FARINACCI, Prospero
Nacque a Roma il 1º nov. 1544, nella casa paterna sita in Trastevere, alla via detta dei Farinacci, per gli immobili che la famiglia vi possedeva.
Il padre Marcello, dottore in utroque, funotaio capitolino dal 1517 al 1568, ricoprì alcune cariche cittadine e fupodestà di Magliano dal luglio 1555 al giugno 1556. Nel 1570 fu per un trimestre fra i Conservatores Camerae Almae Urbis. Morì dopo il 1572, ma non più tardi del 1575. Oltre al F., ebbe dalla moglie Bernardina i figli Giulia, Egidio, Marcantonio, Vincenza (sposa di Raimondo de Maglio nel 1569) e Francesca, successivamente religiosa in un monastero romano.
La giovinezza del F. dovette essere turbolenta, come del resto fu l'intera sua vita. Tuttavia la collocazione del padre nel tessuto di relazioni che collegava l'amministrazione della città con l'aristocrazia e con la prelatura, con le loro clientele e con le fazioni influenti in Curia, gli aprì agevolmente la strada verso le carriere forensi. Nel 1566 conseguì il dottorato, verosimilmente nell'università di Perugia, dove ebbe a maestri Tobia Nonio e Rinaldo Ridolfi. L'anno successivo entrò al servizio del duca Paolo Giordano Orsini come commissario generale nel feudo di Bracciano, ma già nel 1568 passò alle dipendenze della Camera apostolica, in qualità di commissario e luogotenente del governatore di Civitavecchia, monsignor Pierdonato Cesi. Nel 1569 fu consigliere del caporione di Trastevere e lo fu di nuovo dal luglio al settembre 1570, nonostante una carcerazione agli inizi dello stesso anno, della quale non conosciamo i motivi.
L'incidente non compromise le sue fortune né le sue ambizioni. Fornito d'indubbi talenti e di capacità tecniche considerevoli, abile e senza scrupoli, come testimoniano concordemente le fonti, il F. abbracciò poco dopo l'avvocatura, che esercitò con crescente successo e con incredibile spregiudicatezza. Coltivava frattanto l'aspirazione ad una importante magistratura: nel settembre 1577 compare in due liste di candidati alla carica di fiscale presso la rota criminale di Genova, ma non ottenne la nomina. Acquistò invece grande fama a Roma come criminalista, conseguendo ingenti guadagni e ponendosi al centro delle cronache giudiziarie della capitale. Il suo nome però non ricorre soltanto come difensore nei processi che fecero più scalpore tra Cinque e Seicento, bensì anche come imputato e carcerato per gravi delitti. La sua frequentazione del crimine infatti non si limitò ai compiti professionali. Già intorno al 1580, per la "mala vita" e i ripetuti reati commessi, gli fu temporaneamente proibito di "procurare" (Del Re, p. 192).
Nel 1582 il F. subì un'aggressione da parte di Luzio Toselli da Foligno e di Quinzio e Agostino Martelli, i quali intendevano vendicarsi di sue precedenti truffe e sopraffazioni. Indicò egli stesso gli assalitori, che lo avevano sfregiato nel viso e privato dell'occhio sinistro, nel corso di due interrogatori, cui fu sottoposto il 30 ottobre e il 5 nov. 1584.
Nell'occasione ebbe modo di dichiarare: "La professione mia è che sono dottor de legge che scrivo et parlo per chi me ricerca, io non so inimico a, nesuno ne porto odio a nesuno ma è ben vero che dubito della persona mia per respetto che doi anni et mezzo sonno in circa fui assassinato come V.S. vede che fui ferito nel volto con privatione dell'occhio manco" ad opera appunto di Luzio, "con partecipazione delli fratelli de Fabio da Spoleto et per causa di detto Fabio il quale a quel tempo era carcerato per ladro et qual Fabio hora me travaglia et me perseguita acciò io non scopra questo fatto" (Del Re, pp. 139-140).
L'arresto del F. era avvenuto il 29 ottobre, nel cuore della notte, mentre a ponte Sisto cercava di sbarazzarsi di un archibugio col quale si apprestava a una ritorsione contro i suoi nemici, che cercarono in tutti i modi di aggravarne la posizione, inviando al governatore memoriali d'accusa. Imprigionato a Corte Savella e poi a Tor di Nona, si salvò da una dura condanna evadendo tra l'11 e il 12 apr. 1585, grazie all'uso praticato in Roma di aprire le carceri o di tollerarne lo svuotamento nel periodo di sede vacante per la morte del pontefice.
Nonostante i precedenti delittuosi, il 1585 rappresentò per il F. l'inizio della sua ascesa, posta sotto il segno del cardinale Marco Sittico d'Altemps e degli Aldobrandini. Nell'agosto infatti assunse la difesa, coronata da insperato successo, di Roberto d'Altemps duca di Gallerano, figlio del cardinale e inquisito per il ratto di Giulia dei Ferriani, damigella di casa Frangipani. Il cardinale gliene rimase grato per sempre, prendendolo al suo servizio come uditore e nominandolo governatore dello Stato di Tossignano e Fontana in Romagna. In seguito si adoperò per fargli ottenere l'ufficio di luogotenente criminale dell'uditore generale della Camera apostolica, Camillo Borghese, ufficio al quale il F. fu nominato da Gregorio XIV con breve del 10 febbr. 1591.
Nelle funzioni di giudice il F. si segnalò per la severità con cui interpretava l'inquisizione e la pena come exemplum terribile, in corrispondenza del resto con le dottrine correnti negli Stati di antico regime. Inimicizie e querele contro di lui si moltiplicarono fino al 1595, quando incappò nella denuncia assai grave di aver compiuto atti di sodomia su un giovane sedicenne che confermò le accuse in un primo interrogatorio, ma le ritrattò in seguito sotto tortura.
Lo scandalo fu grandissimo, ma il pericolo di una condanna fu superato per la protezione del cardinale Antonio Maria Salviati, il quale gli ottenne la grazia da Clemente VIII Aldobrandini. Si vuole che il papa abbia allora esclamato: "Farina ista bona est; vel pollis est potius; sed non saccus cui ille includitur bonus est, sed foedus ac turpis" (Rossi, p. 239).
Tuttavia l'episodio non fu senza conseguenze. Emersero nuove prove d'accusa e denunce di subornazione dei testi, sicché il F. fu prima allontanato dalla luogotenenza criminale e trasferito presso la congregazione della Sacra Consulta, poi fu sospeso da tutti gli uffici e sottoposto agli arresti domiciliari, mentre si andava formando un nuovo processo a suo carico. A liberarlo da qualunque condanna, imputazione od accusa, intervenne infine il breve di Clemente VIII De Apostolicae Sedis benignitate del 7 ag. 1596.
Ricordando le sue benemerenze nel servizio di luogotenente criminale della Camera apostolica per circa un quinquennio, la severità con la quale aveva perseguito i rei senza riguardo per la.loro posizione o condizione, gli odi e le inimicizie cui era stato fatto segno e che gli avevano procurato numerose imputazioni e processi, il pontefice lo assolveva con la formula più ampia possibile. Gli venivano infatti condonate tutte le pene, cancellata "omnem inhabilitatis, et infamiae maculam", e restituiti "famam, gradus, honores et dignitates" (Del Re, pp. 198-201).
Il F. fu reintegrato pertanto nella professione forense, nelle funzioni presso la Sacra Consulta ed in quelle di governatore dello Stato di Gallese, che gli erano state affidate per testamento del 15 febbr. 1595 dal cardinale d'Altenips, nonché nel godimento di una cospicua pensione gravante su un canonicato di S. Giovanni in Laterano. Per usufruire di quest'ultimo beneficio, aveva assunto da tempo lo stato ecclesiastico, ricevendo la prima tonsura l'11 genn. 1594. Nel frattempo, aveva iniziato a pubblicare una vasta opera penalistica, la Praxis et theorica criminalis, alla quale cominciò a lavorare fin dal 1581 e che terminò di comporre nel 1614.
Diviso in diciotto titoli, ciascuno dei quali - salvo il V e il VI - registra la data di completamento, l'amplissimo repertorio ebbe una storia editoriale complessa, che il Del Re ha ricostruito accuratamente (pp. 183-186), e raggiunse in poco più di un secolo ben sette edizioni. I primi tre volumi, stampati a Venezia da Giovanni Varisco e Paganino Paganini, recano nel frontespizio una denominazione diversa e fluttuante (come titolo o sottotitolo compare comunque: Variarum quaestionum et communium opinionum criminalium liber primus-secundus). Apparvero rispettivamente nel 1589, nel 1593 e nel 1596. Altri quattro vennero stampati in seguito, sempre a Venezia, nel 1604, nel 1609, nel 1612 e nel 1613, dagli eredi di Lucantonio Giunti, col quale il F. aveva stipulato un contratto il 7 nov. 1597. L'ultimo titolo infine, il XVIII, fu impresso a Roma nel 1616, per i tipi di Andrea Fei, con l'intestazione Tractatus de haeresi, mutato sulla prima pagina in Variarum quaestionum et communium opinionum criminalium liber quintus, mentre ne fu fatta sospendere e sequestrare la stampa intrapresa a Venezia dagli eredi Varisco. Fra le edizioni complete della Praxis et theorica criminalis si segnala quella pubblicata a Lione da Cardon e Cavellat dal 1613 al 1621.Ispirata ai precedimenti scolastici del tardo bartolismo, l'opera è suddivisa in quaestiones epone all'inizio di ognuna di esse una regula, vale a dire il principio generale che riassume la disciplina giuridica della materia affrontata. Seguono tutte le possibili ampliationes e limitationes della regola stessa, con il consueto, strabocchevole corredo di autorità giurisprudenziali, e infine la solutio verso la quale propende l'autore, che inclina in genere ad allargare l'arbitrium iudicis, proprio del sistema del diritto comune, e ad accentuare la severità del rito inquisitorio, nonché la funzione deterrente della pena.
Col suo lavoro il F. intendeva offrire ai pratici del diritto, soprattutto a giudici ed avvocati, un vero e proprio "thesaurus totius criminalis materiae" (IV, 1604, quaest. CIV), che avrebbe dovuto addirittura sostituire nei tribunali tutta la letteratura esistente (V, 1609, quaest. CXXXV). Ilcarattere casistico e la destinazione del repertorio, per redigere il quale egli si avvalse della collaborazione dei procuratori di studio, secondo un metodo diffuso per questo genere di letteratura nel corso del sec. XVII, escludevano la presenza di discussioni e problemi puramente dottrinali. Non mancavano tuttavia elementi di rilievo scientifico, come in tema di reato continuato, di recidiva specifica, dolo e classificazione dei reati. L'opera comunque, che fu anche compendiata da Giambattista Volpini (Succusex opere criminali P. Farinacii extractus, Lugduni 1663), ebbe una circolazione vastissima in tutta Europa e s'impose fra quelle dei maggiori criminalisti di Cinque e Seicento. Fu inoltre assunta a modello per la legislazione moldava del 1646.
Le ambizioni del F. tuttavia miravano verso posizioni di potere più concrete e immediate, in particolare verso la carica di procuratore fiscale di Roma, che gli avrebbe permesso di esercitare un controllo assoluto sull'amministrazione della giustizia penale nella capitale. Voci insistenti su una sua possibile nomina circolarono nel marzo 1595 e trovarono credito anche in seguito, nonostante le diffuse opposizioni causate dalla sua notoria corruttibilità. Nel maggio 1597 si disse anche che avrebbe ricoperto presto la carica di giudice criminale del cardinal vicario e due anni dopo corse notizia che il nuovo governatore dell'Urbe, Ferrante Taverna, volesse affidargli gli affari criminali, in quanto "persona pratichissima in questo essercitio" (Del Re, p. 147).
Cadde comunque nel 1599 l'episodio più noto della sua biografia, per le tinte forti che ha suggerito alla letteratura, da Stendhal a Corrado Ricci ed a qualche giurista particolarmente attento alla dimensione morale e storica della penalità. Si trattò della difesa assunta nell'agosto 1599 di Giacomo, Beatrice e Bernardo Cenci, e con loro della matrigna Lucrezia Petroni, imputati dell'uccisione del padre Francesco.
Il delitto e il processo sono narrati in innumerevoli fonti (Ricci, II, p. 287, le calcola in 4.800 pagine), che elevarono la bionda Beatrice a eroina romantica dell'immaginario popolare. In realtà le risultanze degli atti ritraggono la storia torbida di un delitto maturato in un triste ambito familiare e consumato con crudele insipienza da personaggi squallidi, intomo al quali si manifesta un mondo di corruttele e di turpitudini. I rei vennero condannati alla pena capitale, che fu eseguita l'11 sett. 1599: Giacomo subì lo strazio che il rituale delle esecuzioni del tempo imponeva. Salvò la vita solo Bemardo, al quale fu comminato il carcere e la galera e che fu difeso di nuovo dal F. nel 1607 quando egli, ottenuta nel dicembre 1605 la revoca della sentenza grazie al clima più favorevole determinato dal mutamento del pontificato, tentò di rientrare in possesso dei beni paterni.
La difesa dei Cenci da parte del F. fu cauta ed elusiva. Papa Aldobrandini premeva per una rapida conclusione del caso e per una punizione esemplare degli indiziati e certo il F. non volle esporsi a contrastare i disegni di un protettore al quale doveva le proprie fortune. Essa fu pubblicata nei Responsa (cons. LXVI), che il F. iniziò a pubblicare nel 1606 (Responsorum criminalium liber primus, Venetiis, "apud Georgium Variscum"), che aumentò di un secondo volume, impresso a Roma nel 1615 (ma entrambi i libri ebbero varie ristampe), e che raccolsero il prodotto della sua intensa attività professionale.
Frattanto, un avviso del 1604 ci informa circa il suo incarico come uditore del tribunale del Torrone in Bologna, "Patriarcato di quelli che attendono al Criminale" (Del Re, p. 150). Sempre mirando però al fiscalato di Roma, non dovette allontanarsi per molto dalla capitale, dove nel gennaio 1605 Clemente VIII lo nominò consigliere della Sacra Consulta. In maggio riassunse la luogotenenza penale della Camera apostolica, d'ordine del nuovo pontefice Paolo V (Camillo Borghese), presso il quale l'aveva esercitata in passato, e che si affrettò a concedergli un'ulteriore pensione di 1.000 scudi.
La familiarità coi Borghese consentì finalmente al F. di coronare le sue ambizioni. Con l'appoggio di Giambattista, fratello del papa, ottenne nel febbraio 1606 la nomina di procuratore generale del Fisco e pochi mesi dopo, in settembre, fu addirittura sul punto di ricevere il governatorato di Roma.
A sbarrargli la strada fu il cardinale Antonio Maria Sauli, che gli provocò una scenata da parte di Paolo V, "un richiocco tale, che lo fece uscir di Camera piangendo" (Del Re, p. 153), e addirittura lo fece cader gravemente malato. I suoi maneggi si indirizzarono allora a screditare ed a contrastare il governatore in carica, monsignor Benedetto Ala. Le sue fortune tuttavia declinavano. Gli era fieramente avverso il cardinale Michelangelo Tonti, intimo dei Borghese e potentissimo in Curia, "per vedere che non procede rettamente, et che mira solo a farsi Monarca di tutti li affari criminali, dipendendo da lui li Giudici quali soprafà coll'astutia, et col sapere di maniera che egli è l'arbitro della vita et della morte con poca reputatione del Principe. A lui dunque bisogna ricorrere perché fa quanto vuole". Così riferisce un Avviso del 1609, mentre in un altro dello stesso anno si leggono le violente invettive che i due si scambiavano: il fiscale "ha anco detto, che delli Cardinali se ne fanno per favore, per fortuna, per denari, e delli indegni, e morto uno se ne fa un altro, ma che delli Farinacci non se ne trovarà un altro; e tra l'altre cose Nazaret (Tonti) ha detto che ha in mano tanto, che basta per farlo impiccare" (ibid., pp. 155-156).
Misure estreme non vennero prese; il cardinale comunque riuscì non solo a impedire l'ascesa del F. a governatore, ma nel 1610 giunse ad un passo dal farlo sostituire nell'ufficio di procuratore del Fisco. Un Avviso del maggio tuttavia commentava: "Lo battono insomma, ma si durarà fatiga di levarlo dal gran concetto che il Papa ha del suo valore nelle cose criminali, eccessi passati non sariano stimati et egli si guarda di farne al presente" (ibid., p. 157).
Prevaricazioni ed estorsioni, delle quali sono piene le cronache, avevano accompagnato costantemente l'attività di fiscale del Farinacci. Per esempio, nel 1607 fu citato in giudizio dal Comune di Soriano nel Cimino per appropriazione indebita. L'anno dopo fece imprigionare e condannare il marchese di Riano Paolo Emilio Cesi, creando il caso ad arte per trarne beneficio e in particolare per recuperare i 1.000 scudi che aveva perso ai dadi con lui. Infliggeva il carcere per fini personali: nel 1610 perseguì tal Benedetto Giachiardo "per favorire una detta Santa chiamata la bella artigliera già sua comare" (Del Re, p. 163). Facilmente corruttibile, nel 1613 dovette inviare una supplica al papa, per discolparsi dall'accusa elevata contro di lui a proposito di un episodio del 1609, venuto in luce nel 1611, quando non era più in carica.
L'imputazione era di aver ricevuto in più riprese da un Labia, allora arrestato e processato, "200 over 300 doble in doi piatti d'argento" coperte d'insalata, "una trabacca di velluto rosso, et tela d'oro di molto valore", ed ancora "80 over 90 scudi d'oro per comprar per servitio di detta trabacca una lettiera", oltre a dell'"ermesino rosso per li matarazzi" ed a "sei over otto para de lenzole nobilissime di valore de scudi 30 il paro fatte lavorare nel Monasterio di Monte Cettorio". Da Venezia poi la madre del Labia gli aveva inviato tre costose pellicce. Il F. sosteneva di aver comprato da altri, in varie occasioni, tutti gli oggetti indicati e replicava: "se vero è ch'il Labbia mi habbia mandate in più, et diverse volte le sopradette robbe per mano di tante persone, come lui dice, ne seguita ch'io sarei stato più balordo, che tristo: in fidarmi in delitto tanto sporco di tante persone. Et ne però credo esser tenuto per tale. Oltre che dove sono questi tali che mi han portato dette robbe: son tutti morti o absenti? Com'è possibile che non ve ne sia alcun vivo et presente?". Aggiungeva inoltre "per maggior prova della subornatione (del Labia) un argomento assai concludente, che al mondo non si trova persona tanto sciocca, che stando carcerato per un delitto, habbia a confessarne un altro spontaneamente senza instigatione d'altri etiam che fosse vero, non che essendo falso come questo". Si rivolgeva pertanto a Sua Santità perché lo assolvesse dalle imputazioni, "che come altre volte ho detto a quest'effetto son pronto a costituirmi in un forno, non che in una carcere" (Roma, Arch. Doria Pamphilj, scaff. 69, busta 51, n. 5).
La fama delle sue malversazioni e l'azione demolitrice dei numerosi nemici provocarono infine la destituzione del F. dall'ufficio di procuratore generale del Fisco al principio di aprile del 1611. L'occasione fu offerta dall'atteggiamento che aveva tenuto durante il processo del vescovo di Sarsina, Niccolò Brautti, nel corso del quale si pose dalla parte degli Aldobrandini, avversari del vescovo, rivelando un difetto di fedeltà verso casa Borghese, che già in passato era stato insinuato fra i dubbi del papa.
Il F. se ne difese con una lettera del 30 aprile a Marcantonio Tani, scalco di Paolo V, in cui lamentava le persecuzioni che subiva e che certo sarebbero andate aumentando, nonché l'abbandono da parte degli amici, specie di Torquato Marescotti, già suo allievo e familiare carissimo, protestando nella chiusa di voler essere "sino alla morte ... devotissimo servitore a Sua Beatitudine ... et con la lingua et con li scritti, che manderò in luce" (Del Re, p. 161).
Il colpo fu duro: oltre al fiscalato, il F. perse la carica di uditore generale dello Stato del duca d'Altemps, gli fu proibito d'ingerirsi nelle cause del tribunale di Ripetta, di cui aveva comprato il notariato a nome del figlio, e rischiò pure un processo per la restituzione di 700 o 800 scudi acquisiti sulle vigesime della Camera. Presso il S. Offizio fu aperto un procedimento per proposizioni eretiche riscontrate nelle sue opere. Tuttavia lo sfavore del papa non dovette essergli irrevocabile, se il 4 maggio 1611 fu ricevuto in udienza da Paolo V guadagnando in qualche modo la sua clemenza. Nel dicembre dello stesso anno infatti venne da lui consultato sulla spinosa questione dell'arcivescovo di Salisburgo, Wolf Dietrich von Raitenau, imprigionato per ordine di Massimiliano di Baviera.
Nell'aprile 1615 conseguì ancora un successo con la condanna del giurista Sebastiano Guazzini, contro il quale era ricorso al pontefice sostenendo di essere stato infamato dalle critiche rivolte ai suoi scritti. Ma la sua vita volgeva al termine. Ebbe un ictus alla fine del 1617, dal quale si risollevò momentaneamente. Morì a Roma il 31 dic. 1618.
Fu sepolto in S. Silvestro al Quirinale, in'un ricco monumento sul quale campeggia il suo busto. Un altro efficace ritratto, oggi conservato nel Museo di Castel Sant'Angelo, fu dipinto da G. Cesari, il Cavalier d'Arpino, nel 1607, come segno di gratitudine per averlo salvato da un rovinoso procedimento penale.
Nell'ultimo testamento (Del Re, pp. 208-220), redatto il 1º ott. 1618, il F. istituì erede universale il figlio naturale Ludovico, avuto nel 1600, da una Cleria, maritata col calzolaio Marco de Intria, sotto condizione che si addottorasse in diritto ed intraprendesse una professione legale. Dettò anche istruzioni per le opere manoscritte, che lasciava numerose.
La seconda parte dei Fragmenta criminalia, brevi trattazioni di vario argomento ordinate alfabeticamente (la prima parte era apparsa a Douai nel 1617 presso il Wyon), fu pubblicata nel 1619 dallo stampatore romano Andrea Brugiotti. Essi vennero poi variamente collocati nelle ristampe delle opere del Farinacci. Sempre per Andrea Brugiotti fu edito nel 1621 il trattato De immunitate ecclesiarum et confugientibus ad eas, mentre a cura del padre teatino Zaccaria Pasqualigo videro la luce a Lione, presso gli eredi di Boissat e Anisson, un Repertorium iudiciale (1639), un Repertorium de contractibus (1642) ed un Repertorium de ultimis voluntatibus (1644). Postume vennero pubblicate anche le celebri raccolte di Decisiones della rota romana, i cui.primi quattro volumi erano stati stampati dal lionese Landry nel 1608.
Il F. ebbe fama grandissima fra i contemporanei e i giuristi del tardo diritto comune e del primo ottocento, che tuttavia non mancarono di registrarne la propensione per il malaffare. Oggetto invece di aspre censure da parte degli illuministi, quale rappresentante tipico di un sistema penale da rifiutare, ha trovato nella storiografia moderna giudizi egualmente divisi tra il moderato apprezzamento e la severa condanna. Impegnato nel difficile compito di ridurre a scienza il diritto penale, secondo il Fiorelli, dalle tinte manzoniane con le quali Franco Cordero ha dipinto la penalistica di ancien régime egli appare, al contrario, con le sue nequizie morali e intellettuali, come un esempio di quelle "lingue vendute" che popolano il "circo penalistico" del Seicento.
Fonti e Bibl.: Le fonti archivistiche e bibliografiche per la biografia del F., le edizioni delle sue opere e le testimonianze sulla loro fortuna sono indicate, insieme con le citazioni della letteratura e con la pubblicazione di numerosi documenti, da N. Del Re, F. giureconsulto romano (1544-1618), in Arch. della Soc. rom. di storia patria, LXXXXVIII (1975), pp. 135-220, sul quale si fonda la presente sintesi. Per alcuni episodi o giudizi ricordati nel testo, vedi G. V. Rossi, Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, Lipsiae 1712, p. 239; Stendhal [H. Beyle], Les Cenci, in Id., Romans et nouvelles, a cura di H. Martineau, II, Paris 1952, pp. 695 ss.; C. Ricci, Beatrice Cenci, I-II, Milano 1923; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, I, Milano 1953, pp. 163 s.; F. Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma-Bari 1985, pp. 339-403. Sono da aggiungere i seguenti documenti: Arch. di Stato di Genova, Senato. Sala Senarega, filza 1391; Roma, Arch. Doria Pamphilj, scaff. 69, busta 51, n. 5; e inoltre gli studi: G. Alessi, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli 1979, pp. 108-112; E. Dezza, Accusa e inquisizione. Dal diritto comune ai codici moderni, Milano 1989, pp. 58-63.