Psiche
Il sostantivo psiche è desueto e rimanda a una remota classicità o a contesti accademici, ma le parole che contengono nella radice il riferimento alla p., come psicologia, psicoanalisi, psicodramma, psicofarmaco, psicotico, ma anche psichiatria, psichedelico oppure semplicemente psichico, sono usate abitualmente senza ormai più pensare al significato originario. Progressivamente, il termine psiche è divenuto di competenza pressoché esclusiva delle discipline psicologiche, anche se spesso trascina con sé, in modo esplicito o implicito, gli eterni dilemmi delle religioni e i controversi assunti delle filosofie. In tempi più recenti, nell'ambito delle cosiddette neuroscienze, la parola psiche è stata sostituita autorevolmente da mente (v. neuroscienze cognitive). Le neuroscienze, infatti, con il loro imponente apparato strumentale tecnologico, sono l'unico ambito disciplinare psicologico che non contenga il prefisso psico- nella sua denominazione: neuro- rimanda invece alle funzioni cerebrali effettuate dalle cellule nervose denominate neuroni. Tuttavia, può essere interessante constatare quanto le attuali diatribe tra discipline e le relative scelte terminologiche (psiche, anima, spirito, mente) abbiano la loro origine già ai tempi dell'antica Grecia, quando p. significava soffio, respiro vitale, indicando anche l'anima identificata con quel respiro. Nel mondo classico, infatti, la psiche/anima è spesso rappresentata come un piccolo essere alato, un idolo nudo, talora una farfalla. Così, nella mitica leggenda di Amore e Psiche, la bella fanciulla tormentata dal dio crudele è raffigurata con ali di farfalla. La p. come spirito aereo è dunque la vita stessa che 'anima' il corpo e che al momento della morte vola via. Ecco dunque che le due irrisolte e forse insolubili questioni che si trascinano ancora nell'epoca delle neuroscienze (la supposta immortalità dell'anima e la sua eventuale unità o separatezza dal corpo) si configurano già nei miti. Leggera, diafana, volatile, la psiche/anima sembra pur sempre conservare una sua concretezza, solo un po' meno sostanziosa del corpo. È dunque intesa come qualcosa di impalpabile, ma che conserva una traccia di materialità. Una suggestiva superstizione, sopravvissuta fino ai nostri giorni, dice infatti che dopo la morte il cadavere perde 21 grammi: il peso, appunto, dell'anima. Un quid che distingue il corpo morto dal corpo vivo, del quale sembra si possa trattare solo in termini trascendenti o magici. D'altronde, già S. Freud osservava, secondo la nota analogia tra il pensiero del cosiddetto primitivo e quello del bambino e del folle, che nel percorso etimologico delle parole si può scorgere il progressivo processo di astrazione dal livello concreto originario a quello simbolico e metaforico. Così, anche i termini più alti e sublimi conservano traccia delle loro basse origini materiali. Per quel che riguarda la p., questa traccia è il soffio, il 'qualcosa' che vola via. Ne consegue la prima delle questioni irrisolte: la credenza che esista un altrove abitato dagli spiriti dei defunti, nelle sue varie forme religiose, magiche, superstiziose, leggendarie. Inevitabilmente, la controversia circa lo statuto ultraterreno della nostra p. si ripropone identica e inesausta, lasciando a ciascuno la libertà e il peso di scegliere la propria personale convinzione. La credenza nell'immortalità dell'anima (punto chiave di quasi tutti i sistemi religiosi) consente di eludere l'angoscia della morte dei nostri cari e del più definitivo dei lutti: quello della propria morte. La psicoanalisi, invece, considera l'elaborazione della separazione e della perdita, la più dolorosa delle esperienze umane, un nodo evolutivo cruciale. Va ricordato che sul confine tra metapsicologia e trascendenza si giocò anche uno dei più roventi punti di dissenso tra Freud e C.G. Jung. Infatti, gli junghiani conservano nel loro patrimonio concettuale i termini animus e anima, a indicare metaforicamente i due elementi, 'maschile' e 'femminile' della spiritualità.
La psiche e il corpo
La seconda questione, correlata alla prima, riguarda l'antinomia tra mente e corpo, p. e soma, anima e carne, o come altro si può denominare la tradizionale contrapposizione fra i due termini della cosiddetta natura umana. Se può essere legittimo mantenere una posizione di astinenza circa la natura effimera o immortale dell'anima, nessuno studioso della p. può invece eludere la presa di posizione su tale delicato dilemma. Sinteticamente, si possono individuare tre grandi linee di tendenza in proposito. La prima ipotesi, cosiddetta dualista, è debitrice della celebre contrapposizione filosofica tra due distinte entità: una concreta corporea e una immateriale spirituale. Il modello rimane sostanzialmente quello platonico e poi cartesiano il quale ultimo, come è noto, descrive una res cogitans (l'intelletto) ben distinta da una res extensa (la materia corporea). Il dualismo è più facilmente conciliabile con le ambizioni egemoni e trascendenti della specie umana, che rivendica solo per sé l'attività mentale e spirituale superiore, conseguenza di un salto ontologico governato da un disegno divino.
La seconda ipotesi, materialista o riduzionista (che raccoglie gli epigoni della vecchia e della nuova scuola di psichiatria organicista e anche un consistente filone della ricerca psicologica empirica), ritiene invece che l'unica realtà psichica plausibile, e comunque l'unica della quale sia lecito occuparsi secondo un paradigma scientifico, sia quella della materia cerebrale e dei neuroni, collegati da una fitta rete elettrica e biochimica di collegamento (i neurotrasmettitori). In questa chiave, la differenza tra gli umani e gli altri animali, di specie in specie lungo la scala biologica, è essenzialmente quantitativa. D'altronde, anche gli studi di psicoetologia hanno chiarito che quanto distingue gli umani dagli 'animali non umani' non è un'alta muraglia, ma un mobile e labile confine. La biologia genetica e ancor più la microbiologia e la biologia molecolare, indagando le profonde somiglianze di funzioni e strutture tra noi e quelli che un tempo si definivano esseri inferiori, afferma che l'intelligenza stessa è considerata come una attività integrativa, che differisce, sia pure in ampia misura, più per elementi quantitativi che qualitativi. Ben prima dell'algido fascino del cyborg e del post-human, ci si è resi conto, per altro, che la frontiera della ragione è assai esile non solo sul versante degli animali, ma anche su quello delle macchine. Non a caso, sono gli scienziati di area riduzionista che enfatizzano le forti analogie tra l'intelligenza naturale e la cosiddetta intelligenza artificiale dei calcolatori elettronici.
Nel 1950 A. Turing propose di risolvere il dilemma con il celebre test che porta il suo nome: il soggetto che si sottoponeva all'esperimento era sfidato a riconoscere chi fosse il suo interlocutore, un umano o una macchina, soltanto sulla base degli elementi di conversazione. Come è noto però, in caso di apparecchiature sofisticate, il grado di indecidibilità all'interno di una relazione è altissimo, tanto che un docente della Stanford University si divertì a creare al computer una psicoterapeuta di taglio rogersiano, che chiamò Elisa, capace di intrattenere i pazienti con domande e risposte autoreferenti, per la durata di una seduta. È a questa fase del dilemma umano/non umano che ci si arroccò su un'ultima supposta specificità della p. della nostra specie: le emozioni. Le macchine, si disse, per quanto perfette, non possono provare affetti, né sentimenti. La terza ipotesi, più moderna e complessa, ritiene che le attività psichiche non coincidano con la somma algebrica delle singole attività neuronali, che ne costituiscono solo l'ovvio substrato anatomofisiologico. La p. di un individuo è il risultato del configurarsi plastico e mobile di proprietà emergenti, frutto di un coordinato gioco associativo tra innato e acquisito e dell'integrazione delle varie aree e funzioni neurocerebrali.
Non è facile delineare una mappa precisa dei vari indirizzi scientifici odierni rispetto a queste tre ipotesi. Non bisogna infatti dimenticare che sia la psicologia sia le neuroscienze non sono un blocco compatto del sapere, ma arcipelaghi compositi che, anche se si occupano degli stessi oggetti, fanno riferimento a presupposti teorici impliciti ed espliciti, e a metodologie diversificate anche all'interno delle varie branche, per di più attraversate da dispute, divergenze e controversie interne tutt'altro che facili da risolvere.
Si può comunque segnalare che anche sulla questione psiche/soma la psicoanalisi ha una posizione molto netta, poiché uno dei capisaldi è la visione integrata e unitaria della persona, ed è impensabile separare l'attività psichica non solo da quella cerebrale, ma anche da quella corporea nella sua interezza. Il corpo è nella mente come schema, immagine, rappresentazione di sé, e la mente, per contro, abita il corpo in ogni sua parte: nelle circonvoluzioni cerebrali come nei visceri, nella muscolatura scheletrica come nella pelle, a vari livelli di consapevolezza e di integrazione. Non si può prescindere, difatti, né in clinica, né in teoria, da quella globalità psicofisica secondo la quale, come già scriveva Freud, l'io stesso, all'origine, è un io corporeo; e successivamente, nel corso dello sviluppo, le articolazioni più raffinate del pensiero e dell'astrazione sempre coesistono e si declinano con i livelli più arcaici e concreti, consci, preconsci e inconsci, al confine con il biologico. È chiaro dunque quanto siano importanti le ricadute cliniche delle diverse ipotesi teoriche circa i rapporti mente-corpo; e quanto una corretta visione della cosiddetta medicina psicosomatica sia lontana dalle superficiali semplificazioni, che propongono interpretazioni di nessi di causa-effetto tra supposte fantasie inconsce rimosse e sintomi patologici del corpo. Tutto, nell'umano esperire, è psicosomatico, in salute e in malattia, poiché la p., come insieme strutturale e funzionale, è in continua e dinamica relazione sia con l'ambiente esterno, sia con quello interno corporeo. Un'eco moderna e tormentata della questione dualista o riduzionista la ritroviamo nell'ambito della bioetica, dove opposte fazioni si scontrano per stabilire se e quando l'anima si insedia nell'embrione o abbandona le spoglie mortali.
Conscio e inconscio
Al di là della dimensione superna della p. e del suo commercio con la corporeità, rimane da stabilire come tale istanza sia composta, quali siano i suoi processi di sviluppo e le sue funzioni. Anche in tal senso le teorie, le ideologie, i vertici di osservazione e le metodologie di indagine divergono nettamente a seconda dei modelli concettuali chiamati in causa. Una inconciliabile divergenza si configura tra coloro (non solo psichiatri organicisti, ma anche psicologi di area cognitivista e comportamentale) che fanno coincidere la p. con le funzioni intellettive consce e coloro che invece postulano l'esistenza di livelli inconsci: psicoanalisti freudiani, psicologi analitici junghiani e in generale tutti coloro che usano il modello psicodinamico.
Così, per es., anche alcuni psicologi cognitivisti che operano clinicamente si risolvono a parlare di inconscio cognitivo. In questa linea, l'io conscio, l'orgoglioso protagonista che per secoli ha attraversato la storia della filosofia e della psicologia, si rivela essere solo una minima parte della personalità umana, come la punta dell'iceberg rispetto all'enorme massa subacquea costituita dall'inconscio, che rappresenta l'alieno dentro di noi. L'Io, secondo Freud, non è che "uno schiavo che deve servire due padroni": il Super-io (istanza morale normativa e punitiva interiorizzata) e l'Es (rappresentante del mondo degli istinti e delle passioni). Tuttavia, seppure così ridimensionato, l'umano freudiano conserva una fiammella di orgoglio: dove è l'Es, là dovrà regnare l'Io; e la bonifica del territorio primitivo delle passioni, dura, faticosa, ingrata, mai compiuta, ci è consentita dalle forze della ragione.
Come si è detto, l'attività raziocinante del pensiero e del linguaggio non è che una minima parte dell'attività psichica; così, in ambito clinico, si possono riconoscere i danni causati al raziocinio dal disordine delle passioni; tuttavia non si devono sottovalutare le patologie che derivano invece dalla mancata o errata connessione tra pensiero ed emozione: dalle più serie forme di schizofrenia alle cosiddette organizzazioni borderline, fino alle micropatologie ai limiti della norma, quali le intellettualizzazioni scisse, la violenza anaffettiva, l'occasionale malafede. La salute psicofisica dipende dunque dai processi di integrazione, in un costante mobile equilibrio.
Tali teorizzazioni classiche della psicoanalisi coincidono con le più recenti deduzioni delle neuroscienze, che affermano appunto, a loro volta, quanto le emozioni siano indispensabili per il pieno svolgersi delle funzioni cognitive: la mente è connessa con ogni recesso del corpo, sia anatomicamente, mediante la rete nervosa, sia biochimicamente, mediante ormoni e neurotrasmettitori immessi nel flusso sanguigno. Inoltre, le funzioni psichiche superiori, consce e inconsce, non possono essere localizzate in centri anatomici definiti; si esplicano invece secondo interazioni tra aree specializzate. Per es., ci sono tanti tipi di memoria (iconica, a breve e a lungo termine, implicita ed esplicita, semantica ed episodica) processati in diversi sistemi cerebrali, che talora operano in interazione, talora indipendentemente gli uni dagli altri. La p. va dunque intesa come un insieme strutturale e funzionale, non di 'centri', ma di micro- e macrosistemi interconnessi sia a livelli intellettivi ed emotivi sia a livelli neuronali e biochimici: 'mappe' dinamiche coordinate e interagenti, che possono rendere ragione di quel va e vieni dinamico tra regressione e integrazione, disorganizzazione e maturazione, processi distruttivi e riparativi. Un sistema con il quale si interagisce quotidianamente nell'avventura psicoterapeutica e che contraddistingue la vita umana in salute e in malattia.
In ragione di tali basilari processi paralleli, sia lesioni organiche sia vicissitudini psicopatologiche, tramite l'interruzione di nessi, possono determinare analoghi sintomi e deficit; per contro, le psicoterapie, in quanto relazioni umane che promuovono dinamismi affettivi e cognitivi, inducono necessariamente variazioni nel relativo substrato concreto. Non desta stupore che i farmaci placebo, così come accade per le pratiche di suggestione di tutti i tempi, possano talvolta provocare benefici effetti terapeutici, come è stato dimostrato, tramite la liberazione di particolari mediatori neuronali della famiglia delle endorfine, utilizzando dunque le stesse vie e producendo effetti analoghi a quelli della farmacopea ufficiale. Così, è possibile utilizzare talvolta in fertile alleanza psicofarmaci e psicoterapie. Tuttavia credere che l'individuazione dei 'mediatori' costituisca l'essenza dellà psichica è un equivoco, e credere che la comprensione del meccanismo d'azione di un farmaco coincida con la comprensione della malattia è un'illusione.
Maschile e femminile
Una questione di scarso spessore scientifico, che però si ripropone periodicamente, è se esistano differenze tra p. femminile e p. maschile. Le supposte peculiarità vengono considerate sia in chiave quantitativa (quoziente di intelligenza, memoria, competenze linguistiche, capacità psicomotorie, attitudini logico-speculative o matematiche), sia in chiave qualitativa (gradienti istintuali di aggressività o sessualità, assetto emotivo, tendenza alla dipendenza o al dominio, predisposizione alle varie forme morbose e così via). La diatriba è sostanzialmente futile e comunque destinata a restare irrisolta. Tanto più che il bilancio è inevitabilmente condizionato da ideologie sessiste e simmetrici preconcetti di parte, che hanno il loro antecedente nei tempi in cui si riteneva addirittura che le donne non avessero l'anima. Le ricerche empiriche che credono di trovare riscontri concreti delle differenze sulla base di variazioni cerebrali nei due sessi sono infatti modeste e comunque metodologicamente inaffidabili nella loro pretesa di trovare precise corrispondenze tra un fatto anatomico e una qualità psicologica. È prevedibile inoltre che si possano trovare, ugualmente numerosi, studiosi paladini delle ipotesi causali biologiche, oppure sostenitori dell'importanza prevalente dei fattori storici e culturali nel promuovere o inibire certi tratti psichici di uomini e donne. Analoghe considerazioni, ovviamente, si possono fare per coloro che, fortunatamente soprattutto nel passato, hanno tentato di dare rilevanza scientifica ai pregiudizi razziali, nella fattispecie a supposte differenze psichiche tra i vari popoli.
Al di là dei conflitti competitivi di genere sessuale o di specie, si deve infine considerare che il senso soggettivo della propria p. e dei suoi confini è una lunga, laboriosa conquista, mai definitivamente compiuta. Senza entrare nell'ordine dei giudizi di valore, occorre considerare che ci sono molte culture passate e presenti che sostengono l'importanza di uno psichismo transindividuale collettivo. Tutti, d'altronde, in varia misura, sperimentiamo vissuti di fusionalità affettiva o di empatia, che momentaneamente sembrano annullare le barriere tra sé e non sé. Così esistono antiche credenze e moderne superstizioni che attribuiscono un'anima alle cose. Ogni bambino, per es., crede che i suoi giocattoli siano animati e particolarmente il suo prediletto orsacchiotto, che lo accompagna nel delicato passaggio dalla veglia al sonno, svolge la sua preziosa funzione di conforto alla solitudine in quanto il bambino gode dell'illusione che l'oggetto possieda una essenza psichica intermedia (che la psicoanalisi chiama appunto transizionale) tra lui e la madre.
Solo un aggettivo
A grandi linee, si può convenire che la p. è quell'insieme di funzioni e di processi che danno all'individuo l'esperienza di sé stesso e del mondo: definizione generica e non compromettente, che smorza le conflittualità teoriche tra filosofi, neurobiologi, psicologi, psicoanalisti. Possiamo forse accontentarci dell'intuitiva ovvietà che la nostra p. è composta da tante funzioni affettive, sensoriali, cognitive verbali e non verbali; da sogni, fantasie e memorie; da percezioni e da raffinate astrazioni e simbolizzazioni; della modesta consapevolezza che, nella salute e nella patologia, esiste una processualità, una plasticità perpetua che fa interagire il patrimonio innato con le esperienze relazionali e ambientali; che l'identità di ciascuno, ben più che la somma delle singole funzioni, è frutto di nessi associativi, di processi di integrazione consci e inconsci. Per alcuni pensatori, tuttavia, la questione della definizione della p., nella quale necessariamente chi osserva coincide con chi è osservato, è una tipica e infruttuosa aporia: un problema impossibile da risolvere in partenza, a causa della contraddizione insita nell'impostazione stessa del dilemma. È curioso notare che, in un gioco di rimandi etimologici, la parola greca aporia (difficoltà, incertezza) è anche il nome di una farfalla dei Pieridi (Aporia crataegi, da àporos, inaccessibile), detta tale perché infesta le più alte cime degli alberi da frutto. È una farfalla dall'aspetto non particolarmente appariscente, con il corpo nero e le ali trasparenti, che però, sia pure soltanto nel nome, rimanda ancora una volta alla sublime Psiche in forma di farfalla, alla quale il divino Eros strappa le ali.
Per gli psicoanalisti moderni, invece, la p. è ormai solo un elegante simbolo grafico. La ψ di p. si staglia sulla copertina delle nostre maggiori pubblicazioni e Psiche è il nome della storica rivista pubblicata in Italia al tempo dei pionieri e poi delle riviste edite attualmente in Italia, in Francia, in Germania. Per il resto, la p. ha dato origine a un utile e frequentatissimo aggettivo: psichico, destituito dell'antico fascino, seppure tuttora gravato dal peso delle perenni complicazioni concettuali che l'attributo sembra destinato a trascinare per sempre con sé.
bibliografia
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A.R. Damasio, The feeling of what happens: body, emotion and the making of consciousness, London 1999; Mente e cervello: un falso dilemma?, a cura di P. Calissano, Genova 2001.