Psichiatria
(XXVIII, p. 446; App. II, ii, p. 624; III, ii, p. 514; IV, iii, p. 79; V, iv, p. 317)
Parte introduttiva
di Massimo Cuzzolaro
Sistemi di classificazione e metodo diagnostico
La diagnosi psichiatrica viene formulata, per lo più, su base descrittiva e sindromica, non eziologica (come per le malattie infettive) né morfologica (come per i tumori) né biochimica (come per le malattie endocrine e metaboliche). La sistematica clinica della p. definisce, pertanto, le costellazioni di sintomi che corrispondono alle diverse diagnosi (Cuzzolaro 1993). Attualmente i sistemi di classificazione più seguiti in p. sono due: l'ICD-10 (International Classification of Diseases, capitolo 5°, 1992¹⁰) e il DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 1994⁴). Il primo sistema è edito da un'istituzione internazionale, la World Health Organization (WHO); il secondo da un'influente associazione statunitense, l'American Psychiatric Association. L'impostazione di base del DSM-IV e del 5° capitolo dell'ICD-10 è la stessa e le due sistematiche cliniche sono in buona misura traducibili l'una nell'altra. L'ICD è la classificazione di riferimento per le statistiche nazionali e internazionali delle malattie e delle cause di morte; il capitolo 5° è dedicato ai disturbi mentali e del comportamento. La versione destinata ai ricercatori (ICD-10-DCR, Diagnostic Criteria for Research) fornisce criteri diagnostici definiti e dettagliati e, in particolare, parametri espliciti di esclusione/inclusione per ogni categoria diagnostica. Il DSM-IV è la quarta grande revisione del manuale diagnostico statunitense. Elenca le categorie diagnostiche e indica circostanziati criteri di assegnazione. Dopo la prima edizione del 1950 e la seconda del 1968, tre revisioni si sono succedute nel giro di appena quattordici anni (DSM-III, 1980; DSM-III-R, 1987; DSM-IV, 1994).
La rapidità dei cambiamenti ha complicato la possibilità di utilizzare, nella clinica e nella ricerca, una classificazione stabilmente condivisa. Nel DSM-IV, rispetto al DSM-III-R, il numero complessivo delle categorie diagnostiche è aumentato e così pure il numero delle pagine (sono 886, circa un terzo di più).
Nel corso del Novecento, fra le due guerre e negli anni Cinquanta, la sistematica clinica psichiatrica aveva perso progressivamente importanza. Verso la fine degli anni Sessanta, però, sull'onda soprattutto della ricerca psicofarmacologica, gli studi di classificazione hanno conosciuto un nuovo straordinario rilancio. Il DSM-IV e l'ICD-10 (in particolare la versione DCR) appartengono a quella linea di tendenza che negli ultimi trent'anni, partendo dai Feighner Diagnostic Criteria (Feighner, Robins, Guze et al. 1972) e passando attraverso il DSM-III, si è imposta nella sistematica clinica psichiatrica, prima negli Stati Uniti, poi anche in Europa, servendosi di strumenti quali: 1) la pubblicazione di lessici volti a costruire un linguaggio di base comune (World Health Organization 1994²); 2) l'indicazione di criteri diagnostici dettagliati diretti alla standardizzazione delle diagnosi; 3) la costruzione e la verifica di strumenti di valutazione psicometrica, questionari e interviste strutturate e semistrutturate (un esempio recente è l'intervista diagnostica CIDI, Composite International Diagnostic Interview: World Health Organization 1997).
L'impostazione del DSM-III ha avuto un enorme successo. Lo dimostra anche il fatto che la WHO ha costruito il capitolo 5° dell'ICD-10 con gli stessi criteri. Al momento, dunque, non c'è che un grande sistema di classificazione dei disturbi mentali, oggetto di critiche e revisioni continue ma senza sostanziali alternative.
Riguardo alla logica che le ispira, sembra plausibile definire le classificazioni correnti come sistemi categoriali che utilizzano un approccio prototipico e insiemi di modelli nosologici e di criteri diagnostici politetici (Pichot 1994). Le diagnosi DSM e ICD passano attraverso classificazioni categoriali. In una classificazione categoriale ideale le classi sono categorie separate concettualmente in base all'ipotesi che i membri di una stessa classe siano omogenei e che le diverse classi si escludano reciprocamente. In p., però, dove le classificazioni sono fondate su descrizioni di sintomi, non può essere utilizzato un approccio categoriale classico ma un approccio prototipico: i membri di una classe sono individuati in base alla somiglianza al prototipo di quella classe e sono, in effetti, relativamente eterogenei fra loro. Inoltre, a differenza che in altri campi della medicina, in p. non esistono criteri patognomonici, ovvero basati su sintomi considerati di per sé sufficienti per formulare una diagnosi; anzi, si usano spesso insiemi di criteri politetici: per una diagnosi, cioè, non si richiede che tutti i criteri elencati siano soddisfatti, ma solo un certo numero (per es.: devono essere presenti almeno quattro sintomi di un elenco di sette).
L'estensione di un modello nosologico categoriale prototipico e politetico a tutto il campo della psicopatologia è fonte di vari problemi. I disturbi di personalità, per es., non sono efficacemente trattabili mediante diagnosi di tipo categoriale, mentre si adattano meglio a valutazioni di tipo dimensionale che misurino, lungo scale progressive continue, l'intensità con cui sono presenti i vari tratti in esame.
A partire dalla terza edizione (1980), i redattori del DSM hanno dichiarato di voler identificare le classi diagnostiche soltanto sulla base di dati clinici accessibili alla descrizione. Di conseguenza, hanno cercato di evitare qualsiasi riferimento a teorie eziologiche e a modelli patogenetici. Per questo motivo, il concetto di reazione (presente nel DSM-I) e la dicotomia psicosi-nevrosi (presente ancora nel DSM-II) sono scomparsi dalle edizioni successive (Widlöcher 1998). L'ICD-10 è, ora, sulle stesse posizioni.
È inevitabile, d'altra parte, che fattori di ordine culturale e storico-sociale intervengano nella collocazione delle linee di cesura che dividono il normale dal patologico e di quelle che individuano le varie etichette diagnostiche. Così, la categoria omosessualità, presente nel DSM-II (1968), è stata circoscritta nel DSM-III (1980) all'omosessualità egodistonica ed è scomparsa dal DSM-III-R (1987) e dal DSM-IV (1994), dove figura un'etichetta generica, "turbe della sessualità non altrimenti specificate", sotto la quale, fra i vari esempi, vengono rubricati i casi di disagio e sofferenza a causa dell'orientamento sessuale. I movimenti d'opinione promossi da associazioni di omosessuali hanno influito in modo determinante su questo processo e il cambiamento nel giudizio diagnostico è stato fondato sul consenso della maggioranza degli psichiatri nordamericani molto più che su prove empiriche. Analogamente, le pressioni dei gruppi di reduci del Vietnam hanno contribuito alla definizione di una nuova categoria diagnostica, il disturbo post-traumatico da stress, contemplato sia nel DSM-III-R sia nel DSM-IV.
La bulimia nervosa è entrata a far parte della nosografia psichiatrica solo dal 1980 (DSM-III), dopo la scoperta della dilagante diffusione, soprattutto fra le giovani donne (Ripa di Meana 1995; Cuzzolaro 1997), di crisi parossistiche di voracità incontrollabile seguite da più o meno pericolose contromisure di compenso. E, al seguito delle grandi fortune della chirurgia estetica e della rinnovata attenzione alla psicologia e alla psicopatologia dell'immagine mentale del corpo, la dismorfofobia descritta da Morselli alla fine dell'Ottocento, dopo una lunga eclissi, è tornata a figurare nel DSM-III-R e nel DSM-IV come categoria diagnostica autonoma, sotto il nuovo nome di disturbo di dismorfismo corporeo (Body images, 1990).
Riguardo al valore e all'utilità degli attuali sistemi di classificazione, l'approccio descrittivo delle maggiori classificazioni psichiatriche attuali - approccio detto neokraepeliniano, dal nome del celebre psichiatra tedesco E. Kraepelin (1856-1926) - presenta vantaggi e limiti. Le diagnosi hanno guadagnato molto in attendibilità: utilizzando l'ICD-10 e il DSM-IV sono aumentate le probabilità che psichiatri diversi, di fronte allo stesso caso, formulino la stessa diagnosi (Sartorius, Üstün, Korten et al. 1995). E le sperimentazioni psicofarmacologiche, che durano in media sei-otto settimane e richiedono diagnosi trasversali di stato, hanno tratto dalle nosografie correnti sicuri vantaggi. L'incidenza di diagnosi multiple (comorbilità) raggiunge però livelli che non hanno equivalenti in altri campi della medicina e la corrispondenza fra categorie nosologiche e trattamenti efficaci è ancora assai imprecisa. Questi limiti di validità costringeranno a riconsiderare i principi base delle classificazioni correnti.
Sul piano della relazione di cura, infine, si deve riconoscere che l'orientamento categoriale privilegia una prospettiva sincronica, che è solo una tra le visioni possibili dell'ambito clinico e non è la posizione, neutra e ateorica, che pretende di essere (Guilé, Bibeau 1995). Questo metodo di valutazione, se applicato in modo acritico, porta con sé il pericolo di una concezione fissista della malattia mentale e tende a trasformare i fenomeni psicopatologici da segni in semplici indici, asemantici, rivelatori di malattie per contiguità. In realtà, i comportamenti umani e quelli di un singolo individuo in epoche diverse della vita si distribuiscono lungo un continuum; è frequente che uno stesso paziente si sposti nel tempo tra varie categorie diagnostiche: la traiettoria seguita disegna rapporti evolutivi e collegamenti di senso che solo una prospettiva dimensionale e longitudinale, di tipo diacronico, permette di cogliere. In tale prospettiva è da considerare con inquietudine la sproporzione fra la diffusione dilagante delle indagini su casistiche, imperniate sull'uso monotono di scale di valutazione dei sintomi (rating scales), e la scomparsa quasi totale dell'approfondimento descrittivo e speculativo della storia di singoli casi (Hillman 1996). È stato notato a ragione che molti studi clinici che hanno fondato la psicopatologia moderna non sarebbero probabilmente accettati per la pubblicazione da molte riviste contemporanee di psichiatria. Un sintomo psichiatrico non viene semplicemente prodotto, è anche indirizzato a un insieme di destinatari potenziali: il soggetto stesso, l'ambiente circostante, i terapeuti. Vedere i sintomi psichiatrici come puri comportamenti (indici) rischia di far perdere di vista quegli aspetti che si colgono leggendoli anche come condotte simboliche (segni). Psichiatra e paziente non sono i poli di una situazione di osservazione pura, ma sono immersi in un rapporto di interazione in cui l'occhio dell'osservatore contribuisce a determinare il fenomeno osservato. Le nosografie categoriali sono strumenti preziosi purché non vengano considerate letture esaurienti ma solo tagli provvisori e parziali del campo clinico. La loro applicazione consente di formulare diagnosi di stato sufficientemente attendibili, ma elementi essenziali per la conoscenza del caso, per la prognosi e per la valutazione dei cambiamenti restano del tutto in ombra e segnano i limiti di validità, sensibilità e capacità predittiva di tale approccio.
L'integrazione di uno stile descrittivo, orientato sui sintomi (symptom-oriented), con uno stile interpretativo, orientato verso l'analisi psicobiografica e lo studio dei processi mentali (insight-oriented), è la linea ideale lungo la quale deve scorrere il colloquio psichiatrico (Othmer, Othmer 1994; Guilé, Bibeau 1995).
La deistituzionalizzazione psichiatrica
La chiusura dei manicomi ha segnato la storia recente dell'assistenza psichiatrica, in particolare in Italia. Al proposito può essere utile qualche richiamo storico.
Nel corso dell'Ottocento in molti paesi gli asili per alienati furono trasformati da luoghi di pura detenzione in centri di cura e di lavoro. I criteri edilizi furono adeguati a quelli seguiti per ospedali e sanatori e i dispositivi di sicurezza e segregazione furono dissimulati per applicare nuovi metodi di trattamento, in apparente libertà, tra ampi cortili, giardini e colonie agricole. A Trieste, per es., l'architetto L. Braidotti progettò con questi intenti il frenocomio San Giovanni, esteso per ventiquattro ettari sul pendio di una collina. Inaugurato nel 1908, esso comprendeva quattro villini per i paganti di prima e seconda classe, i padiglioni di accettazione e osservazione, quelli per gli agitati, i semiagitati, i tranquilli, i sudici e i paralitici. F. Basaglia assunse la direzione dell'ospedale psichiatrico di Trieste nell'agosto del 1971. I ricoverati erano allora 1182; i ricoveri coatti, in base alla legge 36/1904, erano più del 90%; gli altri soggetti fruivano del ricovero volontario, introdotto nella legislazione italiana nel 1968. Già nel corso dei primi anni di lavoro furono sperimentati alcuni cambiamenti importanti: si prestò attenzione alla storia personale dei malati e alla formazione degli infermieri; si organizzarono gruppi di convivenza, prima all'interno dell'ospedale, poi in città (gruppi-appartamento). Nel febbraio 1973 fu creata la prima cooperativa di sessanta pazienti addetti alla pulizia, alle cucine e al parco e fu introdotta la firma di un regolare contratto di lavoro, abolendo la vecchia pratica dell'ergoterapia, giudicata come una forma di sfruttamento. Un cavallo azzurro di cartapesta, Marco Cavallo, assunto a simbolo del desiderio di libertà, fu portato per le vie di Trieste, in testa a un corteo, nell'ultima domenica di marzo di quello stesso anno.
L'esperienza di Trieste e quelle analoghe di altri centri italiani, avviate in quegli stessi anni, produssero come effetto legislativo la legge 180, approvata il 13 maggio 1978, che ha istituito in Italia un nuovo modello di assistenza psichiatrica, imperniato sull'abolizione dei manicomi.
In realtà, nella seconda metà del Novecento vari paesi avevano avviato processi graduali di deistituzionalizzazione psichiatrica, portati avanti con tempi e modalità differenti e sostenuti da motivazioni solo in parte coincidenti. Il Mental Health Act (UK, 1959) e il Community Mental Health Act (USA, 1963) sono stati provvedimenti ispirati dalla tradizione empirista e dall'impostazione pragmatica proprie della cultura anglosassone. Sensibili alle istanze della p. sociale e di comunità, essi hanno avuto un forte carattere umanitario e rilevanti collegamenti teorici con la psicoanalisi. Con quali effetti? Se si confrontano gli anni Cinquanta con gli Ottanta, si trova che i letti psichiatrici occupati per 100.000 abitanti si sono ridotti a meno di un quarto sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna. In Francia è stata la Circulaire 15 mars 1960 a introdurre grandi cambiamenti: la psicoterapia nelle istituzioni, i primi esperimenti terapeutici extraospedalieri e la p. di settore, diretta a garantire disponibilità di cure presso l'abitazione e a ridurre i ricoveri potenziando sia la prevenzione sia gli interventi di post-cura.
In Italia, grazie all'impulso delle leggi 180 e 833 del 1978, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta i posti-letto psichiatrici occupati si sono ridotti a meno di un terzo. Il movimento italiano per la deistituzionalizzazione è stato caratterizzato da una lotta radicale contro l'ospedale psichiatrico, profondamente ancorata a una critica politica della società borghese. Le vicende di Trieste lo testimoniano. L'assistenza psichiatrica territoriale si è sviluppata all'interno delle Unità sanitarie locali (una ogni 50.000÷200.000 abitanti) attraverso l'istituzione dei Dipartimenti di salute mentale. I reparti per i ricoveri psichiatrici d'urgenza, anche in trattamento obbligatorio (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura), sono stati collocati all'interno degli Ospedali generali.
La soppressione degli ospedali psichiatrici, in Italia come in altre nazioni, ha cercato di porre fine a sistemi di reclusione spesso aberranti sul piano etico, inefficaci o nocivi su quello terapeutico. Alla deistituzionalizzazione psichiatrica si lega il grande aumento di importanza delle tecniche di riabilitazione, entrate a far parte, insieme ai farmaci e alle psicoterapie, dei fondamentali strumenti di intervento psichiatrico. Il processo, tuttavia, si è trovato a misurarsi con problemi vari e gravi: le grandi difficoltà di reinserimento sociale dei pazienti cronici con lunghissimi ricoveri alle spalle; la scarsità di strutture residenziali intermedie, di transizione fra l'ospedale psichiatrico e una vita pienamente autonoma; l'insufficienza dei servizi ambulatoriali; l'aumento dei malati di mente senza dimora (nei paesi anglofoni lo slogan empty hospitals, full streets è stato una critica ricorrente alla deistituzionalizzazione psichiatrica); lo sviluppo di nuove forme di cronicità per le quali è stata coniata l'etichetta YACP (Young Adult Chronic Patients).
La battaglia contro i manicomi ha prodotto anche effetti positivi non prevedibili. Si sono moltiplicate le associazioni di familiari e le attività di volontariato e si è registrato un grande impulso allo sviluppo della terapia farmacologica e, quindi, della p. biologica. Inoltre, proprio mentre l'antipsichiatria denunciava gli abusi delle nuove "camicie di forza chimiche" e richiamava l'attenzione sui fattori sociali come cause e rimedi delle malattie mentali, per uno dei tanti paradossi della storia delle idee la scoperta degli psicofarmaci e il loro uso corretto hanno finito per essere uno strumento utile alla riforma psichiatrica e alla chiusura o al ridimensionamento dei manicomi.
Effetti positivi si sono avuti anche sul piano teorico, in particolare nell'ambito dei modelli causali dell'insorgere delle malattie. Un modello che ha avuto e ha buona fortuna in p. è quello della via finale comune. Quando non sia ancora possibile costruire una teoria sintetica in grado di spiegare i meccanismi eziopatogenetici e, in particolare, di indicare quale specifica interazione di forze sia necessaria e sufficiente, il modello generale di malattia che sembra più utile è quello che vede nell'evento patologico la via finale comune di vari possibili processi patogenetici che nascono da interazioni diverse tra forze molteplici (Weiner 1977). Il modello della via finale comune è stato applicato a varie patologie: dall'ulcera peptica all'ipertensione arteriosa alla depressione all'anoressia nervosa. Può essere riassunto in tre punti: 1) la malattia risulta dall'interazione di vari fattori predisponenti che agiscono su un individuo e che possono essere descritti in parte in termini biologici, in parte in termini psicologici e in parte in termini sociologici; 2) tra gli individui a rischio solo alcuni si ammalano effettivamente; 3) tra coloro che sviluppano la malattia, la presenza, il peso e le modalità di interazione dei vari fattori mutano da caso a caso. Per molte malattie mentali i fattori patogenetici individuati sono dunque di ordine fisico, psichico e sociale, legati da interazioni circolari complesse (modello biopsicosociale).
Progressi della psicofarmacologia
La storia della psicofarmacologia si snoda lungo tutta la seconda metà del 20° secolo se collochiamo la sua data di nascita nel 1950, anno in cui fu sintetizzata la cloropromazina, primo neurolettico. Nell'ultimo decennio l'elenco dei farmaci a disposizione degli psichiatri si è arricchito di varie molecole, efficaci sul piano clinico e interessanti su quello neurochimico (Bellantuono, Balestrieri 1997; Textbook of psychiatry, 1999³). La tab. 1 elenca alcuni fra gli psicofarmaci ammessi recentemente o per i quali sono state riconosciute nuove indicazioni.
L'uso dei farmaci antidepressivi è in costante aumento. Negli Stati Uniti si è almeno quadruplicato fra il 1981 e il 1993. La maggiore esplosione è avvenuta dopo il 1987, anno in cui sono entrati in commercio i primi serotoninergici, inibitori specifici della ricaptazione della serotonina. Anche le indicazioni si sono allargate: alla depressione si sono aggiunti il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo di panico, i disturbi del comportamento alimentare, la fobia sociale, l'enuresi, il disturbo da deficit dell'attenzione, l'abuso di alcool, cocaina, tabacco. I farmaci antidepressivi hanno dimostrato una grande efficacia negli episodi depressivi maggiori e una discreta efficacia nella distimia. La presenza dei cosiddetti sintomi melanconici (tristezza vitale, anedonia, inibizione psicomotoria, disturbi dell'appetito e del peso corporeo) è considerata un predittore di risposta positiva. I trattamenti con antidepressivi manifestano i loro benefici dopo un certo periodo di latenza (10÷30 giorni). Vanno proseguiti a lungo (almeno sei mesi) dopo la remissione dei sintomi. Il periodo di mantenimento deve essere prolungato nei casi di ricadute frequenti. Litio, valproato, carbamazepina e clonazepam sono farmaci di scelta per il trattamento del disturbo bipolare e la profilassi delle sue recidive. Gli antidepressivi più recenti (SSRI, SNaRI, NaSS ecc.) sono risultati più maneggevoli, a parità di efficacia, rispetto ai triciclici (minori effetti collaterali e controindicazioni). Il costo economico, però, è più elevato. La tab. 2 elenca alcuni antidepressivi recenti e la loro tipologia.
Anche i nuovi neurolettici (clozapina, risperidone, olanzapina ecc.) hanno segnato progressi importanti rispetto a quelli sintetizzati in passato: maggiore efficacia, soprattutto sui sintomi negativi della schizofrenia (appiattimento affettivo, impoverimento emotivo, rallentamento psicomotorio) e minori effetti collaterali, in particolare extrapiramidali. Dal punto di vista neurochimico, l'olanzapina ha dimostrato un'elevata affinità per i recettori dopaminergici (D₂), tipica dei farmaci antipsicotici classici, e un'affinità ancora più elevata per i recettori serotoninergici (5-HT₂). Come per i nuovi antidepressivi, il costo economico è elevato. È compito degli studi di farmacoeconomia valutare, attraverso analisi complesse, il rapporto costo-efficacia dei farmaci e delle procedure terapeutiche: un farmaco o un metodo efficace può consentire grandi risparmi complessivi al servizio sanitario e alla società nel suo complesso (minori ricoveri, maggiore produttività lavorativa ecc.).
Se è in grande aumento la prescrizione di psicofarmaci ad adolescenti e a bambini - un fenomeno che suscita legittime perplessità -, un problema di dimensioni ancora più estese è rappresentato dai soggetti anziani in trattamento psicofarmacologico. I cambiamenti del metabolismo e della composizione corporea che intervengono in età involutiva producono effetti importanti sulla farmacocinetica: aumenta il grasso corporeo mentre diminuiscono l'acqua corporea, la clearance epatica e quella renale. Il risultato, rispetto a un soggetto giovane, a parità di dose, è costituito dai livelli sierici più elevati, allo stato stazionario, con un prolungamento dell'emivita plasmatica. Tutto ciò impone una serie di cautele. Si somministrano, in particolare all'inizio del trattamento, dosi più basse (del 30÷50%) e più distanziate, per aumentarle poi progressivamente fino a ottenere gli effetti desiderati. Il monitoraggio dei livelli sierici dei farmaci, così come gli altri esami di laboratorio e quelli strumentali (per es. cardiologici) devono essere regolari e frequenti: l'incidenza e la gravità degli effetti collaterali sono maggiori negli adulti anziani più che in quelli giovani. Gli anziani, inoltre, assumono spesso medicinali per altre patologie: le interazioni tra farmaci devono essere studiate e continuamente aggiornate. Anche la farmacodinamica, a causa dell'invecchiamento cerebrale, subisce cambiamenti, in genere nel senso di una maggior latenza dei risultati terapeutici e di una maggiore sensibilità agli effetti collaterali.
Malgrado lo scandalo degli abusi e l'intensità delle critiche subite negli ultimi trent'anni, l'elettroshockterapia (EST) o elettroconvulsivoterapia (ECT) è l'unico trattamento di shock ancora utilizzato (Comprehensive textbook of psychiatry/VI, 1995⁶; Textbook of psychiatry, 1999³). I progressi della farmacologia e della psicoterapia non hanno consentito, infatti, di rinunciare del tutto a questo intervento, nei limiti di pochissime indicazioni: la depressione maggiore resistente ai farmaci con elevato rischio di suicidio o delirio o gravi disturbi psicomotori (catatonia, agitazione).
L'efficacia delle terapie biologiche nel trattamento dei disturbi mentali può portare a sottovalutare la necessità di un'elaborazione psicoterapeutica della crisi attraversata e, soprattutto, dei fattori psichici che hanno contribuito a determinarla: è un errore clinico non utilizzare il miglioramento ottenuto per avviare una psicoterapia individuale o familiare. Questo principio vale in ogni età della vita, vecchiaia inclusa. È solo un pregiudizio, privo di qualsiasi sostegno clinico o sperimentale, che gli anziani non possano trarre beneficio da un aiuto psicologico. Ed è un pregiudizio particolarmente radicato tra i medici: è noto che negli ospedali i degenti anziani sono quelli ai quali vengono più facilmente prescritti psicofarmaci e sono anche quelli per i quali viene meno frequentemente richiesta una consulenza psicologico-psichiatrica.
Psicoterapie. - Una psicoterapia può essere definita come un'interazione formalizzata fra due persone, una delle quali chiede aiuto mentre l'altra ha la qualifica di esperto. L'interazione è essenzialmente verbale e ha lo scopo di identificare, sulla base delle condotte attuali e della storia narrata, gli stili di comportamento e i processi mentali caratteristici del paziente e responsabili dei suoi sintomi e delle sue difficoltà nella vita. Paziente e terapeuta si aspettano che questo processo produca, alla fine, una riduzione della sofferenza, ma anche dei cambiamenti desiderabili per quanto riguarda i sintomi, il benessere complessivo, la qualità dei rapporti interpersonali, la produttività sociale e il sentimento di sintonia con se stesso.
Ai risultati di una psicoterapia contribuiscono fattori specifici, legati al metodo di cura adottato, e fattori aspecifici, comuni a molti o a tutti gli interventi terapeutici (sviluppo di un rapporto di fiducia, attesa di un aiuto e di un beneficio, scarica emotiva, informazioni, riorganizzazione significativa di sintomi ed eventi in apparenza slegati). All'inizio del 21° secolo, i maggiori indirizzi teorico-clinici nel campo sono tre: psicoanalisi (v. App. V, e in questa Appendice) e psicoterapie psicoanalitiche, psicoterapie cognitivo-comportamentali (v. App. V), psicoterapie relazionali-sistemiche o dei sistemi familiari (v. psicoterapia familiare, App. V). I trattamenti psicoterapeutici sono ritenuti uno strumento essenziale di cura per la maggior parte dei disturbi mentali. Per la loro durata e complessità, per il numero e il tipo delle variabili in gioco, sono ancora pochissimi gli studi sperimentali rigorosi che confrontano i risultati conseguiti con tecniche diverse e con combinazioni di trattamenti (Roth, Fonagy 1996; Sperry, Brill, Howard et al. 1996). Le conclusioni sono ancora in larga misura incerte. Per la ricerca dei prossimi anni, la valutazione degli effetti delle psicoterapie è una delle sfide più affascinanti e difficili.
Linee guida per il trattamento
Da qualche anno, in tutti i campi della medicina vengono pubblicate linee guida per il trattamento di un numero sempre più elevato di patologie. Il motivo principale è la necessità, anche economica, di fondare la scelta di un piano terapeutico su un'attenta analisi costi-benefici.
Ciò vale anche per la p.: psichiatri e psicoterapeuti curano i disturbi mentali e non possono sottrarsi al compito di valutare gli effetti dei loro interventi e di segnalare quali procedure sembrano ottenere i risultati migliori. D'altra parte, il campo dei fenomeni psichici è il dominio del soggettivo; individuare i risultati migliori è impresa ancora più ardua nelle malattie della mente che in quelle del corpo (Canguilhem 1978; Contardi 1996; Cuzzolaro 1994). Il principio secondo cui ogni paziente è un caso a sé vale per la medicina in generale e, ancora di più, per la psichiatria. La diagnosi psichiatrica è fondata su criteri descrittivi e non eziologici, e le linee di cesura fra le varie categorie diagnostiche sono, in sostanza, convenzioni costruite sul consenso della comunità scientifica molto più che ricognizioni di demarcazioni oggettive esistenti in natura. L'efficacia di un trattamento in condizioni sperimentali ottimali (efficacy) non va confusa con la sua efficacia nelle applicazioni cliniche correnti (effectiveness). Infine, la valutazione dei risultati dei trattamenti psichiatrici passa attraverso complesse analisi di un gran numero di variabili da prendere in esame, sia nello studio degli esiti delle cure sia in quello dei possibili agenti dei cambiamenti avvenuti (Roth, Fonagy 1996; Sperry, Brill, Howard et al. 1996). Per queste ragioni il metodo delle linee guida espone in p. a maggiori rischi di applicazioni meccaniche, prive di ars curandi, rispetto ad altri campi della medicina.
Una linea guida è, in sostanza, un insieme di raccomandazioni per la pratica clinica, orientate ai problemi dell'assistenza, basate sulle dimostrazioni più solide e attuali di utilità ed efficacia (o, dove questo non è possibile, sul consenso degli esperti) e adeguate alle risorse disponibili. Essa rappresenta il risultato di un processo sistematico di elaborazione e confronto dei dati di conoscenza e persegue lo scopo di assistere medici e pazienti nell'individuare le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche e portare, su tutto il territorio, la pratica clinica al livello delle conoscenze disponibili.
Le linee guida per la diagnosi e il trattamento delle malattie non sono più opera di uno o pochi esperti autorevoli ma costituiscono il risultato del lavoro di ampi gruppi di studiosi, a carattere multidisciplinare, sotto il controllo dell'intera comunità scientifica (Institute of Medicine 1990; Commissione linee guida FISM 1996; American Psychiatric Association 1997; Coen et al. 1998; Textbook of psychiatry, 1999³). Una volta prodotta, una linea guida deve essere diffusa e messa in opera. Infine, è necessario valutare gli effetti prodotti dalle sue applicazioni. Si ricorda, al proposito, che il giudizio sui metodi terapeutici si basa su due ordini principali di criteri: gli indicatori di processo, che segnalano e misurano quanto correttamente un certo metodo è stato applicato, e gli indicatori di esito, che ricercano e misurano i cambiamenti finali prodotti, l'entità e la qualità dei risultati conseguiti, la loro durata ed evoluzione nel tempo.
Le linee guida devono essere rivalutate, periodicamente, sulla base sia di indicatori di processo sia, e soprattutto, di indicatori di esito e, quindi, modificate e aggiornate sulla base dei nuovi studi e dei pareri degli esperti non meno che degli utenti. Le revisioni sono programmate, in genere, a intervalli variabili da tre a cinque anni. Negli ultimi anni, le Practice guidelines della American Psychiatric Association hanno seguito, per i lavori di riferimento, un chiaro sistema di classificazione a sette livelli (American Psychiatric Association 1997):
1) trial clinico randomizzato: studio su un intervento in cui i soggetti sono seguiti prospetticamente nel tempo; ci sono gruppi in trattamento e gruppi di controllo ai quali i soggetti sono assegnati in modo random; le assegnazioni sono sconosciute sia ai soggetti sia agli investigatori (doppio-cieco);
2) trial clinico: studio prospettico che non soddisfa però i criteri di un trial clinico randomizzato;
3) studio longitudinale o di coorte: i soggetti sono seguiti nel tempo senza interventi specifici;
4) studio caso-controllo: raccolta retrospettiva di informazioni sui componenti di un gruppo di pazienti identificato al momento presente;
5) rassegna con analisi dei dati: revisione analitica strutturata dei lavori pubblicati su un argomento seguita da un'elaborazione meta-analitica dei dati;
6) rassegna: revisione qualitativa e discussione dei lavori pubblicati su un argomento non seguita da un'elaborazione quantitativa sintetica dei dati;
7) altro: studi descrittivi o di casistica, rapporti su singoli casi o di tipo aneddotico, trattati, manuali, opinioni di esperti e altri lavori non contemplati nelle voci precedenti.
Le linee guida rappresentano un utile strumento di diffusione di conoscenze di base, ma le raccomandazioni devono essere lette con spirito critico. Esistono enormi difficoltà, per il momento non risolte, a confrontare fra loro, su campioni comparabili, tutte le alternative di cura esistenti e le loro possibili combinazioni, in associazione e in successione (Roth, Fonagy 1996; Sperry, Brill, Howard et al. 1996): quindi non è quasi mai possibile fondare le opzioni terapeutiche su dati empirici indiscutibili, meta ideale della medicina basata sul valore delle prove (Evidence Based Medicine). Un atteggiamento dogmatico e meccanicistico comporta rischi di sclerosi per la ricerca, di disattenzione per le caratteristiche particolari della singola vicenda clinica e di concentrazione solo sul comune e sul già noto.
bibliografia
J.P. Feighner, E. Robins, S.B. Guze et. al., Diagnostic criteria for use in psychiatric research, in Archives of general psychiatry, 1972, 26, pp. 57-63.
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Psichiatria dell'età evolutiva
di Gabriel Levi
La psichiatria dell'età evolutiva, cioè la p. dei bambini e degli adolescenti, si pone diversi obiettivi: prevenire, individuare e curare quei disturbi psicopatologici che si manifestano tipicamente nelle singole fasce dell'età evolutiva; individuare i collegamenti che esistono tra i diversi disturbi psicopatologici presenti nelle diverse fasce d'età; costruire un modello clinico-teorico di psicopatologia dello sviluppo, tale da consentire di prevenire in età evolutiva i disturbi psichiatrici che insorgono in età adulta. Gli obiettivi sembrano chiari e ben distinti l'uno dall'altro, ma in realtà esiste una pesante confusione tra di essi. Inoltre, tutti gli obiettivi sono condizionati dai pregiudizi culturali che, nel contesto storico e sociale, determinano gli stereotipi di bambino sano, vulnerabile, disturbato o matto, gli stereotipi di adolescente sano, vulnerabile, disturbato o matto e gli stereotipi di adulto sano, vulnerabile, disturbato o matto.
Questi due discorsi (sulla salute mentale in età evolutiva e sui giochi di equilibrio fra gli stereotipi di bambino, di adolescente e di adulto) devono essere definiti in termini operativi.
a) Esiste un continuum fra il disagio psicologico dei bambini e i disturbi psichiatrici a insorgenza successiva; questo dato è vero sia tra le diverse fasce dell'età evolutiva sia fra l'età evolutiva e l'età adulta. Il problema consiste nel fatto che la continuità tra i disturbi non è lineare: per esempio, un bambino iperattivo, se non guarisse, potrebbe essere più facilmente un adulto depresso che un adulto iperattivo; oppure vi sono più probabilità che un adulto schizofrenico sia stato un bambino con disturbi di linguaggio e di apprendimento che non un bambino psicotico.
b) La salute mentale di un individuo dipende, durante tutta la vita, dal bilancio tra aree di vulnerabilità e capacità di compensazione psicologica: questo bilancio è corredato da tutta la storia di vita che quell'individuo attraversa, con un suo stile in parte costante e coerente e in parte mutevole e creativo. La straordinaria metamorfosi che trasforma un bambino in un adulto è un processo tanto ricco e complesso quanto delicato e fragile; in ogni fase di età un bambino si deve confrontare con un'immagine di bambino ideale e un'immagine di adulto ideale, contrattate faticosamente nel suo mondo interno con tutte le interazioni sociali vissute, anch'esse tanto straordinarie quanto conflittuali.
Epidemiologia e prevenzione
Circa 12 bambini su 100 presentano in età evolutiva un disturbo psicopatologico per cui viene richiesta una consultazione: per motivi sociali e storici, solo 8 bambini su 100 arrivano a una consultazione specialistica e vengono presi in carico per periodi non inferiori a un anno. Circa altri 6 bambini su 100 presentano gli stessi disturbi psicopatologici per cui i precedenti bambini vengono segnalati, ma il disturbo è in qualche modo elaborato, contenuto e compresso in famiglia; molto spesso questi bambini sono quei soggetti che 'scoppiano' in adolescenza. Secondo altre stime, europee, australiane e statunitensi, i bambini che soffrono per disagio psicologico e per disagio sociale e che presentano o presenteranno problemi psicopatologici nell'arco della vita sono circa 25 su 100 rispetto alla popolazione totale.
Questi dati nel loro complesso depongono a favore di una nuova politica per la salute mentale in età evolutiva: l'obiettivo di arrivare a una diagnosi precoce, disturbo per disturbo, rimane un obiettivo importante e prioritario; si è rafforzata la convinzione che se anche questo obiettivo venisse raggiunto quasi totalmente, rimarrebbe comunque scoperta un'ampia area di lavoro utile e cioè quella dei bambini e degli adolescenti ad alto rischio. Per la realizzazione di quest'obiettivo prevale l'idea di screening multipli, centrati sul concetto di rischio psichiatrico piuttosto che su quello di diagnosi precoce; le età ideali per effettuare questi screening sarebbero i 2 anni, i 4 anni, i 7 anni, i 9 anni e i 12 anni; seguendo, senza intervenire, i bambini ad altissimo rischio e seguendo i bambini che risultano positivi a due rilievi di screening è probabile che l'educazione sanitaria della popolazione crescerebbe nell'arco di cinque-dieci anni. Investendo le energie in questo tipo di politica è ragionevole prevedere che le diagnosi precoci si raddoppierebbero, che gli interventi terapeutici si ridurrebbero di intensità e durata e che gran parte della popolazione psichiatrica sommersa emergerebbe. Il beneficio maggiore di una tale politica sarebbe quello di evitare sia medicalizzazioni e psichiatrizzazioni allarmistiche sia psicologizzazioni banali.
Neurobiologia e storia psicologica
Il dibattito filosofico sui rapporti tra cervello e mente attraversa in profondità la questione della nosografia psichiatrica e quella dei fattori determinanti la malattia mentale. I disturbi psichiatrici vengono incasellati e classificati utilizzando tre tipi di referenze: a) l'individuazione clinica di insiemi comportamentali stabili, coerenti e in qualche modo correlati funzionalmente; il fatto che questi insiemi comportamentali atipici vengano definiti come disturbi e sindromi dipende dal peso quantitativo e qualitativo rispetto a comportamenti normativi attesi; b) la ricostruzione di un storia vissuta della sofferenza mentale, che si sviluppa, si coagula e si ricombina continuativamente. La rappresentazione del disagio mentale non coincide con una specie di rappresentazione fantastica ed emotiva dei sintomi. Il grande problema della psicopatologia, anche del bambino, è che i sintomi e la persona non coincidono; al contrario, anche un bambino disturbato è una persona che lotta con i suoi sintomi, mentre si costruisce un'immagine di Sé deformata dai sintomi stessi; c) la definizione esatta del terreno neurobiologico in cui il disturbo psicopatologico si forma. In alcuni casi il terreno neurobiologico è vulnerabile (per costituzione o per danno di diverso tipo) e sviluppa insiemi comportamentali atipici sia di fronte a situazioni traumatiche sia di fronte alle normali richieste della crescita psicologica. In alcuni casi, situazioni stressanti continuative minano o fanno esplodere uno sviluppo neurobiologico altrimenti normale.
La questione neurobiologica è ineludibile per la prevenzione, per la diagnosi e per la cura dei disturbi psichiatrici. La conoscenza del terreno neurobiologico, in cui il disturbo psichiatrico si accende o si spegne, con o senza cicatrici, è essenziale anche per un modello psicologico o per un modello sociale della malattia mentale.
È necessario cancellare alcuni equivoci: 1) la neurobiologia di un disturbo psichiatrico non coincide con l'eziologia di questo disturbo e neppure costituisce il presupposto per una terapia biologica esclusiva; 2) nella maggior parte dei casi, allo stato attuale della conoscenza, l'individuazione di fattori neurobiologici permette di classificare meglio un disturbo e di dare maggiore coerenza anche ai sintomi e ai vissuti che costituiscono questo disturbo; 3) nella quasi totalità dei casi, l'arricchimento delle nostre conoscenze neurobiologiche ci consente di predisporre scale di vulnerabilità e scale di espressività-gravità dei disturbi psichiatrici; 4) la possibilità e la necessità indiscutibile di terapie neurobiologiche (psicofarmacologia; riabilitazione neurocognitiva) ci offrono l'opportunità di comprendere e curare meglio la realtà mentale del disturbo psicopatologico; 5) uno psicofarmaco è buono, se e quando si può e si sa prevedere e valorizzare i cambiamenti psicologici che determina; 6) analogamente, un intervento psicoterapeutico o socioterapeutico è buono se e quando si può e si sa comprendere quali funzioni neurobiologiche esso favorisce nello sviluppo mentale.
Dall'idea di bambino alla psichiatria dell'età evolutiva
La p. dell'età evolutiva è passata, ovviamente, attraverso diverse fasi storiche. Ognuna di queste fasi è stata circoscritta: a) dal livello di precisione o grossolanità dei fenomeni individuati; b) dal tipo di stereotipi dominanti sul concetto di bambino, di matto o di bambino matto; c) dal ruolo degli operatori coinvolti e dalla filosofia degli interventi ipotizzati.
Senza rievocare le varie fasi attraverso le quali si è venuta definendo la figura stessa del bambino e dei disturbi mentali da cui può essere affetto, ci limiteremo a ricordare come dalla fine del Settecento si tenti di definire un sistema pedagogico che aiuti la crescita del bambino impedendo fratture o blocchi sul suo sviluppo. Il bambino con problemi psichiatrici è, prima di tutto, un bambino-animale, che ha subito una o più fratture educative da trattare con tecniche ortopedagogiche. Sul piano nosografico, le conseguenze sono concrete e le patologie più grossolane vengono differenziate: le gravi carenze educative; le oligofrenie; le demenze precoci; le demenze progressive; i disturbi psicopatici; le schizofrenie precocissime; le encefaliti e le paralisi cerebrali infantili. Curiosamente un sistema nosografico fondato sull'ortopedagogia conserva fortissimi legami sia con ipotesi organicistiche-neurologiche sia con ipotesi sociologiche più o meno libertarie o autoritarie. Il nodo gordiano è il seguente: il bambino è del tutto rieducabile? se non è rieducabile, la causa coincide con una tara morale o con una tara biologica? in ogni caso, chi non fosse rieducabile ha tutte le caratteristiche della persona umana? La psicoanalisi, nei confronti di una nosografia dei disturbi psichiatrici, nasce con un atteggiamento positivo, ma tende a metterla continuamente in crisi. S. Freud costruisce il suo sistema terapeutico basandolo sulla distinzione tra psicosi e nevrosi e tra diversi tipi di nevrosi. Freud stesso accetta le differenziazioni di Bleuler all'interno delle psicosi e le utilizza nel suo modello, con paradigmi inconsci paralleli e differenziati. I post-freudiani acquisiscono in profondità i concetti di disturbi della personalità, disturbi borderline, disturbi psicosomatici. Nel campo della p. dell'età evolutiva, il contributo dominante, e a lungo prevaricante, è quello di nevrosi infantile. Tutte le classificazioni devono rendere conto, per quasi settant'anni, dell'ipotesi che i disturbi psichiatrici in età evolutiva sono disturbi, perché corrispondono a diverse soluzioni (o a catastrofi precedenti) dei disturbi nevrotici. La riscoperta dei disturbi narcisistici e delle patologie di sviluppo del Sé riapre nuovi ponti tra psicoanalisi e psichiatria dell'età evolutiva. In realtà la psicoanalisi dell'età evolutiva lascia alla psicopatologia dell'età evolutiva una problematica molto più ricca che sfruttata: a) il concetto di conflitto intrapsichico; b) il concetto di polisemia e metamorfosi superficiale e profonda dei sintomi; c) i ponti sempre aperti tra quadro nosografico e organizzazione e sviluppo della personalità; d) la continuità della sofferenza mentale e la sua correlazione con la discontinuità delle rappresentazioni mentali; e) il rapporto tra comorbilità e sviluppo psicopatologico.
Il dibattito contemporaneo sulla nosografia
L'enorme sforzo che negli ultimi venticinque anni ha impegnato l'epidemiologia e la ricerca nosografica per la p. degli adulti ha coinvolto quasi subito anche la p. dell'età evolutiva. Questa coincidenza ha avuto il pregio di stimolare investimenti sempre crescenti nel settore della salute mentale in età evolutiva, ma ha comportato due limitazioni che è necessario sottolineare: a) ha fermato un tentativo analogo che stava già nascendo spontaneamente nella ricerca psichiatrica in età evolutiva, con un'ottica più complessa, meno comportamentistica e già centrata su un modello di psicopatologia dello sviluppo; b) ha proposto per la psichiatria dell'età evolutiva degli schemi tassonomici, letteralmente costruiti in negativo o su proiezione delle classificazioni adottate per gli adulti.
Sino al DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Diseases) e all'ICD-10 (International Classification of Diseases) la p. dell'età evolutiva è descritta in maniera deformata rispetto a un modello adultomorfo dei disturbi. Per diversi disturbi psicopatologici la tenuta di questi sistemi perde progressivamente di peso quando si considerano bambini al di sotto dei 10÷8 anni.
Queste importanti limitazioni hanno prodotto dei contraccolpi positivi: a) l'intera categoria dei disturbi dello sviluppo si è imposta per le sue caratteristiche evolutive specifiche; b) le classificazioni originali per l'età evolutiva (quella psicoanalitica del gruppo Hampstead e quella Zero to Three) hanno immediatamente colto l'esigenza di un modello classificatorio concettualmente diverso per l'età evolutiva (aprendo qualche crisi anche sui limiti teorici delle nosografie classiche costruite per gli adulti ). I punti fondamentali di questo rovesciamento di prospettiva sono i seguenti: 1) la maggior parte dei disturbi psicopatologici in età evolutiva sono strettamente specifici, per sintomi e per prognosi, rispetto alla fascia d'età, o, con maggiore esattezza, rispetto alle problematiche connesse con una determinata fase dello sviluppo mentale (neurobiologico, affettivo, cognitivo e sociale); 2) tutti i disturbi psicopatologici che sono collegati con una specifica fase di sviluppo hanno dei gradi di espressività molto variabile: dal lieve al medio e al grave; 3) la persistenza del disturbo nel tempo e/o la possibilità che questo disturbo si trasformi, in un'altra fase di sviluppo, in un altro disturbo dipendono, in parte, dal grado di gravità e, in parte, dalla presenza di alcuni sintomi patognomonici (anche se, spesso, questi sintomi non sembrano essere i più preoccupanti); 4) in oltre 60 casi su 100 i disturbi psicopatologici in età evolutiva, nelle forme lievi e medie (che sono la maggioranza assoluta), tendono a scomparire nel tempo, se si considera il primo corteo sintomatologico con cui si sono manifestati; 5) i singoli disturbi psicopatologici per cui un soggetto viene segnalato in età evolutiva si accompagnano con uno o più disturbi in parallelo; questi disturbi in comorbilità, anche se sfumati, costituiscono il fattore prognostico più forte, sicuro e attendibile rispetto alla presenza o emergenza di altri disturbi psicopatologici, in altri periodi della vita; 6) la comorbilità dei disturbi psicopatologici in età evolutiva, se si considera sia la presenza in contemporanea sia la presenza in successione coerente dei disturbi, riguarda circa 80 casi su 100; la probabilità di avere un disturbo psichiatrico in età evolutiva in questa fascia di soggetti è 8 volte superiore rispetto alla popolazione generale; se si considerano i fattori sociali, le situazioni traumatiche e gli eventi negativi di vita, questa maggiore probabilità sale a un rapporto di circa 25 : 1.
Tenendo presente tutte queste riflessioni, convalidate da una massa crescente di dati clinici, è evidente che i disturbi psicopatologici in età evolutiva (per avere una nosografia veramente utile) devono essere studiati collocandoli in una rete concettuale nuova e adottando nuovi criteri di valutazione e nuove strategie di ricerca. Va comunque sottolineato che questo sforzo è già in atto nei criteri diagnostici del DSM-IV (e nei lavori in progress per il DSM-V), dell'ICD-10 e nelle proposte di classificazione Zero to Three, che hanno messo in giusta evidenza i seguenti disturbi: ritardo mentale, disturbi di apprendimento, disturbi delle capacità motorie, disturbi psicomotori precoci, disprassia (con o senza discalculia), disturbi della comunicazione, disturbi generalizzati dello sviluppo (disturbo autistico, sindrome di Rett, disturbo disintegrativo, sindrome di Asperger), disturbi da deficit dell'attenzione e iperattività, disturbo oppositivo-provocatorio, disturbi dell'alimentazione, disturbi delle funzioni evacuative (encopresi, enuresi), disturbo d'ansia di separazione, mutismo elettivo, disturbo reattivo dell'attaccamento, schizofrenia a esordio precoce e altri disturbi psicotici, depressioni e disturbi dell'umore (anche a esordio precoce), disturbi d'ansia, disturbi dell'identità di genere, disturbi di personalità, ticcosi, balbuzie, disturbo multisistemico di sviluppo, disturbi di regolazione, disturbi precoci del sonno.
A parte va messa in evidenza l'importanza, specialmente per l'età evolutiva, del disturbo da stress postraumatico, che diventa un passaggio clinico fondamentale per la comprensione del trauma psichico e delle multiformi categorie dell'abuso fisico, sessuale e psichico.
Verso una psicopatologia dello sviluppo
Un bambino o un adolescente che manifestano un disturbo psicopatologico, in un modo o nell'altro, presentano o realizzano un disagio psicologico. Il disturbo psicopatologico, organizzato in una sintomatologia riconoscibile, è una variabile in parte indipendente dal disagio psicologico, che viene tuttavia elaborato attraverso vissuti, fantasie e rappresentazioni mentali. Un disturbo psicopatologico 'minore', specialmente un disturbo psicopatologico poco comprensibile per il gruppo familiare, può correlarsi con un disagio psicologico crescente e sproporzionato. Un disturbo psicopatologico 'maggiore', e specialmente un disturbo psicopatologico ben riconoscibile, può correlarsi con un disagio psicologico limitato o limitabile senza troppe difficoltà. Lo stesso discorso vale per i problemi di un adulto: un disturbo psichiatrico insorto in età adulta veicola e rielabora le sintomatologie sepolte dei vecchi disturbi che si sono presentati e sono scomparsi in età evolutiva. La forza esplosiva maggiore che può aggravare il disturbo psichiatrico di un adulto è la storia dei disagi psicologici da lui vissuti ed elaborati con le rappresentazioni mentali del bambino di allora e dell'adolescente di subito dopo.
Queste precisazioni consentono di comprendere i problemi fondamentali della psichiatria in età evolutiva: a) i sintomi e le sindromi vanno valutati secondo scale di gravità e indicatori di coerenza, per il danno attivo in quella fase dello sviluppo, per la comorbilità presente anche se sfumata e per le prognosi prevedibili sullo stesso asse psicopatologico e su altri assi psicopatologici. Un campanello d'allarme non deve essere considerato per il rumore che fa, ma per i pericoli immediati e futuri che segnala; b) i disturbi psichiatrici in età evolutiva vanno valutati per le atipie di sviluppo delle funzioni emergenti, che determinano o che assecondano, condizionando lo sviluppo di tutta la personalità: 99 bambini enuretici su 100 risolvono il problema enuresi entro i 10÷12 anni, anche spontaneamente. Il vissuto e le rappresentazioni mentali degli enuretici a rischio non sono collegati con gli imbarazzi sociali e con la vergogna dell'enuresi; il problema psicopatologico dell'enuresi è collegato con le fantasie che gli enuretici e le enuretiche fanno sulla loro identità sessuale e con la possibile comorbilità con un disturbo delle condotte sessuali e dell'aggressività; c) alcuni disturbi psicopatologici in età evolutiva si formano all'interno di un'area comportamentale oppure all'interno di una rete di competenze specifiche, e tendono a persistere più o meno nella stessa area per molti anni e anche per tutta l'età evolutiva. La diagnosi clinica di questi disturbi rimane la stessa per tutto il periodo in oggetto: questo non significa che, pur rimanendo la diagnosi ferma, il disturbo sia sempre lo stesso. Va dato l'esempio dei bambini dislessici: tra i sei e gli otto anni i dislessici non sanno mettere insieme le lettere per scrivere e leggere parole e frasi elementari; tra i nove e i dieci anni non sanno usare grammatica e sintassi per comprendere le connessioni logiche esplicite e implicite di un testo; fra gli otto ed i quattordici anni, i dislessici, in ispecie se hanno un disturbo dell'apprendimento non verbale, hanno dei sottili disturbi del pensiero, che possono segnalare l'insorgere di una sindrome schizofrenica.
Psicopatologia dello sviluppo e salute mentale
L'ipotesi, ormai in via di consolidamento, che un disturbo psicopatologico cambi, funzionalmente, nel tempo, tanto quanto una persona cambia, anche radicalmente, nel tempo, ha delle conseguenze teoriche e pratiche molto interessanti. In primo luogo si va chiarendo, anche nelle tecniche di indagine, che un disturbo psicopatologico è, quasi sempre, un disturbo multi-stadio; gli stadi di un disturbo psicopatologico sono prevedibili, se il modello di riferimento diventa la psicopatologia dello sviluppo; quanto più si è capaci di prevedere gli stadi di sviluppo di un disturbo, nella loro organizzazione funzionale e nella coerenza della loro successione, tanto più si diventerà capaci di bloccare l'inevitabilità solo apparente di questo processo multi-stadio. In secondo luogo, l'idea portante di un disturbo psicopatologico che cambia, superficialmente e profondamente, nel tempo blocca l'utopia che i disturbi psicopatologici dei bambini siano disturbi adultomorfi in formato ridotto; lo stesso discorso vale per il rapporto fra disturbi degli adulti e disturbi degli adolescenti e per il rapporto fra disturbi degli adolescenti e quelli dei bambini; il bozzolo dove avviene la metamorfosi di un disturbo è costituito dalle rappresentazioni mentali con cui un disturbo psicopatologico viene giocato sul piano intrapsichico e sul piano interpsichico. In terzo luogo, la nosografia dei disturbi psicopatologici cambia anche nella tassonomia delle sindromi, in ogni fase dell'età evolutiva: esiste una nosografia 0÷3 anni, una nosografia 3÷6 anni, una nosografia 6÷8 anni, una nosografia 8÷12 anni, una nosografia 12÷16 anni ed una nosografia 16÷18 anni. Gli spazi di continuità (le caselle comuni) di queste nosografie possono essere realmente compresi e utilizzati per la prevenzione e per la terapia soltanto se si avrà conoscenza con esattezza degli spazi di discontinuità (i salti fra casella e casella nosografica o fra asse e asse psicopatologico). In quarto luogo, la nosografia dei disturbi psichiatrici ha una sua grande forza euristica a condizione che non la si consideri una classificazione linneiana e neppure una classificazione etologica; i soggetti che stanno al centro di una casella nosografica (i cosiddetti casi puri) sono pochissimi; molti soggetti stanno ai bordi di una casella nosografica e cioè presentano il disturbo psicopatologico in esame, in forma incompleta e atipica; la maggioranza assoluta dei soggetti in età evolutiva balla fra due o tre caselle nosografiche; il problema diagnostico-prognostico in questi casi è quello di valutare i criteri di priorità e di pertinenza evolutiva (lo stadio di sviluppo dominante) per ogni singolo disturbo registrato. Questi punti, che sintetizzano il nostro discorso, vanno studiati come progetti di lavoro sulla salute mentale.
Da quasi 100 anni la p. dell'età evolutiva si è mossa, con autonomia, su basi scientifiche riconoscibili e falsificabili. Allo stato attuale, le conoscenze certe e i dubbi stimolanti impongono alcune scelte:
1) la p. dell'età evolutiva deve dividere i suoi investimenti in parti uguali tra la diagnosi precoce e la prevenzione. In un modello di psicopatologia dello sviluppo la vera terapia dipende più dalla prevenzione che dalla diagnosi precoce e solo la conoscenza delle situazioni a basso, medio e alto rischio è una controparte operativa per una terapia centrata sulla conoscenza dei disturbi multi-stadio.
2) I concetti di età evolutiva e di medicina dell'età evolutiva vanno utilizzati nella loro pienezza e senza meschini interessi di corporazione. Non è vero che il bambino è un piccolo uomo e non è vero che in puero homo; lo stesso va detto per l'adolescente, che non è un passeggero in transito tra due voli. Va sottolineata una tautologia: un bambino è un bambino e un adolescente è un adolescente. Se si avrà conoscenza delle specificità di ogni fase e sottofase della vita, si sarà capaci di prevedere e costruire percorsi unitari e riconoscibili.
Alla fine di questo millennio si è di fronte a una grande scommessa scientifica e sociale, di fronte a due possibili modelli di mondo: un mondo fatto di bambini senili e anziani rimbambiniti, e un mondo fatto da bambini che sanno di essere bambini e anziani che sanno di essere anziani.
"Molto si può imparare dai propri maestri, molto di più dai propri pari e quasi tutto dai propri allievi". Questa citazione dal Talmud, che compare in quasi tutti i primi manuali di p. del bambino e dell'adolescente, è di grande speranza per le possibilità di rapporto tra le diverse generazioni, in un progetto, comune e differenziato, per la salute mentale.
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