PROVA civile e penale
1. Provare (lat. probare; fr. prouver; sp. provar; tedesco beweisen; ingl. to prove) non significa tanto conoscere, quanto riconoscere qualche cosa, per mezzo di un'esperienza, come dotata di una certa qualità; in particolare riconoscere un'affermazione come vera. Perciò la prova non è conoscenza in genere, ma conoscenza rivolta alla verificazione di un giudizio. In questo senso si chiama prova tanto il mezzo, con cui si verifica, quanto la verificazione medesima: così si dice, indifferentemente, che un documento è la prova oppure dà la prova di un fatto.
La prova è pertanto un procedimento, del quale ci serviamo ogni giorno nelle più svariate contingenze della vita. In particolare ce ne dobbiamo servire a ogni passo nella vita del diritto. Il diritto, che tende alla composizione dei conflitti d'interesse fra gli uomini, opera mediante la proposizione di pretese, le quali sono appunto affermazioni di un interessato in confronto dell'altro che il suo interesse deve prevalere sull'interesse contrario; deve prevalere perché, appunto, così vuole la legge. Può darsi che colui, verso il quale la pretesa è rivolta, si arrenda senza neanche ragionare; ma per lo più che egli la riconosca o invece vi resista dipende dalla verificazione che egli ne fa; comunque, se vi resiste, il conflitto degenera in lite, per la composizione della quale si fa il processo e nel processo la pretesa deve essere ancora verificata. Ecco perché la prova è uno strumento elementare del diritto, senza il quale il diritto non potrebbe, novantanove volte su cento, raggiungere il suo scopo.
2. Se la prova è conoscenza rivolta alla verificazione di un giudizio, i suoi elementi debbono essere almeno due: il soggetto e l'oggetto; l'uomo che conosce e il fatto che viene conosciuto. Oggetto della prova, in particolare, è il fatto sul quale verte il giudizio, che deve essere verificato; oggetto del giudizio da verificare e oggetto del giudizio mediante il quale si verifica, sono necessariamente identici; solo, a rigore, chi riflette che la prova non è conoscimento, ma riconoscimento, dirà che il suo oggetto immediato è l'affermazione che si tratta di verificare, e il suo oggetto mediato il fatto affermato. Soggetto della prova è, d'altro canto, la persona, alla quale è commessa la verificazione; questa può essere tanto un privato, quanto un ufficiale pubblico e, in particolare, il giudice.
a) A parte subiecti pertanto la prova si distingue in prova stragiudiziale e prova giudiziale, secondo che si compia fuori dal processo o nel processo; si dice nel processo anzichè dal giudice, perché della prova si serve non solo il processo di cognizione, ma anche il processo esecutivo (per esempio, è nient'altro che una prova il titolo esecutivo). A sua volta la prova giudiziale o processuale presenta le due varietà della prova civile e della prova penale, secondo che il processo, al quale serve, sia il processo civile o il penale.
b) A parte obiecti, a sua volta, conviene discernere se la prova tende alla verificazione integrale o parziale della pretesa. Al fine di comprendere questa distinzione si rifletta che la ragione della pretesa si scompone, come ogni giudizio, in due premesse, dalle quali viene tratta una conclusione; e, in particolare, come ogni giudizio giuridico, in una premessa di diritto e in una premessa di fatto. Può darsi dunque che la verificazione si faccia globalmente, cioè per il giudizio in blocco; oppure che si faccia partitamente per ciascuna delle sue premesse. Secondo i due casi, conviene parlare di prova integrale (della pretesa) o di prova parziale.
α) La figura della prova integrale si ravvisa anzitutto in alcuni istituti ormai tramontati del processo romano e del processo germanico, quali sono lo iusiurandum in iure e il giudizio di Dio: così nell'uno come nell'altro caso il mezzo di verificazione investiva la pretesa nella sua interezza, anziché, in particolare, l'affermazione di fatto. Non è da credere che la scomparsa di tali istituti abbia eliminato la prova integrale dal processo moderno: al contrario la dottrina più recente tende a riconoscere la funzione integrale della prova in alcune specie di prova legale documentale soggette a regime particolare, quali sono il titolo esecutivo e il titolo di credito.
β) Il sistema giuridico moderno è dominato invece dal principio della prova parziale, onde la prova si distingue ancora in prova. (dell'affermazione) dî diritto e prova (dell'affermazione) di fatto.
3. Proseguendo nell'analisi della nozione logica della prova, si nota che naturalmente la conoscenza suppone una relazione fra il soggetto e l'oggetto della prova. Questa relazione può essere immediata, nel senso che il fatto da provare cada sotto i sensi del verificatore; negli altri casi è mediata attraverso un fatto diverso dal fatto da provare, il quale serve al verificatore, alla stregua di una o più regole di esperienza, per formare il suo giudizio. Per esempio, posto che il fatto da provare sia che il vino fornito dal venditore al compratore sa di muffa, può darsi che lo stesso verificatore assaggi quel vino oppure raccolga la testimonianza di chi lo ha assaggiato. Secondo questo criterio la prova si scinde nelle due fondamentali categorie della prova diretta e della prova indiretta. Queste due specie di prova si sogliono distinguere anche secondo il risultato, in quanto soltanto la prima fornirebbe la certezza e la seconda non più che la convinzione; ma è chiaro che questo punto di vista non può sostenersi, prima di tutto perché la certezza non è che un grado di convinzione, e in secondo luogo perché anche la prova diretta si compie sempre mediante un giudizio, il quale può essere viziato dall'errore.
Il criterio della distinzione si fonda dunque soltanto sulla coincidenza o sulla divergenza tra il fatto da provare e il fatto che cade sotto i sensi del verificatore e gli serve per la formazione del giudizio. Quando la prova è indiretta, ai due elementi della prova suindicati (soggetto e oggetto) se ne aggiunge un terzo, al quale si dà il nome di mezzo o fonte di prova; brevemente si dice anche, per indicarlo, soltanto prova.
4. Può anche darsi che la fonte o mezzo di prova non serva direttamente alla deduzione del fatto da provare, ma, invece, di un altro mezzo o fonte di prova, il quale serve a sua volta alla deduzione del fatto da provare. Perciò la prova indiretta può essere più o meno indiretta, cioè di varî gradi; mentre la prova indiretta di primo grado è quella in cui la fonte di prova serve senz'altro alla deduzione del fatto da provare, quando vi sono in mezzo un'altra o più altre fonti di prova, la prova indiretta è di secondo grado o di un grado ulteriore: tale è, per es., la testimonianza de auditu (testimonianza della testimonianza) o la copia (documento del documento).
D'altra parte, quando alla verificazione possono giovare o giovano insieme la prova diretta e la prova indiretta, ovvero più fonti di prova indiretta, si ha il concorso delle prove. Questa figura si osserva con maggiore frequenza come pluralità di fonti di prova impiegate per il controllo di una sola affermazione (esempio, pluralità di testimonianza intorno a un medesimo fatto) e si scinde nelle due ipotesi del cumulo e della controprova, secondo che l'efficacia delle varie fonti si spieghi nello stesso senso o in senso contrario. A sua volta la controprova è diretta o indiretta (art. 229 cap. cod. proc. civ.), secondo che si contrappongano prove storiche a prove storiche oppure prove critiche a prove storiche o a prove critiche.
Pertanto la pluralità delle fonti di prova rispetto al fatto da provare può essere concepita in senso verticale o in senso orizzontale, secondo che si tratti di prova indiretta di grado superiore al primo o di concorso di prove: nel primo di questi casi ciascuna fonte di prova si presenta come fatto da provare rispetto alla fonte del grado superiore; nel secondo ciascuna fonte appartiene al medesimo grado. Questa osservazione permette di comprendere come per le necessità della prova si moltiplichi il numero dei fatti rilevanti nel processo e delle relative questioni.
5. L'analisi logica della nozione di prova non è ancora finita. Se essa si dirige, in particolare, a indagare la natura dei mezzi di prova, questi appariscono divisi in due categorie secondo che abbiano o non abbiano qualità rappresentativa dell'oggetto della prova. Un fatto ne rappresenta un altro, quando è idoneo a stimolare in chi lo percepisce l'immagine del fatto rappresentato. Allorché il mezzo di prova è costituito da un fatto rappresentativo del fatto da provare, è come se il verificatore lo avesse presente; sotto questo aspetto si comprende, se non si giustifica, che per lungo tempo la dottrina abbia creduto che allora si tratti di prova diretta; la verità è però che anche in questo caso esiste la diversità tra il mezzo e l'oggetto della prova e così anche in questi casi si risale da un fatto noto a un fatto ignoto, secondo la formula che l'art. 1349 cod. civ. impiega a proposito della prova critica.
La prova indiretta, quando il mezzo è costituito da un fatto rappresentativo del fatto da provare, si chiama prova storica; negli altri casi prende il nome di prova critica.
α) Il mezzo della prova storica può essere un atto o un oggetto, cioè una testimonianza o un documento.
a) La testimonianza è l'atto di chi narra (rappresenta) un fatto; è pertanto una dichiarazione di verità, non una dichiarazione di volontà. Secondo che la testimonianza sia fornita dallo stesso interessato (parte) o da un estraneo (terzo), si distingue la testimonianza della parte dalla testimonianza del terzo (testimonianza in senso stretto). Quando la testimonianza riguarda un fatto sfavorevole all'interesse di chi la fa prende il nome di confessione.
β) Il documento è una cosa che rappresenta un fatto. Nel documento il fatto si riflette come in uno specchio; vi si può riflettere direttamente o indirettamente, cioè come è visto da un uomo; questa è la differenza tra un disegno o una pittura e una fotografia: il primo è un documento indiretto, la seconda un documento diretto. I documenti diretti sono d'invenzione recente; sono cominciati, infatti, con la fotografia; perciò la loro considerazione da parte della legge e della dottrina è ancora scarsa; anche quest'ultima, quando parla di documento, pensa quasi sempre soltanto ai documenti indiretti e in particolare ai documenti scritti; nella stessa legge la voce documento è usata assai meno di quella di scrittura.
Il documento in genere, e in particolare la scrittura, può rappresentare qualunque fatto e perciò la sua stessa formazione, cioè il fatto che una data persona in date circostanze di tempo e di luogo abbia formato il documento o la scrittura medesima. Quanta importanza spetti a tale rappresentazione si comprende da chi rifletta come la provenienza e la data del documento possano costituire un elemento rilevante, anzi decisivo per la sua valutazione: precisamente su questa base riposa la notissima distinzione tra il documento ufficiale (atto pubblico) e il documento privato (scrittura privata). Naturalmente efficacia rappresentativa della sua formazione al documento non può essere riconosciuta se non quando in esso sia indicato almeno il suo autore; a questa indicazione serve, secondo l'uso, la scrittura del nome dell'autore a piedi del documento medesimo (sottoscrizione); la sua formazione in date circostanze di tempo e di luogo si rappresenta invece con la data. Che il documento debba essere sottoscritto o comunque indicare il suo autore per rappresentare la sua formazione non significa però né che la sottoscrizione serva senz'altro a provare, oltre che a rappresentare, la formazione medesima, né che tale prova non possa essere fornita con altri mezzi: il mezzo normale per fornire tale prova è l'autografia, la quale però di regola non occorre che si estenda al documento intero (olografia), ma basta che si limiti alla sottoscrizione (art. 1320 e seg. cod. civ.); un mezzo più sicuro è l'autenticazione, la quale consiste in un documento pubblico della sottoscrizione avvenuta a opera di una persona determinata (art. 1323 ivi); d'altra parte può essere provata la provenienza da una determinata persona anche di documenti da questa non sottoscritti (art. 1328 e seg. cod. civ.).
b) Il mezzo della prova critica può essere qualunque fatto, in quanto, sebbene il fatto da provare non vi sia rappresentato, possa, secondo l'esperienza, esserne dedotto (art. 1349 cod. civ.). Tali fatti, i quali naturalmente non si prestano ad alcuna classificazione, prendono il nome di fonti di presunzione o anche di presunzioni; l'art. 1349 cod. civ. usa la voce presunzione per significare piuttosto l'argomento fornito dal fatto noto o, in altre parole, la sua efficacia che non il fatto medesimo; ma non v'è ragione per non chiamare presunzione anche quest'ultimo, con un'estensione di significato analoga a quella che si dà per la parola prova. Del resto la terminologia è in questa materia alquanto incerta così per la voce presunzione come per la voce indizio, la quale serve vuoi a designare la prova critica in contrapposto alla prova storica, vuoi la prova parzialmente efficace in antitesi con la prova pienamente efficace.
6. Su questi elementi oggettivi (oggetto e fonte o mezzo della prova) deve esercitarsi l'attività del soggetto della prova, affinché la prova si faccia. Le fasi di tale attività sono sempre due: percezione e giudizio. Vi è percezione anche quando la prova sia indiretta, per quanto si eserciti anziché sul fatto da provare sulla fonte di prova. Vi è giudizio anche quando la prova sia diretta, per quanto concerna il come anziché il se del fatto da provare o, in altre parole, la sua definizione anziché la sua esistenza. Ciò vuol dire che nella prova indiretta il giudizio è meno semplice che nella diretta, poiché si tratta non tanto di definire ciò che si vede quanto di arguire da ciò che si vede il se e il come di ciò che non si vede.
Queste due fasi dell'attività del verificatore prendono, nella dottrina della prova, il nome d'ispezione e di valutazione. Se la prova ha, come vedemmo, un'importanza capitale nel processo, s'intende perché queste due fasi vi siano disciplinate con cura perfino meticolosa. Tanto per l'ispezione quanto per la valutazione, i sensi e il raziocinio del verificatore debbono essere aiutati dalla esperienza: nell'ispezione, affinché egli si ponga nelle condizioni migliori per ottenere la percezione; nella valutazione, affinché da ciò che ha percepito possa arguire la verità o la falsità delle affermazioni da verificare. In particolare, per la prova indiretta, è soltanto l'esperienza la quale consente, mediante le sue regole, di collegare la fonte di prova al fatto da provare, così da permettere di dedurre dal primo l'esistenza o l'inesistenza del secondo. Perciò dipende in gran parte dall'esperienza del verificatore che egli sappia discernere la testimonianza o il documento vero dal falso e che si sappia orientare nel dedalo della prova critica.
Può darsi che l'ispezione e la verificazione permettano al verificatore un giudizio sicuro o invece soltanto un giudizio incerto, vale a dire non tanto un giudizio di certezza, quanto di possibilità o di probabilità: nel primo caso si parla di prova piena (in senso positivo o negativo, vale a dire della verità o della falsità dell'affermazione), nel secondo di prova meno piena o principio di prova (cfr. articoli 1347, 1375 cod. civ.): il principio di prova prende anche il nome di indizio.
7. Ognuno intende l'importanza che la prova deve avere nel processo e, in particolare, nel processo di cognizione, dove, così in sede civile, come in sede penale, le parti fanno delle affermazioni, che il giudice non può accogliere senza verificarle. La necessità, anzi la stessa possibilità della verificazione vien meno, nel processo civile, in virtù del principio di disposizione, solo quando affermazioni di fatto siano concordi fra le parti; perciò si escludono, nel processo civile, dal campo della prova i fatti incontroversi; non equivale, secondo la legge italiana, all'ammissione (dell'affermazione avversa) né il silenzio, né la contumacia, salvo quando ciò sia espressamente stabilito (esempio, art. 1321 cod. civ.). Fuor da questa ipotesi nel processo penale le affermazioni di diritto o di fatto debbono essere verificate.
Poiché pertanto la prova è un'operazione, dalla quale in gran parte dipende così il costo come il rendimento del processo, si comprende che alla sua disciplina tenda un gruppo numeroso e complesso di norme giuridiche soprattutto con lo scopo di assicurarne il risultato. Così, da attività regolata dalla logica e dall'esperienza, la prova si trasforma in attività regolata dal diritto.
La disciplina giuridica, della quale qui sarà tracciato rapidamente uno schema, non si riferisce però alla prova di tutte le affermazioni che debbono essere verificate nel processo. A questo riguardo si distingue non tanto tra affermazioni di fatto e affermazioni di diritto, e neanche tra affermazioni di fatti e affermazioni di regole, quanto tra affermazioni che toccano o non toccano l'interesse generale; vi sono affermazioni, al cui controllo sono sufficienti i mezzi a disposizione di qualunque uomo colto; ve ne sono altre del tutto indifferenti alla comune cultura. Appunto e solo per la verificazione di queste ultime appresta i suoi mezzi il processo; quanto alle altre la preparazione e la moralità del giudice permettono che il controllo avvenga con piena libertà. Questa è la ragione per cui non costituiscono oggetto non già della prova in genere ma di quella prova, che è disciplinata nel modo che stiamo per descrivere, le norme di diritto, le regole di esperienza e i fatti notorî, mentre tale oggetto è costituito da quelli che si dicono i fatti della lite. La differenza tra fatti notorî e fatti della lite sta dunque in ciò che i primi e non i secondi, poiché toccano l'interesse generale, non già sono, ma possono essere conosciuti attraverso i mezzi della comune cultura. Pertanto le norme costituenti la disciplina giuridica della prova si rivolgono: a) a garantirne la disponibilità e b) la fedeltà; inoltre c) a regolarne l'ispezione e d) la valutazione; infine e) a rimediare al suo difetto.
8. Se delle prove (persone o cose che servono alla prova) il giudice non potesse disporre, sarebbe come se non esistessero. Al fine di procurargliene la disponibilità la legge opera in due modi, secondo che la prova sia a disposizione di una delle parti o di un terzo.
a) Nel primo di questi casi pone a carico della parte l'onere di produrla al giudice, nel senso che se non la produce, non solo il giudice non può servirsene in suo vantaggio, ma perfino, nel processo civile, può o deve ritener vere le affermazioni della controparte (cfr. specialmente art. 218 cod. proc. civ. per la mancata risposta all'interrogatorio); secondo questo principio si deve risolvere la questione relativa all'esibizione di documenti o in genere di prove reali a disposizione della parte.
b) Nel secondo caso costituisce a carico del terzo l'obbligo di fornire la prova. Se si tratta di un testimonio, tale obbligo è nettamente stabilito (art. 239 cod. proc. civ.; art. 348 e 359 cod. proc. pen.), come sono stabiliti i casi in cui il terzo ne è esente (art. 350 a 352 cod. proe. pen.); non altrettanto avviene quando occorra al giudice o la persona del terzo a scopo diverso dalla testimonianza (es. ricognizione di persone, art. 360 cod. proc. pen.) o una cosa (in particolare, un documento) che al terzo appartiene.
9. Alla garanzia della fedeltà delle prove tende un doppio ordine di norme, di diritto amministrativo e di diritto penale. Con le prime si fa della documentazione una funzione pubblica, attribuendo a determinate persone, opportunamente scelte e vigilate, l'ufficio di rappresentare documentalmente determinati fatti. Il prototipo di questi ufficiali è il notaro (legge 16 febbraio 1913, n. 89). Naturalmente, mentre la responsabilità penale per falso di questo ufficiale è inasprita (art. 476 e seg. cod. pen.), ai documenti da esso formati è attribuito ciò che l'art. 1315 cod. civ. chiama la "pubblica fede", cioè una particolare efficacia legale; anche sotto questo profilo merita di essere ricordata la differenza fra atto pubblico e scrittura privata; appunto perché l'atto pubblico proviene da un documentatore ufficiale (art. 1315 cod. civ.), a differenza dalla scrittura privata, fa fede di qualunque fatto vi sia rappresentato e altresì della sua provenienza e della sua data (art. 1317 cod. civ.).
D'altra parte l'attività diretta a creare prove false o comunque fallaci è repressa da un folto nucleo di norme penali le quali si riferiscono: a) alla prova storica: appartengono a questo gruppo le norme che comminano la punizione del falso documentale (specialmente art. 476 e seg. cod. pen.) e falso testimoniale (art. 372 ivi); b) alla prova critica, al qual proposito vanno segnalati gli articoli 367 (simulazione di reato) e 374 (frode processuale) cod. pen.
10. Vi sono prove, la cui ispezione da parte del giudice può avvenire nell'atto stesso in cui egli decide; di altre invece, soprattutto affinché avvenga in collaborazione con le parti, l'ispezione deve essere fatta in un momento anteriore e precisamente durante l'istruzione del processo, civile o penale, la quale è una fase intermedia fra la domanda e la decisione, dedicata allo svolgimento delle affermazioni e delle prove. In ordine a questo criterio le prove si distinguono in prove costituite (precostituite) e costituende; l'ispezione di queste ultime prende il nome di assunzione.
Sono prove costituende: a) le prove personali, la cui ispezione si svolge sulla persona delle parti o di terzi, sia sotto la forma di esame del corpo, sia sotto la forma di testimonianza; b) le prove reali, in quanto la cosa da sottoporre all'esame non sia di tale natura da poter essere affidata al giudice, affinché l'osservi nell'atto stesso in cui decide. Perciò le prove costituite si riducono ai documenti e a piccoli oggetti, che possono essere consegnati al giudice (modelli, campioni, ecc.).
Parecchie disposizioni del codice di procedura civile e penale, sono dedicate appunto a regolare l'assunzione delle prove e così a) l'assunzione della testimonianza delle parti (interrogatorî e giuramento: cod. proc. civ. art. 216 e seg., 220 e seg., 808; cod. proc. pen. art. 245, 365 e seg., 441 e seg.); b) l'esame somatico delle parti (cod. proc. civ. art. 838; cod. proc. pen. art. 309 e segg., 332, 360 e seg.); c) l'assunzione della testimonianza dei terzi (cod. proc. civ. art. 229 e seg.; cod. proc. pen. art. 348 e seg., 448 e seg.); d) l'esame somatico di terzi (cod. proc. pen. art. 309, 332); e) l'ispezione di cose, immobili (accesso giudiziale) o mobili (cod. proc. civ. art. 271 e seg., 284 e seg., 302 e seg.; cod. proc. pen. art. 309, 311, 332 e seg., 457, 460). Fra le garanzie dell'assunzione delle prove merita di essere particolarmente ricordato il giuramento della parte (art. 226 cod. proc. civ.) e del testimonio (art. 242 cod. proc. civ.; art. 357 e 449 cod. proc. pen.).
11. La valutazione delle prove avviene con l'impiego di regole di esperienza; pertanto una disciplina di questa fase della prova da parte della legge può darsi nel senso che il giudice non sia lasciato libero nella scelta delle regole di esperienza da applicare, ma tale scelta gli sia imposta, così che la regola di esperienza diventi una regola legale. Questo è l'aspetto della disciplina giuridica della prova, alla quale si riferisee la nota antitesi della prova libera con la prova legale; si chiama legale la prova, quando la sua valutazione è disciplinata dalla legge.
È quasi un luogo comune il riconoscimento della superiorità del principio di prova libera sul principio opposto e perciò del processo penale che è dominato dal primo sul processo civile, che s'ispira largamente al secondo. Se però tale superiorità è indiscutibile ai fini della giustizia, altro è ai fini della certezza, alla quale, entro certi limiti, la giustizia nel processo civile può essere sacrificata. Il vero e grande vantaggio della prova legale sta in ciò che la valutazione di certe prove fatta dalla legge, nel senso che di alcune non possa dal giudice essere disconosciuta e di altre non possa essere riconosciuta l'efficacia, da un lato sprona le parti a munirsi, nei limiti del possibile, di prove efficace e così agevola lo svolgimento del processo, dall'altro permette a loro di prevederne, entro certi limiti, il risultato e perciò le stimola ad astenersi dalla pretesa o dalla resistenza nei casi in cui l'una o l'altra non siano sorrette da prove legalmente efficaci o, quanto meno, alla composizione della lite senza processo. Poiché l'uno e l'altro di questi risultati riguardano soltanto il processo civile, s'intende perché, in massima, a questo il principio della prova legale sia limitato. Si profila così, in tema di prove, tra il processo civile e il processo penale una differenza profonda, la quale si suol esprimere dicendo che questo è dominato dal princìpio della verità materiale e quello dal principio della verità formale o legale, il qual modo di dire può essere accolto soltanto nel senso non già che il processo civile non tenda, come il processo penale, alla verità, ma che entro certi limiti sacrifica questa tendenza per conseguire il beneficio della certezza. Poiché, ancora, in questo modo, il rendimento del principio si manifesta piuttosto fuori dal processo che nel processo, si spiega perché la maggior parte delle regole legali per la valutazione delle prove si trovi nelle leggi di diritto materiale.
Il processo civile è largamente, ma non totalmente ispirato al principio della valutazione legale della prova. Precisamente questo principio è subordinato a un doppio limite: in primo luogo vi sono prove, la cui valutazione viene lasciata libera al giudice; in secondo luogo la valutazione delle altre non sempre è regolata totalmente dalla legge.
a) Sono soggette a valutazione legale tanto prove storiche quanto prove critiche; e, nel campo delle prove storiche, tanto testimonianze quanto documenti. Le principali figure che si riferiscono a questo istituto sono la confessione e il giuramento della parte, la testimonianza (dei terzi), l'atto pubblico e la scrittura privata, le cosiddette presunzioni legali (praesumptiones iuris). Dalla disciplina giuridica della valutazione di tali prove deriva la loro efficacia o inefficacia legale, totale o parziale. Tali regole costituiscono un istituto complicatissimo, del quale qui non possono essere tracciate che pochissime linee.
α) Vi sono casi in cui la legge vieta che il giudiee si fidi di una prova e perciò gli comanda di non usarne (regole legali negative): così fanno in tema di testimonianza gli articoli 236 cod. proc. civ., 1327 e 1341 e seg. cod. civ. (cfr. però gli art. 44, 53 e 55 cod. comm.); una regola legale negativa è stabilita, altresì, quando si tratti di provare i fatti previsti dall'art. 1341 cod. civ., per qualunque prova non nominata (v. sotto) dall'art. 1354 cod. civ.
β) Alle regole legali negative si contrappongono le regole positive, per le quali, all'opposto, il giudice deve credere a certe prove, onde ne deriva non l'inefficacia, ma l'efficacia delle medesime. Peraltro tale efficacia presenta varie gradazioni. L'efficacia è minima, quando la legge consente la prova in contrario, cioè lascia il giudice libero di valutare la prova in relazione alla controprova: esempio, le cosiddette presunzioni legali relative (praesumptiones iuris tantum). L'efficacia è maggiore, quando la legge, pur consentendo la prova contraria, ne disciplina con particolari garanzie l'acquisizione (es. querela di falso contro l'atto pubblico o contro la scrittura privata riconosciuta, art. 1317 e 1320 cod. civ. e art. 296 e seg. cod. proc. civ.; limitazione della prova contraria alla presunzione di paternità, art. 160 e seg. cod. civ.). L'efficacia è massima, quando la legge esclude persino la prova contraria; così avviene in tema di confessione (giudiziale o stragiudiziale fatta alla parte, art. 1355 e seg. cod. civ.), di giuramento della parte (decisorio o suppletorio, art. 1362 e seg. cod. civ.), di presunzioni legali assolute (art. 1353 cod. civ.).
b) In quanto la valutazione di una prova non sia espressamente regolata dalla legge, si ritiene che possa essere fatta dal giudice secondo la sua esperienza. Questa liberta si desume, col limite ivi stabilito, dall'art. 1354 cod. civ., giusta il quale "le presunzioni, che non sono stabilite dalla legge, sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti e solamente nei casi in cui la legge ammette la prova testimoniale". Le prove, la cui valutazione non è disciplinata dalla legge, si possono chiamare prove non nominate. Tali sono: 1. le prove che la legge non nomina affatto: ad es. tutta la sterminata serie delle prove critiche non regolate (presunzioni semplici; praesumptiones hominis); del pari i documenti diretti; 2. le prove storiche, delle quali la legge regola l'assunzione, quando non siano state assunte secundum legem: ad esempio, testimonianze raccolte fuori da qualunque processo o in un processo diverso; 3. le prove storiche, delle quali la legge regola la valutazione in modo parziale: ad esempio, la testimonianza delle parti e la scrittura privata, alle quali la legge attribuisce bensì piena fede, quando rappresentino un fatto contrario all'interesse del loro autore, ma che non escludono ogni valore, quando rappresentino un fatto a lui favorevole; del pari la testimonianza dei terzi, che la legge regola soltanto per certi casi con una norma negativa.
12. La legge considera infine l'ipotesi in cui i mezzi a disposizione del giudice o, in genere, dell'ufficio non siano sufficienti a fornire la prova cioè a permettere la verificazione di quelle affermazioni dalle quali dipende la decisione o comunque il provvedimento. Logicamente in queste ipotesi il giudice non è in grado di decidere. Dal punto di vista pratico, che il giudice risponda non liquet, se in altri tempi si poteva ammettere, ripugna oggi a quelle necessità sociali, le quali reclamano a ogni costo la composizione della lite. Pertanto la disciplina giuridica della prova deve spingersi a trovare il rimedio contro questa deficienza.
Il rimedio consiste nell'autorizzare il giudice a ritenere inesistenti i fatti non provati. L'espressione tipica se ne trova all'art. 479 cod. proc. pen., ove si dispone che "il giudice pronunzia sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso tanto nel caso in cui vi è la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso quanto nel caso in cui manca del tutto la prova che il fatto sussiste o che l'imputato lo ha commesso". Naturalmente tale equiparazione del fatto non provato al fatto inesistente nuoce a quella delle parti, alla quale il fatto sarebbe favorevole; a tal fine va ricordata la partizione dei fatti giuridici in fatti costitutivi, impeditivi ed estintivi: se l'inesistenza di un fatto costitutivo dell'effetto giuridico preteso nuoce a chi lo pretende, gli giova invece l'inesistenza di un fatto estintivo o impeditivo. Di qui l'interesse di ciascuna parte a recar le prove dei fatti che le sono favorevoli per evitare il rischio di vederli ritenere inesistenti e della parte avversa a non far nulla a tale scopo. Questa situazione viene espressa dall'art. 1312 cod. civ. con la formula dell'onere: "chi domanda l'esecuzione di una obbligazione deve provarla (rectius, deve provarne il fatto costitutivo) e chi pretende di esserne liberato deve provare dal canto suo il pagamento o il fatto che ha prodotto la estinzione della sua obbligazione". Fornire la prova di un fatto diventa un onere della parte, cui interessa, non solo perché il giudice non la può acquisire altrimenti, ma anche e soprattutto perché, se prove non ci sono, il giudice lo deve ritenere inesistente; e così porre a rischio di una parte il difetto di prova dei fatti che le son favorevoli, in che consiste l'onere della prova, serve al duplice scopo di garantire la disponibilità dei mezzi di prova, in quanto esistano, e di risolvere il problema della loro inesistenza. Se poi un fatto abbia carattere costitutivo, impeditivo o estintivo si desume dalla struttura della norma, che vi ricollega effetti giuridici.
Questa soluzione del problema del difetto di prova vale anche per il processo penale. Può darsi che per la diversa natura delle parti che vi agiscono, cioè del pubblico ministero, la cui azione non è determinata dall'interesse ma dal dovere, non sia corretto estendere al processo penale la formula dell'onere; a prescindere dal lato terminologico, certo è che anche i fatti giuridici penali si distinguono nelle categorie ora ricordate e tanto basta perché il rischio del difetto della loro prova si distribuisca variamente sulle parti: è certo, p. es., che mentre il dubbio sulla uccisione vieta al giudice di condannare per omicidio, il dubbio sulla legittima difesa gli vieta di assolverlo per questo titolo. Pertanto la formula dell'articolo 479 cod. pen., in quanto, in caso di difetto di prova, dispone l'assoluzione dell'imputato (per quanto con formula diversa, secondo che la prova sia del tutto mancante o insufficiente), dev'essere interpretata nel senso che ivi la prova si riferisce esclusivamente al fatto costitutivo del reato.
Bibl.: Data la vastità della bibliografia in tema di prova, le indicazioni che seguono si limitano alle migliori trattazioni giuridiche della prova in geneale e, per i trattati generali di diritto processuale civile o penale, alle sole opere italiane L. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile, 5ª ed., Torino 1931, II, n. 277 seg.; III, n. i seg.; G. Chiovenda, Principî di diritto processuale civile, Napoli 1913 seg., par. 59 seg., p. 809 seg.; id., Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli 1934, par. 45, 55 e segg.; F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, Padova 1929, II, n. 143 seg.; III, n. 217 seg.; V, n. 502 seg.; V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, Torino 1932, III, n. 295 seg., p. 146 seg.; E. Florian, Principî di diritto processuale penale, 2ª ed., Torino 1932, p. 324 seg.; J. Bentham, Traité des epreuves judiciaires, in Øuvres, 3ª ed., Bruxelles 1876, II, p. 255 seg.; G. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, 3ª ed., Firenze 1922; F. Carnelutti, La prova civile, Roma 1914; E. Florian, Prove penali, 2ª ed., Milano 1924; K. Collmann, Grundlinien einer Theorie des Beweises, Brunswick 1822; von Tevenar, Theorie der Beweise im Civilprozess, Magdeburgo 1805; E. Schneider, Vollständige Lehre vom rechtlichen Beweis in bürgerlichen Rechtssachen, Giessen 1842; W. Endemann, Die Beweislehre des Civilprozesses, Heidelberg 1860; J. Glaser, Beiträge zur Lehre vom Beweis im Strafprozess, Lipsia 1883; F. Carnelutti, Prove civili e prove penali, in Rivista di diritto processuale civile, 1925, parte prima; E. Forian, Le due prove (civile e penale), ivi 1926, parte prima; A. Heusler, Die Grundlagen des Beweisrechtes, in Archiv für die civilistische Praxis, 1879; R. F. von Canstein, Die Grundlagen des Beweisrechtes, in Zeitschrift für deutsch. Civilprozess, 1880; A. Heusler, Die Lehre vom Beweise im österreichischen Civilprozesse, in Zeitschrift für das privat- und öff. Recht der Gegenwart, 1885.