mutuato dal metodo scolastico dell'esposizione ‛ letterale ', è evidente nel susseguirsi costante delle formule anche se opportunamente variate (questo sonetto si ha tre parti, questo sonetto si divide in due parti, questo sonetto ha quattro parti, ecc.): il parallelismo che spesso ne consegue è dovuto a una ragione di chiarezza espositiva, né comporta generalmente altra ricerca stilistica che la brevità della definizione. Eppure non va sottovalutata la cura con la quale la semplicità del parallelismo viene talora evidenziata dalla sottile somiglianza del ritmo (ne la prima chiamo e domando queste donne se vegnono da lei... ne la seconda le prego che mi dicano di lei, XXII 11), o dalla variazione lessicale e sintattica cui spesso si aggiunge anche quella del ritmo (la prima è proemio; ne la seconda ragiono di lei; ne la terza parlo a la canzone pietosamente, XXXI 3), dove l'avverbio pentasillabico sigilla, secondo un modulo caro al D. della Vita Nuova, un crescendo scandito dalle clausole (di cui sicuramente riconoscibili sono il cursus planus del secondo e il velox del terzo membro).
Meno frequente, com'è ovvio, in queste parti, la ricerca del ritmo sulla base della tradizione dettatoria rappresenta tuttavia uno dei fattori principali del particolare risultato stilistico di questa prosa. Il cursus, generalmente non riconosciuto dagli studiosi, che parlano di rare e discutibili applicazioni, è in realtà l'elemento chiave, accanto alla ripetizione e alla struttura para-ipotattica che assume spesso il periodo, del tono del libello. La difficoltà di valutare l'uso del cursus nella p. volgare, alla quale evidentemente non solo non può che essere estranea ogni considerazione prosodica, ma non è nemmeno applicabile con sicurezza l'accentuazione ritmica, quando si pensi all'ambiguità che in questo ambito possono generare i frequenti monosillabi e le parole tronche, limita la possibilità di risolutive conclusioni per la Vita Nuova. Ma è chiaro, per fare solo qualche esempio dei più evidenti, che se nel cap. XXV, in un contesto particolarmente elaborato dal punto di vista dell'elocutio, D. fa terminare due membri paralleli del periodo invertendo l'ordine della forma verbale (è conceduto a li poete... conceduto è a li rimatori, § 7), la ragione non può essere ricercata che nel desiderio di duplicare l'eloquente cursus velox, adattandolo ai due diversi vocaboli finali. Così, se nel corso della proposizione D. usa disporre il possessivo dinanzi al nome (li miei occhi, II 1, XXXIX 4), costante e ricercata è la formula li occhi miei dov'è richiesta la clausola ritmica. E a esigenze di ritmo è dovuto l'uso che D. fa nella Vita Nuova dei pronomi atoni, conservando certo uso arcaico, che andava scomparendo nella poesia, in armonia con tutto l'impianto della p. del libello.
In realtà non la trascuratezza del cursus, ma l'uso assai moderato nella scelta e nella varietà del ritmo imprime alla p. della Vita Nuova quel carattere smorzato e pure liricamente sostenuto che la distingue. Bandito quasi completamente il tardus, che costituiva nella p. dettatoria il più eccentrico dei cursus, specie se adoperato ripetutamente (da notare tuttavia che tale cursus compare nel primo e nell'ultimo membro del capitoletto iniziale, la mia memória... la lóro senténzia, e a conclusione del cap. II, maggióri parágrafi), bisogna rilevare la notevole prevalenza del cursus planus, che corrisponde a un uso costante nella p. metrica classica, e del velox che si alterna al primo ed è particolarmente riconoscibile in talune più eloquenti e gravi volute del periodo corrispondenti a temi particolarmente gravi (la donna de la salute... degnato di salutare, III 4; cammino de li sospiri, X 1; regina de le virtudi... dolcissimo salutare, § 2; nullo nemico mi rimanea... fiamma di caritade, XI 1; spiriti sensitivi, § 2; mirabile Beatrice, XXIV 3). A completare il ritmo piano lento e meditativo di questa p. si aggiunge il rilevante uso del trispondaicus (si veda ad es. nel cap. X pensava duramente, § 1; vertuosamente operava, § 3; e nell'XI salute salutava, § 3) e di altri cursus meno comuni (del tipo di alquante lagrime, VIII 2; spiriti del viso, XI 2; appresso vene, XXX 1); fra cui è notevole la presenza dei pentasillabi, e in particolare di voci come nobilitate, capacitate, infermitade, umilitade e di avverbi quali pietosamente, viziosamente, veracemente, orribilmente, compiutamente (ma la propensione a concludere membri e periodi con tali avverbi si rileva anche nella ricerca di vocaboli più ampi come intentivamente, III 4, indefensibilemente, XIII 1, sensibilemente, XXVI 4, intollerabilemente, XXIII 2, che presuppongono una lettura ritmica da ricondursi alla cadenza della p. latina). Dal punto di vista della formazione della p. dantesca, a parte l'ovvio riferimento all'esperienza dugentesca, questo esame del ritmo della Vita Nuova potrebbe portare a riconoscere una certa consonanza con la p. boeziana del De Consolatione, a sua volta fondata sul largo uso dei cursus planus, velox e trispondaicus e sull'uso assai ridotto del tardus.
La sostanziale dipendenza di questa tonalità ritmica dall'ambito lirico in cui vivono i pezzi poetici non toglie però che la p. vada acquistando già nella Vita Nuova una sua autonomia. Si può avvertire infatti l'esito diverso, più sciolto e comune, e d'altra parte più tecnico, che assumono nel contesto prosastico i vocaboli tipici della lirica d'amore, che hanno invece nel verso una forza evocativa e un più vago valore espressivo, o la struttura, paragonabile a quella dei componimenti poetici, che assume talora il capitolo, sia quando ricalca le strofe del sonetto illustrato gareggiando con esso (cfr. ad es. IX, XXII, XXIII) per la larghezza e scioltezza, sia quando, pur articolandosi secondo un processo strofico attraverso l'uso sapiente dei nessi paralleli, nasce indipendentemente dalla poesia e si sviluppa in narrazione autonoma (cfr. cap. XI). E sono proprio in relazione col carattere narrativo della p. gli aspetti stilistici più notevoli della Vita Nuova, e i suoi particolari schemi sintattici.
Vero è che questo fondamentale carattere narrativo, sostenuto da una serie quasi monotona di formule (Poi che, avvenne che, dico che in questo tempo, dico che quando, Ora dico che poi che, Appresso lo partire, appresso la morte, appresso la mia ritornata, Appresso ciò), e culminante in un drammatico capitolo come il XXXIX, in cui la p. si ravviva di un lessico particolarmente forte, e di un certo movimento (segnato dalla paratassi che sottolinea il susseguirsi incalzante dei sentimenti), è raramente distinto dal tono assorto della meditazione, e dà luogo soprattutto all'evocazione. Tale impostazione del racconto è alla base di quello che è il dato più evidente nella struttura di questa p., la tendenza a raccogliere tutto il periodo intorno a un nucleo centrale, che costituisce l'immagine essenzialmente presente al narratore, rispetto al quale nucleo (e si veda quale esempio più tipico, proprio all'inizio della Vita Nuova, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente) le determinazioni temporali e causali vengono anticipate e subordinate e le ulteriori annotazioni collegate attraverso vari nessi sintattici oscillanti fra la funzione ipotattica e quella paratattica. Tali i pronomi relativi, che spesso collegano una serie di proposizioni successive con funzione esplicativa, o gli avverbi, onde, allora, e così, che con funzione coordinante.
Il duplice orientamento dell'autore della Vita Nuova verso il collegamento logico dei membri e dei periodi e verso l'accostamento di essi come momenti singolarmente vissuti di una successione temporale si rivela nell'uso abbondante della consecutiva e del gerundio (il cui uso è del resto notevole anche nelle liriche), che in varia misura e con sfumature diverse si prestano a tale ritmo narrativo. Né meno notevole è l'uso, presente anche nelle Rime, di coordinare mediante una congiunzione due proposizioni legate dalla subordinazione (E quando mi domandavano... ed io sorridendo li guardava, IV 3; E dette queste parole, sì disparve, XII 9). S'intende che tale para-ipotassi, che in parte sostiene il particolare ritmo narrativo del libello, non soltanto proviene dal gusto arcaizzante con cui D. ha composto la p. del libello, ma è il segno di una varia sperimentazione che l'autore va compiendo, guidato dall'esigenza di trovare la forma adeguata alla sua meditazione. E se da una parte, al di là del più ingenuo collegamento del discorso mediante la congiunzione copulativa, si può riscontrare l'adesione allo schema della narrazione biblica nell'uso frequente della formula avvenne che e della congiunzione che introduce la principale col valore di " et ecce " (cfr. XXIII 3, XXIV 1-2, XXXVII 3, XXXVIII 2; e non va dimenticata l'effettiva ispirazione biblica e religiosa del libello), dall'altra la subordinazione e l'impiego vario della costruzione prolettica rispecchia una complessità dialettica ancora scarsamente sperimentata, ma ben visibile soprattutto dove predomina il tema dottrinale, ad es. nel cap. XXV. Dove tuttavia (e si confrontino soprattutto i §§ 4-7) il ragionamento si snoda attraverso una serie di coordinate.
Elemento quant'altri mai significativo della struttura della p. della Vita Nuova al livello dell'ornamento retorico è la ripetizione, specie nella forma più consueta della paronomasia (v.). Essa infatti, pur rivelando, al limite, certa immaturità dello scrittore, riesce generalmente a legare il discorso sottolineandone i temi essenziali o per una maggiore chiarezza esplicativa o, come avviene nel caso di vocaboli chiave, quali ‛ vedere ' o ‛ apparire ', per ottenere una maggiore vivezza espressiva.
La diversa impostazione della p. del Convivio rispetto a quella della Vita Nuova dipende naturalmente dalla diversa funzione che essa assolve, quantunque venga impiegata, come l'altra, a dar ragione dei componimenti lirici e come l'altra si atteggi, inizialmente, a prestare un umile servigio. L'impegno dimostrativo e didascalico sospinge infatti D. a trasferire nel volgare il linguaggio del trattato scolastico, che si articolava sostanzialmente proprio nella forma del commento dottrinale. Sicché, per quel che riguarda la p., quest'opera si allinea nella nuova stagione dell'attività dantesca, che vede svilupparsi anche il trattato in latino; ma tale esperienza non è priva di conseguenze perfino nella formazione del linguaggio poetico della Commedia, la cui varietà, complessità e robustezza non si spiegano che con il tirocinio rappresentato dalla p. del Convivio, attraverso il quale D. abbandona sostanzialmente i modi della lirica d'amore, che tanto avevano pesato anche, sulla p. del libello giovanile. La consapevolezza che di questo ebbe il poeta si rispecchia in quelle parole programmatiche di Cv I I 16, in cui, allineando la nuova opera nella prospettiva di uno sviluppo organico della propria attività di scrittore, egli distingueva la Vita Nuova dal Convivio giustificando la prima come fervida e passionata e la seconda come temperata e virile in virtù della diversa età in cui erano state rispettivamente composte. Determinando in tal modo la diversa impostazione delle due opere, ambedue fondate sul tema d'amore, ma l'una tutta immersa nel clima dell'immaginazione amorosa, l'altra rivolta ad approfondire in senso dottrinale il significato di quel tema, D. mostra di tener presente anche il tono diverso di esse, il loro diverso linguaggio prosastico, se è vero che nel De vulg. Eloq., per definire il carattere dei vocaboli, ricorrerà a indicazioni riguardanti appunto l'età e il sesso (puerilia, virilia).
In realtà nella p. del Convivio D. abbandona, o supera, certi modi tipici dell'opera giovanile, quali la paraipotassi, l'uso largo e indiscriminato del relativo quale legame nella successione del discorso, l'ingenuo impiego della ripetizione. E come tutto l'impianto e la stessa articolazione del trattato si muovono su un piano organicamente dimostrativo e i capitoli scandiscono con ben dosato sviluppo il processo del discorso, laddove nella Vita Nuova mancava uniformità nello sviluppo delle parti, così il periodo assume generalmente una struttura organica e complessa che ben si adatta alla sostanza scientifica dell'opera, superando la difformità fra lo scarno ed elementare commento letterale e lo sviluppo autonomo della prosa.
La tendenza, già apparsa nel libello giovanile, a raggruppare le proposizioni intorno a un nucleo centrale, diviene non solo una costante di questa p., ma un vero impegno dal quale scaturisce un nuovo e inconfondibile linguaggio. A promuoverlo hanno una parte notevole il modello del latino scolastico e lo schema del ragionamento sillogistico, per cui da una parte la terminologia latineggiante, i costrutti dovuti alla sintassi del periodo latino, come quelli che ricalcano la proposizione infinitiva e le costruzioni gerundive, e infine l'uso del relativo conferiscono dignità alla frase, dall'altra la prolessi (v.) delle proposizioni causali e l'inserimento d'incidentali, che arricchiscono di determinazioni il pensiero, rendono il periodo ampio, denso e articolato. E tuttavia la prevalenza del tono sostenuto del trattato scientifico non impedisce l'alternarsi della dimostrazione sillogistica con l'esclamazione, l'apostrofe e l'invettiva, in cui si tradisce il fondamento appassionato di questa missione didascalica, ma - si rivela anche la tendenza alla varietà di toni che caratterizzerà soprattutto l'arte della Commedia.
La varietà e la robustezza del periodo sono appunto il risultato più notevole dell'esperienza prosastica del Convivio. Il rapporto fra le proposizioni secondarie e la principale è tale infatti da creare un ritmo insieme vario e armonico: esso è dato soprattutto dal movimento che si crea con la costruzione ascendente, per la quale il periodo procede dalla secondaria alla principale attraverso una serie di subordinate disposte simmetricamente secondo la gerarchia di dipendenza. Ed è la simmetria della costruzione a presiedere ancora dove, viceversa, la proposizione principale, collocata all'inizio, in posizione di rilievo, è fatta seguire dalle dipendenti disposte parallelamente, sempre secondo la rispettiva gerarchia; oppure dove si verifica quell'ordine caratteristico dei periodi ‛ a festoni ', che rappresenta la più sottile ricerca di collegamento interno del periodo, e consiste nel disporre la proposizione dipendente, o la serie delle dipendenti, fra la congiunzione e la principale. S'intende che in una p. cosiffatta svolga una funzione fra le più importanti il parallelismo, che viene naturalmente impiegato per ragioni di chiarezza là dove si rende necessaria l'enumerazione ordinata delle considerazioni e dei giudizi, ma anche per ragioni di forza dimostrativa là dove il ragionamento, attraverso l'analisi e le partizioni, procede con sicurezza verso la conclusione.
Non è possibile attribuire alle opere in p. latina il sicuro carattere di originalità, che serbano le due opere in volgare, quantunque vi si ritrovi ancora il medesimo equilibrio stilistico e vi si rispecchi soprattutto la grande capacità di variare i modi della p. a seconda delle esigenze espressive e del pubblico. In queste opere l'impegno del prosatore va visto principalmente proprio nell'aderenza alla tradizione medievale delle artes (v. RETORICA), di cui egli rappresenta una delle più notevoli espressioni alle soglie del rinnovamento promosso dal classicismo umanistico. Tuttavia nell'equilibrio con cui egli accetta l'insegnamento delle artes, oltre che una costante del suo temperamento artistico, è possibile indicare un aspetto notevole e storicamente determinato della sua p., che lo colloca sulla scia di quei ‛ dittatori ' che operarono fra Bologna e Firenze (v. Boncompagno da Signa; Bene da Firenze; Fava, Guido; Latini, Brunetto) e che rifiutavano le più eccentriche norme delle scuole medievali.
Al linguaggio delle esposizioni scolastiche va comunque riportata fondamentalmente la struttura della p. latina di D., che linguisticamente dipende dalla tradizione del tardo latino, del latino cristiano e della lingua scientifica sviluppatasi nella scuola del tardo Medioevo. Ma l'esperienza dell'ars dictaminis ha contribuito fortemente a caratterizzare quelle opere, o quelle parti di esse, che secondo la dottrina retorica richiedevano una particolare elaborazione formale. Sicché il primo libro del De vulg. Eloq., che difende animosamente la tesi del volgare italico, i prologi della Monarchia, in cui l'autore illustra una sententia o una constatazione di ordine generale, prima di passare alla deduzione dialettica, il prologo della Quaestio e soprattutto le epistole abbondano di quei flosculi che le artes avevano meticolosamente catalogato, perché servissero soprattutto nell'oratoria e nell'epistolografia. Di qui un aspetto importante della p. latina, specie dei trattati, di D., consistente nell'allontanarsi dalla più consueta norma scolastica medievale, preferendo la parafrasi illustrativa delle auctoritates citate, piuttosto che la scarna citazione delle sententiae. Il secondo libro del De vulg. Eloq. appare invece meno retoricamente elaborato, non tanto, forse, per una mancata revisione (cfr. Di Capua, Appunti sul cursus, p. 568), quanto per il carattere stesso della trattazione, più didascalicamente condotta sulla base di continue citazioni ed esemplificazioni. Così la Monarchia e la Quaestio procedono per la maggior parte, vale a dire nel nucleo dimostrativo, secondo gli schemi del ragionamento sillogistico, e perciò si valgono dei consueti modi retorici atti a evidenziare i nessi e le corrispondenze logiche, ma alla perifrasi e alla metafora preferiscono il termine tecnico, né indulgono al cursus (v.), che dell'ornato rappresenta l'aspetto più caratteristico.
Soprattutto al cursus è affidata, infatti, la dignità letteraria della p. latina di D., quando essa assume l'ufficio oratorio del movere; a tal punto che la considerazione dell'osservanza del ritmo prosastico, da cui dipende la disposizione delle parole, e per cui spesso D. deroga all'ordine sintattico del latino (si veda ad es. la rinuncia alla normale collocazione finale del verbo), può talora aiutarci nella ricostruzione critica del testo. Ma alla cadenza ritmica si aggiungono gli altri tipici elementi del cosiddetto stile isidoriano, che è quello cui principalmente D. aderisce (come dimostra nel famoso passo di VE II VI 5), ossia il parallelismo (v.), la paronomasia (v.), la ripetizione in genere nelle sue varie forme e in quella particolarmente complicata dal bisticcio. La ‛ discrezione ', cui D. tiene fede nell'uso degli artifici stilistici, consiste nell'evitare l'applicazione monotona e indiscriminata delle regole dell'ornatus, riservando certe più insistenti ricerche al tono appassionato delle invettive e delle esortazioni morali. Perché nei trattati, come nelle epistole, questo tono si alterna a quello più pacato della narrazione, o del ragionamento, che si riflette immediatamente nella moderazione degli artifici e soprattutto nella riduzione della cadenza ritmica ai generi più comuni del cursus fino a giungere all'eliminazione di esso. Né va dimenticato il frequente atteggiarsi della p. dantesca secondo le cadenze bibliche o moduli poetici virgiliani, che contribuiscono al tono ieratico e alla dignità di taluni passaggi.
Ma la p. dantesca si atteggia talora in modo particolare anche nel pieno della trattazione dialettica, dove pure la struttura del discorso è condizionata dalla consuetudine di certi nessi e di certi termini tecnici. Si pensi all'eloquente incalzare del ragionamento nei capitoli del De vulg. Eloq., in cui si pongono saldamente le basi della ricerca (I III-VI); si pensi ancora agli ultimi due capitoli del libro II della Monarchia, in cui il rigoroso sillogizzare mira a dedurre il principio su cui si fonda la tesi dell'autore. Al prologo del cap. XI, in cui la gravità dell'auctoritas si sviluppa in una serie di vibranti interrogative, segue la delicata dimostrazione della legittimità dell'Impero romano. In questa dimostrazione la lunga e sottile concatenazione delle proposizioni non rallenta l'efficacia oratoria, in virtù di un non consueto procedimento dimostrativo per cui le conclusioni vengono anticipate ed evidenziate, e fatte seguire dalla catena dei nessi intermedi.
Bibl. - G. Listo, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A. e del sec. XIII, Bologna 1902; G. Bertoni, La prosa della Vita Nuova di D., Roma 1914; Parodi, Lingua 399-442 (Intorno al testo delle epistole di D. e al Cursus); A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 1943²; E.R. Curtius, Dante und das lateinisches Mittelalter, in " Romanische Forschungen " LVII (1943) 163; ID., Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Berna 1948 (trad. franc. Parigi 1956, 182 ss.); A. Frenzel, Latinità di D., in " Convivium " n.s., I (1954) 16-30; B. Terracini, Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 237-293; F. Tateo, Un sillogismo dantesco, in " Filologia Romanza " V (1958) 434-437; F. Di Capua, Appunti sul ‛ cursus ' o ritmo prosaico nelle opere latine di D.A., in Scritti minori, Roma 1959, I 564-583; ID., Lo stile isidoriano nella retorica medievale e in D., ibid. II 226-251; C. Segre, in Lingua stile e società, Milano 1963, 227-270; A. Vallone, La prosa della ‛ Vita Nuova ', Firenze 1963; C. Grayson, D. e la prosa volgare, in " Il Verri " VIII (1963) 6-26; G. Brugnoli, Il latino di D., in D. e Roma, Firenze 1965, 51-71; B. Terracini, Analisi stilistica, Milano 1966, 173-249; A. Vallone, La prosa del ‛ Convivio ', Firenze 1967; G. Brugnoli, Il latino dei dettatori e quello di D., in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 113-176.