Abstract
Partendo dalla nozione di protezione diplomatica, vengono analizzati gli elementi fondamentali dell’istituto alla luce dell’evoluzione che esso ha conosciuto nel diritto internazionale contemporaneo anche grazie allo sviluppo delle norme a tutela dei diritti dell’uomo. Si esamineranno sia le condizioni che devono essere rispettate affinché uno Stato possa agire in protezione diplomatica sia questioni più specifiche come la protezione diplomatica di rifugiati e apolidi, delle persone giuridiche e degli azionisti.
La protezione diplomatica è un istituto che ha origini antiche e per diversi secoli ha costituito lo strumento principale a tutela dei diritti e degli interessi delle persone fisiche (e giuridiche) nei loro rapporti con Stati stranieri. La comunità internazionale si è occupata in varie occasioni dell’istituto in parola e, da ultimo, nel 2006 con l’adozione del Progetto di articoli sulla protezione diplomatica da parte della Commissione di diritto internazionale (CDI) delle Nazioni Unite. La protezione diplomatica può essere definita come la facoltà dello Stato di agire a tutela di un suo cittadino che all’estero abbia subito una violazione dei suoi diritti (o beni) da parte di un altro Stato. Tale potestà dello Stato si fonda su una finzione giuridica. Infatti, secondo la dottrina classica espressa dalla celebre formula vatteliana, «quiconque maltraite un Citoyen offense indirectement l’Etat, qui doit protéger ce Citoyen» (de Vattel, E., Le Droit de Gens, ou Principe de la Loi naturelle, appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, Paris, 1758). In base alla suddetta finzione, il diritto di intervenire per “fare giustizia” dei diritti/interessi dell’individuo violati da parte di uno Stato straniero non appartiene al soggetto direttamente leso, bensì al suo Stato di cittadinanza. E ciò perché la violazione dei diritti del cittadino costituisce una violazione (indiretta) del diritto proprio dello Stato al rispetto delle norme internazionali che stabiliscono obblighi in materia di trattamento degli stranieri (essendo ormai definitivamente superata la concezione per cui gli individui sarebbero “beni” dello Stato ed esso agirebbe a protezione di suoi beni). Questo implica che il presupposto per l’esercizio del diritto dello Stato di intervenire in protezione diplomatica è l’esistenza di una violazione di norme di diritto internazionale (Battaglini, G., Protezione diplomatica (voce), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, pp. 1-11). In tale senso si espresse già chiaramente la Corte permanente di giustizia internazionale nel caso Mavrommatis del 1924 affermando che è un «elementary principle of international law» il diritto dello Stato di proteggere i suoi cittadini lesi da un atto contrario al diritto internazionale commesso da un altro Stato e che nel fare ciò lo Stato afferma un suo diritto, vale a dire quello di assicurare il rispetto delle norme di diritto internazionale (Corte perm. giust. int., Grecia c. Regno Unito, 30.8.1924, Series A, n. 2). D’altra parte, anche la CDI nei suoi lavori iniziali sulla responsabilità internazionale degli Stati per illecito si è occupata dell’istituto in parola (per poi decidere di trattare separatamente i due argomenti). Infine, il primo articolo del su richiamato Progetto sulla protezione diplomatica, definendo l’istituto, sottolinea la necessità dell’esistenza di un illecito: «[…] diplomatic protection consists of the invocation by a State, through diplomatic action or other means of peaceful settlement, of the responsibility of another State for an injury caused by an internationally wrongful act of that State to a natural or legal person that is a national of the former State with a view to the implementation of such responsibility».
La fictio iuris richiamata si giustifica in relazione alla mancanza di personalità giuridica internazionale dell’individuo: non potendo questo agire a livello internazionale nei confronti degli Stati stranieri (a eccezione dei casi previsti da accordi internazionali), lo Stato di cittadinanza è legittimato a intervenire a sua tutela.
Tradizionalmente, altra caratteristica tipica dell’istituto in parola è che il diritto di agire in protezione diplomatica appartiene allo Stato e, quindi, sarà questo (e non l’individuo leso) a decidere discrezionalmente se intervenire o meno a tutela del proprio cittadino. Di conseguenza, lo Stato può decidere di non intervenire anche di fronte a lesioni gravi dei diritti e interessi della persona o, al contrario, decidere di intervenire contro la volontà di quest’ultima. Ugualmente, lo Stato che decide di agire in protezione diplomatica non ha alcun obbligo di versare al cittadino leso l’eventuale indennizzo ottenuto a seguito della sua azione internazionale poiché anche ciò rientra nella sua sfera di discrezionalità. Sebbene tutto questo non sia discutibile in linea di principio, è necessario evidenziare che l’attuale prassi internazionale mostra la tendenza a limitare questa libertà assoluta dello Stato (in particolare di fronte alla violazione di norme in materia di tutela dei diritti umani). In tale senso è esemplificativo anche che, a seguito dei dibattiti in Commissione, dal testo dell’art. 1 del Progetto su menzionato sia stato espunto il riferimento al fatto che la protezione diplomatica sia un diritto dello Stato e che nel commento al medesimo articolo si affermi di lasciare aperta la questione se lo Stato che agisce in protezione diplomatica fa ciò in base a un suo diritto o a quello di un suo cittadino o di entrambi. È necessario ricordare che l’istituto della protezione diplomatica venne messo in discussione dalla cd. dottrina Calvo (che, elaborata alla fine dell’Ottocento, ebbe un particolare seguito nei Paesi dell’America Latina anche nel secolo scorso) secondo la quale gli stranieri, in caso di controversie con il Paese ospite, possono utilizzare esclusivamente i rimedi disponibili per i cittadini di tale Stato poiché quest’ultimo non può riconoscere agli stranieri benefici maggiori rispetto a quelli attribuiti ai suoi cittadini.
La protezione diplomatica va tenuta distinta dall’assistenza consolare. In base alla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963, essa consiste nel “prestare soccorso e assistenza” ai cittadini dello Stato di invio che si trovino in difficoltà nel Paese di residenza, il che include il diritto di fornire loro aiuto qualora siano arrestati o posti in stato di detenzione nonché di assicurare loro una rappresentanza appropriata davanti ai tribunali o alle altre autorità dello Stato di residenza. L’assistenza consolare, a differenza della protezione diplomatica, si estrinseca in un supporto che gli organi consolari forniscono al cittadino nei suoi rapporti con lo Stato di residenza senza che questo implichi un intervento diretto dello Stato di cittadinanza. Così, è all’assistenza consolare che devono essere ricondotti gli artt. 20 e 23 TFUE i quali sanciscono il diritto del cittadino dell’Unione europea a fruire della tutela consolare e diplomatica da parte delle autorità di un qualsiasi Paese membro della UE presenti sul territorio di uno Stato terzo in cui il proprio Paese di cittadinanza non è rappresentato. È chiaro, infatti, l’obiettivo di garantire assistenza a un cittadino della UE che in un Paese straniero si trovi in grave difficoltà o pericolo e non possa ricorrere alle autorità del proprio Stato di nazionalità. La distinzione tra i due istituti è stata al centro del dibattito nei casi LaGrand (C. int. giust., LaGrand case, 27.6.2001) e Avena (C. int. giust., Avena and other mexican nationals case, 31.3.2004). In essi la Corte internazionale di giustizia (CIG), partendo dal presupposto che l’art. 36.1 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari stabilisce non solo un diritto dello Stato ma anche un diritto dell’individuo a essere informato di poter accedere all’assistenza consolare del proprio Paese di cittadinanza (diritto confermato dalla CIG anche nella sentenza Ahmadou Sadio Diallo del 30.11.2010), ha affermato che i diritti inerenti a tale assistenza possono essere fatti valere anche attraverso la protezione diplomatica (senza che ciò determini una confusione tra i due istituti).
Il primo requisito che deve essere rispettato affinché uno Stato possa legittimamente agire in protezione diplomatica è l’esistenza del rapporto di cittadinanza con la persona (fisica o giuridica) lesa dal comportamento illecito di un altro Stato. In tale ambito, l’ordinamento internazionale non stabilisce alcuna prescrizione, ma rinvia alla normativa nazionale per determinare chi sia cittadino, essendo ogni Stato, in linea di principio, del tutto libero di stabilire le norme interne in base alle quali concedere (o revocare) la cittadinanza.
Affinché l’azione in protezione diplomatica sia legittima è necessario che detta cittadinanza abbia carattere continuo: la persona deve godere della cittadinanza dello Stato attore dal momento in cui ha subito la lesione dei suoi diritti fino alla presentazione ufficiale del reclamo. Tale regola, oltre a derivare dalla concezione della protezione diplomatica come diritto dello Stato, mira a evitare il cd “nationality shopping”, ossia il fatto che l’individuo possa cambiare cittadinanza solo allo scopo di ottenere una protezione più efficace. Il riferimento, invece, alla presentazione ufficiale del reclamo previsto dall’art. 5 del Progetto della CDI ha lo scopo di escludere, nella determinazione del dies ad quem, tutti i contatti diplomatici e le richieste che abbiano carattere informale poiché ritenuti insufficienti ad attestare l’effettiva volontà dello Stato di agire in protezione diplomatica.
Il Progetto prevede un’eccezione a tale regola (art. 5, par. 2), ossia la possibilità che un individuo sia tutelato dall’azione di uno Stato di cui possiede la cittadinanza al momento della presentazione del reclamo ma non al momento del verificarsi dell’illecito, nel caso in cui l’individuo sia stato cittadino dello Stato predecessore o abbia perso la sua cittadinanza e abbia acquisito quella dello Stato che agisce in protezione diplomatica per motivi indipendenti dal reclamo. Questa eccezione mira a impedire che gli individui possano rimanere privi di tutela per il solo fatto di aver perso la cittadinanza che avevano al momento del verificarsi dell’illecito. Il riferimento al fatto che l’acquisizione della nuova cittadinanza sia dovuta a motivi indipendenti dal reclamo presentato dallo Stato tende ancora una volta a evitare il nationality shopping. L’eccezione qui menzionata non trova, invece, applicazione se il reclamo è avanzato contro uno Stato di cui l’individuo aveva la cittadinanza nel momento in cui ha subito la lesione dei suoi interessi (ma non al momento della presentazione del reclamo stesso). Questo perché è regola ben stabilita che la protezione diplomatica non possa essere esercitata nei confronti dello Stato che ha commesso l’illecito quando esso è anche lo Stato di nazionalità della persona lesa. Ciò costituirebbe, infatti, una violazione del principio della sovrana uguaglianza degli Stati e del divieto di ingerenza negli affari interni degli altri Stati. Per le medesime ragioni, uno Stato perde il diritto di esercitare l’azione in protezione diplomatica nel caso in cui l’individuo leso acquisisca, dopo la presentazione del reclamo, la cittadinanza dello Stato ritenuto responsabile dell’illecito.
Si pone, dunque, la questione della doppia o multipla nazionalità di cui possono godere gli individui. Tale realtà deve essere coordinata con i principi di base della protezione diplomatica, vale a dire il diritto di ciascuno degli Stati di nazionalità dell’individuo leso di agire a protezione di questo e l’impossibilità di esercitare tale protezione nei confronti dello Stato di nazionalità del medesimo soggetto. Per quanto attiene al primo aspetto si rileva che ogni Stato di cui l’individuo ha la cittadinanza può reagire al torto da esso subito agendo in protezione diplomatica nei confronti dello Stato responsabile il quale potrà, quindi, essere oggetto di più azioni (tante quante sono le cittadinanza che ha l’individuo leso). Alternativamente, è possibile che gli Stati di cittadinanza si accordino per agire congiuntamente nei riguardi dello Stato responsabile. In relazione al secondo aspetto, il Progetto di articoli prevede un’eccezione: il reclamo può essere condotto anche nei confronti di uno Stato di cui l’individuo ha la cittadinanza purché la cittadinanza dello Stato attore sia quella “predominante” al momento della commissione dell’illecito e della presentazione del reclamo. Vediamo, così, riaffermarsi il principio del genuine link tra Stato e cittadino elaborato dalla giurisprudenza internazionale a partire dal leading case Nottebohm (CIJ, Nottebohm case, 6.4.1955) quale criterio per la determinazione dello Stato legittimato ad agire in nome dell’individuo.
La seconda condizione che deve essere soddisfatta è l’esaurimento dei ricorsi interni da parte della persona fisica o giuridica lesa. La regola in questione, che ha carattere consuetudinario e non è certo tipica solo dell’istituto della protezione diplomatica (si pensi, ad esempio, al settore della tutela dei diritti dell’uomo), persegue l’obiettivo di tutelare la sovranità dello Stato permettendo a quest’ultimo di dare ristoro ai pregiudizi cagionati attraverso il suo ordinamento interno prima che l’affaire arrivi in ambito internazionale. In tale modo, si evita anche che vi sia un ricorso strumentale o prematuro alla protezione diplomatica. Molto discusso in dottrina è se tale regola abbia natura sostanziale oppure procedurale. Nel primo caso, l’illecito internazionale ha luogo nel momento in cui lo Stato non da ristoro all’individuo per la lesione subita attraverso i suoi rimedi interni e, quindi, la responsabilità statale sorge (e potrà essere fatta valere) solo a seguito dell’esaurimento non efficace dei ricorsi interni. Nel secondo caso, l’illecito internazionale e la relativa responsabilità sorgono fin dall’inizio, ossia fin dal momento in cui vengono violati i diritti/interessi individuali, ma lo Stato non potrà agire a livello internazionale finché l’individuo non avrà esperito i ricorsi interni i quali, quindi, valgono come impedimento procedurale. Per rimedi interni si intendono tutti i ricorsi aventi natura giuridica (siano essi giudiziari o amministrativi) di cui l’individuo dispone per tutelare i suoi diritti nonché i ricorsi di natura quasi giuridica purché conducano ad una decisione vincolante ed imparziale. I rimedi, infatti, per essere tali, devono essere imparziali, certi ed efficaci. Ciò allo scopo di garantire un equilibrio tra l’interesse dello Stato a risolvere la questione a livello interno e l’esigenza di garantire la protezione dell’individuo. Affinché i ricorsi possano essere considerati “esauriti” ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica, è necessario che l’individuo non solo abbia ottenuto una sentenza definitiva ma anche abbia presentato alle autorità nazionali le principali argomentazioni che si faranno eventualmente valere a livello internazionale. Infine, essi devono essere esperiti rispettando i tempi e le condizioni formali e sostanziali stabilite dall’ordinamento interno.
Il Progetto della CDI prevede cinque eccezioni all’applicazione di tale regola (art. 15) rifacendosi a quanto stabilito dagli strumenti pattizi e dalla giurisprudenza in materia di tutela dei diritti umani. L’obbligo di esaurimento dei ricorsi interni viene meno se: a) i rimedi a disposizione non sono in grado di procurare o è probabile che non procurino un efficace ristoro del pregiudizio subito (ad esempio, nel caso in cui i tribunali nazionali non hanno competenza sulla controversia o il pregiudizio è derivato dall’applicazione di una legislazione nazionale che i giudici sono tenuti a rispettare); b) vi sono ritardi ingiustificati nel procedimento interno attribuibili alla responsabilità dello Stato il che costituisce una violazione del principio dell’equa durata del processo; c) all’individuo leso è manifestamente preclusa la possibilità di ricorrere ai rimedi interni; d) al momento della commissione dell’illecito non esisteva un legame rilevante tra lo Stato responsabile e l’individuo (si pensi ai casi di danni ambientali transfrontalieri: l’individuo leso da uno Stato straniero non ha alcun legame con quest’ultimo, non trovandosi sul territorio del Paese in questione); e) lo Stato rinuncia all’applicazione della regola in esame, rinuncia che deve essere chiara e inequivoca (anche se non necessariamente espressa). Infine, la regola trova applicazione esclusivamente nel caso in cui il reclamo internazionale sia presentato principalmente in ragione del pregiudizio subito da una persona che ha la nazionalità dello Stato attore (o che sia apolide o rifugiato nei termini che vedremo a breve). Ciò significa che la regola del previo esaurimento dei rimedi interni non si applica qualora lo Stato agisca perché leso direttamente in un suo diritto distinto da quello dell’individuo coinvolto. In tali casi, infatti, non ci si trova più nell’ambito della protezione diplomatica ma di una “normale” controversia tra Stati.
La regola delle “mani pulite” (clean hands doctrine) è un principio di equità affermatosi nei sistemi di common law che, nei suoi elementi essenziali, coincide con il principio della buona fede. In base a tale regola la parte convenuta in giudizio può contestare l’ammissibilità del ricorso affermando che il torto subito dalla controparte è stato causato, in realtà, da una condotta di quest’ultima contraria alla buona fede. Nei riguardi della protezione diplomatica, la regola qui richiamata implica che lo Stato non può agire in protezione diplomatica di un suo cittadino qualora quest’ultimo abbia causato o agevolato la commissione dell’illecito internazionale da parte dello Stato responsabile. La prassi internazionale in materia non è, tuttavia, né concorde né particolarmente rilevante e ugualmente discorde è la dottrina, il che ha indotto la CDI a non includere nel Progetto una norma specificatamente dedicata alla regola in questione.
Tradizionalmente la protezione diplomatica ha riguardato non solamente le persone fisiche ma anche le persone giuridiche aventi la nazionalità dello Stato attore. In tale ambito, si pone il problema di determinare la nazionalità delle società, in particolare nell’attuale contesto economico internazionale dove le imprese tendono a dislocarsi in diversi Stati e vengono in rilievo una molteplicità di centri di interesse.
La regola generale è che la persona giuridica ha la nazionalità del Paese in base al cui ordinamento è stata costituita. Anche in questo caso, il diritto internazionale rinvia alla normativa interna degli Stati non esistendo regole di diritto internazionale in materia di costituzione delle società private. Questa regola generale, tuttavia, si scontra con una realtà economica che spesso coinvolge più attori statali i quali, talvolta, vengono ad avere maggiori legami con l’impresa rispetto al Paese di costituzione della stessa. Proprio in ragione di ciò, il Progetto sulla protezione diplomatica, dopo aver enunciato la regola generale richiamata, ne attenua la portata affermando che se la società lesa è controllata dai cittadini di un altro Stato (a), non svolge attività commerciali sostanziali sul territorio dello Stato di costituzione (b) e l’amministrazione della stessa così come il suo controllo finanziario sono collocati in un altro Paese (c), quest’ultimo sarà considerato come lo Stato di nazionalità ai fini della protezione diplomatica (art. 9 del Progetto). È appena il caso di evidenziare che tale eccezione trova applicazione solo se le tre condizioni ricordate si presentino cumulativamente. Come nel caso delle persone fisiche, anche la nazionalità di quelle giuridiche deve avere carattere continuo dalla data del verificarsi dell’illecito fino a quella della presentazione del reclamo formale (art. 10 del Progetto). Tuttavia, uno Stato manterrà il diritto di agire in protezione diplomatica per la tutela di una società che non esiste più al momento della presentazione del reclamo qualora essa abbia cessato di esistere proprio a causa del pregiudizio subito (art. 10, par. 3). Al contrario, esso perderà detto diritto qualora l’impresa oggetto di tutela acquisisca la nazionalità dello Stato autore dell’illecito dopo la presentazione del reclamo formale (art. 10, par. 2).
Relativamente, invece, agli azionisti, la possibilità di una loro tutela separata da quella della società di riferimento ed esercitata dallo Stato di loro cittadinanza è stata oggetto di numerose decisioni arbitrali e giurisprudenziali nel corso del XIX e XX secolo, decisioni che hanno alternativamente negato e affermato tale possibilità. Tuttavia, questa è stata chiaramente esclusa dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza relativa al caso Barcelona Traction (C. int. giust., Barcelona Traction, Light and Power Company, 5.2.1970) in cui la Corte ha ritenuto che quando gli azionisti sono danneggiati da un illecito subito dalla società essi devono indirizzare i loro reclami nei confronti di quest’ultima. La stessa Corte, però, mitiga tale impostazione ammettendo la possibilità di una tutela autonoma degli azionisti in tre casi: a) quando la società ha cessato di esistere nel Paese dove è stata costituita; b) qualora la società sia stata lesa dallo Stato di nazionalità; c) nel caso in cui l’illecito abbia causato un danno diretto agli azionisti e non alla società nel suo insieme. Tali principi sono poi stati confermati, anche se in termini meno restrittivi per quanto attiene alcuni aspetti, dalla sentenza sulle eccezioni preliminari relative al caso Diallo (C. int. giust., Ahmadou Sadio Diallo, eccezioni preliminari, 24.5.2007). La ratio sta nel fatto che la protezione diplomatica non può essere esercitata o perché è sparito il “bene” che la stessa dovrebbe tutelare (a) o perché non vi è un soggetto legittimato ad agire in protezione diplomatica della società (b), o, ancora, perché la lesione non riguarda la società bensì gli azionisti e, quindi, sono questi ad essere bisognosi di tutela (c). Gli artt. 11 e 12 del Progetto del 2006 si pongono in continuità con la posizione appena richiamata affermando la regola generale per cui lo Stato di cittadinanza degli azionisti non ha la facoltà di agire in protezione diplomatica di questi ultimi a meno che: la società abbia cessato di esistere in base alla legislazione dello Stato presso cui si è costituita per delle ragioni non collegate all’illecito; nel momento in cui ha subito l’illecito la società aveva la nazionalità dello Stato responsabile dello stesso, nazionalità che era requisito necessario per poter svolgere la sua attività sul territorio dello Stato considerato (si fa qui riferimento alle cd “Calvo corporations”, ossia quelle società la cui libertà di scegliere presso quale Paese costituirsi è stata compressa); l’illecito ha riguardato direttamente i diritti degli azionisti, per cui ogni Stato di cittadinanza di questi è legittimato ad agire.
Una questione certamente particolare, in quanto si discosta da uno dei principi fondamentali dell’istituto, ossia l’esistenza del rapporto di cittadinanza tra lo Stato che agisce in protezione e la persona lesa, è quella della protezione diplomatica di rifugiati e apolidi. L’impostazione tradizionale, fondata appunto sul legame di cittadinanza, lasciava privi di tutela proprio gli individui più deboli o perché erano fuggiti da un Paese (quello di cittadinanza) dilaniato dalla guerra o in cui rischiavano la persecuzione per motivi politici, razziali, religiosi, ecc. (i rifugiati), oppure perché non possedevano una cittadinanza (gli apolidi). Il Progetto della Commissione ha, in tale ambito, inserito alcune norme di sviluppo progressivo del diritto internazionale in considerazione dell’evoluzione che nel tempo ha conosciuto l’ordinamento in materia di protezione internazionale dei diritti umani. Così, si prevede che uno Stato possa agire in protezione diplomatica sia di un individuo apolide sia di una persona che, in base alla normativa nazionale e nel rispetto degli standard internazionali, sia stato riconosciuto come rifugiato purché, tanto alla data dell’illecito subito quanto a quella della presentazione del reclamo ufficiale, essi risiedano legalmente e abitualmente sul territorio dello Stato in questione (art. 8). Il legame di cittadinanza viene, quindi, sostituito da quello derivante dalla residenza abituale (e legale) che deve essere anch’essa continuata. È fin troppo ovvio sottolineare che nel caso dei rifugiati la legittimità dell’azione in protezione dipende non solo dal criterio della residenza abituale e continuata ma anche dal fatto che all’individuo sia stato attribuito lo status di rifugiato in base alle norme nazionali (requisito che, secondo parte della dottrina, sarebbe sufficiente a dimostrare l’esistenza di un genuine link tra l’individuo leso e lo Stato attore senza la necessità di aggravarlo con l’ulteriore elemento della residenza abituale). Infine, un aspetto peculiare del Progetto è rappresentato dall’art. 8.3 che esclude l’esercizio della protezione diplomatica di un rifugiato nei confronti dello Stato di cui esso abbia la cittadinanza. Tale limite è motivato dalla necessità di evitare un moltiplicarsi di azioni internazionali condotte nei confronti dello Stato che, nella maggioranza dei casi, è il principale responsabile degli illeciti subiti dal rifugiato. Tuttavia, questa “clausola di salvaguardia” è stata criticata perché lascia l’individuo privo di tutela proprio nei confronti del soggetto internazionale che maggiormente è responsabile dei danni da esso subiti.
Si è detto in precedenza che lo Stato ha il diritto (e non l’obbligo) di agire in protezione diplomatica e che la relativa decisione ha carattere del tutto discrezionale non potendo l’individuo i cui diritti/interessi sono stati lesi influire sulla stessa. Sebbene tale affermazione resti sostanzialmente corretta anche nell’attuale ordinamento internazionale, è necessario evidenziare una tendenza della prassi giurisprudenziale nazionale a limitare detta discrezionalità. Mentre in passato eventuali ricorsi contro il mancato esercizio della protezione diplomatica da parte dello Stato di nazionalità della persona lesa venivano dichiarati irricevibili in quanto “atti di governo”, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso tale impostazione è stata messa in discussione e alcune corti nazionali sono entrate nel merito del ricorso per determinare se la decisione statale non fosse incompatibile con determinate garanzie di natura costituzionale. Esempio ne è il leading case Hess in cui la Corte costituzionale federale tedesca affermò l’esistenza di un obbligo costituzionale del governo di assicurare protezione ai cittadini tedeschi (pur in assenza di una previsione costituzionale in tale senso) e che la discrezionalità dello Stato nel decidere se e come agire in protezione diplomatica era comunque limitata dal rispetto del criterio della ragionevolezza e della non arbitrarietà (Corte cost. fed., Rudolf Hess Case, 16.12.1980). Tali principi sono stati ripresi anche da altre corti nazionali, fino ad arrivare al caso Abbasi in cui la Court of Appeal britannica, pur confermando il carattere discrezionale della decisione, ha sottolineato che quest’ultima non si sottrae al giudizio delle corti nazionali data la naturale aspettativa del cittadino a che la sua richiesta sia presa in considerazione e a che tutti gli elementi rilevanti siano ponderati in maniera oggettiva (Court App., Abbasi case, 6.11.2002). Secondo la Corte, un elemento che dovrebbe avere importanza fondamentale nel determinare la decisione statale è la natura e la portata del torto subito dall’individuo. La tendenza a limitare la discrezionalità dello Stato si è affermata, poi, anche in relazione al trasferimento alla persona lesa dell’indennizzo ottenuto a seguito dell’azione in protezione diplomatica. Nelle prassi nazionali non mancano, infatti, esempi di decisioni giurisprudenziali ma anche di atti legislativi che impongono allo Stato di versare alla vittima dell’illecito almeno parte dell’indennizzo ottenuto dallo Stato responsabile (su tale prassi, Commissione diritto internazionale, Draft Articles on Diplomatic Protection with commentaries, A/61/10). Tuttavia, non è ancora ravvisabile una corrispondente opinio iuris circa l’obbligatorietà di detto comportamento il che porta a escludere che si sia formata una norma internazionale consuetudinaria in tale senso. Questa inclinazione si ritrova anche nell’art. 19 del Progetto della CDI il quale afferma che gli Stati dovrebbero: prendere nella giusta considerazione la possibilità di esercitare la protezione diplomatica nel caso in cui il danno subito dalla persona sia serio; tenere in considerazione la posizione dell’individuo circa l’utilizzo dell’istituto e la riparazione da richiedere; trasferire alla persona lesa l’eventuale risarcimento ottenuto. La formulazione dell’articolo è tale per cui non vi si afferma alcun obbligo degli Stati ad agire in tale senso, ma si auspica che ciò avvenga. Cionondimeno, questa norma di sviluppo progressivo del diritto internazionale esprime la spinta evolutiva che l’istituto della protezione diplomatica sta subendo in ragione dello sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani, senza che questo significhi un superamento dell’istituto in quanto tale. Esso continua, infatti, ad essere uno strumento efficace in tutte quelle circostanze in cui non esistano strumenti pattizi che permettano all’individuo di tutelare direttamente i propri diritti a livello internazionale.
Fonti normative
Progetto di articoli sulla protezione diplomatica della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, 2006.
Bibliografia essenziale
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