Protimesi
La prelazione o protimesi (dal greco πϱοτίμησιϚ) è stata largamente usata sin dall'antichità greco-romana per convogliare le alienazioni di beni immobili verso proprietari che avessero vantato connessioni obiettive con i beni alienati; inizialmente mirata a favorire parenti e consortes, fu poi estesa a precedenti condomini di beni ereditati o altrimenti acquistati in comune, a vicini, a socii.
L'istituto di provenienza bizantina è stato mischiato dalla storiografia con fenomeni medievali simili di cui assicurava l'origine germanica, come il retratto familiare specificatosi in quello gentilizio (Pertile, 1894, pp. 420-428; Tamassia, 1885 [ediz. 1969], pp. 679-686). Il retratto familiare ‒ che consentiva ai parenti stretti di annullare le vendite di beni ereditari fatte a estranei e di acquisire la proprietà di quei beni rifondendo il prezzo ai primi compratori ‒ aveva l'obiettivo di conservare un nucleo stabile di proprietà familiare e si fondava sulla regola consuetudinaria che gli acquisti erano nella completa disponibilità del proprietario, mentre quanto al patrimonio immobiliare avito andava tutelata l'aspettativa degli eredi. La ratio del 'germanico' retratto appare almeno in parte diversa da quella che ispira la protimesi greco-romana, ma va detto che alle sue radici sta lo stesso principio della centralità della famiglia nella vita economico-sociale: tratto comune del Medioevo e dell'Evo Antico, del mondo germanico e di quello bizantino, che ha coinvolto ab immemorabili anche la protimesi. La vocazione alla salvaguardia dell'intreccio famiglia-patrimonio appare agganciata infatti sin dall'inizio, nell'epoca romana, alla ratio peculiare della protimesi d'impedire la frammentazione della proprietà fondiaria.
Fu tuttavia questa seconda ratio a prendere col tempo il sopravvento nel mondo bizantino. Secondo una vecchia storiografia, la concentrazione delle proprietà da Costantino in poi avrebbe avuto l'obiettivo di agevolare la riscossione dell'imposta; divulgata a partire dalla metà dell'Ottocento da Karl Eduard Zachariä von Lingenthal, la tesi ha avuto vita duratura per l'autorità a lungo riconosciuta al padre della bizantinistica giuridica. La protimesi, egli suppose, avrebbe favorito i vicini per venire incontro al loro timore di veder cadere i fondi nelle mani di ignoti compratori insipienti o trascurati. Un calo di produttività di quei fondi avrebbe aumentato infatti l'onere tributario dei vicini data l'opprimente collettivizzazione dell'imposta e la famigerata epibolé (detta latinamente adiectio), che prevedeva l'aggregazione coatta di fondi improduttivi a fondi contigui produttivi perché ne sostenessero il carico fiscale. I consortes, posti tra i destinatari della protimesi dalle fonti, sarebbero appunto i "contributarii e i conservi costretti a rispondere insieme dell'ammontare dell'imposta" (Leicht, 1902-1907 [ediz. 1964], p. 166).
Oggi non si crede più (Platon, 1906; Bellomo, 1958) alla genesi della protimesi dal sistema tributario tardoantico e dall'epibolé, ma che in Oriente si fossero verificati agganci tra prelazione e fiscalità è incontestabile: tra l'altro l'iscrizione al medesimo ruolo tributario in vista dell'obbligo solidale al pagamento dell'imposta è elencata dalla tarda legislazione bizantina tra le ragioni di protimesi.
Una novella dell'imperatore Romano Lacapeno o Lecapeno (919-944) ‒ da taluna erudizione cinquecentesca (Schupfer, 1890, p. 249 n. 2) attribuita piuttosto a Costantino Porfirogenito (912-959), peraltro genero e a lungo collega del Lacapeno ‒ ha avuto una singolare storia specialmente nel Mezzogiorno. Datata al 922 dallo Zachariä, sottoposta a interpolazioni nel corso del X sec., la norma stabiliva l'iter applicativo della protimesi. Graduava ufficialmente l'ordine dei chiamati a esercitarla, poi fissava i termini, entro i quali dovevano farla valere i presenti e gli assenti, e le formalità dell'eventuale rinuncia. Nel caso di compravendite di beni immobili, o di concessioni enfiteutiche o di locazioni, stabiliva che chi avesse vantato una qualche coniunctio con il bene ‒ perché proveniente da eredità indivisa o divisa, oppure da un comune acquisto, o perché oggetto di solidarietà fiscale, o perché semplicemente confinante da uno o più lati ‒ andasse avvisato ai fini della prelazione in quest'ordine: a) i parenti confinanti; b) quindi i consorti; c) poi i titolari, anche se estranei, di fondi 'mescolati' con quelli del venditore, ossia inclusi gli uni negli altri; d) i confinanti fiscalmente solidali; e) i semplici vicini che avessero fondi anche solo in piccola parte contigui. La novella dava per scontato che la prelazione si estendesse agli appartenenti alla stessa comunità agraria o agridía. Risulta evidente che la ratio del precetto era la salvaguardia di aggregazioni sociali coese, legate da vincoli sia di sangue sia economico-fiscali o genericamente giuridico-sociali, e che intendeva assicurare la conservazione delle proprietà al loro interno.
La novella è certamente approdata prima o poi nell'Italia meridionale, ma resta oscuro se sia stata o meno in uso nella prassi. La protimesi che Brandileone ha documentata tra Sicilia, Calabria e Puglia ancora nei secc. XII e XIII, e che compare in redazioni consuetudinarie anche più tarde, è applicata soltanto iure consanguinitatis e contiguitatis loci, ossia secondo criteri antichissimi prebizantini, più che secondo i minuziosi elenchi di beneficiari redatti da Romano Lacapeno. La consuetudine napoletana (e messinese) de iure congrui è poi ancora più circoscritta e lontana dall'istituto bizantino, dato che contempla il caso del retratto unicamente a favore dei vicini. Siccome il termine greco è usato a Napoli come perfetto sinonimo del latino ius congrui, la stessa parola 'protimesi' in Italia sembra aver tagliato il contatto con i ricami costantinopolitani.
La sinonimia e l'uso promiscuo del termine greco πϱοτίμησιϚ e del latino congruum sono documentati anche presso giuristi come Andrea Bonello: "[…] quod dicitur de congruo siue iure prothomiseos, quod vult si aliquis emit fundum mihi uicinum, ego sum emptori preferendus" (Comm. in C.10.34[33].3, Venetiis 1601, rist. Sala Bolognese 1975, nr. 2, pp. 85 s.).
Va poi ricordato che a Napoli lo ius congrui era stato ufficializzato nella redazione solenne delle consuetudini partenopee (al tit. 17) voluta da Carlo II d'Angiò, da lui affidata a Bartolomeo da Capua protonotaro e logoteta, e promulgata dal sovrano stesso nel 1306. La ratio della disposizione, ch'era di evitare la polverizzazione della grande proprietà, corrispondeva a una politica regia insistentemente perseguita, specialmente nel campo della proprietà feudale, nel secolo precedente e nei seguenti.
Avendo preso veste almeno formale di legge, la raccolta delle consuetudini ebbe un alto grado di autorevolezza e attirò l'attenzione dei giuristi. L'importante glossa, che entro il 1351 le dedicò Napodano Sebastiani, colpisce proprio sul punto dello ius congrui: essa tende infatti a interpretarlo estensivamente e ad allargare la rosa dei beneficiari avvicinandola a quella ampia di tradizione costantinopolitana. Di fronte all'unico criterio della contiguità dei fondi esplicitato dal testo della consuetudine, Sebastiani riesce infatti a vedere nell'istituto ben quattro rationes ispiratrici: la consanguineitas, la propinquitas, la communio, la cohabitatio, quattro criteri che somigliavano in realtà alle intenzioni di Romano Lacapeno più che a quelle di Carlo II. Il che lascia immaginare che gli arabeschi della novella costantinopolitana non gli fossero ignoti.
La legge venuta dall'Oriente subì nell'Italia meridionale una traduzione dal greco in latino di tutta la sua parte sostanziale e, con l'aggiunta di pochi pezzi tolti da altre norme o di origine dottrinale, finì con l'entrare nello iusregni sotto le mentite spoglie di una costituzione di Federico II (Sancimus). La paternità federiciana, indimostrabile, non parve impossibile a Schupfer il quale, se non altro, non escluse che fosse stato Federico II a comandare la traduzione della novella greca (Schupfer, 1890, p. 261). Comunque, quando Matteo d'Afflitto al chiudersi del Quattrocento ne riprodusse da ignoto manoscritto un buon testo, che diede alle stampe insieme con il celebre commento che gli aveva dedicato, la intitolò Constitutio ultima domini Federici imperatoris, rivelando così ch'era usualmente ritenuta l'ultima legge fatta dal monarca prima di morire. A nessuno venne comunque in mente di aggregarla al Liber Augustalis, ma è curioso che finisse con lo scivolare, pur conservando l'attribuzione all'imperatore, tra i capitoli angioini. Compare infatti nelle edizioni cinquecentesche prima dell'ultimo capitolo di re Roberto; l'edizione Suganappo del 1533 la introduce come Constitutio domini imperatoris Federici super iure congrui non incorporata in constitutionibus regni.
Sebastiani non fa parola della Sancimus nella glossa allo ius congrui delle consuetudini napoletane né in margine ai capitoli di Roberto; qui tacciono ugualmente le additiones di Luca da Penne, Niccolò Spinelli e Pietro Piccolo da Monteforte, nonché quelle quattrocentesche. Se ne deduce che la Sancimus, ancora ignorata dall'editio princeps dei capitoli angioini curata da del Tuppo nel 1475, fu inserita prima dell'ultimo capitolo di Roberto solo in pieno Cinquecento. La strana connessione con le leggi angioine è però annunciata dalla quattrocentesca miscellanea del manoscritto napoletano III. A. 24 (segnalato, ma con inesattezze, da Trifone, 1921, pp. X-XI n. 4), che si apre con la raccolta delle norme di Carlo I e Carlo II e alla c. 160 introduce, in scrittura libraria più ornata, la Sancimus; l'attribuisce esplicitamente a Federico II e la fa seguire (cc. 161r-166r) dal commento di Baldo degli Ubaldi. Cosa singolare, quest'ultima, che suggerisce sia la redazione del manoscritto III. A. 24 in epoca anteriore al trattato di Matteo d'Afflitto (1475-1477), sia un legame speciale dell'opera di Baldo con Napoli. La prima stampa della costituzione pseudo-federiciana si ebbe nell'editio princeps del 1499 del trattatello De iure prothomiseos di Matteo d'Afflitto (L. Hain, Repertorium bibliographicum […], Stuttgartiae-Lutetiae Parisiorum 1826-1827 [riprod. anast. Milano 1966], p. 365). Delle edizioni moderne quella di Pertz (1837), alla quale Wilhelm von Brünneck (1880, pp. 124 s.) dichiara di preferire il testo del d'Afflitto, è servita di base all'edizione di Huillard-Bréholles (Historia diplomatica, 1963, pp. 229-233).
Tra il 1475 e il 1477, dunque, mentre stipendiis regiis Matteo d'Afflitto teneva un corso di diritto feudale nello Studio di Napoli, i suoi studenti gli chiesero di dedicarne un altro alla protimesi, la cui utilità, dicevano, risultava dalla frequente applicazione nei tribunali. Un manoscritto studentesco napoletano mostra che in quegli anni la costituzione era in effetti già entrata nella Scuola. Il codice, che raccoglie materiale di uno scolaro degli ultimi anni 1460, trascrive la costituzione Sancimus, con attribuzione a Federico II (Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. I. H. 11, cc. 219v-220r); aggiunge sotto il titolo leges de iure congrui la relativa consuetudine napoletana (cc. 220r-223v), poi un commentino posto sotto il nome di Baldo (cc. 223v-224r) e un'anonima quaestio sul tema.
Che d'Afflitto abbia tenuto un corso sulla Sancimus proprio mentre svolgeva quello feudistico affidatogli dal re potrebbe non essere stato un caso, non solo perché il collegamento della protimesi ai feudi, seppure con la limitazione ai soli agnati, si rivela stabile nella prassi del Regno meridionale (D.A. de Marinis, Resolutiones, lib. I, resol. 233, Venetiis 1758, I, 2, pp. 684-686), ma perché anche in ambiente completamente diverso e in sede erudita, circa un secolo più tardi, Iacopo Cuiacio introdurrà la Sancimus nel suo commento ai Libri feudorum aggregandone poi il testo, in appendice, a quelli delle costituzioni imperiali in materia. Spiegherà che la protimesi vigeva in favore di agnati e di seniores nelle alienazioni di benefici vassallatici e proporrà che la costituzione Sancimus fosse di Federico I Barbarossa, forse perché questi nei feudi era di casa. Tale paternità, presentata senza congrue dimostrazioni, lascia tanto più perplessi in quanto proprio Cuiacio aveva scoperto che la Sancimus era una versione della novella di Romano Lacapeno, della quale aveva persino pubblicato il testo greco, e la cosa avrebbe dovuto logicamente suggerirgli la nascita della norma pseudofedericiana in territori percorsi da residue tradizioni bizantine, com'era il caso del Regno di Sicilia. Cuiacio pubblica la Sancimus nel suo Liber Quintus feudorum (in Opera, II, Venetiis-Mutinae 1758, pp. 1206-1208; v. anche ediz. Neapoli 1722, pp. 1340-1342): la variante maggiore che presenta nei confronti del testo meridionale è l'omissione di talune righe finali. Subito dopo riproduce nella forma originale la novella di Romano Lacapeno e una di Costantino Porfirogenito. Il testo cuiaciano della Sancimus, dal 1583 (secondo Troje, 1972, p. 155), è presente in talune edizioni del Corpus iuris civilis, lo è ancora in quelle di Beck e dei Kriegel-Osenbrüggen della prima metà dell'Ottocento (in appendice ai Libri feudorum, aggiunti alle novelle).
Naturalmente l'autorità di Cuiacio pesò sull'erudizione anche meridionale. Giannone intervenne a correggere "l'errore gravissimo ed indegno di scusa" dell'usuale attribuzione della Sancimus a Federico II (P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, II, Napoli 1723, p. 306 [V, Milano 1823, p. 102]), Pecchia ne dedusse che nel Mezzogiorno la protimesi, non potendo più riposare sull'autorità dell'imperatore e re di Sicilia, doveva essere fondata solo su quella della consuetudine (C. Pecchia, Storia civile e politica del Regno di Napoli, I, Napoli 1778, cap. 41). La paternità del Barbarossa continuò a essere predicata dagli eruditi meridionali fino ai tempi di Bartolomeo Capasso (Sulla storia esterna delle Costituzioni del regno di Sicilia, Napoli 1869, p. 38 n.), mentre fu piuttosto la pratica a mantenersi fedele alla tradizione della provenienza dall'ultimo Federico II.
La Sancimus era naturalmente letta dai pratici del Regno più nella redazione di d'Afflitto o tra i capitoli angioini che nel Cuiacio. Fu l'erudizione a notare che il testo di Cuiacio divergeva da quello meridionale per l'omissione dei richiami finali sia alle leggi greche, sia alla consuetudine corrente nelle città del Mezzogiorno di escludere dalla protimesi strade pubbliche, Chiesa e Curia. Il dotto napoletano cinquecentesco Camillo Borrelli (nella Const. 26, 74) suppose quei pezzi interpolati da qualche antico doctor, il che a-vrebbe dovuto a suo parere giustificarne l'espunzione. Ma si scontrò contro l'inerzia dei pratici; Prospero Rendella obiettò che tutti gli interpreti, da Baldo in poi, avevano prese per buone quelle disposizioni conclusive, sicché non era più lecito mutare quanto ormai si avvaleva di un'interpretazione certa (Tractatus de iure prothomiseos, Neapoli 1779, in fine § VIII Est autem proprie, p. 282).
Il problema della paternità della Sancimus avrebbe potuto condizionare, a rigor di logica, quello del raggio d'azione della legge: ad ammettere, infatti, la provenienza della norma da Federico Barbarossa, se ne sarebbe dovuta restringere l'efficacia all'Italia centrosettentrionale; a considerarla, invece, emanata dal nipote, occorreva accertare se l'avesse fatta tanquam imperator o tanquamrex, e in tale ultimo caso se ne sarebbe circoscritta l'applicazione alla Sicilia citra e ultra Farum. Quest'ultima è l'ipotesi che sembra tacitamente presupposta dai pratici meridionali, ma il problema teorico non fu dibattuto. Quando la norma prese a circolare anche nell'Italia centrosettentrionale, a parte il caso di Baldo di cui si dirà, il trevigiano Giacomo Novello, pur interessato solo ai domini veneziani, le dedicò verso la metà del Cinquecento un lunghissimo trattato, perché la riteneva utile a una prassi diffusa in mezza Europa; un secolo più tardi il cardinale de Luca la chiamò in causa a proposito di un convento agostiniano in Siena. L'uno e l'altro, ignari della rivoluzionaria tesi del Cuiacio e sicuri della provenienza della norma dal nipote e non dal nonno, la consideravano sì caricata di una certa auctoritas sovrana originaria, ma ne sostenevano soprattutto la conversione in consuetudine.
Giacomo Novello, in apertura del suo trattato, riconosce che la Sancimus è una costituzione imperiale "admodum practicabilis", e se "communiter affirmatur per doctores quod haec lex seu constitutio fuit ultima D. Federici imperatoris", la sua efficacia poggia sulla circostanza che "in consuetudinem conversa est in omni loco et provincia" (De iure prothomiseos, in Tractatus universi iuris, 1583-1586, XVII, p. 20va, pr. e nr. 1). Poi si premura di accertare l'esistenza della consuetudine della protimesi in Francia, ov'è infatti attestata dal De utroque retractu di Tiraqueau, dichiara la sua vigenza "de stilo huiusce magnifice urbis Venetiarum" nelle varie città del dominio veneto, testimonia che la presenza in statuti centrosettentrionali è affermata nei commentari e nei consilia di vari grandi giuristi e a Napoli da Napodano Sebastiani nel 'trattato' De iure prothomiseos (ibid., 21rab, nr. 26). Quanto all'ampio discorso di de Luca, esso tocca anche il punto ‒ rilevante dall'angolo visuale della Chiesa ‒ del tempo in cui Federico II avrebbe emanato la Sancimus: negli ultimissimi anni del suo regno, dice il cardinale, quando il sovrano era già incorso nella scomunica da parte d'Innocenzo IV e del concilio di Lione, sicché un buon cattolico avrebbe dovuto dedurre l'invalidità della norma. Ma de Luca conclude ammettendone l'applicabilità de facto ex consuetudine (G.B. de Luca, Theatrum, IV, Napoli 1758, De servitutibus, disc. 68, pp. 85-87).
A parte la lunga glossa di Napodano Sebastiani sul titolo de iure congrui delle consuetudini napoletane, che sarà considerata la più antica trattazione (tractatus) in materia di protimesi, la prima operetta sulla Sancimus è, stranamente, non di un meridionale ma di Baldo, né si riescono a trovare indizi seri contro quest'attribuzione. Sin da pochi decenni dopo la composizione del trattatello, tutta la dottrina è concorde nell'attribuirlo a Baldo; nessun indizio contro di lui offrono il tipo di citazioni e lo stile; inoltre le intitolazioni dei manoscritti e delle numerose stampe dichiarano senza eccezione la sua paternità (l'editioprinceps è la veneziana del 1499 a seguito del trattato di Matteo d'Afflitto; L. Hain, Repertorium, p. 365; notevoli le edizioni, sempre dopo l'opera di d'Afflitto, nelle raccolte di Tractatus [Lione 1535, 1544, 1549 e veneziana del 1583-1586, XVII, pp. 18rb-20ra, citate da Troje, 1972, p. 94 n. 18, alle quali va aggiunta l'edizione veneziana della Compagnia della Corona, 1548-1550, XVI, pp. 19va-21rb]). L'ipotesi di una circolazione della Sancimus nell'Italia superiore basterebbe a stento a giustificare uno specifico commento di un professore perugino, sennonché la citazione che Baldo fa della consuetudine "huius iuris prothomiseos, quod communiter in partibus Neapolis et Messanae ius congruum appellatur" (Tractatus de iure prothomiseos, 1779, nr. 22) suggerisce un ipotetico incontro di Baldo con la Sancimus durante il viaggio che avrebbe fatto a Napoli nel 1381, in qualità d'inviato della città di Perugia nell'occasione dell'ascesa al trono di Carlo III di Durazzo (G.B. Vermiglioli, Biografia degli scrittori perugini, I, 1, Perugia 1828, p. 125). La notizia di questo viaggio si tramutò a Napoli in stravagante leggenda. Raccolta dal cardinale de Luca (Theatrum, De emphyteusi, disc. 70, nr. 12, p. 271) e consacrata dal Giannone (Istoria civile, XIII, c. 3), la favola narra di Baldo chiamato dalla regina Giovanna I per un consilium su una questione feudale in concorso con Andrea d'Isernia (!), e aggiunge che si sarebbe dimostrato a tal punto ignorante della materia da fare una pessima figura e da esserne indotto, in vecchiaia, a restaurare il proprio buon nome scrivendo l'opera sui feudi. A Napoli Baldo poté anche imbattersi nelle opere di Andrea Bonello e Niccolò Ruffolo ch'egli cita nei commentari (in Cod. 1.4.6 [1.7.7], de episcopali audientia, l. Addictos, nr. 5), nei quali non allega però il proprio trattato sulla protimesi; in margine alla l. Dudum proximis consortibusque (C. 4.38.14), ch'era la sedes normale dei discorsi di diritto comune sulla prelazione ed evocava i consortes tra i destinatari dell'istituto, si limita (al nr. 7) a proporre l'esempio dello statuto fiorentino che vietava la vendita di case fuori dalla consorteria.
Videro poi la luce i trattati di Matteo d'Afflitto e di un Antonio Caputo da Molfetta la cui opera sarebbe del tutto perduta se il Rendella non ne avesse pubblicati alcuni stralci. Qui un'altra leggenda, divulgata da Giovanni Antonio de Nigris in un'additio al suo commento della Sancimus (Commentaria in capitula regni Neapolitani, Venetiis 1594, p. 255vb) e confermata dal Giannone, taccia di plagio Matteo che avrebbe copiato dall'opera di Antonio Caputo. Non potendosi determinare l'epoca in cui scrisse il Caputo (Maffei, 1987, pp. 32 s.=431 s. n. 48), nemmeno si può dire quanto l'accusa sia fondata o quanto si ispiri alla malevolenza che a Napoli accompagnò il d'Afflitto negli ultimi suoi anni e dopo la morte. Le parti salvate dell'opera del Caputo sono quelle pubblicate a partire dal 1614 insieme con il trattato di Prospero Rendella (ibid.).
Seguirono le Disputationes de iure prothomiseos di Roberto Maranta senior (ibid., p. 42=441), la repetitio in materia di Marco Mantova Benavides e, poco dopo, il De iure prothomiseos sive de iure congrui di Giacomo Novello veneto; questi aveva di mira l'istituto statutario centrosettentrionale, ma prese tuttavia le mosse dalla Sancimus, che giudicò sottile e practicabilis. Chiudono la serie i Tractatus iuris prothomiseos sive congrui di Baldassarre Benedella (Venezia 1591) e di Prospero Rendella, che, a partire dall'editio princeps di quest'ultimo (1614), appaiono pubblicati ripetutamente insieme (Maffei, 1987, p. 44=443). Si può ricordare, per concludere, che l'opera di d'Afflitto meritò additiones di cui alcune corposissime, come quelle del seicentesco Francesco Rummo.
Il trattato di Marco Mantova, edito nei Tractatus veneziani del 1548-1550 (XVIII, pp. 91r-94r), non lo fu più in quelli del 1583-1586 ove cedette il posto a Giacomo Novello, evidentemente allora in auge presso il pubblico e presso gli editori. L'operetta del Mantova ricomparve nel 1573, sempre a Venezia, in appendice ai De iure prothomiseos di d'Afflitto e di Baldo. Consiste in realtà di una lunga additio a un commento della l. Dudum (C. 4.38.14), additio che sembra riprodurre una repetitio tenuta dal Mantova a Padova nel luglio 1547: essa riguarda però problemi di diritto comune su prelazione e retratto statutari e non la Sancimus, ch'è nota all'autore solo attraverso Baldo e Matteo. Alla Sancimus guarda invece Giacomo Novello, giurista poco conosciuto, che presumibilmente apparteneva alla famiglia trevigiana di quel nome dotata di dimora stabile anche a Venezia. Avvocato di grido (egli stesso cita nell'opera del 1586 numerose cause trattate davanti a importanti podestà, capitani e prefetti della Terraferma), fu autore di tre opere pubblicate a Venezia nella seconda metà del Cinquecento: oltre al De iure prothomiseos apparso nel 1559, si ha di lui un Tomus II regularum ad reliquas regulas Petri a Duenas adiectus pubblicato nel 1566 e un Tractatus singularis defensionem omnium reorum […] instruens, di cui si conosce una stampa a sé stante del 1586. Doveva godere di prestigio a Venezia se ben due opere sue, quella sulla protimesi e l'ultima criminalistica, furono introdotte nella raccolta dei Tractatus del 1583-1586, rispettivamente, XVII, pp. 20ra-48rb e XI.1, pp. 216va-231va (G. Colli, Per una bibliografia dei trattati giuridici pubblicati nel XVI secolo, Milano 1994, pp. 168 e 101 s.). Alla Sancimus si tengono ovviamente aderenti i trattati dell'aversano Baldassarre Benedella, stampato nel 1591, e del pugliese Prospero Rendella, edito nel 1614 e ripetutamente nel Settecento (Maffei, 1987, pp. 43s.=443s.). Non coincidono con il Tractatus iuris prothomiseos sive congrui del Benedella le sue Animadversiones stampate dal Rendella insieme con il proprio trattato (Maffei, 1987, p. 44=443). Un De iure prothomiseos seu de iure congrui è assegnato dal Forster e poi da Giustiniani ad Andrea d'Isernia, ma l'opera è irreperibile e con tutta probabilità non è mai esistita.
La costituzione Sancimus e l'omologa consuetudine napoletana de iure congrui vennero abrogate formalmente da Ferdinando IV con prammatica del 27 gennaio 1789 (F. Rossi, Iuris civilis Neapolitani praelectiones, II, Neapoli 1790, p. 75). Questa prammatica, che seguiva di pochi mesi l'abolizione del retratto agnatizio compiuta nel 1788 da Pietro Leopoldo in Toscana, segnò la fine dell'istituto della protimesi nel Regno. Era istituto che le nuove concezioni della proprietà bollavano ormai come dannoso.
fonti e bibliografia
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Edizioni della costituzione Sancimus: Matteo d'Afflitto in capo al suo trattato De iure prothomiseos; tra i capitoli di Roberto d'Angiò nelle edizioni delle Costituzioni del Regno di Sicilia; in M.G.H., Leges, II, a cura di G.H. Pertz, 1837, pp. 331-333; Historia diplomatica Friderici secundi, IV, 1 (rist. Torino 1963, pp. 229-233); D. Orlando, Codice di leggi e diplomi siciliani del Medio Evo, Palermo 1857, pp. 51 s.; V. La Mantia, Consuetudini e leggi su protimisi (prelazione o retratto) in Sicilia dal secolo XIII al XVIII, ivi 1895, pp. 29-35.
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E. Cortese, Sulla scienza giuridica a Napoli tra Quattro e Cinquecento (1985), ora in Id., Scritti, a cura di I. Birocchi-U. Petronio, II, Spoleto 1995, pp. 68 s. n. 96, 100.
D. Maffei, Prospero Rendella giureconsulto e storiografo. Con note su altri giuristi meridionali, Monopoli 1987, pp. 31-44, ora in Id., Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica, Goldbach 1995, pp. 430-443.
E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, Roma 1995, pp. 314-316.
Cf. inoltre B. Brugi, Congruo o protomiseo, in Il Digesto italiano, VIII, Torino 1925, pp. 27-31 (un compendio redazionale nel Nuovo Digesto italiano, III, Torino 1938, pp. 844-845).