PROVINCIA
. Antichità romana. - Provincia ha in origine presso i Romani il significato di "competenza, sfera di influenza" con riferimento ai magistrati rivestiti di imperium: si dice così provincia consularis o praetoria il campo entro cui si svolgono e sono contenute le attribuzioni rispettivamente del console o del pretore. Quando dei due pretori l'uno è destinato ai giudizî fra cittadini (praetor urbanus), l'altro a quelli in cui una almeno delle parti è uno straniero (praetor peregrinus), la competenza del primo si chiama provincia urbana, quella dell'altro provincia peregrina: tale uso della parola si continua fino negli ultimi tempi della repubblica, trovandosene esempî anche in Cicerone.
A poco a poco invece il vecchio significato cede il posto ad uno nuovo, che è del resto derivato dal primo. Infatti quando, acquistato il possesso della Sicilia, il senato decise di nominare per il governo di essa un nuovo pretore (227 a. C.), questo fu detto praetor Siciliae, e la sua sfera di competenza provincia Sicilia; lo stesso avvenne dopo l'acquisto della Sardegna e della Spagna. D'altro lato, poiché normalmente i consoli erano destinati al comando di un esercito fuori d'Italia, la provincia consularis finì con essere la zona di territorio entro cui si esercitava il potere dei consoli stessi, cioè il comando militare e il governo amministrativo e giudiziario che ne derivava. Pertanto provincia si disse la regione, grande o piccola, determinata nei suoi confini, ma anche talvolta, almeno in principio, di estensione non bene definita, in cui, fuori dei confini dell'Italia propria, si esplicava il potere militare, civile e giudiziario di un magistrato rivestito di imperium. Tale secondo significato col tempo manda in completa dimenticanza il primo, e con il regolarsi del governo provinciale e il precisarsi dei limiti territoriali di ciascuno di questi governi, finisce col divenire sinonimo di circoscrizione territoriale e amministrativa. Dopo Diocleziano il termine è esteso anche all'Italia; ma prima di Diocleziano, e cioè per tutta la repubblica e per i primi tre secoli dell'impero, il concetto della provincia è invece in netto contrasto con quello dell'Italia: ché la provincia non solo è fuori dell'Italia, ma è giuridicamente in una posizione diversa e quasi opposta di questa. Tale diversità si manifesta nella condizione giuridica della proprietà del suolo e nello stato della popolazione e delle città.
Il suolo nella provincia non è considerato come appartenente al privato che lo detiene, ma allo stato romano: e ciò per effetto logico della conquista. Lo stato può di esso disporre a sua volontà: può assumerne direttamente una parte per assegnarlo a coloni o per affittarlo (ager publicus), e può anche lasciarlo in possesso di coloro che lo hanno al momento della conquista: ma anche in questo secondo caso il possessore si considera tale e non proprietario, e il segno che la proprietà è dello stato si manifesta nel pagamento di un tributo, cui il privato è obbligato, e che può versare sia in denaro sia in natura. L'esenzione da questo tributo spetta soltanto a coloro che, come coloni, ricevono il terreno dallo stato col pieno diritto quiritario, o a quelle città che, per speciale benevolenza del governo di Roma, e ciò soprattutto durante l'impero, ricevono lo ius italicum (v.), e hanno così il loro territorio completamente assimilato a quello dell'Italia.
Alla condizione del suolo fa riscontro quella degli abitanti e delle città. I primi, per effetto della conquista, sono considerati come dediticii, cioè sono privi di qualsiasi diritto nello stato romano: conservano peraltro, se fanno parte di una comunità cittadina, i diritti che loro competono in questa. Anche le città, in linea di principio, perdono al momento della conquista ogni diritto, e sono ridotte nella condizione di civitates stipendiariae.
Sennonché nei riguardi delle città poteva darsi che alcune di esse fossero già strette a Roma, prima della conquista della provincia, da particolari legami di alleanza (civitates foederatae): tale legame sussiste anche dopo, e le città federate si considerano, pur nella provincia, come fuori di essa, sono sottratte alla giurisdizione del governatore, e sono riguardate quasi come stati sovraní. Altre città, per essersi comportate benevolmente verso Roma, ottengono al momento della costituzione della provincia la libertà, cioè il diritto di continuare a godere dei loro proprî ordinamenti e una certa indipendenza dal governatore (civitates liberae): a tale libertà si accompagna spesso l'esenzione dai tributi (civitates liberae et immunes).
Tutto questo vale soprattutto per il primo periodo di formazione del dominio provinciale: già negli ultimi tempi della repubblica, e poi ancor più nell'impero, la condizione delle città tende ad eguagliarsi. La funzione delle città federate, là dove ancora questa condizione era conservata, si riduce a mera apparenza; le città stipendiariae conservano anch'esse un loro proprio governo comunale. Il quale, tanto in queste città quanto nelle città liberae, tende via via ad eguagliarsi all'ordinamento romano: ciò naturalmente soprattutto nell'Occidente; d'altro lato anche in quelle provincie ove Roma aveva lasciato dapprima sussistere l'ordinamento cantonale, per pagia, come nella Gallia, o per tribù, come nell'Africa e nelle provincie danubiane, l'ordinamento comunale prende a poco a poco il sopravvento. Nell'impero le città si distinguono in comuni a ordinamento autonomo, che nella Grecia e nell'Oriente ellenistico era quello della πόλις greca, in Africa quello della città punica, ecc., e in comuni a ordinamento romano: municipî di diritto latino, municipî di diritto romano, colonie. Non è raro il caso, specie in alcune provincie, come l'Africa, che in uno stesso luogo coesistano, l'uno accanto all'altro, un comune con ordinamento autonomo e un altro con ordinamento romano. I primi vanno via via scomparendo o diminuendo di numero, trasformandosi in comuni di ordinamento romano, e salendo spesso, per benevola concessione di imperatori, fino a quello che era considerato come il grado più alto della scala: cioè al grado di colonia.
Al progressivo assimilarsi nella romanizzazione degli ordinamenti comunali fa riscontro l'eguale progressivo diffondersi fra gli individui del diritto di cittadinanza romana. Quando una città riceve l'ordinamento municipale romano, i cittadini hanno di conseguenza il diritto di cittadinanza. Ma, indipendentemente da ciò, lo stesso diritto di cittadinanza si concede anche a singoli individui, per benevolenza di imperatori, o ai soldati, al momento del congedo: a poco a poco pertanto questo diritto si estende grandemente, fino a che con l'editto di Caracalla del 212 d. C. (constitutio Antoniniana) esso raggiunge la sua massima storica estensione.
La formazione del dominio provinciale di Roma avviene all'inizio lentamente, quasi forzatamente, contro la volontà, si potrebbe dire, del senato e della maggioranza dei cittadini: con tale processo di formazione è da porsi in rapporto il sistema di governo che per le provincie stesse viene adottato e seguito fino a Silla, anzi, per quanto da questo più regolarmente ordinato, fino alla fine della repubblica: è un sistema inorganico, quasi di ripiego, che estende ai dominî fuori d'Italia le magistrature cittadine, adattandole alla meglio, senza ledere, almeno in via formale, i principî repubblicani, ai nuovi compiti e ai nuovi bisogni.
I primi possessi provinciali sono dati dall'acquisto della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, venuto come conseguenza della prima guerra punica: per il governo di esse si creano nel 227 a. C. due nuovi pretori (la Sardegna e la Corsica sono riunite insieme), e altri due se ne aggiungono dopo il 197 a. C. per il governo delle due nuove provincie spagnole (Hispania citerior e ulterior), acquistate anch'esse in seguito alla seconda guerra punica. In tal modo il governo provinciale, pure essendo diverso da quello che gli stessi magistrati, i pretori, esercitano a Roma e in Italia, si considera come una parte di questo, o per lo meno eguale a questo: ché, soltanto una volta eletti tutti i pretori, avviene fra loro l'assegnazione, mediante la sorte, delle diverse attribuzioni: quelle dell'amministrazione giudiziaria a Roma, e quelle dei governi provinciali.
Ma quando, mezzo secolo dopo, oltre ad un primo possesso nell'Illirico (167 a. C.), le provincie da quattro aumentano prima a sei (nel 146 a. C. si creano la Macedonia e l'Africa), poi, nei decennî successivi, a otto (nel 133 l'Asia in seguito al testamento di Attalo III, nel 120 la Gallia Narbonese) e non è più possibile, naturalmente, aumentare in corrispondenza il numero dei pretori, e d'altro canto le guerre fuori d'Italia si fanno più lunghe, il senato ricorre all'espediente di prorogare l'imperium dei consoli e dei pretori: in virtù di tale prorogatio questi, scaduto l'anno della magistratura ordinaria, conservano l'imperium, e in qualità, non più di consoli o di pretori, ma di pro consule o pro praetore continuano a comandare l'esercito o a governare la provincia che avevano già prima; in qualche caso straordinario lo stesso imperium proconsulare viene affidato ad un privato (a Scipione Africano nel 211 per la guerra in Spagna, a Cornelio Lentulo nel 206 pure per la Spagna, ecc.). La prorogatio era concessa normalmente per un anno, ma il numero delle provincie maggiore di quello dei consoli e dei pretori sommati insieme, la necessità in alcuni casi di condu̇rre a termine una campagna iniziata, il tempo che occorreva perché il nuovo governatore raggiungesse la sua sede, tutto questo fece sì che la proroga durasse quasi sempre più di un anno.
La distribuzione delle provincie fra consoli e pretori avveniva tenendo conto dell'importanza dell'esercito, il cui comando era connesso con il governo da assegnarsi, e che naturalmente era in relazione con la maggiore o minore sicurezza della regione e delle sue adiacenze: fino ai Gracchi tale assegnazione veniva fatta dal Senato, dopo che i magistrati erano entrati in carica; con la lex Sempronia de provinciis del 123, C. Gracco, a diminuire il potere del senato, stabilì che, prima ancora dell'elezione dei magistrati, venisse stabilito quali delle provincie dovessero essere consolari, e quali pretorie: l'assegnazione di queste ultime ai singoli pretori veniva fatta poi, mediante il solito sistema della sortitio.
Silla rende stabile il sistema della prorogatio imperii per il governo provinciale, aumentando da un lato il numero dei pretori da sei ad otto, in relazione anche con l'aumento dei tribunali permanenti (quaestiones perpetuae), e fissando come norma regolare che tutti, consoli e pretori, esercitino il primo anno della loro magistratura in Roma o in Italia, e il secondo nel governo delle provincie: la deroga al vecchio principio dell'annualità delle magistrature, ritenuto fondamentale per la difesa della libertà repubblicana, è ormai stabilita legalmente, pur senza rompere la stretta connessione, che fino ad ora si è cercato di mantenere, fra la magistratura della città e la magistratura della provincia, cioè, si potrebbe dire, tra lo stato-città e lo stato ormai avviato a divenire impero.
Ma che tale legame dovesse inevitabilmente spezzarsi lo dimostra il fatto che subito dopo Silla l'ordinamento stabilito da questo diviene rapidamente inefficace: il numero dei governi provinciali cresce ancora con la costituzione a provincia della Cirenaica (74), già da tempo ereditata da Apione, e della Bitinia ereditata da Nicomede III (74), con la conquista di Creta ad opera di Metello (67), e quella della Cilicia e della Siria (64) da parte di Pompeo, infine con la costituzione a provincia, avvenuta non si sa con precisione in quale anno, della Gallia Cisalpina: ancora pertanto si rende necessario che la prorogatio normale di un anno sia estesa a più anni, ma in tal modo il potere di alcuni di questi governatori provinciali, che dispongono di un esercito numeroso e fedele e di copiose risorse tratte dalla provincia sottoposta, cresce a dismisura: l'ambizione di procacciarsi i migliori di questi governi intorbida ancor più le lotte per l'acquisto delle magistrature: a porre rimedio a questo, oltre che da intenti personali, è mossa la legge di Pompeo del 52 con la quale si fissa un intervallo di cinque anni fra la magistratura urbana e quella provinciale: ogni legame fra l'una e l'altra si viene così a spezzare decisamente, e il principio riceve la sua definitiva sanzione nell'ordinamento augusteo.
All'organizzazione della provincia nella repubblica procede di solito il magistrato che l'ha conquistata, o che ne prende possesso in nome di Roma, con l'assistenza d'una commissione di dieci legati inviati dal senato; è lui che emana la legge costitutiva della provincia (lex provinciae) e che da lui stesso prende nome (lex Rupilia per la Sicilia, lex Aemilia per la Macedonia, lex Pompeia per la Bitinia, ecc.): tale legge regola la condizione delle città, l'ammontare dei tributi e i modi di riscossione, le circoscrizioni amministrative (dioecesis) e giudiziarie (conventus), ecc. Norme integrative di essa fissano poi ogni anno i singoli governatori, i quali, entrando in carica, pubblicano l'edictum, conforme quanto fa il pretore a Roma all'inizio dell'anno della sua magistratura: nell'edictum sono contenute le disposizioni relative alle spese e alle entrate della provincia, ai tassi d'interesse, al regime dei pubblicani, alle finanze delle città, alla procedura giudiziaria, ecc. Al governatore spettano infatti tutti i poteri civili, militari e giudiziarî nella provincia a lui affidata: per i primi egli amministra il territorio e le città, salvo i diritti a queste riconosciuti all'atto della costituzione della provincia; come comandante militare egli dispone delle truppe stanziate nella regione, e ha diritto di far leve sia fra i cittadini romani sia fra i provinciali; per i poteri giudiziarî a lui conferiti egli ha la giurisdizione civile e penale, questa fino al diritto di pena capitale nei riguardi dei provinciali, essendo lo stesso diritto nei riguardi dei cittadini romani limitato dallo ius provocationis, quella contenuta dalle norme stabilite nella lex provinciae e nell'editto e dalle leggi particolari delle città che hanno conservato l'autonomia.
Il governatore, che come insegna e prerogativa della sua carica ha il diritto dei fasci (dodici se console o pro consule, sei se pretore o pro praetore), è accompagnato da uno o più legati (legati pro praetore) che lo coadiuvano e lo sostituiscono, scelti da lui stesso, talvolta anche tra suoi stretti parenti, e da lui solo dipendenti, per quanto nominati dal senato; da una cohors amicorum o cohors praetoria, anch'essa formata da persone designate dal governatore stesso, ma mantenute dallo stato; infine da ufficiali subalterni (apparitores). Ogni provincia ha inoltre accanto al governatore un questore (la Sicilia due) per l'amministrazione finanziaria: esso è scelto dal senato, di solito a sorte fra i questori eletti per l'anno; in caso di decadenza o di morte del governatore il questore ne assume le funzioni (quaestor pro consule o pro praetore).
Il concetto giuridico della provincia, cui si è accennato in principio, e per il quale la provincia è considerata come un territorio di proprietà dello stato, e i suoi abitanti sono privi di qualsiasi diritto, ebbe nella repubblica un'applicazione pratica in generale anche troppo effettiva. Le provincie, e soprattutto le provincie orientali, nelle quali i Romani vennero a trovarsi a contatto con una civiltà raffinata e a sentirsi padroni di terre floridissime e allietate di ogni ricchezza della natura e dell'arte, furono, più che per lo stato, per i privati mandati a governarle, o per coloro che vi accorsero a prendervi appalti di riscossione di imposte, o ad annodarvi rapporti di interessi cammerciali o terrieri, una fonte di lauti guadagni, da sfruttare senza scrupoli né per le città e per i popoli sottoposti, né per lo stato, a cui vantaggio soprattutto quelle risorse si sarebbero dovute rivolgere. Invano furono portate leggi contro le concussioni dei governatori (leges repetundarum) o si tentò frenare le cupidige dei pubblicani e degli speculatori; vane pure, si può dire, riuscirono le ribellioni o le stragi, talvolta spietatamente sanguinose come quella di Mitridate, dei provinciali contro Romani e Italici: l'idea che la provincia era terreno di sfruttamento e che nessun dovere aveva Roma verso i popoli sottomessi, tranne che presso qualche spirito più elevato, rimase incontrastata nella mente dei dirigenti la politica romana fino a Cesare. Di qui, da un lato il nessun vantaggio tratto dai paesi e dai popoli sottomessi dalla soggezione a Roma, anzi molto spesso la loro decadenza civile ed economica, dall'altro la persistenza per le città e per i singoli individui delle provincie di una condizione di inferiorità giuridica rispetto alle città e agli abitanti dell'Italia, già tutti forniti del diritto municipale e di cittadinanza romana. Per tutto il periodo repubblicano rare sono le concessioni nelle provincie sia dell'uno sia dell'altra.
Il primo che vuol porre su nuove basi il dominio provinciale è Cesare, i cui propositi anzi furono forse così ampî che, se essi avessero tutti potuto tradursi in atto, può supporsi che ogni posizione di privilegio di Roma e dell'Italia sarebbe scomparsa fin dal suo tempo, come scomparve più tardi. Cesare con una nuova legge Iulia de repetundis volle rendere più facili e risolutivi i processi di concussione intentati contro i governatori disonesti; ma soprattutto egli cercò di promuovere lo sviluppo economico e civile, sulla base della romanita, delle provincie, avvicinando queste sempre più a Roma. Egli concesse in massa il diritto di cittadinanza a tutta la Gallia Cisalpina, assimilandola completamente all'Italia, i cui confini furono in tal modo portati ai piedi delle Alpi; pare fosse suo proposito fare lo stesso con la Sicilia, e forse anche con la Gallia Narbonense, da circa un secolo sotto il dominio di Roma. Con la resurrezione di Corinto restituì alla Grecia uno dei suoi nodi commerciali più vitali: e la progettata apertura dell'istmo avrebbe di esso ancora accresciuto il valore; con la resurrezione di Cartagine assicurò il progresso dell'Africa, che con essa riacquistava la sua capitale logica e naturale; con la fondazione di colonie nella Gallia, nell'Africa e altrove, accese in queste regioni altrettanti focolari di civiltà romana.
Antonio seguì le orme di Cesare, soprattutto nell'Oriente, dove fu largo di concessioni del diritto di cittadinanza, ma facendo di esse più che altro un'arma di lotta contro Ottaviano.
Augusto riprese il programma di Cesare, attenuandolo e correggendolo in quello che per il suo tempo poteva apparire esagerato e pericoloso. Anche Augusto volle che le provincie partecipassero sempre più largamente alla vita dell'impero, e le popolazioni trovassero nella soggezione a Roma il benessere materiale e la pace: e il governo e l'amministrazione di esse furono ordinati e diretti a questo fine; ma la partecipazione doveva avvenire gradualmente, mantenendo a Roma la sua naturale e necessaria funzione di centro di attrazione e di irradiazione, e lasciando invece che i singoli popoli conservassero quanto delle loro istituzioni non contrastava con la legge di Roma, sì che la fusione e l'assimilazione loro con la civiltà di Roma avvenissero, dopo averne create le basi, per un moto spontaneo e naturale dei popoli stessi. Il che infatti avvenne, con profitto grande e imperituro non solo di questi popoli, ma della civiltà del mondo: ché se in questo processo di assimilazione Roma e l'Italia furono sopraffatte dalle provincie, ciò avvenne per cause molteplici e complesse, e forse per un fatale sviluppo di circostanze: non così tuttavia che, subentrando all'impero il papato, quella preminenza di Roma non si riaffermasse sotto altra forma.
Dalle conquiste di Cesare alle guerre combattute da Augusto per allargare o per assicurare i confini romani, l'estensione delle provincie si era frattanto notevolmente ingrandita: si erano aggiunte tutte le Gallie fino alle rive del Reno, l'Africa nova, già regno di Numidia, l'Egitto, la parte occidentale e nord-occidentale della Penisola Iberica, le regioni alpine dal mare di Nizza al Quarnero, le regioni ad oriente dell'Italia e a settentrione della Macedonia fino al Danubio, la parte centrale della penisola dell'Asia Minore. L'ampiezza del dominio, la diversità delle genti sottomesse, la complessità dei problemi della difesa e dei rapporti con gli stati, con cui si è venuto in tal modo a stabilire il contatto, insieme col proposito di creare un'unità dell'impero non più soltanto per il vantaggio di Roma o dell'Italia, ma per la prosperità e la pace dei popoli sottomessi, pongono su una base nuova il dominio e il governo provinciale. Questo è ormai ordinato e considerato nettamente staccato dal governo della città, che d'altronde si concentra ormai di fatto nelle mani del principe: unico legame, più peraltro formale che sostanziale, fra le vecchie magistrature repubblicane, tenute ancora in vita, e i governi provinciali è che questi non possono essere affidati, di regola, se non a coloro che hanno rivestito una di quelle magistrature: ma la norma non ha, in pratica, altro scopo che di costituire un vaglio per la scelta dei governatori delle provincie, e stabilire una specie di graduatoria fra i governi di questi, sì che ai più gravi e importanti siano in generale destinati uomini di maggiore autorità ed esperienza.
Il nuovo ordinamento dato da Augusto al governo delle provincie si fonda sulla divisione di questo fra il principe e il senato, nel senso che alcune provincie ricevono il loro governatore dal primo, le altre dal secondo: le provincie comprese nel primo gruppo sono inoltre, come si vedrà, distinte in due categorie.
La data dell'ordinamento è fissata normalmente al 27 a. C., l'anno stesso in cui Ottaviano riceveva il titolo di Augustus e l'imperium proconsolare, integrato più tardi, nel 23 a. C., dal cosiddetto imperium proconsulare maius sulle provincie senatorie: sennonché, poiché alcune delle provincie, e fra le più importanti, come le Gallie e la Penisola Iberica, erano allora ancora nella fase di sistemazione militare e amministrativa, è da credere che, seppure in quell'anno vennero tracciate le linee generali e stabilito il criterio fondamentale di quell'ordinamento, esso venne definito nelle sue generali applicazioni pratiche solo nei decennî successivi.
Strabone e Dione Cassio ci dicono che il principio che Augusto pose a base della spartizione delle provincie fra lui e il senato fu quello di lasciare al senato quelle delle provincie che, ormai pacificate e da tempo in dominio di Roma, non avevano più bisogno di un presidio militare, ma solo di un'amministrazione civile, e di riservare a sé le altre, il cui governo implicava anche il comando militare delle truppe in esse stanziate. A parte i mutamenti nella distribuzione delle provincie avvenuti ancora sotto Augusto, e che potrebbero essere stati determinati da mutamenti nelle condizioni delle provincie stesse, sta il fatto che, se consideriamo quali furono le provincie lasciate al senato e quali quelle assunte dall'imperatore, vediamo che il principio enunciato non sempre trova riscontro nei fatti. Così, ad es., l'Africa fu di governo senatorio, nonostante che in essa fossero stanziate una legione e varie truppe ausiliarie, che, durante il regno di Augusto stesso, ebbero, al comando del proconsole, molto a combattere contro le popolazioni del sud; lo stesso si dica per la Cirenaica, anch'essa, riunita con Creta, di governo senatorio, e per la Macedonia. Onde è da ammettere che il principio affermatoci da Strabone e da Dione Cassio ebbe valore soprattutto per il tempo posteriore ad Augusto.
Nelle provincie di governo senatorio, il governatore continuò ad essere scelto dal senato, di solito ancora mediante il sorteggio: non mancano casi però, specie in momenti eccezionali, così p. es. in Africa durante la guerra di Tacfarinas, in cui il principe interviene indirettamente nella scelta: in due di esse, l'Asia e l'Africa, quel governatore fu sempre un ex-console (consularis), nelle altre, un ex-pretore (praetorius): tutti però ebbero lo stesso titolo di proconsul (ἀνϑύπατος). In queste provincie la responsabilità e l'iniziativa del governo risalivano, attraverso il proconsole, al senato: ma anche in esse non di rado l'imperatore interveniva con suoi provvedimenti, come ci dimostrano fra l'altro alcuni degli editti contenuti nella stele dell'agorà di Cirene. Nelle provincie imperiali il governatore veniva invece nominato direttamente dall'imperatore, e prendeva il titolo di legatus Augusti pro praetore (πρεσβευτὴς καὶ ἀντισράτηγος τοῦ Σεβαστοῦ): la scelta era riserbata fra i membri dell'ordine senatorio: per le provincie meno importanti, e dove era un esercito non numeroso, fra gli ex-pretori, nelle altre fra gli ex-consoli. Mentre per i governatori delle provincie senatorie era di regola che la carica durasse un anno, per quanto quasi sempre essa si prolungasse oltre questo termine, i governatori imperiali restavano nel loro ufficio fino a che fosse piaciuto all'imperatore, e cioè di solito molto più di un anno. Per gli uni e per gli altri era necessario l'intervallo di cinque anni, già stabilito da Pompeo, fra la magistratura cittadina e íl governo provinciale, ma il grande numero di consoli suffetti, che via via venne l'uso di nominare ogni anno in aggiunta agli ordinarî, fece sì che quell'intervallo fosse di solito assai maggiore, e cioè in generale di 10-12 anni.
Non tutte le provincie imperiali furono però rette da legati dell'ordine senatorio: alcune l'imperatore credette opportuno riservare ad un governo che potremmo dire di carattere più amministrativo che politico, e quindi più direttamente legato alla sua personale responsabilità: furono le provincie in cui particolari condizioni geografiche (natura montuosa del suolo), etniche e sociali (popolazioni ancora troppo aliene, per grado di civiltà o per turbolenza, da ogni processo di romanizzazione), o storiche (provincie venute in possesso dell'imperatore per atto più o meno volontario di un sovrano preesistente), consigliarono o obbligarono di non assimilare alle altre e di non stabilirvi subito tutti quelli che vedremo essere gli organi di un regolare governo provinciale. Queste provincie furono affidate a procuratores o a praefecti dell'ordine equestre, i quali non avevano sotto di sé che truppe ausiliarie, mai delle legioni, ed erano funzionarî di rango inferiore ai legati: fatta eccezione tuttavia per il prefetto dell'Egitto, provincia, fra tutte, in una posizione giuridica particolare, considerandosi in essa l'imperatore come l'erede dei Faraoni e dei Tolomei; onde essa, più che una terra dell'impero, era riguardata come una terra dell'imperatore, e il prefetto, più che un funzionario imperiale, un sostituto del sovrano, un viceré; onde anche il particolare ordinamento mantenuto in essa, diverso da quello delle altre provincie. E mentre le altre provincie procuratorie furono col tempo definitivamente o saltuariamente assimilate alle altre provincie imperiali, ricevendo per governatori legati dell'ordine senatorio, in Egitto rimase invece sempre costantemente il prefetto. In qualche caso, sotto Augusto, il praefectus di qualcuna di queste provincie procuratorie fu lo stesso principe locale che aveva fatto atto di soggezione a Roma: così nelle Alpi Cozie, il re Cozio: ché non si può a questo punto tralasciare di notare come fu politica di Augusto, solo in parte continuata dai suoi successori, di non trasformare in provincie dell'impero quelle regioni poste ai margini di esso, dove qualche dinastia locale, ormai stretta a Roma in vincolo di devota clientela, poteva adempiere con maggiore profitto e minore dispendio di forza per il governo imperiale, al compito di tenere a freno le popolazioni e di avviarle gradualmente all'assimilazione della civiltà romana.
L'ordinamento stabilito da Augusto restò in vigore sotto i suoi successori fino al sec. III: l'impero si allargò e aggiunse nuove provincie, o perché nuove regioni furono conquistate (sotto Claudio la Britannia, sotto Traiano la Dacia, l'Arabia, la Mesopotamia, l'Assiria), o perché regni già in clientela di Roma furono soppressi e le loro terre ridotte a provincia (la Mauretania formalmente già sotto Caligola, effettivamente sotto Claudio, la Tracia sotto Claudio, l'Armenia sotto Traiano); alcune regioni, che prima facevano parte di altre provincie, se ne distaccarono e formarono provincie autonome (le due Germanie staccatesi dalle Gallie; la Numidia separatasi dall'Africa); alcune provincie furono divise in due provincie minori (la Mesia sotto Domiziano, la Pannonia sotto Traiano); altre subirono mutamenti di confini; particolari condizioni consigliarono in qualche momento di passare una provincia dal governo del senato a quello del principe o viceversa, o di sostituire un governatore di rango inferiore con uno superiore: ma le linee fondamentali dell'ordinamento augusteo rimasero le stesse. Prova da un lato della efficace rispondenza di esso alle vere esigenze del governo delle provincie, dall'altro lato testimonianza del come Roma sapeva equamente contemperare stabilità di norma e duttilità di applicazione, sì che né l'una fosse mai troppo rigida né l'altra troppo mutevole. È soltanto nel sec. III, con il mutare della struttura dell'impero, al centro e alla periferia, con il sorgere qui di tendenze autonomistiche, con il prevalere del potere militare e la pressione dei barbari ai confini, con la decadenza economica e la trasformazione religiosa, che l'ordinamento augusteo perde via via la sua efficacia e si prepara in sua vece il nuovo regime, che verrà poi sanzionato e definitivamente applicato da Diocleziano.
Prima di passare a discorrere di questo, conviene accennare agli altri elementi che nell'ordinamento augusteo costituiscono il governo della provincia. Nelle provincie senatorie questo non subisce mutamenti notevoli rispetto a quello che era nel periodo repubblicano. Nelle provincie imperiali, accanto al legatus Augusti pro praetore, prende posto, per l'amministrazione finanziaria, il procuratore in luogo del questore, e i legati legionum, cioè i comandanti delle singole legioni, sostituiscono i legati del proconsole. È tuttavia da notare che un procuratore imperiale si ritrova di frequente anche nelle provincie senatorie, sia per l'amministrazione dei beni di proprietà imperiale in esse esistenti, sia forse anche perché una parte dei tributi e delle rendite di queste provincie veniva devoluta, anziché alla cassa del senato e del popolo, a quella del principe.
Dal sec. II d. C. compaiono inoltre, prima in Italia, poi fuori di questa, i cosiddetti legati iuridici, che sembra siano stati dei legati inviati nelle provincie imperiali per coadiuvare e sostituire il governatore nell'amministrazione della giustizia, cui non potevano naturalmente attendere i legati delle legioni, che erano esclusivamente comandanti militari. Sono infine da ricordare, nelle provincie non ancora completamente pacificate, i praefecti, funzionarî civili e militari insieme, cui erano affidate la vigilanza e la giurisdizione di particolari distretti, specie di confine, o di tribù indigene.
Nella repubblica i popoli e le città delle provincie non avevano alcun organo che li riunisse o li rappresentasse collettivamente: anzi dove assemblee o federazioni, anche di solo carattere religioso, esistevano da prima, esse furono dai Romani disciolte al momento della conquista e della costituzione della provincia.
Nell'impero, a cominciare da Augusto, Roma lascia invece che tali assemblee continuino a raccogliersi dove già esistono, si formino dove non esistono: di solito ogni provincia ha una sua propria assemblea, ma talvolta, come nelle Gallie, una sola assemblea riunisce i delegati di più provincie; o al contrario nell'ambito di una sola provincia, accanto all'assemblea generale, ne permane una più ristretta, che accoglie i rappresentanti di un gruppo di città o di un distretto, costituente, già prima della conquista romana, un'unità politica e religiosa distinta: come le città greche della Mesia inferiore, della Tessaglia nella Macedonia, della Ionia nell'Asia, ecc.
L'assemblea provinciale (commune provinciae, κοινόν) ha in particolare carattere e funzioni religiose: essa si raccoglie di solito annualmente intorno al tempio o all'altare dedicato al culto di Roma e di Augusto, il culto che, diffuso in tutte le provincie, rappresenta, nella varietà di queste, l'unità dell'impero, celebra le feste e i giuochi in relazione con esso, è presieduta e nomina a sua volta per l'anno successivo il sacerdos o flamen Augusti, o sacerdos provinciae (ἀρχιερεύς); essa ha una propria cassa (arca), con cui provvede alle cerimonie ed alle feste, e proprî funzionarî. Ma accanto alla funzione religiosa essa assume presto una funzione politica, in quanto è precisamente in queste loro riunioni che i rappresentanti delle città e dei popoli della provincia espongono al governatore o, a mezzo di una ambasceria (legatio), all'imperatore stesso, i loro desiderî e gli speciali bisogni della provincia, muovono accuse al governatore, o gli decretano onori: l'assemblea provinciale assume in tal modo il carattere di un organo rappresentativo dei popoli e delle città della provincia accanto, e in qualche caso di controllo, al governatore nominato da Roma.
La riforma di Diocleziano, mentre da un lato assimila quasi completamente l'Italia alle provincie, in quanto anche quella come queste viene divisa in tante circoscrizioni affidate a magistrati che le governano, d'altro lato fonda il nuovo ordinamento su due principî basilari: il frazionamento delle vecchie provincie in un numero assai maggiore di provincie più piccole, la netta separazione nel governo del potere civile dal militare. È ovvio pensare, e le testimonianze che ce ne diano conferma non mancano, che ambedue questi principî, e soprattutto il secondo, per i quali, come è facile comprendere, il potere dei governatori provinciali venne ad essere notevolmente diminuito, erano andati maturando nei decennî antecedenti al regno di Diocleziano, e più in particolare a partire dal regno di Gallieno. Diocleziano diede ad essi la loro definitiva applicazione, inquadrandoli nella generale riforma dell'impero da lui compiuta: l'anno preciso dell'ordinamento dioclezianeo non è possibile precisarlo, anche perché esso, è dimostrato, non fu applicato contemporaneamente in tutto l'impero: un documento che il Mommsen aveva creduto poter datare al 297, la cosiddetta Lista di Verona, ma che è invece forse di qualche anno più tardi, ci dà un terminus ante quem: poiché in esso sono elencate già le provincie dioclezianee. Le quali tuttavia ebbero ancora a subire ulteriori mutamenti nella loro divisione negli anni posteriori fino al regno di Costantino, e anche più tardi. Per il frazionamento delle vecchie provincie, ognuna di queste finì col dare luogo a due o tre provincie più piccole, cosicché il numero complessivo salì da quarantasette ad ottantasette; per l'assimilazione dell'Italia alle provincie, anche la penisola venne divisa in sette circoscrizioni, ognuna delle quali comprendeva una o due delle antiche regioni augustee: solo la città di Roma, con una larga zona all'intorno, era sottoposta ad una giurisdizione speciale, indipendente. Infine, per la separazione del potere civile dal militare e per la gerarchia di funzioni, fu stabilito che ogni provincia avesse un governatore civile, cui spettavano l'amministrazione e la giustizia e che era chiamato, a seconda della classe cui apparteneva, praeses, corrector o consularis: le tre categorie erano considerate di rango diverso, la maggiore essendo quella dei consulares; all'infuori di esse erano i governatori dell'Asia, dell'Africa e dell'Acaia, che avevano conservato il titolo di proconsules. Le provincie erano riunite in 13 gruppi, a ognuno dei quali, detto dioecesis, era preposto un vicarius; i vicarii dipendevano a loro volta dai praefecti praetorio, in numero di quattro; solo i governatori dell'Asia, dell'Africa e dell'Acaia dipendevano direttamente dall'imperatore. Il potere militare fu invece affidato ai duces, a ognuno dei quali era commessa la difesa di una parte del limes: le divisioni del limes, cui Diocleziano rivolse notevoli cure per restituirne o accrescerne l'efficienza, solo in parte coincidevano con le partizioni provinciali: ché se queste avevano quasi sempre un carattere artificioso, ben poco rispondendo a reali divisioni geografiche o etniche, quelle erano particolarmente dettate dalle esigenze della difesa. I duces rilevavano direttamente dai prefetti del pretorio o dall'imperatore. Le provincie continuarono ad avere la loro assemblea; alla riscossione delle imposte e all'amministrazione delle finanze provvedevano i comites largitionum e i rationales rerum privatarum, uno di ciascun ufficio per ogni diocesi: nelle singole provincie o gruppo di provincie erano poi i rationales summarum e i procuratores o praepositi rei privatae, corrispondenti rispettivamente alla summa res e alla res privata.
L'ordinamento dioclezianeo, sulla cui consistenza al principio del sec. V ci fa testimonianza la Notitia dignitatum, è annullato e travolto via via in Occidente dal distacco delle provincie, invase dai barbari, dall'impero, in Oriente invece si continua, con varie e notevoli modificazioni, fino a Giustiniano, e dopo di questo. Già prima di Giustiniano sembra che in qualche provincia si fosse di nuovo tornati alla riunione del potere militare con quello civile, subordinando questo a quello: la qual cosa, venendo a sottrarre il governatore della provincia dalla giurisdizione superiore del vicario della diocesi, aveva iniziato lo smembramento di questa come grado intermedio fra il governo provinciale e la prefettura del pretorio. Nel Sinecdemo di Ierocle (principio del secolo VI) le provincie appaiono rette alcune da κονσουλάριοι (consulares), altre da ἡγεμόνες, sotto il quale titolo si ha da intendere con ogni probabilità il più antico duces: gli uni e gli altri hanno il titolo generico di ἄεχοντες, che viene tradotto nei testi latini con iudices o magistratus.
Giustiniano fra il 535 e il 538 sanziona ed estende le mutazioni avvenute, in quanto sopprime definitivamente le diocesi, riunisce il potere civile e militare nelle mani dello stesso governatore, e in varî casi, ritornando anche in questo a quanto era stato prima di Diocleziano, concentra sotto uno stesso governatore più provincie, anche non confinanti fra loro. Il proposito del ritorno all'antico si nota anche nella resurrezione degli antichi titoli: di essi finora era rimasto sempre vivo solo quello di proconsul, limitato ai governatori dell'Asia e dell'Acaia, ora si riprendono quelli di praetor e di quaestor, cui si aggiunge quello di moderator (ἁρμοστής): a tutti è aggiunto l'epiteto di Iustinianus. Occorre tuttavia osservare che né tali principî furono uniformemente applicati da Giustiniano per tutto l'impero, per quanto almeno è lecito dedurre dalle notizie che se ne hanno, né l'applicazione ne fu integrale, in quanto anche là dove più provincie furono raccolte sotto il supremo governo di un solo non sembra scomparissero interamente i singoli governatori rimasti a lui sottoposti. E nemmeno tardò lo stesso imperatore, qualche anno dopo, ad apportare nuove parziali modifiche al suo ordinamento. Un secolo dopo, in luogo della divisione in provincie, l'impero bizantino presenta la partizione in temi.
Bibl.: J. Marquardt, Organisation de l'empire romain voll. 2, Parigi 1892; V. Chapot, s. v. Provincia, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités grecques et romaines; G. H. Stevenson, in Cambridge Ancient History, IX, Cambridge 1932, p. 437 segg.; Th. Mommsen, Le provincie romane da Cesare a Diocleziano, trad. it. di E. De Ruggiero, Roma 1887-1890; M. Rostovtzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, trad. ital., Firenze 1932; G. H. Stevenson, in Cambridge Ancient History, X, Cambridge 1934, p. 205 segg.; E. Albertini, L'Empire romain, Parigi 1929, p. 28 segg. (ordinamento di Augusto), p. 328 segg. (ordinamento di Diocleziano) con la più importante bibl. anteriore; per l'ordinamento di Diocleziano: G. Costa, s. v. Diocletianus, in Diz. Epigr. di E. De Ruggiero; J. G. C. Anderson, The Genesis of Diocletian's provincial reorganization, in Journ. Rom. Stud., 1932, p. 24 segg.; per quello di Giustiniano: A. Gitti, L'ordinamento provinciale sotto Giustiniano, in Bull. imp. rom., III (1932), p. 47 segg. (Append. al Bull. comm. arch. com. Roma, LX).
Stato delle provincie all'inizio del sec. V (dalla Notitia Dignitatum).
I. Prefettura del pretorio delle Gallie. - A) Diocesi della Spagna: 1. Baetica (consularis); 2. Lusitania (consularis); 3. Gallaecia (consularis); 4. Tarraconensis (praeses); 5. Carthaginiensis (praeses); 6. Insulae Baleares (praeses); 7. Mauretania Tingitana (praeses).
B) Diocesi delle Sette Provincie: 1. Viennensis (consularis); 2. Lugdunensis I (consularis); 3. Germania I (consularis); 4. Germania II (consularis); 5. Belgica I (consularis); 6. Belgica II (consularis); 7. Alpes Maritimae (praeses); 8. Alpes Poeninae et Graiae (praeses); 9. Maxima Sequanorum (praeses); 10. Aquitanica I (praeses); 11. Aquitanica II (praeses); 12. Novempopulana (praeses); 13. Narbonensis I (praeses); 14. Narbonensis II (praeses); 15. Lugdunensis II (praeses); 16. Lugdunensis III (praeses); 17. Lugdunensis Senonia (praeses).
C) Diocesi della Britannia: 1. Maxima Caesariensis (consularis); 2. Valentia (consularis); 3. Britannia I (praeses); 4. Britannia II (praeses); 5. Flavia Caesariensis (praeses).
II. Prefettura del pretorio dell'Italia. - A) Diocesi della città di Roma: 1. Campania (consularis); 2. Tuscia et Umbria (consularis); 3. Picenum suburbicarium (consularis); 4. Sicilia (consularis); 5. Apulia et Calabria (corrector); 6. Samnium (praeses); 7. Bruttii et Lucania (corrector); 8. Sardinia (praeses); 9. Corsica (praeses); 10. Valeria (praeses).
B) Diocesi dell'Italia: 1. Venetia et Histria (consularis); 2. Aemilia (consularis); 3. Liguria (consularis); 4. Flaminia et Picenum annonarium (consularis); 5. Alpes Cottiae (praeses); 6. Raetia I (praeses); 7. Raetia II (praeses); 8. Pannonia II (consularis); 9. Savia (corrector); 10. Pannonia I (praeses); 11. Dalmatia (praeses); 12. Noricum mediterraneum (praeses); 13. Noricum ripense (praeses); 14. Valeria ripensis (dux).
C) Africa (proconsul, dipendente direttamente dall'imperatore).
D) Diocesi dell'Africa:1. Byzacium (consularis); 2. Numidia (consularis); 3. Tripolitania (praeses); 4. Mauretania Sitifensis (praeses); 5. Mauretania Caesariensis (praeses).
III. Prefettura del pretorio dell'Illirico. - A) Diocesi della Dacia:1. Dacia mediterranea (cons.); 2. Moesia I (praeses); 3. Praevalitana (praeses); 4. Dardania (praeses); 5. Dacia ripensis (dux).
B) Achaia (proconsul, dipendente direttamente dall'imperatore).
C) Diocesi della Macedonia: 1. Macedonia (consularis); 2. Creta (consularis); 3. Thessalia (praeses); 4. Epirus vetus (praeses); 5. Epirus nova (praeses); 6. Macedonia salutaris (praeses).
IV. Prefettura del pretorio dell'Oriente. - A) Diocesi dell'Oriente: 1. Palaestina I (consularis); 2. Phoenice (consularis); 3. Syria I (consularis); 4. Cilicia I (consularis); 5. Cyprus (consularis); 6. Palaestina II (praeses); 7. Palaestina Salutaris (praeses); 8. Phoenice Libanensis (praeses); 9. Eufratensis (praeses); 10. Syria salutaris (praeses); 11. Osrhoene (praeses); 12. Mesopotamia (praeses); 13. Cilicia II (praeses); 14. Isauria (comes); 15. Arabia (dux).
B) Diocesi dell'Egitto: 1. Libya superior (praeses); 2. Libya inferior (praeses); 3. Thebais (praeses); 4. Aegyptus (praeses); 5. Arcadia (praeses); 6. Augustamnica (corrector).
C) Asia (proconsul, dipendente direttamente dall'imperatore): a) Hellespontus (consularis); b) Insulae (praeses).
D) Diocesi dell'Asia: 1. Pamphylia (consularis); 2. Lydia (consularis); 3. Caria (praeses); 4. Lycia (praeses); 5. Lycaonia (praeses); 6. Pisidia (praeses); 7. Phrygia Pacatiana (praeses); 8. Phrygia Salutaris (praeses).
E) Diocesi del Ponto: 1. Bithynia (consularis); 2. Galatia (consularis); 3. Paphlagonia (corrector); 4. Honorias (praeses); 5. Galatia salutaris (praeses); 6. Cappadocia I (praeses); 7. Cappadocia II (praeses); 8. Helenopontus (praeses); 9. Pontus Polemoniacus (praeses); 10. Armenia I (praeses); 11. Armenia II (praeses).
F) Diocesi delle Tracie: 1. Europa (consularis); 2. Thracia (consularis); 3. Haemimontus (praeses); 4. Rhodopa (praeses); 5. Moesia II (praeses); 6. Scythia (praeses).
Medioevo ed età moderna.
La circoscrìzione provinciale romana appare ancora viva nella prima età delle invasioni barbariche; prove dell'esistenza di un'assemblea provinciale troviamo in Gallia sino agli ultimi tempi dell'impero, e in Italia ancora nei primordî del sec. VI. Le provincie romane costituirono talora i quadri delle nazionalità regionali derivate dagli stanziamenti barbarici: così la Vasconia medievale corrisponde alla Novempopulonia romana; la Settimania per gran parte alla prima Narbonese; il regno degli Svevi e dei Vandali alla Gallaecia iberica; il regno degli Alani alla Lusitania e Cartaginese.
Tuttavia gli ordinamenti provinciali romani avevano già perduto, negli ultimi tempi dell'impero, parte notevole della loro efficacia a profitto delle città, sulle quali tendeva a gravitare l'asse dell'amministrazione e del governo; la predominanza, grado grado acquistata dal potere e dalle funzioni militari, aveva infatti condotto a un indebolimento degli ordinamenti provinciali, privi di funzioni giuridiche proprio nel campo che aveva acquistato maggiore importanza. Nei regni romano-germanici furono normalmente le città che costituirono le sedi del governo locale strettamente coordinato al potere centrale, mentre le provincie furono base per il governo dei territorî soltanto in modo eccezionale e transitorio. Questo fatto trova la sua spiegazione anche nella tradizione dei popoli germanici, che fondarono i nuovi regni sul territorio dell'impero; essi non conoscevano altra suddivisione della gens che il gau o cantone, e, quando si stanziarono nella Gallia e nella Penisola Iberica, trovarono nella civitas una suddivisione sostanzialmente corrispondente al loro antico ordinamento cantonale e se ne giovarono, assumendola come base dello stanziamento territoriale dei gruppi in cui la gens era divisa. Anche i Goti stanziati in Italia, nonostante l'influenza profonda della romanità, avevano iniziato già con Teodorico la distruzione degli ordinamenti provinciali; il potere centrale ne aveva soppresso man mano l'antica autonomia preponendo alle provincie, o almeno a molte di esse, funzionarî nominati dal prefetto del pretorio e sottoponendole a rigoroso controllo.
Nell'età del regno longobardo non abbiamo più menzione della provincia come organo di governo territoriale: chè se la tradizione letteraria delle antiche divisioni provinciali dell'Italia era ancora viva, essa perpetuava il ricordo, del resto non sempre sicuro ed esatto, di uno stato di cose ormai superato nell'ordinamento giuridico del paese retto dai Longobardi. Fu soltanto nelle monarchie costituite nella seconda metà del Medioevo che la provincia rinacque. Il primo esempio noi possiamo trovarlo nella monarchia normanna che ci appare divisa in circoscrizioni probabilmente in virtù della sua stessa formazione derivante dall'unione, nella persona del re, degli stati precedenti; ogni circoscrizione ebbe una sua organizzazione e questo ordinamento amministrativo, completato da Federico II, durò sostanzialmente per sette secoli, sino all'unificazione del Regno d'Italia. Nello stato pontificio la circoscrizione provinciale si va determinando nei secoli XIII e XIV ed è regolata nelle costituzioni egidiane: ogni provincia ha un rector con funzioni amministrative e giurisdizionali e un parlamento, istituto caratteristico dello Stato della Chiesa con funzioni legislative, finanziarie e amministrative. L'ordinamento provinciale della monarchia piemontese risale a remote origini, alla costituzione dei baliati, governi militari e giudiziarî, che avvenne in Savoia e al di qua delle Alpi in Val d'Aosta e Val di Susa, già nel Medioevo, mentre il Piemonte era diviso in comuni; ma anche qui nel secolo XVI la divisione è fatta per provincie. Nell'età moderna l'ordinamento dello stato piemontese tende a modellarsi in parte notevole su quello della monarchia francese; ora, in Francia il territorio era stato diviso in un certo numero di grandi signorie e ciascuna di queste aveva dato vita a un vigoroso particolarismo regionale con parlamento o stati provinciali, consuetudini proprie e ordinamenti di governo. Ma la monarchia incominciò già nei sec. XIV e XV a combattere questi particolarismi, inviando rappresentanti proprî, con ampî poteri delegati, a fianco dei governi regionali; in seguito proseguì nella sua politica unificatrice, rimovendo gradatamente questi ultimi e organizzando nel territorio delle circoscrizioni amministrative con a capo gl'intendenti, membri distaccati dal consiglio del re, sottoposti a rigoroso controllo da parte del potere centrale e investiti di attribuzioni amministrative e giudiziarie dirette, oltre che di controllo sugli organi locali. Anche la monarchia piemontese ebbe pertanto gl'intendenti nelle provincie con funzioni amministrative e di controllo, e, accanto ad essi, per l'esercizio della giurisdizione, i prefetti. La provincia rappresenta nell'ordinamento piemontese il termine di un lungo processo di costituzione dello stato, che gradatamente incorporò formazioni politiche di antica data, fondendole in una superiore organizzazione unitaria. Nella Lombardia una compiuta organizzazione provinciale, invece, si affermò soltanto nel sec. XVIII particolarmente con le riforme di Maria Teresa, che istituì in ogni provincia una "congregazione del patrimonio" con una giunta per l'ordinaria amministrazione.
Il breve dominio francese instaurò in Italia una nuova divisione sul modello francese per dipartimenti, con un'amministrazione centrale e un tribunale civile. Col Regno Italico, il dipartimento ebbe un prefetto, un consiglio di prefettura e un consiglio generale. Restaurati gli antichi governi, l'ordinamento provinciale fu ricostituito nelle sue forme anteriori, ma con modificazioni quanto alle attribuzioni dei funzionarî, che divennero, come gl'intendenti degli stati sardi, veri rappresentanti del potere centrale con tutte le funzioni inerenti, escluse la guerra e la giustizia.
Anche gli stati minori della penisola ebbero una propria circoscrizione provinciale: il granducato di Toscana con la sua divisione in dipartimenti presieduti dai prefetti; il ducato di Parma e quello di Modena con la divisione in "governi" con governatori e consigli provinciali. Di questa tradizione si giovò lo stato italiano dopo la ricostituzione dell'unità nazionale: la legge comunale e provinciale del 1865 costituì la provincia sul tipo del dipartimento francese.
Bibl.: C. Schupfer, I precedenti storici del diritto amministrativo vigente in Italia, Milano 1900; E. Besta, Il diritto pubblico italiano dal principato allo stato contemporaneo, Padova 1931.
Diritto pubblico vigente in Italia.
La provincia costituisce tanto la principale circoscrizione amministrativa, quanto la corporazione autarchica territoriale posta fra lo stato e il comune. Nella sua prima qualità, la provincia delimita col suo territorio la competenza delle diverse autorità che agiscono direttamente in nome dello stato; nella seconda rappresenta una persona giuridica creata dalla legge, un complesso di funzioni per il raggiungimento di interessi che le sono proprî e che costituiscono anche interessi dello stato. Ente intermedio fra lo stato e il comune, la provincia serve al coordinamento e alla soddisfazione di quegli interessi che, differenziandosi dagli interessi generali di tutto lo stato, e trascendendo d'altra parte i limiti territoriali dei diversi comuni compresi nella sua circoscrizione, sono però da essi egualmente sentiti perché scaturenti da un complesso di rapporti che legano gli uni agli altri e tutti tengono avvinti alla provincia. La quale, se non presenta sempre, in ogni caso, quell'individualità naturale che è propria della maggior parte dei comuni italiani, è però venuta via via assumendola dall'epoca dell'unificazione in poi. Scartata allora, per gravi ragioni politiche, l'idea di riconoscere la regione, che troppo avrebbe tenuto vivo il ricordo delle antiche divisioni esistenti fra i diversi stati italiani, il legislatore, creando la provincia, volle riconoscere ciò che, sia pure con nomi diversi, già esisteva nella vita amministrativa, se non di tutte, di molte fra le diverse parti d'Italia; vi fu certo talora, negl'inizî, artificiosità nella fissazione dei confini fra molte provincie, né sempre si ebbe il dovuto riguardo a quell'insieme di caratteri tradizionali geografici, economici, culturali, che avrebbero potuto imprimere un maggiore e più peculiare risalto all'individualità, alla tipica entità di ciascuna. Le critiche non furono poche e furono, in molti casi, giustificate: oggi però, dopo una quasi settuagenaria esperienza, sembra avere acquistato maggior valore ciò che, a proposito della provincia italiana, aveva sostenuto nel 1861 M. Minghetti: essersi cioè, meglio che altrove, in Italia intorno alla cioà, quasi intorno a un nucleo di cristallizzazione, a poco a poco agglomerati i comuni minori e rurali e avere stretto vincoli che non si possono disgregare fra loro, né confondere con altri. Comunque, ai difetti palesati dal tempo si è cercato di rimediare mediante la revisione, avvenuta nel 1923 e dopo, di parecchie circoscrizioni, mediante la creazione di alcune nuove provincie e la soppressione di altre. Gli elementi costitutivi della provincia (territorio, popolazione, imperium) hanno i medesimi caratteri di quelli del comune: il potere di comando le deriva dallo stato; il territorio è costituito da tutti i territorî dei comuni facenti parte della provincia e porta all'assoggettamento a questa di tutti coloro che vengano a trovarcisi; in esso i comandi della provincia non ricevono limitazione da quelli dei comuni o di altre provincie, ma solo da quello dello stato. A ciascuna provincia appartengono in qualità di membri tutti quanti coloro che, come comunisti, appartengono ai diversi comuni compresi nella sua circoscrizione: dall'appartenenza ad essa scaturiscono speciali doveri e diritti, diversi e distinti dai doveri e diritti dei comunisti. Solo per legge (art. 74 statuto, legge 31 gennaio 1926, n. 100) può essere comunque modificata la circoscrizione provinciale; è, più specialmente, la legge comunale e provinciale, quella che ne regola la fondamentale organizzazione e il funzionamento. La denominazione della provincia, come quella del comune, e delle parti di questo, viene determinata con decreto reale, sentiti, in ogni caso, gli enti interessati e il rettorato provinciale. Capoluogo della provincia è la città, che dà il suo nome a questa e nella quale hanno sede permanente gli uffici dell'amministrazione dell'ente autarchico.
Le recenti riforme fasciste hanno apportato profonde modificazioni all'organizzazione delle attuali 93 provincie, diminuendo in parte quelle analogie che prima si riscontravano in essa fra provincia e comune; abolito in entrambi il principio elettivo, si è nel comune istituito il podestà di nomina regia, unico organo individuale attivo e deliberativo, assistito da una consulta priva di funzioni deliberative, nominata, entro certi limiti, dal prefetto su designazioni provenienti dalle diverse associazioni legalmente riconosciute. Nella provincia, abolito il consiglio provinciale elettivo, organo deliberante, abolita la deputazione provinciale e relativa presidenza, elette dal primo, organi permanenti di governo della provincia, si sono ad essi sostituiti il preside di nomina regia, organo attivo e deliberativo e un rettorato, che, a differenza della consulta municipale, ha vere funzioni deliberative; i suoi membri però sono nominati con decreto del ministro dell'Interno, ma senza designazione (il che non avviene per la consulta) di alcuna delle associazioni legalmente riconosciute, comprese nella provincia. Comunque, le diverse cariche durano per un quadriennio e i nominati possono essere confermati. Il preside è coadiuvato da un vicepreside che, scelto fra i rettori, lo sostituisce in caso di assenza e di legittimo impedimento; entrambi possono essere revocati con decreto reale, contro il quale non è ammesso alcun gravame né amministrativo né giurisdizionale; sono ricoperti dalla garanzia amministrativa; sono tenuti, e vi sono tenuti anche i rettori, allo speciale giuramento di cui alla legge. Il numero dei membri del rettorato varia da quattro a otto ordinarî, secondo la popolazione della provincia; per tutte le provincie poi due rettori supplenti sono destinati a sostituire i primi assenti o legittimamente impediti. Per la nomina a tali uffici nessun requisito di capacità è richiesto; non possono essere però nominati, oltre che per ragioni di indegnità, coloro che, in genere, si trovino in speciali condizioni d'incompatibilità con l'esercizio delle funzioni affidate alla provincia o in contrasto con gli interessi di questa o siano uniti da vincoli di parentela, di affinità con gli amministratori, o con alcuni impiegati provinciali. Le donne possono far parte della consulta municipale, ma sono escluse, così come dagli uffici di podestà e di vicepodestà, di preside e vicepreside, anche dall'ufficio di rettore. Chi poi sia podestà o vicepodestà di un comune non può essere preside o vicepreside della provincia; nessuno può ricoprire in più provincie questi due ultimi uffici, né quello di rettore.
Le cariche sono gratuite; speciali indennità possono essere eccezionalmente, e compatibilmente con le condizioni finanziarie dell'ente, assegnate al preside e al vicepreside sul bilancio provinciale dal ministro dell'Interno; dal rettorato possono essere assegnate medaglie di presenza a favore dei membri che non risiedano nel capoluogo della provincia. I rettori che, senza giustificato motivo, non intervengano a tre adunanze consecutive decadono dall'ufficio: la decadenza è dichiarata dal Ministero dell'interno, previa contestazione dei motivi agli interessati: possono essere sospesi in altri casi o decadere di pieno diritto nei casi stabiliti in genere per gli amministratori degli enti locali. Le adunanze del rettorato, che può formare un regolamento interno per l'esercizio delle sue attribuzioni, sono ordinarie e possono essere straordinarie quando lo ritengano necessario il preside o il prefetto; non sono pubbliche; il prefetto, al quale deve essere sempre comunicato l'ordine del giorno, può sempre intervenirvi, senza voto deliberativo, o in persona o a mezzo di un suo rappre- sentante. L'iniziativa delle proposte da sottoporre al rettorato spetta indistintamente all'autorità governativa, al preside e ai rettori: la priorità della discussione è determinata da tale ordine. Per la validità delle adunanze è necessario l'intervento di almeno la metà dei membri assegnati al collegio; le deliberazioni sono prese a maggioranza assoluta di voti: a parità di voti prevale il voto del preside. Il quale può affidare al vicepreside o ai rettori speciali incarichi nell'amministrazione, potendo poi il rettorato delegare a uno o a più dei suoi membri più specialmente l'esercizio della vigilanza sul regolare andamento delle istituzioni create o mantenute a spese della provincia. Il preside rappresenta l'amministrazione della provincia, ne firma gli atti, la rappresenta in giudizio, vigila sui servizî, stipula contratti, fa atti conservativi dei diritti dell'ente, e così via, esercitando le funzioni prima demandate alla deputazione provinciale; è l'organo attivo, direttivo, propulsore e esecutore delle deliberazioni del rettorato; tutti gli atti, che non siano a questo espressamente riservati, sono compiuti dal preside, che, obbligato ad annuo rendiconto al rettorato, deve, ogni volta ne sia richiesto, fungere anche da organo consultivo del prefetto. Può inoltre in alcuni casi provvedere anche d'urgenza, invece del rettorato, alla cui ratifica però debbono essere sottoposti gli atti relativi. Al rettorato spettano le deliberazioni circa l'esercizio delle fondamentali funzioni demandate alla provincia, funzioni di carattere generale, non enumerate in modo tassativo dalla legge, perché la provincia può assumere la cura di tutti gl'interessi non rientranti nella specifica competenza di altri enti: patrimonio, ordinamento di uffici e servizî, contratti, bilancio, azioni da intentare o sostenere in giudizio, creazione di istituzioni pubbliche provinciali, amministrazione di quelle a beneficio suo e di una sua parte quando nbon ne abbiano una propria, vigilanza anche su quelle aventi una propria amministrazione, costruzione e sistemazione di strade, lavori relativi a fiumi e torrenti, istruzione secondaria tecnica, contributi per quella superiore, sussidî a favore di comuni e concorsi per opere pubbliche, per istruzione, per istituti di pubblica utilità, concessione di locali per uffici governativi, servizio di assistenza a favore di determinate categorie di persone quali i mentecatti poveri, gl'infanti abbandonati e, in genere, un complesso di funzioni di carattere prevalentemente sociale, che i singoli comuni non potrebbero svolgere da soli o che, rappresentando interessi superiori e più vasti, richiedono omogeneità e unità di criteri direttivi; opere pubbliche, educazione, sanità e igiene, assistenza e beneficenza, agricoltura. La provincia può inoltre, e il rettorato per lei, provvedere all'assunzione diretta di pubblici servizî. Valendosi poi dei poteri che le derivano dallo stato, essa esercita le funzioni amministrative, disponendo di una abbastanza ampia potestà regolamentare o normativa relativamente ai proprî organici, all'uso dei beni, ai tributi, alle istituzioni che le appartengono, e così via; speciali pene vengono applicate ai contravventori, spettando, in materia, speciali attribuzioni al preside, così come nel comune al podestà.
Le funzioni della provincia e le conseguenti spese vengono divise in obbligatorie e facoltative, a seconda ch'esse corrispondano a servizî la cui necessità sia oppure no riconosciuta inderogabile dalle leggi: grave problema fu sempre quello di proporzionare le prime ai mezzi di cui può l'ente disporre, così ch'esso non si presenti come più investito di spese cui fare fronte che di funzioni da esercitare. Comunque, la provincia provvede ai proprî compiti mediante le entrate del proprio patrimonio e mediante l'esercizio del potere tributario sulle persone e sui beni esistenti nel suo territorio. A tacere delle norme dettate dalla legge a cautela della conservazione dei beni demaniali e patrimoniali, mobili e immobili, a tutela della finanza e contabilità, si deve dire qui che la provincia può, nei limiti e in conformità delle leggi, istituire addizionali alle imposte comunali sulle industrie, commerci, arti e professioni, può imporre alcune tasse e contributi, può sovrimporre alle contribuzioni dirette sui terreni e fabbricati (costituisce questa sovrimposta fondiaria il cespite maggiore d'entrata); deve poi la provincia imporre la tassa di circolazione sui veicoli a trazione animale e sui velocipedi, e il contributo integrativo di utenza stradale.
Ogni provincia deve avere un albo pretorio per la pubblicazione delle deliberazioni e degli atti che debbono portarsi a cognizione del pubblico; i regolamenti provinciali approvati debbono essere pubblicati per quindici giorni consectu̇ivi; i contribuenti e, in genere, qualsiasi interessato possono avere copia integrale delle deliberazioni previo pagamento dei relativi diritti. La raccolta dei regolamenti provinciali e delle relative tariffe deve essere tenuta a disposizione del pubblico.
Collaboratori degli organi onorarî della provincia sono in ciascuna gli organi professionali, impiegati, il cui stato giuridico, come quello dei salariati, è disciplinato da speciale regolamento provinciale nei limiti della legge e del regolamento per l'esecuzione della stessa. Alcune norme circa tale personale sono comuni a quelle relative al personale comunale. Procede dal rettorato o dal preside la nomina degli impiegati, i quali sono soggetti al giuramento, al potere disciplinare dell'uno o dell'altro di tali organi, nonché al potere di speciali commissioni di disciplina, alle cui deficenze in materia provvede, d'ufficio, previa diffida, il prefetto: a questo pure competono poteri diversi anche sugli impiegati provinciali. Il segretario provinciale non ha la qualifica, riconosciuta invece a quello comunale, di funzionario dello stato. Egli è chiamato ad assistere alle deliberazioni del preside e del rettorato, a stendere e a firmare i verbali di delibere, gli atti di inventario, i mandati di pagamento, può rogare nell'esclusivo interesse dell'amministrazione provinciale atti e contratti, è responsabile in genere degli adempimenti di legge, delle pubblicazioni degli atti provinciali, dell'esattezza degl'inventarî, della conservazione degli atti, degli errori non scusabili nella formazione dei bilanci; è soggetto a una speciale commissione di disciplina presieduta dal preside, fa parte o presiede, a sua volta, le speciali commissioni istituite per gli altri impiegati e salariati provinciali. Speciali uffici tecnici coadiuvano l'amministrazione nell'esercizio delle sue funzioni; basti qui richiamare quelli di ragioneria e di tesoreria.
La provincia ha modo di estrinsecare la propria attività con una certa possibilità di espansione: è autorizzata ad esempio ad assumere, mediante convenzione con i comuni interessati, servizî di carattere comunale che si riferiscono a più comuni in essa compresi; altre volte ha facoltà, talora invece l'obbligo, di unirsi in consorzio con comuni, compresi o no nella sua circoscrizione, o con altre provincie per provvedere a determinati servizî o ad opere di comune interesse: tali consorzî sono enti morali; la partecipazione della provincia ai consorzî, di cui fan parte comuni, serve a determinare l'applicazione a essi delle norme dettate in genere per le provincie circa le funzioni, delibere, finanza, vigilanza e tutela: a esercitare queste ultime funzioni sono competenti il prefetto, la giunta provinciale e il consiglio di prefettura della provincia dove ha sede l'amministrazione consorziale. Per i consorzî interprovinciali, nella cui costituzione interviene il ministro dell'Interno di concerto con i ministri competenti, udite le giunte provinciali amministrative interessate, la competenza delle autorità governative provinciali viene determinata a favore delle autorità di quella provincia nella cui circoscrizione ha sede l'amministrazione del consorzio.
Come ogni altro ente autarchico, la provincia è sottoposta al controllo dello stato, che viene esercitato dal prefetto (vigilanza) e dalla giunta provinciale amministrativa (tutela). Il primo è chiamato ad apporre il visto di esecutività agli atti del preside e del rettorato, che non sono soggetti all'approvazione della giunta provinciale: egli può annullarli per motivi di legittimità e ricusarne l'approvazione per motivi di merito: trascorsi venti giorni dalla ricevuta dell'atto senza che il prefetto abbia interloquito, la deliberazione diventa esecutiva. Vale naturalmente anche nei riguardi della provincia la facoltà del governo di annullare, in qualunque tempo, di ufficio o su denunzia, sentito il consiglio di stato, gli atti illegittimi del preside e del rettorato. La giunta provinciale è chiamata a esercitare il controllo di merito, approvando le deliberazioni più importanti del rettorato: alcune volte anche il consiglio di prefettura è chiamato a dare il suo parere, in determinate materie, sia sulla regolarità sia sulla convenienza amministrativa. Tali controlli sono, in alcuni casi, esercitati da dicasteri centrali sentita la giunta provinciale amministrativa; in altri, da speciali organi consultivi centrali (ad es., la commissione centrale per la finanza locale). I regolamenti provinciali, per i quali non sia prescritta speciale approvazione ministeriale, dopo essere stati approvati dalla giunta, vengono trasmessi al ministro competente che, sentito il consiglio di stato, può annullarli in tutto o in parte, in quanto siano contrarî a leggi o a regolamenti. La funzione sostitutiva compete, a seconda dei casi, o al prefetto o alla giunta. Altri mezzi di controllo sono poi dati dal potere di procedere a ispezioni, affidato all'autorità prefettizia, e da quello di procedere a inchieste, spettante, oltre che al preside o al rettorato, al prefetto, alla giunta amministrativa, al consiglio di prefettura.
I mezzi più energici di controllo per parte dello stato sono rappresentati dal potere riconosciuto al prefetto di sospendere, riferendone immediatamente al ministro dell'Interno, il rettorato per gravi ragioni di carattere amministrativo e di ordine pubblico; dal potere, spettante al governo del re, di procedere, per gli stessi motivi, su proposta del ministro dell'Interno, allo scioglimento del rettorato provinciale, affidando l'amministrazione della provincia a un commissario straordinario, incaricato di esercitare le funzioni conferite dalla legge al preside e al rettorato, la cui ricostituzione deve avvenire entro il termine di un anno. Contro tale provvedimento non è ammesso alcun gravame né in sede amministrativa, né in sede giurisdizionale.
Quando ricorrano motivi di urgente necessità, il prefetto della provincia dove ha sede l'amministrazione di un consorzio di cui fa parte la provincia, può sospenderne l'amministrazione, affidandone la gestione provvisoria a un commissario; lo scioglimento per gravi motivi di ordine pubblico o per persistente violazione, nonostante richiamo, dell'osservanza di obblighi di legge è decretato dal ministro dell'Interno.
Bibl.: Oltre ai principali trattati di diritto amministrativo, v.: A. Rinaldi, Il comune e la provincia nella storia del diritto italiano, Potenza 1881; N. Rapisardi, Fondamento naturale e giuridico della provincia, in Filangieri, 1909; E Bonaudi, Comune, provincia e istituzioni pubbliche di beneficenza nel diritto positivo italiano, Torino 1912; G. Amendola, La provincia e l'amministrazione provinciale, Roma 1915: id., La provincia nell'amministrazione dello stato, in Trattato compl. di dir. amministr., di V. E. Orlando, Milano 1918, II, p. 3ª; C. F Ferraris, L'amministrazione locale in Italia, II, Padova 1920; R. Vuoli, I preside e il rettorato nell'ordinamento giuridico della provincia, Milano 1931; G. Solmi, La Provincia nell'ordinamento amministrativo vigente, Padova 1935; G. Zanobini, L'amministrazione locale, 2ª ed., ivi 1935.