Abstract
Si analizza il concetto generale della prova con riferimento al processo civile, considerandolo nelle sue caratteristiche fondamentali e nella dinamica che il fenomeno presenta nell’ambito del processo, dall’inizio sino alla decisione finale.
Nel lessico processuale il termine “prova” assume di volta in volta significati molto diversi, a seconda del contesto in cui viene usato. Due di questi significati sono particolarmente importanti. Un primo significato si riferisce a tutte le possibili fonti di informazione (dichiarazioni, documenti, registrazioni, cose, persone, indizi) che possono essere utilizzate nel processo al fine di giungere ad una decisione relativa alla verità o falsità di enunciati relativi a fatti giuridicamente o logicamente rilevanti. Da questo punto di vista “prova” è sinonimo di “mezzo di prova” o di “elemento di prova”, ossia di ogni cosa, persona, strumento o circostanza che può servire a provare i fatti del caso (Comoglio, L.P., Le prove civili, III ed., Torino, 2010, 3). Una definizione così ampia porta a risolvere positivamente il problema se nel processo civile siano ammesse anche le cd. prove atipiche o innominate, ossia fonti di informazione (come ad es. documenti amministrativi o scritti provenienti da terzi) non espressamente previste e disciplinate dalla legge (Taruffo, M., Fatti e prove, in La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012, 72; Comoglio, L.P., op. cit., 52, anche per numerosi riferimenti).
Con ciò si giunge al secondo significato di “prova”, che si riferisce al risultato dell’attività probatoria, ossia alla conclusione positiva del ragionamento intorno a quei fatti (ad es. in espressioni come “onere della prova”, “esiste la prova di X”, e così via) (Comoglio, L.P., op. cit., 4). Come si vedrà, i due significati sono diversi ma sono connessi nell’ambito del processo, dato che il mezzo di prova fornisce le premesse per giungere ad una decisione che può fondarsi sulla prova intesa come giustificazione di un enunciato fattuale. Vale la pena di osservare che questa duplicità di significati dello stesso termine è comune negli ordinamenti processuali di civil law (come accade per preuve, prueba e Beweis) ma non esiste negli ordinamenti di common law, nei quali evidence si riferisce ai mezzi di prova, mentre la decisione finale intorno alla giustificazione che l’evidence fornisce alla decisione finale positiva si indica con proof (Taruffo, M., Fatti e prove, cit., 2012, 55).
La letteratura sulla prova conosce una quantità di definizioni e classificazioni che in larga misura non servono ad individuare aspetti realmente interessanti del fenomeno probatorio, e che quindi non meritano di essere specificamente analizzate (Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 413). Vale tuttavia la pena di prendere in considerazione almeno una delle distinzioni che si pongono all’interno del concetto generale di “prova”, e che riguarda la differenza tra una prova che si considera diretta e una prova che si considera indiretta. Tale differenza si fonda su ciò che costituisce l’“oggetto” della prova, ossia l’informazione che il mezzo di prova fornisce intorno al fatto che è oggetto di decisione. La prova è diretta quando il suo oggetto coincide con l’enunciato fattuale che si tratta di provare, ossia con un fatto giuridicamente rilevante che è a fondamento della domanda o dell’eccezione. Ad esempio, se si tratta di provare il fatto X, la prova (una dichiarazione testimoniale, un documento) è diretta se ha ad oggetto il fatto X. La prova è invece indiretta quando verte su un fatto Y diverso dal fatto X, ma tale per cui sul fatto Y si può fondare una inferenza che conduce ad una conclusione sul fatto X (Tuzet, G., Filosofia della prova giuridica, II ed., Torino, 2016, 150; Taruffo, M., Fatti e prove, cit., 2012, 57, 68). È il caso delle presunzioni semplici, nelle quali da un fatto provato (e quindi “noto”) y si può derivare una conclusione relativa al fatto (“ignorato”) X (art. 2727 c.c.) (Taruffo, M., Le prove per induzione, in La prova nel processo civile, cit., 1103; Id., La prova dei fatti giuridici, cit., 426).
Applicando il principio generale di legalità alla decisione giudiziale si può affermare che tale decisione è giusta se si fonda sulla applicazione corretta della norma che si riferisce al caso; ma di conseguenza si può anche affermare che per applicare correttamente la norma bisogna che si sia accertata l’esistenza di un fatto che rientra nella fattispecie prevista dalla norma in questione (Comoglio, L.P., op. cit., 9). In altri termini, si può dire che l’accertamento della verità di un enunciato relativo al verificarsi di un fatto (giuridicamente rilevante) X è una condizione necessaria per la corretta applicazione della norma che si riferisce a fatti “del tipo” X (Taruffo, M., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009, 97, 113; Tuzet, G., op. cit., 75, 93). In questa prospettiva di ordine generale è possibile individuare la funzione che la prova svolge nel contesto del processo. Diventa cioè evidente che essa è lo strumento (e lo strumento esclusivo, dato il divieto del ricorso alla sua scienza privata da parte del giudice, che si ricava dall’art. 115 c.p.c., su cui v. Taruffo, M., Art. 115, in Carratta, A.-Taruffo, M., Poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Chiarloni, Bologna, 2011, 477), per mezzo del quale si acquisiscono le informazioni necessarie per conoscere se è vero che il fatto X si è verificato, come premessa per l’applicazione della norma che a quel tipo di fatti si riferisce. In altri termini, emerge quella che può definirsi come la funzione epistemica della prova, ossia della prova come strumento conoscitivo orientato a stabilire la verità o la falsità dell’enunciato che descrive il fatto in questione (Comoglio, L.P., op. cit., 7, parla, analogamente, di funzione dimostrativa della prova). Non a caso, è nell’ambito della moderna filosofia della scienza, che ormai costituisce una teoria generale della conoscenza, che si incontrano contributi di grande rilievo sulla natura delle prove giudiziarie e delle modalità con cui esse debbono e possono essere utilizzate (nella letteratura in argomento v. da ultimo Haack, S., Evidence Matters. Science, Proof and Truth in the Law, Cambridge, 2014).
Bisogna considerare tuttavia che questa non è la sola concezione relativa alla funzione della prova. Esistono infatti vari orientamenti che secondo Alvin Goldman possono definirsi verifobici (Goldman, A.I., Knowledge in a Social World, Oxford, 1999, 7), che escludono che nel processo, e in particolare nel processo civile, si debba o si possa scoprire la verità dei fatti su cui verte la decisione. Ciò può dipendere da opzioni filosofiche di ordine generale, contrarie alla stessa nozione di verità, ma anche da concezioni di ordine specifico secondo le quali il processo, ed in particolare il processo civile, non dovrebbe o non potrebbe essere orientato verso l’accertamento della verità (su queste concezioni v. Taruffo, M., La semplice verità, cit., 99, 107). Pare evidente che se si muove da premesse di questo genere non è possibile concepire la prova come lo strumento processuale per la scoperta della verità dei fatti, ed infatti emergono varie teorie secondo le quali essa sarebbe un aspetto del “rito” (o addirittura del “teatro”) giudiziario, o un aspetto del procedimento che “legittima” qualsiasi conclusione a cui perviene (v. Taruffo, M., op. loc. ultt. citt.). Tra queste teorie, merita di essere segnalata la concezione per cui la prova non avrebbe una funzione epistemica ma una funzione persuasiva (o retorica, o argomentativa). In altri termini, essa non sarebbe finalizzata alla scoperta della verità del fatto, bensì a creare nella mente del giudice un convincimento relativo al fatto stesso (Taruffo, M., Fatti e prove, cit., 2012, 63; Id., La prova dei fatti giuridici, cit., 62). Non si tratterebbe dunque di un fenomeno epistemico ma di un fenomeno essenzialmente psicologico relativo alla credenza che il giudice del fatto si formerebbe come effetto della prova. Vi sono molte ragioni per non accogliere queste concezioni come analisi della funzione propria della prova. Piuttosto si può riconoscere che esse si riferiscono ad un uso particolare delle prove, che è tipico dell’avvocato: per il difensore, infatti, la prova non serve ad accertare la verità (che in linea generale al difensore non interessa, tanto meno quando egli sa che essa è contraria agli interessi del suo cliente), ma a cercare di persuadere il giudice ad accogliere una narrazione dei fatti che sia – per l’appunto – favorevole alla posizione che l’avvocato sostiene (Taruffo, M., Fatti e prove, cit., 2012, 64; Id., La prova dei fatti giuridici, cit., 284, 328). Per il giudice, invece, la situazione è completamente diversa: egli non deve persuadere nessuno, e neppure se stesso. Come si vedrà (infra, § 7), infatti, egli deve valutare razionalmente le prove e giustificare razionalmente la sua decisione, ma ciò non significa che il tutto si collochi in una dimensione esclusivamente retorico-persuasiva.
La funzione epistemica della prova si connette, come si è visto, alla finalità consistente nell’accertamento della verità dei fatti del singolo caso. Occorre tuttavia qualche precisazione intorno alla verità che dovrebbe essere accertata come fondamento della decisione finale (Tuzet, G., op. cit., 67; Comoglio, L.P., op. cit., 10). Un aspetto fondamentale consiste nel sottolineare che nel processo, così come in nessun altro ambito di esperienza – considerando che anche la scienza è fallibile e non dice nulla di assoluto – non si tratta di stabilire alcuna verità assoluta. Alcuni processualisti, come ad es. Carnelutti, partono da una concezione assoluta della verità per poi escludere che essa possa essere conseguita nel processo, e concludono che quindi nessuna verità può essere accertata in giudizio (Taruffo, M., Carnelutti e la teoria della prova, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 399; Id., La semplice verità, cit., 83 ). In modo analogo altri dicono che la verità ”reale” può essere raggiunta soltanto fuori dal contesto processuale, nel quale si può conseguire solo una verità “formale” o meramente “processuale”, ossia una non-verità (Tuzet, G., op. cit., 94; Comoglio, L.P., op. cit., 7; Taruffo, M., La semplice verità, cit., 83). Si tratta peraltro di concezioni assai diffuse tra i processualisti, ma sostanzialmente inattendibili, in quanto fondate più o meno esplicitamente su un’idea “assolutista” della verità che è completamente priva di significato (Tuzet, G., op. cit., 98).
In realtà, è vero che nel processo non si incontrano verità assolute, ma non è vero che quindi non vi si accerti nessuna verità. È vero invece che nel processo, così come in ogni altro ambito di esperienza, scientifica e quotidiana, si possono conseguire verità relative. Non si tratta peraltro di una relatività meramente soggettiva, in base alla quale ciascun soggetto avrebbe una sua individuale verità, ma di una relatività oggettiva, in base alla quale il fondamento conoscitivo di qualunque enunciato fattuale dipende dalla quantità e qualità delle informazioni di cui si dispone con riferimento a questo enunciato (Marconi, D., Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino, 2007, 9, 15). In sostanza, la verità di ogni enunciato fattuale di cui si tratta nel processo dipende dalla quantità e qualità delle prove che possono essere utilizzate come base per la decisione (Taruffo, M., La semplice verità, cit., 83). Non si tratta dunque di verità assolute, ma di verità relative al grado di conferma che le prove attribuiscono agli enunciati che descrivono i fatti del caso.
Considerando che a livello filosofico esistono numerose concezioni della verità (v. ad es. D’Agostini, F., Introduzione alla verità, Torino, 2011; Kirkham, R.L., Theories of Truth. A Critical Introduction, Cambridge-London, 1992), è opportuno sottolineare che la maggior parte di esse non pare applicabile nel contesto del processo. È invece opportuno fare riferimento alla concezione della verità come corrispondenza di ciò che si dice intorno a un fatto con la realtà di quel fatto (v. D’Agostini, F., op. cit., 48; Tuzet, G., op. cit., 85; Kirkham, R.L., op. cit., 119), essendo la realtà empirica di quel fatto a stabilire la verità o la falsità di ciò che si afferma su di esso. Come si è visto, infatti, nel processo ciò che interessa è stabilire la verità dei fatti, in base al loro effettivo verificarsi, come condizione per la corretta applicazione della norma di riferimento nel caso concreto (Taruffo, M., La semplice verità, cit., 78).
Un aspetto importante del problema di quali e quante prove “entrano” nel processo riguarda la posizione delle parti e del giudice quanto alle iniziative che possono essere svolte al riguardo.
Per quanto riguarda le parti un elemento di grande rilievo è il diritto alla prova, che si ritiene esistente come garanzia di rango costituzionale in base ad una interpretazione ormai da tempo consolidata dell’art. 24, co. 1 e 2, Cost., ma anche come significato da attribuire all’art. 115 c.p.c. ove si prevede il dovere del giudice di fondare la sua decisione sulle prove dedotte dalle parti e dal pubblico ministero (Taruffo, M., Art. 115, cit., 447). Il diritto alla prova implica che ogni parte possa dedurre tutte le prove di cui dispone, ed abbia altresì il diritto a che tali prove siano ammesse (v. infra, § 5), assunte (v. infra, § 6) e valutate dal giudice (v. infra, § 7) (Taruffo, M., L’istruzione probatoria, in La prova nel processo civile, cit., 2012, 84, 87; Id., Art. 115, cit., 480; Id., La semplice verità, cit., 169; Comoglio, L.P., op. cit., 35; Vergès, E.-Vian, G.-Leclerc, O., Droit de la preuve, Paris, 2015, 273).
Ci si può allora chiedere se il diritto delle parti di dedurre le prove implichi che esse abbiano una sorta di monopolio esclusivo quanto alla determinazione delle prove che possono entrare nel processo. È in questo senso la dottrina largamente prevalente, secondo la quale l’art. 115 c.p.c. enuncerebbe il principio di disponibilità delle prove come un aspetto del principio dispositivo, attribuendo quindi alle parti un potere esclusivo di dedurre le prove, fatte salve le ipotesi, alle quali la stessa norma rinvia, in cui la legge attribuisce al giudice il potere di disporre prove d’ufficio (Comoglio, L.P., op. cit., 131). Tuttavia è possibile interpretare l’art. 115 c.p.c. in una prospettiva diversa, secondo la quale esso riguarderebbe il diritto alla prova e il divieto di scienza privata per il giudice, ma non attribuirebbe alle parti il monopolio della deduzione delle prove. Di conseguenza, qualunque previsione di poteri istruttori del giudice sarebbe compatibile con quanto la norma prevede, anche tenendo conto del fatto che tali poteri sono già configurati da varie norme del codice, secondo una tendenza presente nella maggior parte degli ordinamenti processuali moderni (Taruffo, M., L’istruzione probatoria, cit., 90, 122; Id., Art. 115, cit., 470). Non a caso la giurisprudenza più recente giunge ad affermare che il giudice ha il dovere di disporre d’ufficio le prove che risultano necessarie per il corretto accertamento dei fatti (Taruffo, M., L’istruzione probatoria, cit., 130).
Secondo l’art. 183, co. 7, c.p.c., il giudice dispone l’ammissione delle prove che considera ammissibili e rilevanti. Si tratta di una duplice valutazione che opera come filtro preliminare rispetto alle prove che possono entrare nel processo; filtro che peraltro si riferisce solo alle prove che debbono essere assunte (v. infra, § 6) dato che le prove documentali vi entrano per mezzo del deposito in cancelleria, senza selezione preliminare (artt. 165, 166, 170, ult. co., c.p.c.).
Per rilevanza della prova si intende la possibilità che essa fornisca informazioni utili per l’accertamento della verità dei fatti (Comoglio, L.P., op. cit., 182; Taruffo, M., Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970). Questa possibilità è in re ipsa quando si tratta di una prova diretta, poiché, come si è visto, essa verte proprio sull’enunciato del fatto che si tratta di accertare. Quando invece si tratta di prova indiretta, la valutazione di rilevanza implica la formulazione ipotetica di una inferenza che mira a stabilire se il fatto che è oggetto della prova potrebbe essere assunto come premessa che giustifichi una conclusione relativa al fatto che deve essere accertato. Se il risultato di questa inferenza è positivo, allora la prova è rilevante e va ammessa in quanto può fornire informazioni utili per la decisione finale. La rilevanza della prova può, proprio per questa ragione, essere interpretata anche come fondamento di un principio generale secondo il quale tutte le prove rilevanti debbono essere ammesse. Se, come si è detto più sopra, il grado di conferma della conclusione sul fatto che deve essere accertato dipende dalle prove che vengono prese in considerazione, allora si configura la necessità di massimizzare per quanto possibile la quantità e qualità delle prove disponibili. In questo senso era già l’opinione di Jeremy Bentham, secondo il quale il diritto ideale delle prove dovrebbe ridursi alla regola per cui tutte le prove rilevanti debbono essere ammesse (Taruffo, M., L’istruzione probatoria, cit., 2012, 84; Id., La semplice verità, cit., 144), ma vale in generale il rilievo che l’incremento delle prove sino a disporre di tutte quelle disponibili (il cd. weight of evidence) (Nance, D.A., The Burdens of Proof. Discriminatory Power, Weight of Evidence, and Tenacity of Belief, Cambridge, 2016, 184) è un requisito essenziale per elevare il più possibile la qualità epistemica della decisione sui fatti (Taruffo, M., La semplice verità, cit., 140).
Con ciò il problema di stabilire quali prove possono e debbono essere ammesse potrebbe considerarsi risolto, ed invece esso si complica notevolmente sotto il profilo dell’altro criterio di selezione, ossia quello della ammissibilità della prova. Esso si riferisce alla presenza di norme che riguardino la possibilità giuridica di ammettere o non ammettere questa o quella prova, e la questione è complicata dal fatto che di solito si tratta di norme che escludono l’ammissione di determinate prove. Gli esempi sono numerosi: nell’ambito della prova testimoniale basti ricordare l’art. 246 c.p.c., che esclude la testimonianza di terzi che potrebbero intervenire in giudizio, oppure gli artt. 2721 ss. c.c., che in vario modo escludono la prova testimoniale privilegiando prove scritte (Crevani, R., La prova testimoniale, in La prova nel processo civile, cit., 292, 295). In tutti gli ordinamenti processuali esistono numerose norme che escludono la possibilità di ammettere prove rilevanti. Queste norme presentano numerose differenze nei vari sistemi processuali, sicché ad es. regole che esistono negli Stati Uniti, come la hearsay rule che esclude (con varie dozzine di eccezioni) le prove “di seconda mano” (v. Graham, M.H., Federal Rules of Evidence, VII ed., St Paul, Minn., 2007, 377), non esistono invece in Italia e in altri ordinamenti; regole che in Italia escludono la prova testimoniale di vari contratti non esistono negli Stati Uniti, e così via. Particolarmente rilevanti sono le regole che in tutti gli ordinamenti, ma con varie differenze, escludono prove rilevanti in quanto la loro ammissione implicherebbe la violazione di numerosi segreti professionali, industriali, militari e politici. In tutti questi casi si vede facilmente che il legislatore fa prevalere, sullo scopo della ricerca della verità, la protezione di interessi di varia natura, e ciò implica forti limitazioni a tale ricerca.
Più in generale si può dire allora che le regole che determinano l’esclusione di prove rilevanti sono essenzialmente antiepistemiche, poiché limitano e talvolta impediscono l’accertamento della verità (Taruffo, M., La semplice verità, cit., 144). La stessa valutazione negativa può essere formulata rispetto a norme, come la Rule 403 delle Federal Rules of Evidence statunitensi, nella quale si concede al giudice il potere di escludere discrezionalmente prove rilevanti in base a vari criteri tra cui l’opportunità di evitare ritardi e perdite di tempo (Graham, M.H., op. cit., 110). Si può tuttavia ammettere che talvolta il giudice escluda una prova logicamente rilevante quando essa risulti superflua, e quindi non utile per l’accertamento dei fatti, come ad es. nel caso della riduzione delle liste testimoniali prevista dall’art. 245 c.p.c., o in quello dell’esclusione di prove divenute superflue prevista dall’art. 209 c.p.c.
Una distinzione rilevante sotto il profilo processuale è quella che si pone tra le prove cd. precostituite e le prove cd. costituende (Comoglio, L.P., op. cit., 15; Tuzet, G., op. cit., 150). Le prime – e si tratta essenzialmente dei documenti di diversa natura – si formano prima o comunque al di fuori del processo, e la loro acquisizione avviene, come già si è visto, mediante deposito in cancelleria. Sono invece costituende le prove che si formano all’interno del processo, come accade di regola per le prove orali, dalla testimonianza alla confessione giudiziale, al giuramento e all’interrogatorio libero. Ciò spiega come mai la sez. III del libro II del c.p.c., intitolata Dell’istruzione probatoria, includa varie decine di articoli (da 191 a 262), che riguardano appunto le diverse modalità procedimentali della assunzione delle prove. Va tuttavia considerato che queste norme possono non essere applicate puntualmente nel processo sommario, poiché l’art. 702 ter, co. 5, c.p.c. introdotto nel 2009, prevede che il giudice proceda «nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto» (v. Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di F. Carpi e M. Taruffo, VIII ed., Padova, 2015, sub art. 702 ter, 2710).
Non essendo possibile svolgere qui un’analisi di queste modalità (v. anche Istruzione e trattazione), basti accennare al modello che il codice applica per l’assunzione delle prove orali. Esso è specificato con riferimento alla prova testimoniale (artt. 244, 253 c.p.c.; Comoglio, L.P., op. cit., 629, 641), ma viene applicato anche alla confessione giudiziale (art. 230 c.p.c.) e al giuramento (art. 238 c.p.c.). Tale modello include regole relative alla deduzione delle prove orali, che deve essere fatta «per articoli separati e specifici« (art. 244 c.p.c.; Comoglio, L.P., op. cit., 629) e regole relative alle modalità con cui la prova viene assunta. In proposito l’aspetto più rilevante è che spetta al giudice di rivolgere domande vertenti su tali “articoli”; egli può anche rivolgere ulteriori domande al soggetto interrogato, ma solo al fine di “chiarire i fatti” sui quali costui ha risposto (art. 253, co. 1, c.p.c.). È importante notare che è espressamente vietato alle parti e al pubblico ministero di rivolgere direttamente domande al testimone (art. 253, co. 2, c.p.c.). Al più le parti possono fare istanza affinché il giudice, se lo crede opportuno, possa rivolgere al teste domande “a chiarimento” (art. 253, co. 1, c.p.c.) (Crevani, R., op. cit., 349). Si tratta, come è facile vedere, di un metodo tradizionale, nei sistemi processuali europei, in cui il giudice è il dominus della formazione della prova orale –e quindi siamo lontanissimi dal modello angloamericano della cross-examination – ma è un dominus dai poteri più apparenti che reali, poiché l’oggetto della prova rimane stabilito in maniera sostanzialmente vincolante dagli “articoli” sui quali le parti hanno dedotto le prove.
Il sia pur sommario riferimento all’istruzione probatoria non sarebbe completo se non si richiamassero almeno alcuni altri aspetti di questa fase del processo. Da un lato, va ricordato che alle prove costituende viene assimilata (al di là del dubbio se essa sia o non sia un mezzo di prova) (v. Ansanelli, V., La consulenza tecnica, in La prova nel processo civile, cit., 993; Comoglio, L.P., op. cit., 839) la consulenza tecnica, per la ragione che essa si forma nel corso del procedimento (artt. 191-201 c.p.c.).
Dall’altro lato bisogna osservare che la materia delle prove documentali non è del tutto estranea all’istruzione probatoria. Non solo, infatti, una riforma del 2009 ha introdotto nel codice un art. 257 bis c.p.c. che ammette la testimonianza in forma scritta disciplinandone le condizioni e le modalità (Crevani, R., op. cit., 363; Comoglio, L.P., op. cit., 590). Soprattutto, le norme sull’istruzione probatoria si occupano anche delle modalità di controllo sull’autenticità dei documenti. Da un lato, quando si tratta di documenti pubblici si fa riferimento alla querela di falso (artt. 221-227 c.p.c.): un procedimento speciale disciplinato in dettaglio quanto alle modalità con cui esso deve svolgersi. Dall’altro lato, quando si tratta di scritture private si ricorre al procedimento di verificazione (artt. 214-220 c.p.c.) , con il quale si stabilisce se una scrittura o una sottoscrizione che sono state contestate sono autentiche (Rota, F., I documenti, in La prova nel processo civile, cit., 612, 658).
Quando tutte le prove – intese come mezzi di prova – sono state acquisite secondo le rispettive modalità, spetta al giudice il compito di stabilire se è stata raggiunta la prova dei fatti, ossia se le prove disponibili forniscono informazioni sufficienti a fondare una conclusione circa la verità o la falsità degli enunciati relativi a tali fatti, ovvero se tali informazioni non forniscono ragioni sufficienti per giungere a tale conclusione. Per stabilire se una conclusione probatoria è fondata sulle prove di cui dispone, il giudice deve formulare una valutazione all’esito della quale giunge alla decisione finale sull’oggetto fattuale della controversia (Nieva Fenoll, J., La valoración de la prueba, Madrid, 2010; Taruffo, M., La semplice verità, cit., 193, 224; Comoglio, L.P., op. cit., 151; Tuzet, G., op. cit., 274) . Questa valutazione presenta vari aspetti rilevanti, e problematici, che vanno sinteticamente segnalati.
Bisogna anzitutto considerare che, diversamente da quanto accade negli altri ordinamenti processuali moderni, nel sistema italiano sopravvivono consistenti residui di prova legale, ossia norme con le quali il legislatore predetermina il valore di alcune prove, con ciò sottraendole alla valutazione del giudice nel caso specifico (Tuzet, G., op. cit., 255; Comoglio, L.P., op. cit., 149). Per ragioni di carattere essenzialmente storico, queste norme sono collocate nel codice civile e riguardano soprattutto il valore probatorio dell’atto pubblico, che secondo l’art. 2700 c.c. «fa piena prova» della sua provenienza e delle dichiarazioni in esso contenute (Rota, F., op. cit., 587, 597; Comoglio, L.P., op. cit., 433), della scrittura privata, che secondo l’art. 2702 c.c. fa piena prova della sua provenienza dal soggetto che l’ha sottoscritta (Rota, F., op. cit., 644; Comoglio, L.P., op. cit., 458), e di altri documenti come il telegramma (art. 2705 c.c.) e le carte e registri domestici (art. 2707 c.c.) (Rota, F., op. cit., 688, 695; Comoglio, L.P., op. cit., 484, 488). Particolarmente interessante è l’art. 2712c.c. che, sotto il titolo un poco démodé, Riproduzioni meccaniche, prevede che le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche, e in genere ogni altra riproduzione meccanica di fatti e di cose, formano piena prova di questi fatti o cose se la loro conformità a tali fatti o cose non viene contestata da colui contro il quale vengono prodotte (Rota, F., op. cit., 706; Comoglio, L.P., op. cit., 501). Numerose altre norme (art. 2714 ss. c.c.) riguardano poi l’efficacia probatoria delle copie degli atti (Rota, F., op. cit., 715; Comoglio, L.P., op. cit., 517). Degna di nota è inoltre la sopravvivenza di una norma da tempo obsoleta come l’art. 2713 c.c. che si occupa dell’efficacia probatoria delle Taglie e tacche di contrassegno (Rota, F., op. cit., 714; Comoglio, L.P., op. cit., 516). D’altronde, anche la confessione ha di solito efficacia di prova legale (art. 2733 c.c.) (Segatti, M., La confessione, in La prova nel processo civile, cit., 541), e non è di regola ammessa la prova contraria al giuramento (art. 2738 c.c.) (Gamba, C., I giuramenti, in La prova nel processo civile, cit., 507). Come si vede da questo scarno elenco, sono numerosi i casi in cui è tuttora il legislatore del codice civile a disciplinare ipotesi rilevanti di prova legale. Il codice di procedura recepisce nell’art. 116 l’ormai generalizzato (altrove) principio del libero convincimento del giudice (Nieva Fenoll, J., op. cit., 65; Tuzet, G., op. cit., 255, 274), e sottopone le prove alla sua valutazione formulata con “prudente apprezzamento” (Taruffo, M., La valutazione delle prove, in La prova nel processo civile, cit., 207; Id., Art. 116, in Carratta, A.-Taruffo, M., Poteri del giudice, cit., 519), ma nello stesso momento fa salve queste ipotesi.
Nei limiti in cui vale il principio della valutazione discrezionale del giudice rispetto all’efficacia delle prove liberamente valutabili, occorre intendersi su quale sia la natura di siffatta discrezionalità. Non mancano, infatti, orientamenti secondo i quali, sull’esempio francese della cd. intime conviction (Nieva Fenoll, J., op. cit., 70; Vergès- Vergès, E.-Vian, G.-Leclerc, O., op. cit., 433, 436) si configura questa valutazione come una sorta di introspezione soggettiva e sostanzialmente irrazionale, lasciando il giudice libero di giudicare sulle prove in maniera essenzialmente arbitraria e individuale. Tuttavia ciò significa accettare che la decisione finale sui fatti sia inconoscibile nelle sue ragioni, e sia di conseguenza incontrollabile e non giustificabile. Ciò induce la gran maggioranza della dottrina processualistica (Vergès, E.-Vian, G.-Leclerc, O., op. cit., 439) a non condividere questa concezione, e ad optare invece per una concezione razionalistica della valutazione delle prove da parte del giudice (Ferrer Beltrán, J., La valoración racional de la prueba, Madrid-Barcelona-Buenos Aires, 2007, 91), il quale dovrebbe analizzare le prove in base a criteri razionali, per giungere ad una decisione fondata su ragioni controllabili.
Anche nell’ambito di questa concezione sorgono tuttavia alcuni problemi di rilievo. Uno di questi problemi riguarda le modalità con cui la valutazione delle prove dovrebbe svolgersi. Secondo una teoria nata negli Stati Uniti a proposito della decisione della giuria, ma abbastanza diffusa, tale valutazione dovrebbe essere olistica, nel senso che il giudice del fatto dovrebbe prendere in considerazione tutte le prove nel loro insieme e nello stesso momento, derivando direttamente da questo giudizio complessivo la decisione finale. Vi sono tuttavia varie ragioni per preferire una concezione analitica della valutazione delle prove, secondo la quale il giudice dovrebbe prendere in considerazione ogni singolo elemento di prova, per determinare l’oggetto e l’attendibilità dell’informazione che esso produce (Tuzet, G., op. cit., 261); solo in un momento logicamente successivo il giudice dovrebbe compiere una valutazione complessiva di tutte queste informazioni, giungendo a determinare il grado di conferma che esse offrono in riferimento alla decisione finale (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 216, 236).
Peraltro, anche nella prospettiva di una valutazione razionale, analitica e complessiva, delle prove, si tratta di stabilire in che cosa consista la razionalità della valutazione, e secondo quali criteri questa dovrebbe essere formulata. Tra le varie teorie che sono state proposte a questo riguardo, una teoria nata negli Stati Uniti ma abbastanza diffusa e discussa, è nel senso che si tratti di applicare alla valutazione della prova un calcolo di probabilità quantitativa, fondato essenzialmente sul cd. teorema di Bayes, il quale consentirebbe di determinare una probabilità numerica come misura dell’efficacia probatoria di ogni elemento di prova (Garbolino, P., Probabilità e logica della prova, Milano, 2014; Nieva Fenoll, J., op. cit., 130). In proposito bisogna tuttavia osservare che questo tipo di calcolo non è quasi mai applicabile nel contesto del processo, poiché di regola non si dispone delle determinazioni quantitative alle quali il calcolo dovrebbe essere applicato (Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici, cit., 166). Inoltre, sulla base di uno studio ormai classico (Cohen, L.J., The Probable and the Provable, Oxford, 1977) si può affermare che la probabilità quantitativa non sia applicabile alla valutazione delle prove, per la quale occorre allora fare riferimento alla probabilità logica. Ciò significa, in sostanza, che la razionalità della valutazione delle prove non dipende da un calcolo numerico, ma dalla struttura del ragionamento che il giudice formula per giungere alla decisione finale (Taruffo, M., op. ult. cit., 199). In altri termini, è la logica delle inferenze che collegano proposizioni secondo regole logiche, che fornisce criteri per la formulazione di una valutazione razionale.
Ne deriva la constatazione della struttura essenzialmente inferenziale di questa valutazione. Questa struttura può essere determinata in diversi modi, ma pare particolarmente utile il riferimento ad uno schema logico noto come “modello di Toulmin” (dal nome del filosofo che propose questo schema) (Toulmin, S.E., The Uses of Argument, upd. ed., Cambridge, 2003, 91). Non è possibile svolgere in questa sede un’analisi specifica di come questo modello di inferenza possa essere usato per rappresentare la struttura logica della valutazione delle prove, ma vi sono varie ragioni per ritenere che esso sia adeguatamente applicabile a tale valutazione, e dia la possibilità di costruire in maniera logicamente adeguata, e giustificabile, il ragionamento che il giudice dovrebbe porre in essere per giungere razionalmente alla decisione finale sui fatti della causa (Taruffo, M., La valutazione delle prove, in La prova nel processo civile, cit., 2012, 220; Gonzales Lagier, D., Questio Facti. Ensayos sobre prueba, causalidad y acción, Lima-Bogotá, 2005, 55).
Art. 24 Cost.; artt. 115, 116, 165, 166, 170, 183, 187, 191-262, 209, 244, 245, 257 bis, 702 ter c.p.c.; artt. 2699-2739 c.c.
La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, in Comm. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012; Carratta, A.-Taruffo, M., Poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Chiarloni, Bologna, 2011; Cohen, L.J., The Probable and the Provable, Oxford, 1977; Comoglio, L.P., Le prove civili, III ed., Torino, 2010; D’Agostini, F., Introduzione alla verità, Torino, 2011; Ferrer Beltrán, J., La valoración racional de la prueba, Madrid-Barcelona-Buenos Aires, 2007; Garbolino, P., Probabilità e logica della prova, Milano, 2014; Goldman, A.I., Knowledge in a Social World, Oxford, 1999; Gonzales Lagier, D., Questio Facti. Ensayos sobre prueba, causalidad y acción, Lima-Bogotá, 2005; Graham, M.H., Federal Rules of Evidence, VII ed., St Paul, Minn., 2007; Haack, S., Evidence Matters. Science, Proof and Truth in the Law, Cambridge, 2014; Kirkham, R.L., Theories of Truth. A Critical Introduction, Cambridge-London, 1992; Marconi, D., Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino, 2007; Nance, D.A., The Burdens of Proof. Discriminatory Power, Weight of Evidence, and Tenacity of Belief, Cambridge, 2016; Nieva Fenoll, J., La valoración de la prueba, Madrid, 2010; Taruffo, M., Carnelutti e la teoria della prova, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 399 ss.; Taruffo, M., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009; Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992; Taruffo, M., Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970; Toulmin, S.E., The Uses of Argument, upd. ed., Cambridge, 2003; Tuzet, G., Filosofia della prova giuridica, II ed., Torino, 2016; Vergès, E.-Vian, G.-Leclerc, O., Droit de la preuve, Paris, 2015.