PROTEINE
(XXVIII, p. 371; App. II, II, p. 621; IV, III, p. 78)
Gli studi rivolti alla caratterizzazione strutturale e funzionale delle p. hanno subito un nuovo impulso e una rinnovata attenzione da parte della comunità scientifica per due motivi principali: primo, il perfezionamento di tecniche già esistenti e l'introduzione di nuove metodiche e apparecchiature che ha contribuito, e sta contribuendo tuttora alla risoluzione di problemi legati alla purificazione e allo sviluppo di studi sulla struttura delle p.; secondo, l'individuazione, grazie anche alle ricerche di biologia cellulare, di una serie di problematiche collegate alla funzionalità delle p. e ai loro meccanismi di controllo in condizioni sia fisiologiche che patologiche.
Sviluppi tecnologici negli studi sulla chimica delle proteine. - L'introduzione delle tecniche di clonazione genica (v. biotecnologia, in questa Appendice) ha permesso, una volta isolato e clonato il gene responsabile della sintesi di una determinata p., di ottenere la superproduzione di numerose p. da microrganismi. Questo si è rivelato particolarmente utile quando la p. oggetto di studio è presente in piccole quantità ed è perciò difficile ottenere quantità accettabili a partire da un omogenato di tessuto o da un estratto cellulare grezzo. Lo stesso tipo di risultato (superproduzione di una data p. da microrganismi) si può ottenere selezionando ceppi mutanti superproduttori o utilizzando le nuove metodiche del DNA ricombinante (PCR, Polymerase Chain Reaction; v. anche progetto genoma, in questa Appendice).
La cromatografia liquida ad alta risoluzione (HPLC, High Performance Liquid Chromatography) si è rivelata uno strumento risolutivo per molti problemi di purificazione delle proteine. Questo, grazie all'elevatissima sensibilità e riproducibilità della metodica, che è stata utilizzata con successo anche per la ricostruzione delle cosiddette mappe peptidiche e per il riconoscimento dei singoli amminoacidi durante il processo di determinazione della struttura primaria (l'ordinata sequenza amminoacidica) delle proteine. Recentemente, sempre applicato a problemi di purificazione e sequenza delle p., è stato introdotto un particolare tipo di tecnica elettroforetica, denominata ''elettroforesi capillare'', che permette, principalmente per analisi di tipo qualitativo, la determinazione di piccolissime quantità di sostanza (tra le fento- e le picomoli di proteina).
La determinazione della struttura primaria delle p. è oggi prevalentemente effettuata utilizzando rapidi e sensibili sequenziatori automatici che hanno notevolmente semplificato e accelerato le varie fasi di questo tipo di studio. L'analisi dei singoli amminoacidi provenienti dai vari frammenti di una p. analizzata con un sequenziatore può essere eseguita, oltre che con le tecniche già citate di HPLC ed elettroforesi capillare, con la spettrometria di massa applicata al bombardamento atomico rapido (FAB/MS, Fast Atom Bombardment Mass Spectrometry). In questa tecnica, i singoli frammenti peptidici, provenienti dalla scissione idrolitica controllata della p. oggetto di studio, sono posti in una matrice liquida, deassorbiti e ionizzati con un raggio atomico neutro (raggio di xenon) o con un raggio di uno ione metallico (raggio di cesio), che genera un elevato numero di ioni molecolari protonati rilevabili con l'impiego di uno spettrometro di massa. La FAB/MS permette l'esatta determinazione della sequenza amminoacidica di piccolissime quantità di proteina. Dato l'elevato costo di quest'apparecchiatura, la FAB/MS resta per ora un privilegio soltanto di pochi laboratori di ricerca.
Sempre nell'ambito degli studi sulla struttura primaria delle p. bisogna ricordare come attualmente, grazie allo sviluppo delle metodiche e tecnologie per il sequenziamento del DNA, molte sequenze proteiche siano effettuate determinando la sequenza nucleotidica dei geni che codificano una determinata proteina. Inoltre, lo sviluppo dei metodi computerizzati e il numero sempre crescente di sequenze proteiche note hanno permesso la creazione di una serie di modelli matematici e statistici che, sulla base di dati chimico-fisici sulle possibili interazioni tra gli amminoacidi di una data p., vengono utilizzati nel tentativo di effettuare predizioni sulla struttura tridimensionale delle proteine. Questo tipo di studi, che potrebbero sembrare esclusivamente teorici e di scarsa utilità pratica, rivestono grande importanza per la possibilità di predire quali dovrebbero essere le sostituzioni amminoacidiche necessarie per aumentare la potenza biologica di una data proteina. Si può quindi intuire come queste ricerche applicate a p. dotate di attività farmacologica, erbicida o pesticida siano seguite con grande interesse, e spesso finanziate, dal mondo industriale.
Un altro problema che viene affrontato grazie all'enorme sviluppo dei computer è quello di cercare d'individuare le leggi che governano il cosiddetto protein folding (letteralmente dall'inglese "ripiegamento della proteina"). In pratica, si studiano i meccanismi che, da una data struttura primaria di una p., portano alla formazione dell'unica conformazione spaziale nella quale quella data p. risulti biologicamente attiva (in questa conformazione la p. viene detta p. nativa). Hanno contribuito all'aumento delle conoscenze in questo campo gli studi effettuati per la determinazione della struttura terziaria delle p. che si sono avvalsi, oltre che degli studi condotti mediante cristallografia a raggi X, dell'introduzione della risonanza magnetica nucleare (NMR, Nuclear Magnetic Resonance). Questa tecnica si è rivelata, e si sta tuttora rivelando, indispensabile, essendo l'unica in grado di fornire informazioni ad alta risoluzione sulla struttura tridimensionale delle p. in soluzione. Quindi, rispetto alla tecnica di cristallografia a raggi X, l'NMR fornisce dati di tipo dinamico sul ''comportamento tridimensionale'' delle p. in soluzione ed è ovviamente l'unica metodologia utilizzabile nei casi in cui non sia possibile ottenere una determinata p. allo stato cristallino.
Uno dei risultati di questi studi di tipo strutturale è stato la delucidazione delle possibili strutture proteiche conseguenti alla struttura primaria, secondo lo schema seguente:
Meccanismi di controllo della funzionalità delle proteine. - Gli studi sulla funzionalità delle p. e sui loro meccanismi di controllo sono attualmente indirizzati su quattro principali linee di ricerca: regolazione fisiologica e patologica della funzionalità delle p. attraverso processi proteolitici; significato biologico della glicosilazione delle p.; traslocazione delle p. nei vari compartimenti cellulari; meccanismi di controllo della polimerizzazione proteica all'interno delle cellule.
Le prime due linee di ricerca si occupano delle cosiddette modificazioni post-traduzionali delle p. che possono essere suddivise a grandi linee in due categorie distinte: quelle irreversibili, catalizzate da uno o più enzimi specifici e il cui prodotto finale è una p. irreversibilmente modificata in uno o più dei residui amminoacidi costituenti la sua struttura primaria; quelle reversibili nelle quali la modificazione enzimatica della p., sempre su specifici residui amminoacidi, può essere rimossa da enzimi differenti, ripristinando la molecola proteica originaria. In genere questo secondo gruppo di modificazioni post-traduzionali delle p. ha il ruolo di fungere da sistema di attivazione-disattivazione della funzione biologica di una data proteina. Le reazioni di ADP-ribosilazione e di fosforilazione-defosforilazione di molte p. sono un tipico esempio di questo sistema di controllo (vedi la fosforilazione-defosforilazione nella funzionalità delle p. contrattili).
Le modificazioni post-traduzionali irreversibili delle p. risultano ancor oggi un problema estremamente complesso con numerosi quesiti irrisolti. Molto in generale si può dire che frequentemente queste reazioni sono finalizzate a promuovere l'interazione delle p. modificate con alcune specifiche strutture cellulari, a conferire alla p. modificata una specifica attività enzimatica, a segregare la p. modificata all'interno di strutture cellulari specifiche nelle quali la p. stessa deve svolgere la sua funzione biologica.
Le trasformazioni proteolitiche irreversibili rappresentano la fase finale della biosintesi di un gran numero di proteine. Queste reazioni, che avvengono in molti modi differenti, hanno in comune il fatto che viene scisso uno specifico legame peptidico del precursore della p. matura, la quale viene generalmente rilasciata come prodotto di proteolisi nella sua forma biologicamente attiva. Le p. prodotte con la proteolisi limitata sono numerose e comprendono: ormoni proteici, enzimi digestivi, p. vasoattive, fattori proteici di crescita, p. della coagulazione sanguigna e del complemento, p. virali e fagiche, p. costituenti il collagene, p. coinvolte in processi di sviluppo.
La proteolisi è un processo che è stato riscontrato anche nelle patologie legate ai fenomeni d'ischemia e riperfusione. Infatti, l'enzima xantina deidrogenasi, responsabile della trasformazione di xantina e ipoxantina in acido urico, subisce, negli organi sottoposti a ischemia e riperfusione, una proteolisi parziale che la trasforma in xantina ossidasi. Questo secondo enzima, pur catalizzando la stessa reazione, utilizza l'ossigeno molecolare invece del NAD come accettore di elettroni, che porta, nella fase di riperfusione, alla produzione di ioni superossido. Questo radicale dell'ossigeno viene successivamente trasformato in altre specie radicaliche altamente reattive che danneggiano irreversibilmente alcune macromolecole biologiche (in particolare i fosfolipidi di membrana). Il risultato finale è un aggravamento del danno ischemico a causa di un processo proteolitico di una specifica proteina. Sempre in relazione a situazioni patologiche, sembra che fenomeni di proteolisi limitata siano coinvolti anche in una peculiare proprietà di alcune p., che è stata ipotizzata di recente, e che consisterebbe nella loro capacità di autoriprodursi; ciò come unica spiegazione, fino a oggi, della trasmissione di alcune malattie neurologiche, la cui causa non è stata ancora compresa, che provocano progressiva degenerazione cerebrale, anche fino alla morte. Infatti, l'agente virale infettante di una malattia che colpisce le pecore, detta ''scrapie'', non contiene né RNA né DNA (che sono viceversa presenti in tutti i virus) ma è costituito esclusivamente da una p., il cosiddetto prione (dall'inglese prion: proteinaceous infectious one). Come il prione possa stimolare la propria sintesi è ancora da chiarire (v. prione, in questa Appendice).
Nell'ultimo decennio, sono stati compiuti progressi significativi nella comprensione del ruolo biologico che viene svolto dalle catene saccaridiche delle glicoproteine. In particolare, è stata evidenziata l'importanza della sequenza saccaridica di p. glicosilate come segnale di riconoscimento e d'innesco di una data funzione biologica. Da un punto di vista chimico-fisico, la catena saccaridica conferisce a molte glicoproteine una stabilità conformazionale, una resistenza agli enzimi proteolitici, una capacità d'interagire con sostanze polari di varia natura (acqua compresa). Si pensa che gli scopi dei processi fisiologici di glicosilazione delle p. siano principalmente tre: produrre p. per la costituzione di recettori sulla superficie cellulare; produrre un segnale per il riconoscimento di particolari p.; produrre un valido sistema per l'interazione tra cellule.
Per il primo caso, è noto da tempo che le glicoproteine sono una caratteristica della superficie esterna della membrana plasmatica, tanto da poter essere individuate istochimicamente in una struttura specifica denominata glicocalice. Esse intervengono come ligandi di superficie cellulare per gli anticorpi dei gruppi sanguigni, di alcuni tumori, di tossine di diversa origine, di svariati virus animali, e di un gran numero di lectine animali e vegetali. Per il secondo caso, è stata dimostrata la presenza di alcune specifiche sequenze oligosaccaridiche legate ad alcuni enzimi cellulari situati nei lisosomi, e di altre legate a ormoni ipofisari (ormone luteinizzante e follicolo-stimolante) che vengono racchiusi all'interno di particolari granuli nelle cellule della ghiandola pituitaria. Sembrerebbe perciò che, in questo caso, la glicosilazione di specifiche p. serva per la loro localizzazione all'interno di determinate strutture cellulari. Per il terzo caso, che per ora è quello che presenta il maggior numero di incertezze, è stato dimostrato che numerosi fenomeni di adesione tra cellule (sia uguali, sia di una diversa linea cellulare, sia addirittura di una diversa specie) sono mediati dall'interazione tra le regioni saccaridiche di glicoproteine presenti sulla superficie cellulare. Inoltre, sembra che questo tipo di interazioni rivesta un particolare significato nel processo di embriogenesi in numerose specie animali. Va comunque ricordato che la glicosilazione non fisiologica delle p. assume un'importanza particolare nel caso della patologia diabetica e nei fenomeni d'invecchiamento cellulare. Infatti i soggetti diabetici, oltre a un aumento di 2÷3 volte del contenuto di emoglobina glicosilata, presentano alterazioni della microcircolazione sanguigna anche a causa dell'eccessivo stato di glicosilazione delle p. della superficie cellulare delle cellule endoteliali, che provoca un significativo restringimento del lume dei piccoli vasi, mentre sembra che uno dei segnali di senescenza cellulare che provoca la rimozione delle cellule ''vecchie'' sia la comparsa di particolari glicoproteine sulla loro superficie esterna.
Gli studi legati alla traslocazione delle p. hanno evidenziato come non sia sufficiente per la fisiologia cellulare, e in ultimo per l'intero organismo, sintetizzare semplicemente una p. con una data funzione, ma che la cellula deve assicurarsi che le p. sintetizzate si ritrovino nell'ambiente in cui possono svolgere la loro funzione biologica. Per es., se una determinata p. svolge la sua funzione nei liquidi extracellulari o all'interno di un organello subcellulare (lisosoma, perossisoma, vacuolo, vescicola secretoria), verrà traslocata durante la sua biosintesi attraverso la membrana del reticolo endoplasmatico (RE) grazie a un meccanismo di trasporto unidirezionale che ne impedisce l'eventuale ritorno al compartimento citoplasmatico.
Il trasferimento attraverso la membrana del RE è stato abbastanza ben caratterizzato. In generale, sulla p. da traslocare è presente una particolare sequenza peptidica (sequenza segnale) all'estremità N-terminale della p. che viene riconosciuta, durante la sintesi della p. stessa, da un sistema proteico posto sulla membrana interna del RE che interrompe temporaneamente la traduzione, arrestando così l'allungamento della proteina. Il complesso così formatosi viene trasferito su un altro sistema proteico, posto sempre sulla membrana interna del RE, dove la sintesi della p. viene completata e, contemporaneamente, viene effettuata la sua estrusione nel lume del RE. Se la p. deve essere viceversa traslocata nei mitocondri, o nei gliossisomi, o nei cloroplasti, la sequenza segnale legata alla p. sarà diversa. In questo caso, il trasporto della p. è un evento posteriore alla sua sintesi anche se il meccanismo, che richiede dispendio di energia, una struttura spaziale della p. cosiddetta ''srotolata'', e la scissione proteolitica della sequenza segnale a trasporto ultimato, è molto simile al meccanismo precedentemente descritto.
Il trasporto delle p. all'interno del nucleo è invece differente data la particolare struttura della membrana nucleare che è fisicamente connessa alla membrana del RE. Il trasferimento all'interno del nucleo avviene attraverso speciali canali, chiamati pori nucleari, che regolano il passaggio delle sostanze. I pori nucleari hanno la capacità sia di riconoscere particolari sequenze segnale (che sono legate alla p. da traslocare in un punto qualunque della sua sequenza amminoacidica), sia di aumentare il loro diametro (normalmente di circa 100 Å) permettendo così il passaggio anche di ingombranti complessi proteici. Un'altra differenza rispetto ai meccanismi di trasporto già descritti è costituita dal fatto che le sequenze segnale caratteristiche delle p. nucleari rimangono legate come parti integranti di queste molecole anche dopo che il loro trasporto è stato completato.
L'importanza delle reazioni di polimerizzazione-depolimerizzazione, come meccanismo di controllo della funzione di p. enzimatiche e non enzimatiche, è stata evidenziata da numerose ricerche condotte negli ultimi anni. Le osservazioni più approfondite al riguardo sono quelle ottenute sulla tubulina, il componente proteico dell'apparato filamentoso, costituito da numerosi microtubuli, che guida la separazione dei nuclei durante la duplicazione cellulare (mitosi), e sull'actina, una delle due p. coinvolte nel processo di contrazione delle cellule muscolari. In entrambi i casi, sembra che uno dei fattori che regola la polimerizzazione-depolimerizzazione della tubulina e dell'actina sia lo stato di fosforilazione della p. e quindi l'interazione della p. con i nucleotidi ad alta energia (GTP e GDP per la tubulina, ATP e ADP per l'actina).
Un altro esempio di regolazione dell'attività di una p. in funzione del suo stato di polimerizzazione è quello dell'enzima della glicolisi fosfofruttochinasi. Quest'enzima nella sua forma attiva è costituito da un tetramero composto da quattro subunità fra loro identiche. Alcuni fattori, tra cui il principale è il pH, causano la dissociazione reversibile di quest'enzima in dimeri che sono privi di attività catalitica. Una serie di effettori allosterici, il più importante dei quali è il fruttosio-1,6-difosfato, è viceversa responsabile della riassociazione dei dimeri e della stabilizzazione e attivazione della forma tetramerica della fosfofruttochinasi. Vale la pena sottolineare come il fenomeno di polimerizzazione-depolimerizzazione di quest'enzima sembra che abbia una grande rilevanza in condizioni patologiche. Infatti, è stato osservato nell'animale da esperimento che l'ischemia del miocardio provoca la dissociazione reversibile (la riassociazione è infatti osservabile nella riperfusione) della fosfofruttochinasi a causa dell'abbassamento del pH intracellulare indotto da un accumulo di cataboliti acidi nel citoplasma (acido lattico). Questo semplice ma sensibile meccanismo spiegherebbe perché durante l'ischemia (e l'anossia) anche la glicolisi (che è un ciclo metabolico che non richiede ossigeno) si arresti dopo alcuni minuti dall'induzione dell'ischemia stessa.
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