prosodia
Tradizionalmente prosodia è un termine della metrica classica, dove designa lo studio del verso (gr. prosōidía «accento, modulazione della voce», comp. di prós «accanto» e ōidḗ «canto»). Inizialmente indicante le scelte relative all’ordine delle parole nel canto, il termine venne poi utilizzato dai latini per riferirsi agli aspetti inerenti all’accentazione e alla quantità delle sillabe. Oggi si usa per le regole della versificazione che concernono aspetti fonetici, come accento e rima.
In linguistica, la prosodia coinvolge più di un singolo fonema, riguarda essenzialmente il parlato, e corrisponde alla modulazione di alcuni parametri (che erano rilevanti anche rispetto all’uso tradizionale del termine). I principali tra questi sono, dal punto di vista acustico, la frequenza fondamentale della voce, la durata e l’intensità (§ 2; per tutti questi temi ➔ fonetica acustica, nozioni e termini di). La loro modulazione permette la realizzazione dei tratti prosodici, come ➔ accento, tono, giuntura, ➔ intonazione e ➔ ritmo (§ 3). Questi tratti sono anche detti soprasegmentali in quanto interessano più di un segmento fonico (➔ soprasegmentali, tratti), esercitando la loro influenza su domini prosodici, ossia unità maggiori del fonema, che rappresentano una vera e propria struttura (§ 4).
Variazioni prosodiche si riscontrano anche nelle lingue dei segni (➔ segni, lingua dei), ove riguardano la durata e la tensione dei gesti, l’espressione del viso e la postura del corpo o della testa. Nella ➔ lingua scritta, alcune variazioni prosodiche si possono indicare grazie a ➔ punteggiatura e tipo di carattere (per es., ➔ maiuscola, sottolineature) e, nei nuovi mezzi di comunicazione, agli emoticon (stilizzazioni di espressioni facciali umane; ➔ posta elettronica, lingua della).
Le variazioni prosodiche si realizzano grazie a tre correlati principali: la frequenza fondamentale della voce (o F0), percepita come altezza tonale e corrispondente al numero di aperture e chiusure della glottide (area compresa tra le pliche, o corde, vocali) durante il passaggio dell’aria fonatoria; la durata, dovuta al tempo impiegato a compiere il gesto articolatorio e percepita come variazione di lunghezza; e infine l’intensità, correlata alla pressione esercitata dall’aria fonatoria sulla glottide e percepita come variazione di volume.
La F0 corrisponde al numero di aperture e chiusure della glottide in un’unità di tempo e, dal punto di vista acustico, al numero di cicli compiuti dall’onda sonora al secondo (Hertz o Hz). È la componente di frequenza più bassa in un suono armonico complesso e il suo valore medio dipende ceteris paribus dalle caratteristiche anatomiche del parlante (sesso, lunghezza e spessore delle pliche vocali). Il rapporto tra la frequenza acustica e l’altezza tonale percepita non è lineare: maggiore è la frequenza, maggiore deve essere la differenza tra due valori perché si percepisca una differenza di tono. Infatti, benché la F0 sia spesso rappresentata utilizzando una scala acustica in Hz (fig. 1), altre scale, di tipo psicoacustico, rispecchiano maggiormente l’altezza tonale percepita (➔ curva melodica).
La F0 è molto importante per l’espressione di informazioni linguistiche (per es., la ➔ modalità oppure il tipo illocutivo; ➔ illocutivi, tipi) e paralinguistiche (per es., lo stato d’animo del parlante). In alcune lingue se varia F0 varia il significato delle parole (§ 3.2), in altre tale variazione distingue significati solo a livello post-lessicale (ossia rispetto alle frasi; § 3.4). Essa svolge un ruolo cruciale per la realizzazione dei tratti prosodici (§ 3), offrendo anche indicazioni circa la posizione di un elemento nella struttura prosodica (§ 4.2).
La durata è il tempo impiegato a compiere i gesti articolatori per la produzione di un’unità di parlato: si misura in millisecondi (ms), sia dal punto di vista articolatorio che dal punto di vista acustico, ambito nel quale ci si riferisce alla durata temporale dell’unità prodotta. Essa si visualizza mediante sonagrammi e forme d’onda (fig.1), così come nei tracciati cinematici. La variazione di durata è percepita come variazione di lunghezza, ma non ha sempre valore distintivo (➔ quantità fonologica). I valori medi di durata variano a seconda del tipo di segmento (per es., le vocali alte sono in media più brevi delle basse) e di fattori come la velocità di eloquio (§ 3.5), ma in alcune lingue hanno valore distintivo (➔ vocali; ➔ consonanti; ➔ fonetica; ➔ fonologia). La durata varia sensibilmente anche per la realizzazione dei tratti prosodici (§ 3) e della struttura prosodica (§ 4).
L’intensità dipende dall’interazione tra la pressione dell’aria subglottidale, il passaggio dell’aria attraverso la glottide stessa, l’ampiezza di vibrazione delle pliche vocali e la configurazione della cavità fonatoria. Dal punto di vista acustico è positivamente correlata all’ampiezza dell’onda sonora ed è rappresentata dal tracciato dell’energia, normalmente corrispondente all’RMS (in ingl., Root Mean Square, radice quadrata della media del quadrato dell’ampiezza; fig.1); dal punto di vista percettivo, corrisponde al volume, benché non esista una correlazione lineare tra volume percepito (misurato in decibel, dB) e intensità. L’intensità aumenta con l’aumento della frequenza (infatti il valore del dB si stabilisce rispetto al cambiamento del suono più debole percepibile a 1000 Hz) e ha carattere relativo. Può variare sensibilmente in relazione a fattori extralinguistici (per es., rumori ambientali), benché, in media, i suoni linguistici presentino diversi valori di intensità (per es., per le vocali è direttamente proporzionale al grado di apertura labiale). I valori medi di intensità sono anche modificati in relazione ai tratti prosodici (§ 3) e alla posizione delle unità all’interno della struttura prosodica (§ 4).
Studi di psicoacustica hanno permesso di individuare soglie minime assolute e differenziali rispetto a cui si possa considerare una variazione acustica percettivamente significativa, visto che tra parametri acustici (o articolatori) e percettivi spesso manca una relazione lineare. Inoltre i parametri descritti si influenzano fortemente tra loro: per es., variazioni di F0 realizzate in 20-30 ms in media non sono percepite e la diminuzione di intensità determina la percezione di un aumento di altezza tonale. Tuttavia, nel caso di considerazioni linguistiche, e non solo psicoacustiche, minime differenze possono essere percepite se svolgono un ruolo fonologico.
I tratti prosodici normalmente riconosciuti sono l’accento, il tono, la giuntura, l’intonazione, il ritmo, la quantità e la ➔ sillaba. Tuttavia la sillaba è qui considerata un dominio piuttosto che un tratto, in linea con la letteratura sulla struttura prosodica (§ 4). Inoltre, la quantità (intesa come durata relativa di foni con funzione distintiva nel sistema linguistico) non è collocata fra i tratti prosodici. Benché sia un tratto fonologico, con un correlato tipicamente prosodico come la durata (oltre a possibili variazioni timbriche), si estende su un dominio non superiore al fonema. Il tono invece è tra i tratti prosodici poiché riguarda spesso la sillaba (benché possa anche essere considerato relativo alla vocale).
Tutte queste distinzioni mostrano che la definizione di tratto prosodico è sfuggente: infatti anche la scelta dell’estensione del dominio di influenza della variazione prosodica (superiore al fonema) come criterio definitorio non è del tutto soddisfacente (Bertinetto 1981).
Infine il termine accento (ingl. accent) può fare riferimento anche alle caratteristiche di ➔ pronuncia, non solo a quelle prosodiche, che identificano complessivamente una certa lingua o una sua varietà (per es., accento straniero, accento piemontese).
L’accento realizza la funzione cosiddetta culminativa, nel senso che evidenzia una sillaba all’interno della parola (è la sillaba accentata o tonica) rispetto alle altre (dette atone: per es., /pi/ in capìto, participio passato di capire). In questi casi si tratta di accento lessicale (ingl. stress o word accent) e primario, poiché rappresenta la prominenza principale.
Nelle parole lunghe è possibile individuare anche accenti secondari (o ritmici), sillabe con prominenza inferiore a quella primaria, ma superiore a quella delle sillabe atone: /ˌaltoˈpjano/ altopiano.
L’accento corrisponde spesso a una F0 più alta e a una durata e intensità maggiore della vocale che rappresenta il nucleo della sillaba accentata (talvolta modificata anche nel timbro; ➔ monottongo). Tuttavia, il correlato fonetico principale dell’accento varia a seconda delle lingue: in italiano è la durata (Bertinetto 1981), mentre in inglese è l’altezza tonale. In quest’ultimo caso si parla di accento tonale o musicale (➔ accento melodico), per l’italiano di accento dinamico o intensivo.
La posizione dell’accento sulla parola può essere libera o fissa. La posizione è libera nelle lingue, come italiano o inglese, in cui può riguardare potenzialmente qualsiasi sillaba e ha funzione distintiva, potendo differenziare il significato e la categoria grammaticale delle parole: per es., papa rispetto a papà, àncora nome rispetto a ancóra avverbio. Nelle lingue in cui ha posizione fissa (come polacco e francese), l’accento non svolge funzione distintiva ma demarcativa, indicando la fine di un morfema o di un costituente di ordine superiore (per es., in francese). L’accento può anche essere, in alcuni casi e in alcune lingue, indicato nella grafia (➔ accento grafico).
L’accento può anche mettere in evidenza una parola nella frase grazie ai correlati descritti al § 2, ma con il ruolo evidente della F0. In questo caso si tratta di accento di frase (anche accento tonale o tono accentuale; ingl. accent, sentence accent, contrastive accent; talvolta anche contrastive stress e pitch accent; ma si veda Hyman 2009). In molte lingue tale accento riguarda le sillabe portatrici di accento primario (come l’inglese e l’italiano, dette stress accent languages; per es., in volevo delle banane, gli accenti tonali si possono riscontrare su -le- di volevo e -na- di banane). Talvolta, si distingue anche l’accento di sintagma (in ingl. phrase accent), fenomeno di giuntura (§ 3.3) che segnala un confine prosodico (di sintagma ‘intermedio’) e, di solito, non riguarda una sillaba con accento primario (per es., in italiano si può individuare un accento di sintagma alla fine di un costituente topicalizzato, come su -la in tua sorella, l’ho vista in spiaggia). In italiano, gli accenti di frase sono di vari tipi e cambiano a seconda della varietà considerata dal punto di vista sia fonologico che fonetico.
È il tratto prosodico che corrisponde all’uso distintivo della variazione di F0 o altezza tonale. È fondamentale per le lingue tonali (o lingue a toni, ingl. tone languages, come molte lingue del sud-est di Asia e Africa) in cui livelli tonali diversi modificano il senso o la categoria grammaticale di una parola. In queste lingue i toni sono lessicali e non necessariamente legati all’accento primario (tutte le sillabe possono corrispondere a un tono).
Un esempio di lingua tonale è il cinese mandarino, in cui la parola ma, per es., può assumere quattro significati a seconda delle caratteristiche tonali (tra questi «madre», con tono statico alto, e «cavallo», con tono discendente-ascendente). La variazione tonale è rilevante a livello lessicale anche per alcune lingue in Europa (come svedese, norvegese), ove però è relativa a una sillaba all’interno della parola (in svedese, per es., la sillaba accentata; si parla infatti di pitch accent language e non di tone language).
Si incontra spesso il termine tono anche negli studi relativi a lingue, come l’italiano, nelle quali la variazione di altezza tonale ha valore solo a livello postlessicale, cioè in relazione alla frase (§ 3.4). In questo caso, il termine può indicare uno degli elementi primitivi che compongono i ‘morfemi’ o ‘fonemi’ tonali oppure un elemento di una sequenza distintiva (per es., in italiano, un tono basso caratterizza l’accento tonale principale delle frasi dichiarative neutre, descritto come discendente; si pensi alla pronuncia di mela in Maria mangia una mela).
Con il termine giuntura (ingl. juncture) si indicano le caratteristiche fonetiche legate alla presenza di un confine (➔ fonetica sintattica; ➔ sandhi). Se il confine è morfologico, gli aspetti fonetici possono riguardare tra l’altro la diversa sillabazione legata alla presenza o assenza del confine: per es., la realizzazione di un’affricata nell’espressione inglese why choose «perché scegliere» e di una sequenza occlusiva + fricativa nell’espressione white shoes «scarpe bianche», per la presenza di un confine di parola (➔ affricate). Il tratto di giuntura corrisponde a variazioni prettamente prosodiche quando riguarda confini tra costituenti appartenenti ai livelli più alti della struttura prosodica (§ 4), come nel caso di confini tra sintagmi intonativi. Il tratto di giuntura può quindi corrispondere alla variazione di uno o più correlati (§ 2), a seconda del livello del costituente e dell’entità della cesura prosodica.
In italiano, fenomeni di giuntura si riconoscono all’interno di parola (per es., a[s]ociale, ri[s]alire, dove la sonorizzazione di /s/ nelle pronunce settentrionali è impedita dal confine tra prefisso e radice; oppure ami[k]o → ami[ʧ]i, dove il morfema flessivo (-o / -i) determina un cambiamento del segmento consonantico precedente) e tra sintagmi prosodici (per es., in la mamma, come sai, partirà domani, dove la frase parentetica è un sintagma intonativo indipendente i cui confini sono segnalati da fenomeni di allungamento e modificazioni melodiche; ➔ parentetiche, frasi).
L’➔intonazione corrisponde all’uso dell’altezza tonale per veicolare significati a livello post-lessicale, ossia differenziare il significato e il valore pragmatico delle frasi (➔ pragmatica). Il suo correlato principale è la variazione di F0 o altezza tonale, ma le modificazioni di F0 sono solitamente accompagnate a quelle di altri correlati.
L’intonazione può essere analizzata nei termini di contorni intonativi composti, per es., dalla successione di livelli tonali corrispondenti a ‘morfemi’ o ‘fonemi’ tonali (che individuano accenti o fenomeni di giuntura), oppure nei termini di unità tonali o gruppi tonali composti da una sequenza distintiva di toni, il più prominente e importante dei quali è il tono nucleare, che può essere accompagnato da altri elementi come la testa e la coda.
Le funzioni svolte dall’intonazione sono:
(a) segnalare la modalità della frase; l’intonazione può essere l’unico indice della differenza tra frasi dichiarative e interrogative polari (in italiano, vai al mare ~ vai al mare?), o può affiancarsi a informazioni morfo-sintattiche (come, in inglese, l’inversione di soggetto e verbo);
(b) rendere espliciti aspetti della struttura sintattica dell’enunciato, col segnalarne i costituenti prosodici (§ 4 e 3.3), così risolvendo casi di ambiguità strutturale: vedo la ragazza con il binocolo può significare sia «vedo la ragazza usando il binocolo» sia «vedo la ragazza che ha un binocolo»;
(c) indicare la presenza di ➔ focalizzazioni, la struttura informativa e pragmatica (➔ tematica, struttura; ➔ dato/nuovo, struttura), evidenziando alcuni elementi nella frase e, talvolta, influenzando il valore di verità dell’enunciato: per es., i bambini mangiano i gelati può essere pronunciata in modo da contrappporre i bambini a un altro possibile soggetto e suggerire che tutti coloro che mangiano gelati sono necessariamente bambini (in italiano, la modulazione dell’intonazione può anche accompagnarsi a modifiche sintattiche, come nel caso della realizzazione di frasi scisse: per es., è domani che vado dal dentista, con focalizzazione su domani; ➔ scisse, frasi);
(d) infine, svolgere funzioni paralinguistiche in quanto comunica l’atteggiamento del parlante, compreso lo stato emotivo: per es., in italiano, come in altre lingue, quando il parlato comunica tristezza, l’intonazione è meno modulata e, in media, caratterizzata da bassi valori di frequenza.
L’italiano è quindi una lingua in cui l’intonazione svolge le funzioni suddette, ma in modo diverso a seconda della ➔ varietà in questione.
Il ritmo corrisponde alla regolarità nella presenza di unità prominenti, ossia all’alternanza di sillabe accentate e non accentate, lunghe e brevi, toni alti e toni bassi oppure di una combinazione di questi aspetti e dei lori rispettivi correlati.
Secondo la proposta di Pike (1947), le lingue si distinguono in base alla tendenza a mantenere costante la durata delle sillabe (lingue a isocronia sillabica, in ingl. syllable timing) o degli intervalli tra gli accenti (lingue a isocronia accentuale, ingl. stress timing; ➔ sillaba). Tuttavia oggi si ritiene che una divisione dicotomica non sia possibile, ma vada piuttosto riconosciuto un continuum lungo il quale si collocano le lingue, o le loro varietà, a seconda della misura in cui presentano le caratteristiche previste per le lingue a isocronia accentuale, sillabica, o addirittura di mora. L’italiano, a lungo ritenuto a isocronia sillabica, è caratterizzato diversamente a seconda della varietà (per es., alcune varietà meridionali presentano caratteristiche ritmiche più vicine a quelle delle lingue isoaccentuali; Trumper, Romito & Maddalon 1991; Schmid 2004).
Come proposto originariamente da J.R. Firth, la prosodia riguarda un dominio più ampio del fonema, benché alcuni fenomeni ch’egli considerò prosodici (per es., la labializzazione; ➔ labiali) non siano unanimemente ritenuti tali. Secondo molti studiosi esistono veri e propri domini prosodici, gerarchicamente ordinati all’interno di una struttura e individuabili in base all’osservazione di regole fonologiche sensibili alla presenza di cesure prosodiche, all’organizzazione delle prominenze o degli eventi tonali nella catena fonica (cfr. Nespor & Vogel 1986; Selkirk 1984; Liberman & Prince 1977; Pierrehumbert 1980).
I domini prosodici proposti non coincidono con unità di altri livelli, benché i rispettivi confini talvolta si sovrappongano: per es., un confine sintattico può corrispondere a uno prosodico, ma non necessariamente. Non c’è accordo circa i domini proposti, né sulla loro corrispondenza in lingue diverse (Bickel, Hildebrandt & Schiering 2009; Nolan & Asu 2009; Loporcaro 1997), ma, procedendo dal basso verso l’alto nella gerarchia, quelli più discussi sono la sillaba, il piede, la parola fonologica o prosodica, il sintagma fonologico (talvolta equiparato al sintagma intermedio), il sintagma intonativo e l’enunciato.
In italiano è stato proposto che esistano tutti questi livelli, benché non ci sia accordo circa il sintagma fonologico e, anche qualora esso sia riconosciuto, non lo si reputi coincidente con il sintagma intermedio.
Tuttavia, anche al di sopra dell’enunciato è stata osservata l’esistenza di variazioni prosodiche (come valori F0, variazioni di durata) coerenti con la presenza di domini la cui struttura è correlata a quella degli argomenti nel discorso. L’italiano, come altre lingue, è caratterizzato, per es., dalla presenza di valori di F0 più alti all’inizio di un argomento del discorso e più bassi alla fine.
Il primo dominio riconosciuto è la sillaba, che organizza la sequenza di fonemi e ha una struttura interna: è costituita obbligatoriamente dal nucleo e opzionalmente da un attacco e/o una coda.
Le sillabe possono essere di vari tipi (per es., aperte, come la prima sillaba di casa, oppure chiuse, anche dette implicate, come la prima sillaba di canto), e la loro esistenza è giustificata sia da considerazioni fonetiche sia da considerazioni fonologiche. Le prime riguardano la disposizione dei fonemi secondo le caratteristiche di sonorità di vocali e consonanti (le consonanti con valore di sonorità più alto nella scala devono essere più vicine al nucleo di quelle con sonorità minore, nonostante alcune eccezioni; per es., in italiano /s/ viola questo principio perché può essere la prima consonante di un attacco in cui la seconda non è una sonorante, come in scuro); le seconde, sono relative alla somiglianza delle restrizioni nella composizione della sillaba e dell’inizio e fine di parola (per es., in italiano [pfrarp] non è una sillaba possibile perché [pfr] non si può trovare all’inizio di una parola e [rp] non si può trovare alla fine).
Altro dominio prosodico è il piede, che corrisponde normalmente all’intervallo tra una sillaba forte (per es., portatrice di accento primario) e una o più sillabe deboli (per es., la parola oneroso è formata da due piedi, one e roso, entrambi con sillaba forte iniziale; infatti, in italiano la sillaba forte all’interno del piede è la prima, benché in altre lingue possa essere l’ultima); il piede può anche indicare un intervallo inferiore, composto da una o più sillabe in cui sia inclusa una sola vocale piena (➔ vocali).
Il dominio prosodico superiore è la parola prosodica (o fonologica), considerata il dominio dell’accento e coincidente con gli elementi raggruppati attorno a un accento lessicale (Selkirk 1984; per es., in palestra, disgiunto o giramelo). La parola fonologica, invece, non è definita come dominio per l’accento, ma come dominio di regole fonologiche (per es., la sonorizzazione della /s/ intervocalica in italiano). Infatti, in italiano non include né clitici né prefissi che terminano in vocale (Nespor & Vogel 1986; per es., in palestra e di[z]giunto sono parole fonologiche, mentre a[s]ociale e giramelo non lo sono; in questo caso il dominio dell’accento è il gruppo clitico, che comprende la parola e i clitici adiacenti e la cui esistenza è particolarmente controversa).
Tra la parola e l’enunciato è riconosciuto almeno il sintagma intonativo, il dominio in cui si estende il contorno intonativo (§ 3.4), in cui si osservano variazioni coerenti dei valori di F0 (per es., graduale diminuzione) che vengono poi riportati all’incirca al loro valore medio all’inizio dell’unità seguente (reset, anche se i valori iniziali stessi possono dipendere da informazioni strutturali) – per es., come sai in la mamma, come sai, partirà domani.
A livello inferiore, secondo alcuni, c’è il sintagma fonologico, un dominio prosodico proposto per via di una regola fonologica specifica dell’italiano: il ➔ raddoppiamento sintattico; per es., mangerò [pː]anini è un sintagma fonologico in se non c’è altro, mangerò panini. Il sintagma fonologico è talvolta considerato coincidente con quello intermedio: in alcune lingue, può essere delimitato da variazioni prosodiche ma non corrispondenti a una forte cesura (per es., presenza di allungamento finale – ossia incremento di durata – specificazione tonale e seguente reset, ma assenza di pausa). Secondo alcuni studiosi, in italiano un soggetto lungo e/o sintatticamente complesso è spesso prodotto in un sintagma intermedio, anche se non coincide con uno fonologico: per es., la mamma di Giovanni in la mamma di Giovanni andrà a Roma a trovare Paolo.
Al vertice della struttura si trova l’enunciato, che si può estendere anche oltre i confini della frase. È costituito da uno o più sintagmi intonativi ed è dominio della graduale diminuzione di F0 (declinazione) osservata soprattutto in alcuni stili di eloquio. In italiano, l’esistenza dell’enunciato è resa evidente dalla cancellazione di una vocale iniziale di frase nel caso sia preceduta da una vocale identica alla fine della frase precedente (per es., in Domani esco. Olivia viene a prendermi, in cui la parte centrale si pronuncia: ... esc[o]livia ...).
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