Prove di democrazia nel mondo islamico
Le rivolte che si sono susseguite a catena in molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sul finire del 2010 e nei primi mesi del 2011 sono presto state battezzate ‘primavera araba’, benché iniziate in pieno inverno. Tale denominazione dipende dalle speranze di cambiamento che esse hanno suscitato, prendendo alla sprovvista anche i più esperti osservatori che non si aspettavano fenomeni tanto forti e generalizzati in un’area da decenni sottomessa a regimi apparentemente inossidabili. La miccia è stata la clamorosa protesta di un ambulante tunisino, Mohammed Bouazizi, che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco, dopo l’ennesima confisca delle sue mercanzie e i maltrattamenti da parte della polizia, per morire in seguito alle ustioni il 4 gennaio 2011. Una serie di manifestazioni spontanee, organizzate soprattutto da giovani mediante messaggi scambiati via cellulare o social network tipo Facebook, il 14 gennaio ha portato – in un crescendo irresistibile – alla caduta del generale Ben Ali dopo una presidenza durata 23 anni. Già il 25 dello stesso mese il contagio raggiungeva l’Egitto che reclamava infine le dimissioni del generale Hosni Mubarak, succeduto a Anwar al-Sadat 30 anni prima, ottenendole dopo un lungo braccio di ferro l’11 febbraio. Nello Yemen iniziavano sin dal 23 gennaio dimostrazioni contro il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da 32 anni. Il 25 dello stesso mese migliaia di sunniti partecipavano in Libano al ‘giorno dell’ira’ contro un possibile governo a prevalenza Hezbollah e il 28 era la volta di Gaza, dove si protestava per le rivelazioni di WikiLeaks a proposito di concessioni fatte da parte palestinese a Israele. Intanto, il 14 febbraio, pure il piccolo ma importante Bahrain veniva coinvolto dalle proteste, soprattutto da parte degli sciiti (circa il 75% della popolazione) da sempre emarginati dal governo sunnita, ma le manifestazioni venivano soffocate con l’appoggio saudita a partire dal 14 marzo. Anche in Iran si svolgevano intanto grandi manifestazioni antiregime.
A metà febbraio, partendo dalla Cirenaica (zona tradizionalmente ostile al regime), si producevano eventi simili in Libia, il cui Consiglio nazionale di transizione veniva riconosciuto il 10 marzo dalla Francia che promuoveva un intervento armato internazionale a protezione dei civili, autorizzato dall’ONU il 19 marzo sotto la guida della NATO, che metteva fine al regime di Gheddafi. Il 21 febbraio era la volta del Marocco: le piazze di Rabat, Casablanca, Tangeri e Marrakesh vedevano vaste manifestazioni di protesta. Ai primi di marzo molti disperati passavano il confine tra Libia e Tunisia. Per tutto il mese si susseguivano rivolte, anche a Baghdad e in Iran veniva fatto uso di bambini-soldato contro i manifestanti. Verso metà aprile era la volta della Siria, dove il governo baathista di Bashar al Assad iniziava un confronto cruento con i contestatori destinato a durare, soprattutto nella città di Deraa.
Il 24 aprile il presidente dello Yemen prometteva di farsi da parte entro un mese, ma manifestazioni e scontri sarebbero continuati un po’ ovunque fino a provocare lo storico intervento del presidente americano Obama sul Medio Oriente il 19 maggio del 2011.
In una sequenza impressionante, regimi militari, dispotici e corrotti sono stati abbattuti, o messi in seria difficoltà nel giro di poche settimane, non da un intervento esterno ma dai loro stessi popoli.
Le conseguenze della fine della Guerra fredda hanno così raggiunto anche la sponda meridionale del Mediterraneo. Prima, il timore che qualche territorio strategico o ricco di materie prime finisse nell’orbita sovietica aveva favorito a lungo una stabilità di facciata, grazie alla sostanziale strozzatura della classe media che – come la storia dimostra – è sempre stata il motore delle rivoluzioni liberali.
Lo scarto generazionale saprà prendere il posto di quello sociale?
I numeri parrebbero esserci: oltre la metà della popolazione in Tunisia e in Egitto ha meno di 25 anni. Se non avranno condizioni di vita almeno decenti a casa loro, l’attuale ‘invasione’ di immigrati potrebbe diventare davvero lo tsunami umano che tanto si teme per la nostra sicurezza, oltre che per quella d’Israele.
Di certo qualcuno cercherà di cavalcare l’onda per fare in modo, gattopardescamente, che tutto sembri cambiare per restare sostanzialmente immutato, mentre altri tenteranno di arrivare agli obiettivi che finora non sono riusciti a raggiungere. Tra questi ci saranno inevitabilmente anche movimenti e partiti d’ispirazione islamica, ma se fossero come quello che attualmente governa in Turchia sarebbe già un passo avanti rispetto al radicalismo eversivo degli ultimi decenni. Esportare la democrazia con la forza si era rivelato non solo impossibile, ma addirittura controproducente. Non si tratta di qualcosa che nasce magicamente dal rito delle elezioni. La divisione dei poteri, il ruolo dei corpi intermedi e della società civile non s’improvvisano. L’uccisione di Osama bin Laden (1° maggio 2011) potrebbe significare anche simbolicamente la fine di un’era, ma per l’inizio vero di qualcosa di nuovo occorrerà ancora aspettare.
Palestine Papers
La pubblicazione di documenti riservati relativi alle trattative israelo-palestinesi (denominati Palestine Papers, probabilmente per analogia con i Pentagon Papers dell’epoca della guerra del Vietnam) è avvenuta a opera di al-Jazeera alla fine di gennaio 2011. L’emittente radiotelevisiva panaraba non ha reso note le sue fonti, ma i documenti in questione, che coprono il periodo tra 1999 e 2010, hanno costituito uno dei più importanti ‘colpi’ giornalistici mai realizzati dalla stampa araba.
Democrazie musulmane
Anche se è presto per dire se i rivolgimenti in corso nel mondo arabo daranno vita a regimi realmente democratici, diversi paesi a maggioranza musulmana possono già oggi qualificarsi come tali. È questo il caso della Turchia, la cui crescente influenza (anche economica) nella regione potrebbe influenzare positivamente l’evolversi della situazione, in particolare attraverso il suo partito islamico moderato, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), possibile modello per movimenti politici simili in Tunisia, in Egitto e altrove. Un altro precedente non privo di interesse è quello dell’Indonesia, teatro nel 1998 di una rivoluzione (in parte dovuta alla crisi economica) che mise fine dopo tre decenni al regime di Suharto (1921-2008); dopo un periodo anche turbolento di assestamento, nel 2009 il partito democratico di Bambang Yudhoyono ha nuovamente conquistato la maggioranza dei voti.
‘Promuovere la democrazia’
Il concetto è stato strettamente associato alle politiche dell’amministrazione di George W. Bush (2001-09) ed è, per questa ragione, divenuto ‘sospetto’ agli occhi di molti osservatori, anche in Europa. Nel discorso tenuto da Barack Obama al Cairo nel giugno 2009, che esordiva con «sono qui per un nuovo inizio» (con riferimento ai rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico), il problema della democrazia nel mondo arabo è stato quindi posto in secondo piano: «nessun sistema di governo può o dovrebbe essere imposto da una nazione a qualsiasi altra», ha affermato il presidente degli Stati Uniti; nondimeno, il passaggio in cui ha precisato di essere convinto che tutti debbano aspirare ad alcuni diritti fondamentali (fra questi la libertà di espressione) è stato tra quelli che hanno riscosso maggiore consenso