Abstract
Si esaminano la forma e la funzione dei provvedimenti giurisdizionali, con le necessarie differenziazioni dovute alla sede processuale nella quale il provvedimento viene emesso: processo di cognizione, ordinaria o sommaria; procedimento in camera di consiglio. Si analizza, quindi, il regime di efficacia e di stabilità dei diversi provvedimenti, con particolare attenzione ai temi della revocabilità-modificabilità, o della impugnabilità degli stessi. Si esaminano, infine, la natura, la funzione e la stabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione.
1. Nozioni generali
All’interno della generale categoria degli atti processuali, quelli posti in essere dal giudice sono definiti, nella sez. III del tit. VI del I libro codice di procedura civile, provvedimenti.
Essi sono governati dal fondamentale principio di tassatività, che si evince chiaramente dalla lettura dei commi 1 e 2 dell’art. 131, in base ai quali le forme date dal legislatore sono quelle della sentenza, dell’ordinanza e del decreto; lo stesso legislatore stabilisce, caso per caso, quando il giudice debba pronunciare nell’una, o in altra delle due forme, aggiungendo che, in mancanza della suddetta prescrizione, egli possa optare per quella più idonea al raggiungimento dello scopo, sempre, però, all’interno delle tre appena indicate (così Chizzini, A., Provvedimenti del giudice, in Dig. civ., XXVI, Torino, 1997, 65, ma già Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1961, 371).
La disciplina specifica dei provvedimenti giurisdizionali, con riguardo alla forma e al contenuto degli stessi, è rintracciabile negli artt. 132 e 133, per la sentenza, 134, per l’ordinanza e 135 per il decreto, ma l’appartenenza degli stessi al genus degli atti processuali fa sì che valgano per essi anche le regole generali, con particolare riferimento a quelle contenute negli artt. 156 ss. sulla invalidità degli atti, ancorché in forma residuale e previa indagine sulla collocazione endoprocessuale oppure finale, conclusiva del processo o di una fase di esso, del provvedimento dato.
2. I provvedimenti del giudice della cognizione
2.1 Premessa
La disciplina degli artt. 132-135 riguarda, in particolare, i provvedimenti del giudice del processo di cognizione, sia quello ordinario di cui al II libro del c.p.c., sia quelli speciali di cui al IV libro. Al loro interno, si è scelto di distinguere tra i provvedimenti emessi in sede contenziosa, da quelli emessi in sede camerale – che potremmo anche definire volontaria o comunque non contenziosa – in ragione sia della forma, di volta in volta prescelta dal legislatore, in relazione alla funzione concretamente svolta, sia, soprattutto, in ragione del diverso regime di stabilità e di efficacia, che il provvedimento presenta.
2.2 A) Provvedimenti contenziosi appartenenti alla cognizione ordinaria
Nel processo di cognizione ordinaria, il ruolo assunto dai provvedimenti giurisdizionali nelle diverse forme è generalmente congruente con lo scopo loro assegnato all’interno del processo: la sentenza è il provvedimento decisorio per eccellenza, mentre l’ordinanza svolge innanzitutto una funzione propulsiva dell’andamento del processo e il decreto, infine, è variamente utilizzato dal legislatore, ma comunque prevalentemente a fini istruttori.
Esistono, tuttavia, apparenti discrasie, casi in cui viene meno proprio quella congruenza tra forma e funzione del provvedimento; si tratta, in realtà, di precise scelte del legislatore, spesso dettate da esigenze contingenti, quale, come spesso accade, quella acceleratoria dei tempi del processo, o deflattiva del carico giudiziario pendente. Esempi particolarmente chiari, in tal senso, sono rappresentati: dall’ordinanza di cui all’art. 186 quater (introdotta con d.l. n. 238 del 1995), idonea, su istanza di parte, ad essere provvedimento conclusivo di un giudizio di primo grado di condanna, naturaliter destinato a concludersi con sentenza; dall’ordinanza di cui all’art. 702 ter (introdotta con l. n. 69 del 2009), emessa a conclusione di un procedimento sommario di cognizione, piuttosto uniformemente considerato come un processo di cognizione ordinaria ancorché semplificata. Entrambi i provvedimenti sono dotati di contenuto condannatorio, di funzione decisoria e di idoneità al giudicato, conseguibile in mancanza di proposizione dell’appello da parte del soccombente (cfr. Chizzini, A., Provvedimenti, cit., 65; Basilico, G., La revoca dei provvedimenti civili contenziosi, Padova, 2001, 224 ss.; Basilico, G., Il procedimento sommario di cognizione, in Giusto proc. civ., 2010, 758 ss.).
La scelta dell’ordinanza in funzione decisoria del processo riguarda, tuttavia, esclusivamente ipotesi di condanna ed è, più specificamente, funzionale alla formazione di un titolo esecutivo di pronta disponibilità per l’avente diritto, ottenibile in tempi più ristretti rispetto a quelli necessari per la pronuncia della sentenza. Mentre l’attribuzione dell’efficacia di giudicato all’ordinanza è manifestazione di una specifica volontà del legislatore, che va oltre l’esecutività della stessa, e realizza una tendenza alla sostituzione della sentenza per mezzo dell’ordinanza, in ottemperanza a ragioni di celerità, piuttosto che di stabilità della decisione.
Per le sentenze di mero accertamento e per quelle costitutive persiste, invece, la correlazione tra forma e funzione, almeno nell’ambito della tutela ordinaria contenziosa.
Requisiti di tipo extraformale, propri della sentenza, sono rappresentati: dall’assoggettamento alle impugnazioni, sia ordinarie che straordinarie, a seconda che si sia o non si sia già formato il giudicato; dalla deducibilità, sempre in sede di impugnazione (appello o cassazione), dei vizi determinanti l’invalidità della stessa, che la sottraggono, quindi ad un’eventuale actio nullitatis (art. 161 c.p.c.); dalla irrevocabilità, tale per cui il giudice che abbia pronunciato sentenza si spoglia del potere di iuris dicere e quindi non può ritornare sulla questione, né esercitando uno ius poenitendi, né per prendere in considerazione mutamenti nelle circostanze che lo avevano indotto a quella decisione; dalla possibilità di essere emanate sia in veste definitiva, che non definitiva, allorché il giudice pronunci solo su una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito, in senso non impediente all’ulteriore prosecuzione del processo, oppure su una o alcune delle domande che gli siano state sottoposte, disponendo sempre per la prosecuzione dello stesso. Le sentenze non definitive sono soggette, alternativamente, ad impugnazione immediata o a riserva di impugnazione (Andrioli, V., Commento, cit., I, 374 ss.; Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 497 ss.; Tarzia, G.-Fontana, G. L., Sentenza: II - Sentenza civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, 3 ss.).
I requisiti di tipo formale, invece sono quelli contenuti nell’art. 132, tra i quali si segnalano, in particolare, l’intestazione («Repubblica italiana» – «In nome del popolo italiano»), il dispositivo e la motivazione, che oggi, dopo la l. n. 69 del 2009, consiste nella «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione», senza alcun riferimento all’esposizione dello svolgimento del processo, in precedenza richiesta.
Al di là dei casi, tipici, sopra ricordati, l’essenziale funzione dell’ordinanza, nell’ambito del processo di cognizione ordinaria, è quella istruttoria, secondo la regola del comma 1 dell’art. 176, in base al quale il giudice istruttore, salvo che la legge disponga altrimenti, pronuncia ordinanza.
Si tratta di provvedimenti di contenuto eminentemente processuale, non incidenti sulle situazioni giuridiche sostanziali dedotte (ai sensi del comma 1 dell’art. 177, non possono mai pregiudicare la decisione della causa), succintamente motivati e pronunciati in contraddittorio tra le parti, le quali o ne hanno conoscenza diretta perché presenti in udienza, oppure ne ricevono comunicazione dalla cancelleria.
Sono provvedimenti revocabili e modificabili, sia da parte dello stesso giudice istruttore che le ha emesse, sia da parte del collegio, nelle cause la cui decisione gli spetti ai sensi dell’art. 50 bis c.p.c. Il primo può esercitare il potere di revoca o modifica per tutto il corso della fase istruttoria proprio in ottemperanza all’esigenza di propulsione del processo e lo può fare sia d’ufficio che su istanza di parte; il secondo – ma anche il giudice unico in funzione decidente – può esercitare lo stesso potere sia ai sensi del comma 1 dell’art. 178, su istanza delle parti che intendano sottoporre ad esso le questioni già risolte dall’istruttore con ordinanza, sia in quanto potere generale, officioso, riconosciuto dal legislatore nel citato comma 1 dell’art. 177, che esclude l’efficacia vincolante dell’ordinanza istruttoria in sede decisoria. Il potere di revoca delle ordinanze istruttorie può essere esercitato sia a seguito di nuova valutazione di fatti esistenti (revoca in senso proprio), sia in considerazione di un avvenuto mutamento delle circostanze (Basilico, G., La revoca, cit., 50 ss.; Chizzini, A., Provvedimenti, cit., 67).
La generale revocabilità e modificabilità delle ordinanze dovrebbe, già di per sé, sottrarle all’impugnabilità; tuttavia il legislatore menziona quest’ultima in più punti del codice, compreso il comma 2 dell’art. 177, là dove esclude le prime nei confronti di ordinanze dichiarate espressamente, dal legislatore, non impugnabili, o contro le quali sia previsto specificamente il reclamo. Se ne evince che comunque l’ordinanza istruttoria non è mai soggetta alle impugnazioni di cui all’art. 323 c.p.c., date contro le sentenze, mentre può essere assoggettata, dal legislatore, a reclamo.
A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, il sistema processuale di cognizione ordinaria conosce anche altro tipo di ordinanze, non istruttorie, ma comunque emesse nel corso del processo e quindi necessariamente inserite nel suo corpo, le quali sono conclusive di sub-procedimenti e funzionali alla formazione di un titolo esecutivo anticipato rispetto alla sentenza definitiva del primo grado. Esse sono disciplinate dagli artt. 186 bis e 186 ter; vengono emesse su istanza di parte e sulla base della riscontrata esistenza di un presupposto normativamente predeterminato – nel primo caso la non contestazione (di una parte) della somma domandata, nel secondo il possesso di una prova scritta del credito –, sono esecutive – sia pure con modalità differenti –, revocabili o modificabili e soprattutto sono idonee a sopravvivere all’eventuale estinzione del processo che, dopo la loro emanazione, non dovesse proseguire. La funzione della prevista ultrattività è quella di consentire, in favore dell’avente diritto, il mantenimento in vita del titolo esecutivo già ottenuto, pur in presenza di carenza di interesse alla prosecuzione del processo fino alla pronuncia della sentenza, la quale, peraltro, potrebbe contenere la revoca o la modifica di quell’ordinanza (Carratta, A., Ordinanze anticipatorie di condanna (diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, passim; Basilico, G., La revoca, cit., 113 ss., 195 ss.).
Il sistema processualcivilistico aveva già conoscenza del suddetto tipo di ordinanze, ma nel rito del lavoro, attraverso l’art. 423: si trattava, anche lì, di titoli esecutivi anticipati rispetto alla sentenza, non espressamente dotati dell’ultrattività e revocabili o modificabili secondo regole parzialmente diverse da quelle sopra ricordate.
Di recente, con la l. n. 69 del 2009, la forma di ordinanza ha preso il posto di quella di sentenza nelle pronunce su competenza, litispendenza, continenza e connessione, pur essendo rimasto invariato il regime delle impugnazioni, in particolare del regolamento di competenza.
Quanto al decreto, si è già accennato alla promiscuità delle funzioni cui esso può assolvere nel processo. In particolare, all’interno della cognizione ordinaria, è un provvedimento mai definivo, nel senso di conclusivo, ancorché solo potenzialmente, di un grado di giudizio, del quale l’art. 135 specifica che può essere pronunciato d’ufficio o su istanza, anche verbale, della parte; la ragione fondamentale della suddetta previsione risiede nel fatto che si tratta di un provvedimento emanabile inaudita altera parte: esso, pertanto, è funzionale ad una trattazione in assenza di contraddittorio. Non esige, inoltre, motivazione, a meno che non sia espressamente richiesta dal legislatore; tuttavia si è giustamente osservato che, in presenza del comma 1 dell’art. 111 Cost., il giudice non può mai considerarsi esonerato dalla formulazione di una motivazione, sia pure molto succinta (Chizzini, A., Provvedimenti, cit., 66), a meno che non abbia contenuto processuale essenziale od esclusivo, quale, per es., quello di fissazione di un’udienza. Non è dotato di stabilità, bensì costantemente revocabile e modificabile; immediatamente efficace, ma non in grado di sopravvivere all’estinzione del processo. Dal punto di vista dell’efficacia, esso è carente di qualsivoglia capacità accertativa e quindi di incidenza sulle situazioni sostanziali dedotte in giudizio.
2.3 segue: Provvedimenti contenziosi appartenenti ai procedimenti speciali
Nei processi speciali del libro IV, diversi, per forma e spesso anche per funzione, dalla cognizione ordinaria del II libro, risulta differente anche l’assetto dei provvedimenti che il giudice può emettere.
Se il processo è solo differenziato – nel senso che si tratta sempre di un processo di cognizione ordinaria, ma che si svolge secondo regole almeno in parte diverse rispetto a quello di cui agli artt. 163 ss. del codice di rito, come per es., il processo del lavoro – le differenze sono limitate: la sentenza svolge il ruolo primario di provvedimento conclusivo di un grado del processo, nonché la sua tradizionale funzione accertativa di situazioni sostanziali e tende, pertanto, al giudicato. Per le ordinanze e per i decreti si potrebbe ripetere quanto già detto sopra.
Diverso è il caso dei processi appartenenti all’ampia congerie dei sommari, intesi tout court, o come cautelari. Con riguardo ai primi, innanzitutto il provvedimento finale non ha, generalmente, forma di sentenza (gli esempi più classici sono rappresentati dal decreto ingiuntivo, da quello pronunciato ex art. 148 c.c. in tema di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, ma anche dal decreto ex art. 28 st. lav.): la ragione di ciò risiede semplicemente nel fatto che quei processi presentano una struttura bifasica, all’interno della quale il provvedimento conclusivo della prima fase, che è quella sommaria, non nasce con specifica destinazione all’accertamento e alla stabilità, ma è funzionale alla somministrazione di una tutela - più rapida rispetto alla cognizione ordinaria accertativa, ma anche esecutiva - della situazione sostanziale dedotta. Ad esso può seguire, entro un termine perentorio, la seconda fase, strutturata secondo le regole della cognizione piena, tendente alla pronuncia della sentenza, o di altro provvedimento, naturaliter predisposto per la stabilità e per il giudicato. Il provvedimento che conclude la fase sommaria, tuttavia, è comunque idoneo a conseguire quella definitività-stabilità che lo rende assimilabile alla sentenza passata in giudicato, poiché l’accesso alla seconda fase del processo è rimessa all’iniziativa della parte che ne subisce gli effetti: se consapevolmente essa rimane inerte, il precedente provvedimento, sommario, si stabilizza, altresì negli effetti (Lanfranchi, L., Procedimenti decisori sommari, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1996, spec. § 3 ss.).
Anche le misure cautelari non vengono mai concesse in forma di sentenza, ma normalmente di ordinanza, più raramente di decreto inaudita altera parte, allorché la convocazione delle parti potrebbe pregiudicare l’attuazione della misura stessa (art. 669 sexies, cpv.). La misura cautelare, non essendo ex se destinata a fornire un assetto alla situazione sostanziale in crisi e pertanto dedotta in giudizio, ma essendo, invece, solo funzionale ad ovviare ad un pericolo di imminente pregiudizio a carico del diritto dedotto, non esercita alcuna funzione accertativa e quindi non tende mai al giudicato, ancorché dovesse mancare il successivo giudizio di merito nelle forme ordinarie, in ragione della limitata strumentalità che oggi le assiste (art. 669 octies). Conseguentemente, la misura cautelare non è soggetta ai mezzi di impugnazione, ma solo a controlli, sia pure diversamente funzionali, nelle forme del reclamo e della revoca-modifica.
2.4 B) Provvedimenti camerali
La tripartizione formale dei provvedimenti giurisdizionali, già descritta per il processo contenzioso nelle varie forme, si riproduce con riferimento ai provvedimenti in camera di consiglio, di cui al libro IV del c.p.c. L’assetto degli stessi, tuttavia, è funzionalmente differente, soprattutto rispetto alla cognizione piena, essendo quest’ultima fisiologicamente destinata all’accertamento, mentre non può dirsi altrettanto per la camera di consiglio. I provvedimenti appartenenti a quest’ultima categoria non sono, infatti, funzionalmente accertativi, non tendono, cioè, al giudicato, pur dovendosi riconoscere che, nel tempo, il legislatore ha loro attribuito una stabilità progressivamente maggiore, direttamente congruente con l’ampliamento dell’ambito di applicazione della camera di consiglio, sempre più protesa ad estendersi verso la tutela di diritti soggettivi.
I provvedimenti camerali rivestono, normalmente, la forma del decreto motivato, ma possono assumere, per espresso volere del legislatore, la forma della sentenza o dell’ordinanza (art. 737 c.p.c.). Non si dubita della natura giurisdizionale degli stessi, confermata dall’attribuzione dei relativi poteri al giudice ordinario; si tratta, tuttavia, di giurisdizione non contenziosa, in quanto non direttamente destinata alla tutela di diritti soggettivi, ma predisposta in una duplice direzione: quella della gestione di interessi, che dà vita a provvedimenti giurisdizionali con funzione autorizzativa-omologativa, esercitabile anche in presenza di un’attenuata osservanza delle garanzie del dovuto processo legale; quella risolutiva di conflitti, direttamente incidente su (o addirittura decidente di) diritti soggettivi, che esige il ripristino di tutte quelle garanzie (Montesano, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 18 ss.; Carratta, A., Processo camerale (diritto processuale civile), in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 1014 ss.; Chizzini, A., La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 152 ss.).
Si tratta di provvedimenti emessi da organo giurisdizionale generalmente in formazione collegiale, la cui attività non può prescindere dal contributo del pubblico ministero, previa istruttoria di tenore fortemente officioso, fondata essenzialmente sulle informazioni raccolte dal giudice stesso. Tuttavia, soprattutto nell’ambito dei procedimenti autorizzativi-omologativi, le funzioni sono affidate al giudice tutelare, secondo quanto disposto dall’art. 732, cpv., con specifico riferimento alla pronuncia di provvedimenti nell’interesse di minori, interdetti o inabilitati. Dal punto di vista del contenuto, raramente si tratta di provvedimenti condannatori, quasi sempre di mero accertamento o costitutivi. L’ambito sostanziale d’elezione, nel quale vengono pronunciati, è quello dei rapporti familiari e degli status.
2.5 segue: Il regime di efficacia e di stabilità
Il tema dell’efficacia dei provvedimenti giurisdizionali si ramifica in varie direzioni.
Con riguardo ai provvedimenti contenziosi di cognizione ordinaria, esso ha riguardo, da una parte, all’accertamento della situazione sostanziale controversa, dall’altra all’esecutività.
Il primo profilo si lega, tradizionalmente, all’idoneità del provvedimento al giudicato, assiste, pertanto, la sentenza e, solo su espressa disposizione, altri provvedimenti (v. la già cit. ordinanza ex art. 702 ter, ma anche quella di cui all’art. 186 quater). L’efficacia esecutiva, invece, prescinde dal giudicato; essa può accompagnare i provvedimenti sin dal momento della loro pronuncia e per questo riguardare tutte le tipologie degli stessi. Tradizionalmente, quell’efficacia si sorregge sulla correlazione necessaria con il contenuto condannatorio del provvedimento, ma le più moderne teorie tendono a superare questo principio in favore di effetti esecutivi riconducibili ai provvedimenti di contenuto costitutivo/modificativo/estintivo, almeno se pronunciati in forma di sentenza (cfr. Impagnatiello, G., La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, Milano, 2008, 249 ss.).
Quanto alla stabilità, si è già detto della naturale sottoposizione della sentenza ai mezzi di impugnazione, in ottemperanza al principio formalistico, comunque progressivamente superato dagli interpreti in favore dell’impugnabilità anche di provvedimenti che non abbiano forma di sentenza, ma ne abbiano il contenuto, in termini di capacità di incidenza su diritti soggettivi.
Coerentemente e salvo diverse indicazioni espresse del legislatore, le ordinanze e i decreti soggiacciono a revocabilità-modificabilità, secondo precise scelte in favore della tecnica della stabilità o di quella della revocabilità (Chizzini, A., Provvedimenti, cit., 70).
Per quel che riguarda i provvedimenti camerali, l’assenza di fisiologica destinazione al giudicato non collide con la stabilità, di tipo processuale, degli stessi; anche essi sono soggetti al rimedio del reclamo o dell’impugnazione, nel caso che abbiano forma di sentenza, ma il mancato esperimento di essi, o la loro consumazione, non produce giudicato, bensì solo stabilità-incontestabilità, destinata ad essere rimossa, per es., in presenza di un mutamento nelle circostanze rispetto alla situazione data al momento della pronuncia, che consenta al giudice comunque un nuovo pronunciamento: esempio tipico è rappresentato dalla sentenza che dichiara l’interdizione o l’inabilitazione, comunque soggetta a revoca ai sensi dell’art. 720 c.p.c.
Per lungo tempo i provvedimenti camerali hanno sollecitato l’attenzione della dottrina sul tema della loro ricorribilità in cassazione, nelle forme c.d. «straordinarie» dell’art. 111, co. 7, Cost., in ragione, soprattutto, della progressiva diffusione, nel sistema, di quei provvedimenti, sempre più spesso dotati, nel loro contenuto, della capacità di decidere di diritti soggettivi, o, per lo meno, di incidere su di essi, a conclusione di processi formalmente e strutturalmente ben lontani dalle garanzie della cognizione piena e ordinaria. Il problema riguardava, quindi, tutti quei provvedimenti che, esperita anche la fase del reclamo e non più dotati di controlli o impugnazioni di tipo camerale, quindi divenuti definitivi, risultassero produttivi di effetti sostanziali in tutto e per tutto assimilabili al giudicato, pur in mancanza delle pregresse garanzie processuali dovute alle parti, in primis quella del contraddittorio (Tiscini, R., Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005, passim).
L’elaborazione giurisprudenziale della suprema Corte è avvenuta nel senso di garantire, in questi casi, l’accesso alla Cassazione, purché in presenza dei requisiti sopra enunciati: definitività e decisorietà del provvedimento, a prescindere dalla forma dallo stesso rivestita. Parte della dottrina, in assonanza con una serie di pronunce della Corte costituzionale, ha prospettato la soluzione alternativa della «desommarizzazione» del procedimento camerale, che potrebbe ricondurre il provvedimento finale nell’alveo della cognizione almeno in parte (per es. attività istruttoria) ordinaria e delle impugnazioni ordinarie, nei diversi gradi, ritenendosi inadeguato, il solo giudizio di cassazione, al ripristino delle garanzie mancate nelle fasi di merito (C. cost., 12.7.1965, n. 70 e C. cost., 10.7.1975, n. 202, seguite da numerose altre dello stesso tenore; in dottrina, per tutti, Carratta, A., Processo camerale, cit., 1017 ss.).
3. I provvedimenti del giudice dell’esecuzione
Ai sensi dell’art. 487 c.p.c., «Salvo che la legge disponga altrimenti, i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sono dati con ordinanza». La regola è chiara, ma le possibilità di scelta di forme diverse da parte del legislatore sono molto limitate, in ragione, essenzialmente della compatibilità tra la funzione propria dei vari provvedimenti, congruente con le relative forme, e quella del processo esecutivo. Diversamente da quello di cognizione, infatti, quest’ultimo non è un processo accertativo di una situazione sostanziale controversa, è bensì dotato di funzione satisfattiva ed eventualmente anche distributiva, che, originando dal possesso e dalla spendita di un titolo esecutivo, prescinde dall’accertamento del diritto sottostante.
In ragione di ciò, il giudice dell’esecuzione, al di là delle ordinanze, difficilmente pronuncerà sentenze – fisiologicamente destinate proprio all’espletamento di quella funzione accertativa – mentre sicuramente pronuncerà decreti; le ipotesi sono tassative e la disciplina degli stessi non può che essere rintracciata nella regola generale dell’art. 135.
Là dove, quindi, le norme del libro III del c.p.c. riferiscano ai suoi poteri la pronuncia di una sentenza (controversie in sede di distribuzione; contestazione da parte del terzo chiamato a rendere la dichiarazione; decisione sulle opposizioni), non può che trattarsi di momenti o fasi di interferenza tra cognizione ed esecuzione, di talché la pronuncia della sentenza avviene, da parte del giudice dell’esecuzione, ma nell’esercizio di poteri cognitivi (Basilico, G., La revoca, cit., 294 s., ma già Satta, S., Commentario, cit., III, 128, e Andrioli, V., Commento, cit., III, 69).
La limitativa soluzione qui prescelta è altresì congruente con la struttura del processo esecutivo che, diversamente da quello di cognizione, il quale consiste in una sequenza concatenata di atti tendenti all’atto finale sentenza, è strutturato secondo una successione per fasi, all’interno delle quali gli atti sono dotati ciascuno di sufficiente autonomia, tale da risultare individualmente attaccabile per mezzo dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 (la giurisprudenza è giunta a parlare della successione di subprocedimenti autonomi, ciascuno dei quali si conclude con un provvedimento autonomo, attaccabile con l’opposizione di rito: così Cass., S.U., 27.10.1995, n. 11178) (Basilico, G., La revoca, cit., 298, testo e nt. 14, 301 s.).
In ragione di ciò, il legislatore ha ritenuto di dover disciplinare il regime di efficacia e di stabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione, diversamente rispetto a quelle della cognizione, facendo, in verità, una scelta di non facilissima interpretazione. La revocabilità delle stesse «fino a che non abbiano avuto esecuzione», di cui all’art. 487, cpv., attiene non già alla funzionalizzazione ad un risultato finale che è quello del processo, ma alla concreta attuazione del loro intrinseco contenuto; avrà riferimento, pertanto, al «compimento di quelle attività … idonee a incidere sulla situazione materiale extraprocessuale» (Chizzini, A., Provvedimenti, cit., 67) e non già su diritti dedotti in giudizio. Essa si realizzerà, quindi, in via immediata e automatica attraverso la sola pronuncia dell’ordinanza, allorché quella sia dichiarativa (per es. determinazione della somma ai fini della conversione), oppure attraverso la realizzazione di un’attività successiva, disposta dall’ordinanza stessa (per es., l’ordinanza di assegnazione o di vendita sarà eseguita dagli organi esecutivi, mentre la delega alle operazioni di vendita troverà esecuzione con l’accettazione del professionista delegato).
Ordinanze con contenuto condannatorio non si rinvengono nel processo esecutivo, ma ciascuna di quelle tipizzate, al di là dei peculiari limiti di revocabilità, è soggetta all’opposizione di rito di cui all’art. 617. La revoca dell’ordinanza è possibile anche dopo la scadenza del termine per l’opposizione di rito (Chizzini, A., Provvedimenti, cit., 69).
Fonti normative
Artt. 131-135, 186 bis-186 quater; 702 ter; 737, 487 c.p.c.
Bibliografia essenziale
Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1961, III, Napoli, 1957; Basilico, G., La revoca dei provvedimenti civili contenziosi, Padova, 2001; Carratta, A., Ordinanze anticipatorie di condanna (diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, Roma 1995; Carratta, A., Processo camerale (diritto processuale civile), in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 928 ss.; Chizzini, A., La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994; Chizzini, A., Provvedimenti del giudice, in Dig. civ., XXVI, Torino, 1997, 65 ss.; Lanfranchi, L., Procedimenti decisori sommari, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1996, spec. § 3 ss.; Montesano, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994; Punzi, C., Il processo civile. Sistema e problematiche, I, Torino, 2010; Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, vol. I, Milano, 1959; vol. III, Milano, 1965; Tarzia, G.-Fontana, G. L., Sentenza: II) Sentenza civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993.