Prosatori Volgari del Quattrocento – Introduzione
Sul Quattrocento in genere, e sulla prosa volgare in particolare, è gravato il peso di un giudizio negativo che, partendo dalla sistemazione e definizione cinquecentesca dei nostri valori letterari, è durato quasi ininterrotto, attraverso il Seicento e il Settecento, sino al Romanticismo. Ma nel Romanticismo la ricerca degli elementi popolari e comunque spontanei, immediati e meno letterari, e il patriottico culto di un'epoca italiana ancora indipendente, spinsero alcuni studiosi a frugare soprattutto fra le antiche carte familiari, lettere, memorie, cronache, autobiografie; e il piagnone Cesare Guasti e Giosue Carducci si incontrarono nel vagheggiamento di una «Fiorenza antiqua», di quei costumi più ancora che di quella prosa, delle figure che uscivano dalle lettere della Macinghi Strozzi o dalla cronaca di Giovanni Morelli. Il De Sanctis aveva scritto che «il Quattrocento è un secolo di gestazione e di elaborazione; hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi, manca la sintesi».
Ma il Romanticismo, e il De Sanctis specialmente, univano a questo interesse e a questo giudizio un più o meno espresso rammarico per una sorta di splendida sopraffazione compiuta dal mondo e dall'ideale antico sul mondo moderno, dalla lingua latina su quella italiana, da un culto assoluto dei modelli perfetti sulla varia e viva ricchezza della letteratura volgare. Tre critici hanno negli ultimi decenni contribuito ad una più aderente conoscenza della prosa volgare, chiarendo soprattutto quei punti che erano di ostacolo, e cioè il rapporto tra il volgare e il latino, tra il latino umanistico e la realtà del mondo contemporaneo, e tra i motivi popolari e quelli illustri e colti. Il Croce nel suo libro Poesia popolare e poesia d'arte ha mostrato il rapporto e gli scambi tra il tono popolare e il tono dotto, e ha segnato in modo esemplare, e non solo per la poesia strettamente intesa, il criterio per distinguere il valore dell'ispirazione popolare da quello dell'ispirazione colta, senza parteggiare per l'una o per l'altra. Il Garin ha indagato, in forma ampia e comprensiva, il valore civile e moderno dell'umanesimo latino quattrocentesco, la sua presenza nella vita e nella cultura più viva, l'importanza che in esso assumono la conversazione civile, la vita civile, quel senso di colloquio e di dialogo che lo fa partecipe elemento di tutta la civiltà e non chiusa e brillante consorteria. Lo Spongano, studiando la prosa letteraria del Quattrocento, ha mostrato e dimostrato, non solo, come si sapeva, che «il latino insegna al volgare la misura, la forza e l'eloquenza», ma anche che «il volgare imprime negli scritti latini degli umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei suoi trapassi intuitivi, della sua eloquenza interiore». Tra motivi popolari e motivi colti, tra la lingua latina e il volgare, tra la cultura degli umanisti e la cultura dei circoli più larghi, borghesi e popolani, correva non solo un rapporto, ma un continuo reciproco scambio, e si stabiliva un'assidua frequenza. D'altra parte, l'esperienza moderna ci fa meno diffidenti o restii al frammento e, di un'epoca che non ci dà un'opera in prosa del valore compiuto e dell'organica misura di un Decameron o dei Promessi sposi, ci consente di rintracciare il senso anche in qualche momento isolato, in qualche breve intuizione. Non dunque il programma di questa collezione e il compito di questo volume, ma il carattere stesso della prosa volgare del Quattrocento spiega la larghezza, la varietà e la diversità delle sei parti di questa raccolta. I limiti di tempo chiudono autori nati nel Trecento, come Giovanni Sercambi o il beato Dominici e il Cennini, e autori che muoiono nel Cinquecento, come Pandolfo Collenuccio e Iacopo Sannazzaro. La varietà quindi delle diverse epoche dei singoli autori, di chi ha vissuto la trasformazione trecentesca della signoria dei Guinigi a Lucca, come il Sercambi, e di chi ha sofferto del crollo della dinastia aragonese a Napoli, nell'ultimo Quattrocento, come il Sannazzaro, si accompagna a quella diversità di interessi e di cultura, di pensieri e di forme, che distingue, anche entro lo stesso momento cronologico, il piovano Arlotto da Lorenzo il Magnifico. La vitalità e la varietà del Quattrocento vengono quindi a rispecchiarsi in una raccolta di prose che non può trovare il suo limite in una scelta di pagine solo letterariamente felici, ma deve, anche per far comprendere e sentire i valori estetici, abbracciare scritti mossi da interessi morali o storici, da motivi politici e sentimentali, da riflessioni critiche e culturali, e ricostruire così, non solo la civiltà delle lettere, ma anche la cultura in generale del Quattrocento italiano e, in essa, i motivi della storia dell'Italia quattrocentesca. In quest'epoca, in questi termini e negli autori che qui vediamo, si è svolta e maturata la prosa italiana, dalle pagine potenti ma tante volte sintatticamente incerte o inquiete di un Cavalcanti alla compostezza sempre sicura di Pandolfo Collenuccio: dalle pagine volutamente popolari di san Bernardino da Siena alla costruita sapienza di Lorenzo il Magnifico e alle cadenze armoniose di Iacopo Sannazzaro, ispirate al fascino e al motivo stesso della bellezza letteraria. La prosa del Quattrocento ha avuto, come tutta la civiltà di quell'epoca, il suo centro a Firenze, anche se non è stata tutta fiorentina; la crisi politica della città e la scomparsa di quel fiorentino imperio, che Lorenzo associava in parte alle sorti della lingua e della letteratura italiana, non hanno impedito quella posizione centrale della cultura fiorentina, che soltanto nel Cinquecento, nonostante le resistenze e le lotte, si andrà affievolendo. Se il Quattrocento è il secolo senza poesia, come disse con amaro presagio il Sacchetti, e come, entro certi limiti di tempo e di interpretazione, può essere vero, è anche il secolo della grande arte figurativa, della perfezione formale e della ricchezza profonda dei pittori, degli scultori e degli architetti: s'inizia allora la prima conoscenza critica e storica della grande arte toscana, e accanto al Cennini e al Ghiberti, che riflettono la viva freschezza del loro mondo artigiano, e già tendono verso una conoscenza dei valori assoluti, Leon Battista Alberti porta, nella sua prosa italiana, la ricerca, se non sempre il senso, di una struttura e di un'architettura nuova. Nessuno, neanche il bolognese Sabadino degli Arienti, il salernitano Masuccio e il napoletano Sannazzaro, può dimenticare l'importanza della cultura fiorentina e quanto vi si era elaborato: ma il dialetto, come forma popolare e parlata, come tono sintattico e non solo come colore lessicale, è naturalmente più presente, più scoperto e meno peritoso a Firenze che non altrove: in forma quasi sempre infelice nel bolognese Sabadino e originale e felice nel Sannazzaro e in Masuccio, il dialetto non toscano tende invece ad alzarsi e a inquadrarsi nella nobiltà della forma aulica e latineggiante. La prosa di Masuccio e la prosa del Sannazzaro, in questo cosciente sforzo, hanno perciò un sigillo d'arte e una continuità linguistica rare nel Quattrocento e già volte a forme e ad aspetti di una tradizione che sarà quella della nostra letteratura, così legata a forme di costruzione colta. Perciò tutti questi prosatori volgari, studiati anche dal punto di vista della storia della lingua, offrono, da una parte, gli elementi di una fiorentinità popolare e dialettale, sebbene del dialetto di una città colta e, a suo modo, capitale di un paese, e, dall'altra, delle forme auliche, colte, letterarie nella sintassi e nel lessico. Si va formando una nuova lingua che, scritta da un napoletano o da un salernitano, ha tuttavia e vuole avere caratteri oramai nazionali, e li cerca e li trova in modelli classici, o meglio, nella ispirazione, nell'impulso che questi modelli le imprimono, in un rapporto con essi, a suo modo libero e creativo.
Scrittori lucchesi, senesi, ferraresi, marchigiani, napoletani, veneti, bolognesi, nonostante le differenze così vive e così nette, aspirano però a una lingua comune, e, in quasi tutti, qualunque siano i risultati, vi è come una ricerca e insieme un'indipendenza, un'originalità, che è spesso piuttosto di «lingua», che non di «linguaggio» , autobiografica e in un certo senso psicologica, piuttosto che di stile. Ma la lingua italiana, la lingua della prosa non meno che della poesia, dopo la perfezione del Trecento e prima di giungere alla lucidità e alla concinnitas del Cinquecento, doveva vivere l'esperienza dell'inquietudine quattrocentesca. Se al centro rimane sempre la civiltà fiorentina, in essa, a sua volta, è la riflessione e la coscienza, ora immediata e non organica, ora più meditata e continua, della vita politica e civile, e della crisi di essa. L'immagine di una felice e conclusa Firenze medicea, di un ordinato mecenatismo suscitatore dell'arte, di una soddisfatta vita politica, viene, se non cancellata, certo ben altrimenti illuminata e delimitata in queste pagine di storici, di biografi e di memorialisti. Dal tumulto dei Ciompi al rogo del Savonarola, Firenze visse una continua crisi; né l'oligarchia degli Albizzi, né l'accorta e magnifica tirannide di Cosimo o di Lorenzo dei Medici furono una soluzione storicamente organica dei problemi del Comune, della vita politica e della società. Da Giovanni Cavalcanti, che, mediceo, diventa poi antimediceo, e lamenta gli intrighi e la crudeltà di Cosimo, a Vespasiano da Bisticci cliente della casa dominante, alla quale non risparmia elogi, ma pronto a ricordare che le repubbliche muoiono quando non vi fioriscono uomini eccellenti e singolari, e quando vanno in esilio cittadini come Palla Strozzi, non certo inferiore per gusto, potenza mecenatizia, sapienza e prudenza civile a Cosimo dei Medici; dalla prudenza di Giovanni Morelli, che consiglia ai suoi discendenti di non occuparsi dello Stato, di accettare sempre il parere del Palagio, e tutte le signorie, meno quella del popolo minuto, allo stesso Leon Battista Alberti, che vagheggia nel De iciarchia il buon tiranno, e nel terzo libro Della famiglia diffida, con borghese buon senso, di chi si occupa di politica, - nella storiografia e nei memorialisti fiorentini c'è, in forma diretta o indiretta, la coscienza di quella crisi continua.
Ma il Cavalcanti, il Morelli e Vespasiano da Bisticci, sia pure diversamente, inquadrano il loro racconto nella consapevolezza di una nuova cultura, e i riferimenti letterari, il ricordo delle cose antiche, il prestigio delle lettere sono presenti nelle loro pagine; lo sforzo di comprendere, la capacità e la volontà di scrutare quanto avviene negli uomini e tra gli uomini muovono la loro indagine: Giovanni Cavalcanti vuoi vedere come realmente è governata la repubblica fiorentina, che non nel Palagio o nelle discussioni dei Priori e dei Collegi viene amministrata, ma nei conciliaboli delle case patrizie o, in seguito, nelle camere del palazzo dei Medici. Talvolta la cultura entra attivamente nell'interesse politico e nella rappresentazione storica, elemento di comprensione e di indagine; talvolta invece essa già prende quell'aspetto di evasione e di sublime consolazione, che assumerà spesso nel corso della nostra storia letteraria. Da questa contrapposizione di cultura e di letteratura all'asprezza e all'amarezza della vita quotidiana, alle inquietudini e agli inganni della vita politica e civile, nasce l'eleganza compiaciuta di alcune pagine del cronista Giovanni Morelli. Quasi anticipando la lettera dall'Albergaccio di Niccolò Machiavelli, egli, parlando della dolcezza della scienza, non soltanto con umanistico orgoglio, scriveva: « ... tu n'arai tanto piacere, tanto diletto, tanta consolazione, quanto di cosa che tu abbia; tu non arai tanto a capitale ricchezza, figliuoli, o istato o alcuna grande e onorevole preminenza, quanto tu arai la scien.za, e riputarti uomo e non animale». Ma, mentre nel Machiavelli la scienza, come lo studio solitario, è un momento essenziale per un'opera che ne deve derivare, essa rimane nel Morelli chiusa in un limite di individuale consolazione e di conforto. "Tu arai in tua libertà tutti i valentri uomini; tu potrai istarti nel tuo istudio con Vergilio quel tempo che ti piacerà, e non ti dirà mai di no, e ti risponderà di ciò lo dimanderai, e ti consiglierà e 'nsegnerà sanza prezzo niuno di danari o d'altro, e ti trarrà maninconia e pensiero del capo, e daratti piacere e consolazione». Una maggiore coscienza storica della vita politica fiorentina l'avranno, nel Cinquecento, il Machiavelli e il Guicciardini, e sarà loro di aiuto la riflessione e non soltanto il racconto di questi quattrocentisti: convien ricordare che il Machiavelli ha preso quasi integralmente il quarto libro delle sue Istorie fiorentine da Giovanni Cavalcanti.
I memorialisti, i diaristi, gli scrittori di lettere, non ci portano soltanto quel senso vivo e immediato della lingua che, per diverse ragioni, fu caro alla Crusca e ai romantici, ma anche riflettono una società energica e attiva, e pur chiusa nella forza e nei limiti della sua costante preoccupazione economica: la grande borghesia fiorentina. Un'osservazione acuta ma limitata della realtà, una vita che Goro Dati, come la Macinghi Strozzi, accetta senza forza di fantasia, e che Buonaccorso Pitti vede soltanto nei suoi elementi esternamente brillanti, si riflette in queste pagine: non sempre è facile ricostruire il passaggio da questa vita, talvolta così grettamente prudente e limitata, alla grande arte e alla grande cultura contemporanea. Alessandra Macinghi Strozzi, con il suo culto della masserizia, con il suo riserbo politico, con il suo senso arido, o almeno duro, della famiglia, non ha altra forza se non l'osservazione di quel tanto di realtà che la interessa; Goro Dati nel suo Libro segreto chiosa con attenzione e cautela interiore, senza slanci ma con chiarezza, fatti della vita esterna e propositi di vita spirituale, ridotti per altro a un formalismo che, per esempio, risolve il problema del peccato in un giuoco di multe e di permute. Altre società e altre epoche hanno espresso una classe dirigente più brillante, o almeno più brillantemente atteggiata nello specchio delle memorie intime, ma in questa durezza e in questi limiti di alcuni aspetti del Quattrocento fiorentino c'erano pure elementi di forza, un chiaro senso della realtà, del lavoro, della umana fatica e della pazienza della vita quotidiana. Un legame con questa società, con il lavoro e gli interessi della borghesia fiorentina, si riscontra in quei particolari memorialisti che sono gli artigiani Cennini e Ghiberti: nel Ghiberti è più ancora viva la coscienza dell'arte come lavoro, insieme con l'orgoglio della universalità e dell'assolutezza di esso, sino a che l'autore della Vita di Filippo di ser Brunellesco, innalzando tanto l'architetto, lo dimostra tuttavia uomo tra gli uomini, tra le faccende, i contratti, gli interessi. La vita civile e la vita artistica, l'ordine della famiglia e della vita quotidiana, gli interessi e le preoccupazioni della società, che si trovano riflessi nella Macinghi Strozzi o nel Morelli, e l'attività artistica nelle sue norme e nella sua pratica artigiana, trovano una coscienza più profonda, una trasfigurazione e quindi un tono non più di immediatezza, ma di assolutezza e di universalità, nelle pagine di Leon Battista Alberti. Nel trattato Della pittura egli vuoi parlare da pittore, da artista, non dimenticare cioè la realtà precisa dell'operare artistico e, come dentro i limiti che gli suggeriva la sua prudente sapienza della vita, chiede all'artista completezza d'uomo, così domanda all'uomo, nel suo dialogo Della famiglia, misura ed equilibrio, preoccupato di costruire e di difendere la famiglia, come una solida realtà, viva e potente isola dentro la vita civile.
Ma di questo interesse per la città degli uomini, che l'Alberti come il Morelli restringe nella famiglia, è invece più larga prova, tra le opere in lingua volgare, il trattato di Matteo Palmieri, che sa volgere la folta vastità di ricordi classici a esaltare la vita operosa, la stessa ricchezza, sino a ricordarsi del Somnium Scipionis, per promettere una celeste ricompensa a quanti bene operarono per la società degli uomini. Antecedente all'elaborazione artistica e culturale, vi è dunque il fondo di una civiltà comune, nel Morelli, nel Palmieri, come in Leon Battista Alberti; e, nella pagina artisticamente leggiera ed elaborata dei libri Della famiglia, si riflettono i dubbi e le preoccupazioni della società fiorentina, che, in forma diretta e immediata, risonavano nelle pagine dei memorialisti. Polemica e interesse per la vita civile, desiderio di piegarla secondo particolari fini morali, e, a loro modo, politici, e dunque un rapporto con la vita civile e con questa nuova coscienza di essa, stabiliscono gli scrittori religiosi: Giovanni Dominici che, nei limiti di una meticolosa e assidua devozione e di un'aspra polemica contro la cultura umanistica, ammette che i giovani, per l'educazione dei quali detta i suoi consigli, partecipino alla vita della repubblica; san Bernardino da Siena, che negli esempi, negli apologhi, nelle favolette delle sue prediche, insiste sulla sua misura di cautela, di buonsenso, di accettazione delle cose e dell'ordine della vita; e infine Girolamo Savonarola, il quale non fu un uomo religioso sviato dalla politica, ma un politico che alimentò e abbellì con lo slancio del suo sentimento le preoccupazioni di un'arte di governo che ereditava, senza il coraggio di profondi mutamenti, i termini della situazione fiorentina. Il Savonarola non è stato un inventore di forme nuove della realtà politica: innanzi a lui, nel novembre del 1494, si riproponevano tutti i problemi della vita civile di Firenze, che erano stati posti dal tumulto dei Ciompi, dalla restaurazione oligarchica del 396 e dalla Signoria medicea dal 1440 in poi. Egli forse li sentì, ma certo non li risolse, e la sua repubblica, modellata alla veneziana e consacrante lo statu quo e il predominio della classe politica che aveva accettato i Medici, mancò di un vero e profondo motivo di rinnovamento. Ma appunto perciò il Savonarola va letto dopo gli storici e i memorialisti fiorentini; e, nonostante la differenza dell'intonazione morale, il Cavalcanti, il Morelli, Goro Dati, Leon Battista Alberti nei libri Della famiglia, sono testimoni di quella stessa crisi che il Savonarola riassume e conclude. Dopo il Savonarola, i problemi politici troveranno organica impostazione nel Machiavelli; tuttavia questi fiorentini, e il Savonarola fra loro, hanno preparato non solo la materia politica, ma anche una elaborazione di essa se pur ancora incompleta. Due scrittori non fiorentini completano questo panorama storiografico e, nelle loro opere, portano gli interessi politici del secolo e così indagano la loro stessa epoca: il veneziano Marin Sanudo, nell'acutezza e nell'ampiezza della sua cronaca, rispecchia la politica di uno Stato ancora solido e organico, come Venezia; ne è il cronista e l'interprete. Una mente più robusta, una cultura umanistica e una esperienza vasta e dolorosa, una chiara coscienza del valore e del senso dello Stato, sono nella storia di Pandolfo Collenuccio: il problema della formazione di uno Stato moderno, della lotta della monarchia contro i privilegi ecclesiastici e baronali, sono motivi vivi, fecondi, coerentemente sentiti ed espressi, del suo Compendio de le istorie del Regno di Napoli, che è già pienamente storia nel senso moderno della parola. La cultura umanistica, la cultura fiorentina, la conoscenza del latino, la frequenza con l'ambiente fiorentino, alimentano questa prosa, che è oramai una perfetta e sicura prosa di pensiero, bella nelle sue movenze polemiche e nell'analisi dei particolari come nella ricostruzione sintetica.
Documento di lingua, documento di costume, sono gli scrittori di novelle: la tradizione boccaccesca non è abbastanza forte per sostenere, sia pure in senso letterario, lo sforzo del loro racconto; ma la loro opera, i loro umori e i loro interessi non sono staccati da quelli degli altri prosatori. In questa prosa volgare, negli storici e nei memorialisti, abbiamo visto riflettersi momenti ed elementi della crisi del Quattrocento italiano e, insieme, dei problemi politici e della coscienza della vita artistica: così in Gentile Sermini c'è lo sdegno e il fastidio dell'aristocratico cittadino contro i contadini che s'innalzano e quella stessa diffidenza che si trova in Giovanni Morelli o in Leon Battista Alberti; mentre invece i Motti e facezie del Piovano Arlotto riflettono il buon senso e la considerazione, talvolta amara, della piccola borghesia, della gente che fatica e che sente il suo uguale diritto alla vita; allo stesso modo che nella novella del Grasso legnaiuolo vediamo la genialità di un artista come il Brunelleschi muoversi nella genialità di una beffa, e riflettersi nella precisione nitida della vita quotidiana e degli interni domestici le figure dei grandi artisti fiorentini. Ma la forza e la chiarezza, anche intellettuale, di una polemica visione della realtà, quello stesso atteggiamento di difesa dei diritti e della coerenza della società civile contro le inframmettenze ecclesiastiche, che si manifesta in Pandolfo Collenuccio, un senso attento del valore e della struttura dell'opera complessiva e del singolo racconto, permettono la fioritura, anche se non frequente e continua, di momenti di poesia nel Novellino di Masuccio Salernitano, di quella poesia che non seppe raggiungere invece Sabadino degli Arienti. Ma la corte e la cultura aragonese si muovevano in senso moderno, mentre dalla cultura di corte di Ferrara e di Bologna, Sabadino, che ne fu lo specchio, non trasse se non motivi ripetuti, tradizionali e raramente liberi e vivi. I tre autori che chiudono il volume, Lorenzo, il Sannazzaro e lo scrittore della Hypnerotomachia Poliphili, rappresentano, in modi diversi, la coscienza dei valori culturali e letterari di questa prosa: tanto Lorenzo dei Medici quanto il Sannazzaro, dal dominio critico e dalla affettuosa conoscenza delle forme letterarie giungono a costruire forme originali nella loro arte. Nel Magnifico come nel Sannazzaro, la prosa italiana d'arte, che era stata, anche in Leon Battista Alberti, mobile e mista di forme popolari e di forme latine, ha trovato una sua misura, che, se da una parte è affinamento del nostro volgare, dall'altra è in qualche punto composta immagine di poesia e ritratto di un'anima che cerca, in solitari vagheggiamenti, la sua espressione. Lorenzo uomo politico non porta nella sua letteratura né nella sua poesia interessi politici e storici, e il Sannazzaro, generoso partecipe delle vicende e delle sventure della casa d'Aragona, malinconico e gentile poeta, costruisce nella prosa della sua Arcadia un tempio di impeccabili eleganze letterarie per la sua consolazione e, da questa costruzione, sa trarre momenti di poesia. Francesco Colonna nella sua Hypnerotomachia raccoglie in un fervido miscuglio molti elementi già presenti nella storia spirituale e artistica, nella cultura e nella vita morale del secolo. La sopravvivenza dell'allegoria medievale nel racconto e nella esaltazione dell'amore e della conoscenza, l'interesse nuovo, moderno, per la bellezza delle arti figurative, il senso del mistero e della mistica avventura, con la stessa chiarezza delle xilografie mantegnesche che illustrano il libro e lo completano, si mescolano in una prosa che non è più né latina né volgare, che è classica e popolaresca, e che, nelle sue consonanze e dissonanze, ripete, in forma drammatica e conclusiva, la storia di quel rapporto tra il latino e il volgare, tra la cultura nuova e la cultura dei secoli precedenti, che corre per tutto il Quattrocento.
Altri secoli e altre letterature possono facilmente offrire una maggiore quantità di pagine poetiche o di opere più organiche e compiute: ma in questi prosatori volgari del Quattrocento, nella loro compenetrazione di elementi popolari e di elementi colti, c'è un tono di onestà e di chiarezza, la cultura e la letteratura non vi divengono quasi mai retorica, e il segno di questi scrittori, se non è sempre letterariamente felice e se non sempre raggiunge l'arte, è però sempre schietto. La coscienza umanistica della vita civile e quella dei valori letterari sono due elementi essenziali di questa prosa. Nel giro di queste pagine, vive la storia del nostro Quattrocento, così ricco non soltanto delle perfette creazioni dell'arte figurativa o della poesia del Poliziano o della cultura filosofica umanistica, ma anche delle sue inquietudini politiche: nel Quattrocento si ponevano le fondamenta della grande cultura rinascimentale, e, insieme, si approfondiva quella crisi della vita politica di Firenze e degli Stati italiani, che porterà alle egemonie straniere del Cinquecento. Dell'una e dell'altra cosa si trovano qui riflesse le ragioni e i modi: non s'intende bene né la storia né la storiografia, né il valore letterario della prosa del Cinquecento, se non guardando i vari motivi della prosa del Quattrocento.