Abstract
Nel sistema italiano di diritto internazionale privato la disciplina dello statuto personale dei soggetti è tradizionalmente riferibile al collegamento della cittadinanza. In particolare, l’art. 43 l. n. 218/1995 rende operativo tale criterio ai presupposti e agli effetti delle misure di protezione degli incapaci maggiori di età. È pertanto ipotizzabile una estesa applicazione di tale disciplina alla luce del fatto che l’art. 44 l. n. 218/1995 definisce in maniera molto ampia la giurisdizione italiana per effetto del richiamo dallo stesso operato agli artt. 3 e 9, applicabili, rispettivamente, in tema di giurisdizione contenziosa e di giurisdizione volontaria, fissando al contempo un criterio speciale per i provvedimenti provvisori e urgenti. L’analisi di tale disciplina considera i profili problematici derivanti dal fatto che l’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000 sulla protezione degli adulti incapaci, che accoglie il collegamento della residenza, determinando soluzioni contrastanti con quella italiana.
La tutela dell’adulto incapace è oggetto di crescente attenzione nelle fonti internazionali di tutela dei diritti dell’uomo, dato che è ormai un principio generalmente accettato la necessità di considerare l’incapace quale soggetto debole, titolare di speciali posizioni giuridiche soggettive, che vanno coordinate con quelle di altri soggetti nel quadro delle relazioni interpersonali internazionali.
Si segnala, al riguardo, la rilevante evoluzione delle fonti convenzionali, nell’ambito delle quali la posizione del soggetto vulnerabile rileva dapprima solo in quanto funzionale ad una più ampia affermazione di alcuni diritti, come ad es. nell’art. 23 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo, in cui sono considerati i diritti dei minori portatori di handicap fisici o psichici, in quanto specificazione della categoria generale dei fanciulli, ed in seguito più estesamente affermata anche con riguardo alle fonti ove non è espressamente prevista, come ad es. nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’ambito della quale non è dato rinvenire una specifica norma posta a tutela dei disabili, ma è significativo che le norme generalmente poste a tutela dei diritti fondamentali degli individui siano state applicate dalla Corte di Strasburgo con riguardo alla tutela degli incapaci come titolari di diritti fondamentali (sul punto, ad es. C. eur. dir. uomo, 29.3.2001, D.N. c. Svizzera, 27154/95, in http://hudoc.echr.coe.int; 1.12.2009, G. N. e a. c. Italia, 43134/05, in http://hudoc,echr.coe.int; 30.4.2009, Glor c. Svizzera, 13444/04, in http://hudoc,echr.coe.int; 7.2.2012, Cara-Damiani c. Italia, 2447/05, in http://hudoc,echr.coe.int).
Il riferimento principale, nel quadro di tale evoluzione, è dato dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006, che rappresenta il più organico sistema di norme e di garanzie poste a tutela dei soggetti vulnerabili e generalmente riconducibili anche ad altre disposizioni, come ad es. quelle di cui alla Carta di Nizza (art. 26), come richiamata dal Trattato di Lisbona.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione della tutela internazionale dei diritti fondamentali dell’individuo, in vigore dal 3 maggio 2008 per 109 paesi tra cui l’Italia (l. di esecuzione 3.3.2009, n. 18, in GU, n. 61 del 14 marzo 2009), dal momento che nella stessa per la prima volta l’individuo diversamente abile è considerato come soggetto singolarmente e socialmente debole, destinatario di garanzie particolari, e non più quale titolare di diritti garantiti parimenti ad altre categorie di soggetti.
Rileva inoltre l’aspetto procedurale della Convenzione, ovvero i procedimenti di controllo e garanzia dalla stessa offerti alla tutela dei diritti sanciti, sostanzialmente riconducibili all’attività dell’organo preposto a tal fine, ovvero il Comitato sui diritti delle persone disabili, competente a svolgere attività consultiva, a controllare il rispetto della Convenzione da parte degli Stati, ma anche ad esaminare ricorsi proposti da individui e da associazioni di categoria. Uno dei motivi principali per cui la convenzione di New York del 2007 rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali è la centralità che essa riconosce all’individuo diversamente abile, titolare dei diritti dalla stessa previsti. Come si è detto, anche in altre convenzioni internazionali è prevista la tutela dei soggetti portatori di handicap, ma solo in maniera complementare all’affermazione del diritto specificamente considerato (istruzione dei fanciulli, lavoro). Nella Convenzione di New York si afferma invece la centralità del soggetto diversamente abile come titolare di diritti fondamentali.
Tale aspetto determina varie conseguenze, tra cui innanzitutto la previsione di obblighi positivi sanciti per gli Stati che aderiscono alla Convenzione dall’art. 4 della stessa in maniera alquanto stringente (con una previsione che, tra l’altro, prevede anche uno specifico riferimento, al par. 5, agli Stati federali, disponendo l’applicazione della stessa a ogni unità federata): non si pone, infatti, solo un generale obbligo di adattare il proprio ordinamento interno alle norme poste dalla Convenzione, ma si dispongono vari obblighi positivi di facere per rimuovere gli ostacoli (materiali e immateriali) al godimento dei singoli diritti soggettivi da parte delle persone portatrici di handicap (es. sviluppo di tecnologie di sostegno adatte alle persone con disabilità), che vengono considerate sia come singoli sia nell’ambito delle associazioni rivolte a proteggere i loro interessi (art. 4, par. 3, da consultare nella realizzazione di tali obblighi). Al fine di assicurare gli standard elevati di tutela dei soggetti diversamente abili, l’art. 4 prevede, tra l’altro, una clausola che evidenzia la natura c.d. “de minimis” della Convenzione, disponendo la prevalenza di disposizioni più favorevoli eventualmente contenute nella legislazione interna o internazionale (sul punto si veda Seatzu, F., La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: diritti garantiti, cooperazione, procedure di controllo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, 259 ss.). L’inesistenza di strumenti di tutela dei soggetti portatori di handicap più avanzati della Convenzione di New York rende tuttavia la norma di fatto inapplicabile.
Quanto al coordinamento con i sistemi giuridici nazionali, pare opportuno sottolineare la rilevanza della Convenzione di New York nel quadro della protezione del soggetto incapace anche con riguardo agli effetti che la stessa determina sul diritto interno, che impone di coordinare le norme di attuazione convenzionali con la disciplina materiale (in Italia recentemente modificata con l. 9.1.2004, n. 6, sulla quale si veda C. cost., 9.12.2005, n. 440).
Il riconoscimento di un principio generale di tutela del soggetto incapace non esclude difficoltà attuative, spesso connaturate alla natura della stessa fonte che lo accoglie.
La mancata ratifica della Convenzione di New York da parte di molti paesi rende difficile l’accettazione di una definizione uniforme di incapace entro i diversi sistemi giuridici, nonché l’operatività dei diritti dalla stessa previsti a tutela del soggetto incapace. D’altra parte, anche la definizione di incapace in essa contenuta presenta alcuni profili di incertezza in ordine all’ideale uniformità.
La centralità del portatore di handicap come soggetto titolare di diritti all’interno della Convenzione del 2007 ha determinato la necessità di definire tale figura. Tuttavia, a tale riguardo, si sottolinea, come già ampiamente rilevato in dottrina, la eccessiva vaghezza di tale definizione, forse determinata dalla partecipazione al negoziato della Convenzione di alcuni Stati che avevano quale unico obiettivo quello di indirizzare al più basso livello possibile la portata dei diritti e degli obblighi convenzionali, senza poi diventare parti del trattato ormai concluso (come ad es. l’Australia, la Cina, la Russia, il Sudan e gli Stati Uniti). L’art. 1, par. 2, dispone infatti che «per persone con disabilità di intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena effettiva partecipazione nella società sulla base di uguaglianza con gli altri». Significativa è la collocazione di tale definizione nella disposizione che delimita l’ambito di applicazione della Convenzione (art. 1) e non nella specifica disposizione sulle definizioni (art. 2). La collocazione della definizione entro l’art. 2 avrebbe obbligato gli Stati ad adeguarsi ad essa, mentre la previsione della stessa nell’art. 1 conferisce maggiori margini di discrezionalità. Quanto alla specifica definizione, appare limitativo il riferimento alle «menomazioni durature», risultando così escluse quelle di carattere temporaneo, che tuttavia si possono ritenere ricomprese in base all’interpretazione sistematica, che considera, tra l’altro il riferimento alle menomazioni temporanee, presente nelle Regole standard per le pari opportunità delle persone disabili del 1993 (su tale aspetto v. Seatzu, F., La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: i principi fondamentali, in Diritti umani e diritto internazionale, 2008, 542 ss.). D’altra parte, tale estensione corrisponde alla considerazione secondo la quale la menomazione è una nozione in evoluzione, che dipende dall’interazione tra le persone e le barriere comportamentali e ambientali, come, tra l’altro, previsto dal preambolo della Convenzione al punto e). L’assenza di riferimento alla disabilità temporanea è, peraltro, poco coerente alle specificazioni ivi contenute di disabilità fisica, mentale, intellettuale e sensoriale (ad es. la disabilità fisica determinata dalle menomazioni che concernono l’attività del corpo umano per alterazioni morfologiche è temporanea per natura).
Nella definizione interpretativa di soggetto vulnerabile, possono pertanto venire in rilievo alcuni indizi ricostruttivi, presenti anche entro altre fonti, quale ad es. la Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000 sulla protezione degli adulti incapaci, internazionalmente in vigore dal 1° gennaio 2009 (per Svizzera, Francia, Regno Unito, Germania, Estonia, Finlandia ma non per l’Italia), che non definisce in maniera completa la nozione di «incapace», per le variabili intepretative che la stessa può determinare all’interno dei singoli ordinamenti giuridici (Seatzu, F., L’interesse del maggiorenne incapace nella nuova Convenzione de l’Aja (13 gennaio 2000) sulla protezione internazionale degli adulti in Dir. fam., 2001, 1223 ss.), ma si riferisce più concretamente all’adulto che necessita di tutela, individuandolo in chi abbia compiuto i diciotto anni (art. 2) e presenti un’alterazione o insufficienza delle facoltà personali, tali da renderlo non in grado di provvedere ai propri interessi di natura personale o patrimoniale (art. 1, par. 1).
All’assenza di una definizione univoca di soggetto vulnerabile corrispondono differenti discipline normative concernenti le situazioni soggettive di tali soggetti all’interno dei singoli ordinamenti giuridici, con la conseguente possibilità di conflitti in merito alla regolamentazione delle misure protettive, la cui natura strettamente connessa ai sistemi processuali, determina anche eventuali conflitti di giurisdizioni.
Si tratta di conflitti destinati ad emergere soprattutto ove non vi sia una soluzione uniforme, come ad es. in Italia ove non è in vigore la Convenzione dell’Aja, che consentirebbe di risolvere un’ampia serie di casi, applicandosi ai tipici provvedimenti propri della giurisdizione volontaria, quali: la determinazione dell’incapacità e l’istituzione di un regime di protezione; il collocamento dell’adulto sotto la protezione di un’autorità giudiziaria o amministrativa; la tutela, la curatela e gli istituti analoghi; la designazione e le funzioni di qualsiasi persona o organismo incaricato di occuparsi della persona o dei beni dell’adulto, di rappresentarlo o di assisterlo; il collocamento dell’adulto in un istituto o in un altro luogo in cui possa esserne garantita la protezione; l’amministrazione, la conservazione o la facoltà di disporre dei beni dell’adulto; l’autorizzazione a compiere un determinato intervento per proteggere la persona o i beni dell’adulto.
Se un caso concernente la tutela di un incapace si pone entro un paese che ha aderito alla Convenzione dell’Aja, la soluzione dei profili problematici appena esaminati è abbastanza agevole in quanto si fa riferimento alla disciplina posta da tale strumento, fondata principalmente sul criterio di collegamento della residenza abituale dell’incapace; se il problema si pone invece entro uno Stato terzo alla Convenzione dell’Aja, come l’Italia, rilevano le norme nazionali di conflitto, quale ad es. l’art. 43 l. 31.5.1995, n. 218, che richiama in prima battuta il collegamento della cittadinanza (sul quale v. Tonolo, S., Tutela degli incapaci, in Conetti, G.-Tonolo, S.-Vismara, F., Manuale di diritto internazionale privato, Torino, 2013, 219 ss.).
Si può verificare pertanto un’ipotesi di contrasto di criteri di collegamento, risolvibile qualora l’Italia aderisse alla Convenzione dell’Aja del 2000, che potrebbe o indurre a una revisione dell’art. 43 l. n. 218/1995 o in ogni caso determinare la prevalenza della medesima sulla disciplina di fonte interna nei rapporti con gli Stati che l’hanno già resa esecutiva entro i loro ordinamenti.
Più facili soluzioni ai problemi di conflitto di leggi potrebbero trovarsi, come si è detto, nell’ambito di un’ampia ratifica degli strumenti convenzionali. È evidente, infatti, che nei rapporti tra paesi aderenti alla Convenzione dell’Aja i problemi appena esaminati non si pongono (sul punto Campiglio, C.-Mosconi, F., La Convenzione dell’Aja del 2000 sulla protezione degli adulti: qualche riflessione, in Studi in onore di U. Leanza, Napoli, 2008, II, 865 ss.).
Quanto alla disciplina internazionalprivatistica, la Convenzione introduce la residenza quale criterio per la determinazione della competenza giurisdizionale di uno Stato nella adozione della misure di protezione. Si tratta di un criterio soggettivo, perché riferito alle parti interessate, e c.d. “mobile”, perché in caso di trasferimento della residenza abituale dell’adulto in un altro Stato contraente, sono competenti le autorità dello Stato di nuova abituale residenza. Si prevede inoltre che le autorità così individuate applichino la loro legge, definendosi così la coincidenza tra forum e ius.
Tale soluzione, apprezzabile secondo vari profili, appare inoltre coerente alla diffusione del criterio di residenza abituale nelle fonti internazionali ed europee del diritto internazionale privato, quale ad es. il regolamento n. 2201/2003, che lo prevede in tema di scioglimento del matrimonio con riguardo ai coniugi e relativamente alla responsabilità dei genitori con riferimento al minore. Evidente il nesso tra soggetto debole (minore) e necessità di individuare un criterio di giurisdizione che si ispiri alla tutela di quest’ultimo e alla vicinanza con un foro conosciuto, che avvicina tale previsione a quella della Convenzione dell’Aja del 2000.
D’altra parte, tale collegamento ha origini ancora più antiche, richiamandosi alle disposizioni corrispondenti della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 e del 19 ottobre 1996, che prevedono come foro generale quello della residenza abituale del minore al momento dell’inizio del procedimento (art. 8), allo scopo, espressamente affermato dal preambolo, di definire un sistema di regole di giurisdizione in funzione dell’interesse superiore del fanciullo, avvicinando la questione in cui lo stesso è coinvolto ad una giurisdizione che sia vicina al caso di specie, principalmente in base alla localizzazione della residenza del minore.
Nella Convenzione dell’Aja del 2000, il concetto di «residenza abituale» non viene definito, salvo precisare che ogni riferimento alla residenza abituale in tale Stato riguarda la residenza abituale in un’unità territoriale (art. 45, lett. a). È evidente, quindi, che il concetto di «residenza abituale» riguarda, secondo i criteri generali, un luogo fisico territorialmente individuato.
Diventa così opportuno proporre una possibile soluzione interpretativa volta a chiarire l’ambito d’applicazione di tale collegamento, pur essendo condivisibile l’opinione secondo la quale la funzione specifica del criterio si individua nell’integrazione degli individui entro la comunità sociale stanziata sul territorio di uno Stato, determinando così inevitabilmente la natura fattuale dello stesso criterio, che esclude una possibile nozione comune e uniforme. D’altra parte, è proprio il carattere funzionale della nozione di residenza a privarla di una possibile definizione uniforme, come si evidenzia con riguardo agli obiettivi che la residenza persegue quale criterio di giurisdizione o di collegamento (Bucher, A., La famille en droit international privé, in RCADI, 2000 (283), 19 ss., 39 ss.).
La prevalenza di un’interpretazione fattuale della nozione di residenza abituale ai fini della Convenzione pare fondarsi anche sul rapporto esplicativo alla Convenzione di Paul Lagarde (in Conference de la Haye de droit international privè, Actes et documents de la Commission spéciale à caractère diplomatique de septembre-octobre 1999, La Haye, 2003, 90 ss.), che si riferisce espressamente all’elasticità del concetto come garanzia di uniforme applicazione della Convenzione.
Quanto all’operatività temporale della residenza, pare opportuno sottolineare che la stessa configura un criterio variabile nello spazio e nel tempo. Rischia dunque di produrre risultati diversi, ove considerata, quanto al primo aspetto, con riguardo a differenti soggetti, ad es. membri della stessa famiglia, che però vivano in Stati diversi, rendendo così difficile la determinazione di un’unica residenza familiare (Hunter – Henin, M., Droit des personnes et droits de l'homme: Combination ou confrontation?, in RCDIP, 2006, 743 ss.).
In Italia, il riferimento normativo prevalente per la disciplina di conflitto della tutela degli incapaci è dato dagli artt. 43 ss. l. n. 218/1995, che richiama il criterio di collegamento della cittadinanza, secondo una disciplina tradizionale all’ordinamento (v. art. 21 disp. prel. c.c.). Tale norma può venire in rilievo in un’ampia serie di procedimenti, dato che molto estesa è la giurisdizione italiana in materia, per effetto dell’art. 44 l. n. 218/1995, che richiama l’art. 3 e l’art. 9 della stessa legge, applicabili, rispettivamente, in tema di giurisdizione contenziosa e di giurisdizione volontaria, e fissa un criterio speciale per i provvedimenti provvisori e urgenti. Il giudice italiano è competente dunque in base alla residenza o al domicilio del convenuto in Italia, in ragione della presenza di un rappresentante autorizzato a stare in giudizio ex art. 77 c.p.c., dei criteri di competenza territoriale di cui all’art. 3, rilevanti seppure in casi residuali, quali ad es. i giudizi civili promossi nei confronti del tutore o del curatore dell’incapace che si siano comportati illegittimamente; nonché dell’esistenza in Italia della persona o dei beni dell’incapace, da proteggere urgentemente (art. 44, co. 1, ultima parte). Inoltre la competenza del giudice italiano si determina in relazione alle ipotesi in cui il provvedimento riguardi un cittadino italiano, oppure una persona residente in Italia, oppure infine nelle situazioni cui risulti applicabile la legge italiana.
L’ambito di applicazione dell’art. 43 l. n. 218/1995 è molto esteso, secondo la definizione della norma ora in esame relativa ai presupposti e agli effetti delle misure di protezione degli incapaci.
Tra i presupposti della tutela, in dottrina si individuano sia elementi di fatto (referto o certificato medico indicante la diagnosi medica relativa alla menomazione), sia provvedimenti giudiziari assunti nello Stato di nazionalità dell’incapace o riconosciuti in questo Paese, e suscettibili di essere modificati o integrati dal giudice italiano secondo quanto prevede l’art. 44, co. 2. Rientrano inoltre nell’ambito d’applicazione della norma in esame gli effetti della tutela e cioè i rapporti personali ed economici derivanti dalla misura adottata: l’organizzazione degli istituti di protezione, i criteri da seguire nella scelta del tutore, del curatore e dei motivi di esonero dall’ufficio, la capacità speciale ad assumere la funzione di tutore, i poteri che il tutore può esercitare e le responsabilità nelle quali incorre. Sono infine riconducibili all’ambito d’applicazione dell’art. 43 alcuni nuovi istituti di protezione degli incapaci, quali il mandat d’inaptitude, ovvero nel diritto anglosassone lo springing power of attorney, più generalmente riconducibili al mandato in previsione della propria incapacità, soggetto a una prima regolamentazione sostanziale anche in Italia con la l. 9.1.2004, n. 6 relativa all’amministrazione di sostegno, oggi regolata dagli artt. 404-413 c.c. (Ubertazzi, B., La capacità nel diritto internazionale privato, Padova, 2006, 198 ss.; Campiglio, C.-Mosconi, F., Diritto internazionale privato e processuale, Torino, 2011, II, 52). Ciò, finché l’Italia non ratificherà la Convenzione dell’Aja del 2000, che disciplina espressamente lo springing power of attorney, con un concorso successivo di criteri di collegamento (art. 15), che pone al primo posto l’autonomia di scelta del mandante in caso di mandato unilaterale o di mandante e mandatario in caso di mandato consensuale (sul punto, amplius, Campiglio, C.-Mosconi, F., Diritto internazionale privato, cit., 51 ss.).
La previsione del collegamento della cittadinanza, in tema di tutela degli incapaci, appare teoricamente idonea a realizzare la disciplina uniforme della capacità e delle conseguenze dell’assenza o delle limitazioni della medesima. Tale coincidenza può tuttavia venire meno in seguito al mutamento di cittadinanza del soggetto, della cui tutela si tratta. La variabilità del criterio in esame può inoltre comportare problemi di coordinamento tra la legge in base alla quale viene costituita la tutela, l’interdizione, l’inabilitazione e quella che, in seguito, ne detta la disciplina, disponendone ad es. la cessazione per il conseguimento della maggiore età o dell’emancipazione.
Problemi particolari si possono ipotizzare in ordine all’applicazione del collegamento della cittadinanza relativamente alle ipotesi degli incapaci titolari di doppia cittadinanza o plurima. Con riguardo a quest’ultimo caso, si è rilevato, infatti, che la scelta della legge dello Stato con cui l’incapace ha il collegamento più stretto ai sensi dell’art. 19, co. 2, potrebbe pregiudicare l’applicazione di una misura protettiva, analogamente a quanto accadrebbe qualora tra le diverse cittadinanze vi fosse quella italiana e quindi si attribuisse operatività alla legge dalla stessa individuata.
Nelle ipotesi in cui il collegamento della cittadinanza richiami un ordinamento plurilegislativo si applica la norma dell’art. 18 l. n. 218/1995.
Profili particolarmente problematici si possono porre in presenza di un contrasto di discipline di ordinamenti di conflitto in materia (quale ad es. la l. svizzera) che con l’adattamento alla convenzione dell’Aja prescrivono l’operatività della residenza dell’incapace quale criterio di collegamento atto a individuare la regolamentazione del caso e la legge italiana che invece richiama il collegamento della cittadinanza. Si tratta di un conflitto risolvibile ove l’Italia ratifichi la convenzione dell’Aja; se però ciò non accade, vi è un’altra possibile soluzione a tale contrasto di ordinamenti, grazie a un procedimento di coordinamento previsto entro il sistema italiano di diritto internazionale privato: il rinvio (art. 13 l. n. 218/1995), che tuttavia non si presta a superare il contrasto di ordinamenti in ogni caso.
Il giudice italiano può inoltre dare applicazione alla legge italiana, nelle ipotesi in cui debba adottare delle misure provvisorie e urgenti di protezione dei beni o della persona dell’incapace, quali ad es. gli interventi sostitutivi nell’interesse del singolo individuo, nascenti dall’impossibilità dell’incapace di curare i propri interessi, ivi compreso quello della propria salute.
Le ragioni sottese a tale scelta appaiono tuttavia controverse.
Da un lato, vi è l’orientamento di quanti affermano che in questo caso il richiamo della legge italiana è sancito non tanto in considerazione del suo contenuto o dei suoi legami con la fattispecie, ma solo allo scopo di evitare complicazioni e ritardi che potrebbero pregiudicare la protezione degli incapaci nelle ipotesi di necessità ed urgenza (Honorati, C., Art. 43, in AA.VV., Commentario del diritto internazionale privato italiano, Padova, 1996, 172 ss.). Tale deroga alla normale applicazione della legge straniera sarebbe pertanto consentita soltanto a fronte di misure urgenti con carattere “provvisorio”. Una volta venuta meno l’urgenza di tali misure, esse dovrebbero essere sostituite con provvedimenti stabili previsti dalla legge nazionale dell’incapace, in ordine ai quali si ipotizza la competenza delle autorità giurisdizionali italiane in base alla disposizione dell’art. 9.
Dall’altro, si pone in maniera più convincente la ricostruzione secondo cui l’applicazione della lex fori discende in questo caso da una competenza funzionale della medesima (Picone, P., La riforma italiana del diritto internazionale privato, Padova, 1998, 420 ss.). Non è pertanto l’urgenza delle misure a venire in rilievo come presupposto per la competenza sussidiaria della legge interna, bensì l’efficacia strettamente territoriale di tali misure (v. Trib. La Spezia, decr. 10.3.2011, inedito, citato da Campiglio, C.-Mosconi, F., Diritto internazionale privato, cit., 54).
Un altro aspetto importante che può riguardare la disciplina internazionalprivatistica della tutela dell’incapace è la qualificazione della nozione di incapace, presupposto dell’individuazione della legge applicabile.
Ciò in ragione del fatto che, nonostante la nozione uniforme di incapace maggiorenne di cui alla Convenzione di New York, può accadere che si verifichino dei conflitti di discipline nazionali in merito alla definizione. Significativa è in tal senso la scelta della Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000 che, come si è detto, non utilizza il termine “incapace”, perché è inteso in maniera diversa all’interno dei singoli ordinamenti giuridici e dunque rischia di compromettere l’uniformità delle soluzioni (Rapporto Lagarde, cit., 92), ma si riferisce più concretamente all’adulto che necessita di tutela, individuandolo in chi abbia compiuto i diciotto anni (art. 2) e presenti un’alterazione o insufficienza delle facoltà personali, tali da renderlo non in grado di provvedere ai propri interessi di natura personale o patrimoniale (art. 1, par. 1).
Profili problematici di qualificazione possono porsi ad es. in rapporto alle diverse nozioni di incapacità accolte entro i singoli ordinamenti giuridici. Nel sistema italiano di diritto internazionale privato italiano, manca una norma generale sulla soluzione del problema delle qualificazioni: si può tuttavia ritenere tuttora valida la prassi giurisprudenziale, in base alla quale il giudice qualifica una fattispecie controversa, dapprima, in base ai criteri propri della lex fori; una volta individuato l’ordinamento competente a seguito della sussunzione della fattispecie da disciplinare nella categoria astratta del foro, classifica tale fattispecie in base ai criteri del sistema giuridico richiamato, al fine di definire le norme materialmente applicabili alla stessa (Cass., 18.5.1995, n. 5439, in Riv. dir. int. priv. proc., 1996, 330-335).
A sostegno di tale soluzione si pone, infatti l’art. 15 l. n. 218/1995, che completa la fondamentale disposizione dell’art. 14 in tema di conoscenza della legge straniera applicabile, stabilendo che: «La legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e applicazione nel tempo». Evidente dunque che il giudice italiano ricondurrà alla disciplina generale della capacità d’agire la regolamentazione degli aspetti concernenti l’incapacità prevista esclusivamente dalla legge straniera, e dunque a quella posta dalla cittadinanza del soggetto coinvolto, salvo poi negare applicabilità alla medesima perché in contrasto con l’ordine pubblico, come regolato dall’art. 16 della l. n. 218/1995.
Il riferimento del limite in esame all’esclusione di effetti inaccettabili, derivanti dall’operatività di norme straniere, consente di ampliarne, in via ermeneutica, la portata fino ad incidere non tanto sul richiamo dell’ordinamento straniero nel suo astratto contenuto generale, quanto sulle conseguenze che le disposizioni individuate all’interno di esso producono nel caso concreto. La conseguenza dell’accertato contrasto con l’ordine pubblico degli effetti dell’applicazione della legge straniera comporta pertanto la completa disapplicazione di quest’ultima. È proprio la valutazione degli effetti derivanti dalla qualificazione dell’incapacità operata entro il sistema giuridico richiamato ad escluderne l’operatività qualora tali effetti risultino in contrasto con i valori che costituiscono i principi generali informatori del foro, anche in corrispondenza ed adeguamento ad una più ampia civiltà giuridica cui esso partecipa. Tale conclusione è, tra l’altro, giustificata dalla considerazione riservata dall’art. 15 l. n. 218/1995 al richiamo dell’ordinamento straniero nel suo complesso. Il riferimento alle norme di diritto internazionale privato contenute nel sistema giuridico richiamato comporta che l’accertamento della non contrarietà all’ordine pubblico riguardi anche gli effetti che possono derivare dall’applicazione di norme strumentali o di conflitto, o di meccanismi interpretativi, complementari al funzionamento dei criteri di collegamento. Si effettuerà dunque il richiamo di un altro ordinamento che presenti una connessione significativa con la fattispecie che presenti elementi di estraneità; in mancanza di altri collegamenti, si applicherà, a titolo residuale, la lex fori.
Ulteriori incertezze si possono poi presentare nel caso in cui la legge nazionale dell’incapace, o quella da quest’ultima richiamata a seguito del rinvio, preveda misure di protezione sconosciute nell’ordinamento italiano (ad es. ricoveri coatti nella terapia delle tossicodipendenze) e il giudice italiano, titolare di giurisdizione pressoché illimitata in materia, sulla base di quanto dispone l’art. 44, si trovi così ad applicare istituti ignoti, quali possono essere il trust dei paesi di common law, ove creato per tutelare un incapace, il mandat d’inaptitude, recentemente regolato da alcuni ordinamenti di civil law, o il testamento biologico, disciplinato entro alcuni sistemi giuridici esteri.
Nel confronto con istituti ignoti o diversamente regolati entro l’ordinamento italiano, il compito del giudice italiano è particolarmente delicato, dato che al fine di superare l’assenza di riferimenti utili entro la lex fori, dovrà valutare se nell'ambito dei criteri di collegamento, posti dal sistema italiano di diritto internazionale privato in relazione ad altre fattispecie sia possibile ricomprendere gli istituti richiesti, in ragione del fatto che le nozioni rivolte a descrivere tali fattispecie possano intendersi con il medesimo significato dei termini impiegati dai sistemi giuridici stranieri. L’individuazione delle regole materialmente applicabili e suscettibili di far produrre alla situazione di fatto l'effetto giuridico desiderato avviene poi nell’ambito di un'operazione successiva e distinta, entro l’ordinamento richiamato (secondo il metodo risalente a Rabel, E., The Conflict of Laws, A Comparative Study, I, Ann Arbor, 1945, 63 ss.).
Ciò, ove non vi sia una specifica disciplina di conflitto o materiale per i singoli istituti rilevanti, quale ad es. la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985 sulla legge applicabile ai trusts e al loro riconoscimento, resa esecutiva in Italia con l. 9.10.1989, n. 364 (in G.U. 8.11.1989, n. 261), nelle ipotesi in cui per proteggere un incapace si costituisca un trust, e si debba pertanto seguire la disciplina dell’art. 6 e della scelta di legge del settlor, o, in mancanza, da quella che presenta il collegamento più stretto con il trust (art. 7). In maniera analoga, per la regolamentazione del mandat d’inaptitude, recentemente introdotto entro alcuni ordinamenti di civil law (Spagna, Germania, Francia), e al quale si può forse avvicinare l’amministrazione di sostegno italiana, in quanto istituto volto a proteggere l’incapace che delega, tramite un atto unilaterale o un contratto, il potere di rappresentarlo a partire dal momento in cui perderà la capacità di agire, la soluzione va cercata entro la Convenzione dell’Aja del 2000 (art. 15), che detta alcune disposizioni di conflitto, consentendo di individuare la legge applicabile a tale fattispecie in quella dello Stato di residenza abituale dell’incapace al momento del conferimento dei poteri o, in via alternativa, in quella scelta dal mandante per iscritto tra quelle di nazionalità, residenza o del paese di localizzazione dei suoi beni. Così, mentre negli Stati aderenti alla Convenzione dell’Aja non si può porre il problema del conflitto con istituti ignoti, per l’Italia, finché non ne avvenga la ratifica, la soluzione non è univoca, essendo l’art. 43 fondato, come si è detto, sul collegamento della cittadinanza e quindi idoneo a richiamare ordinamenti che contengono istituti estranei al sistema italiano e che magari sono sottoposti dall’incapace stesso a una diversa disciplina.
Solo un’interpretazione orientata dai principi generali della Convenzione di New York potrebbe forse risolvere il problema della molteplicità di soluzioni, in attesa dell’auspicabile unificazione convenzionale.
Artt. 1-2 della Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000 sulla tutela degli adulti incapaci; artt. 1-2 della Convenzione del 30 marzo 2007, n. 61/106, sui diritti delle persone disabili; art. 23 Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo; art. 26 della Carta di Nizza; artt. 3-4 della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 sulla tutela dei minori; artt. 43-44 della l. 31.5.1995, n. 218.
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